Votes taken by _Wednesday_

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    ASFGDLKJGS SONO IN UN BRODO DI GIUGGIOLE <3
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    Probabilmente avrei potuto chiedere la szombizzazione ( che non si scrive così ma nella mia testa, vi assicuro, suonava quasi bene) , però non avrebbe reso adeguatamente la mia gioia nel mio ripiombare qui dal nulla, inoltre a giudicare dalla polvere fra un tasto e l'altro sarà un annetto che non scrivo un post. Sono giorni che fisso la prima pagina del GDR e stalkero cose, non senza una notevole dose di disagio, e mi sono chiesta perché aspettare ancora. Tanto prima o poi doveva succedere. Alcuni mi conosceranno già, in ogni caso… ciao! Mi chiamo Alice, ho 21 anni ed essenzialmente bevo studio in un liceo artistico nonostante la mia veneranda età. Ho avuto un periodo di traviamento che DANTE PLS! LEVATE PROPRIO da cui mi sono appena ripigliata, non tedierò nessuno con i dettagli ma basti sapere che riprendere a la circolazione delle dita sulla tastiera è un grande traguardo. Sono una nerd a metà (?) amo i videogiochi ma se non vado a correre almeno una volta al giorno mi sento male, non riesco a stare ferma, mi si frigge il sangue al solo pensiero di rivoltarmi nel letto tipo larva per tutto il giorno. Impazzisco per i film al cinema e....no, di serie tv ne ho guardate forse due in tutta la mia vita. Vergogna su di me e le mie mucche. Non mi prendono, non c'è niente da fare. L'unica che ho guardato con un certo interesse fino alla fine è Dark. Di base sono criticissima, con i libri e con la musica in particolare.

    Per il resto vabbè, sono fuori come un balcone, vogliatemi bene lo stesso grz XD
  3. .
    Dulcinea A. Verhoeven
    Credeva che la droga avrebbe ammansito l'incapacità di stare ferma, finchè dal suo corpo non sarebbero sgusciati via minuscoli singhiozzi della ragazza che a Beauxbatons correva senza alcuna ragione per i corridoi. Non c'era andata leggera con la dose eppure continuava a dondolare.
    Era la brace di un ballo quello su cui infiammava il corpo, lasciò che affievolisse, si strozzasse con crudele lentezza nell'incapacità di voler vivere, come una conversazione sull'orlo del letto. Rimaneva calda solo l'anima bambina del suo entusiasmo, quella che gli uomini del Pendragon andavano cercano da tutta la notte, salpando mondi fra i tessuti e pelle, ammainando fra le palpebre stanche il loro desiderio. Tanto non ci arrivavano mai. Non per davvero. Era solo la forma dell'inaccessibile ad allettare, il gioco del monello che prende fra le mani il portagioie sapendo di non possederne la chiave. E non era una questione fisica. Sapeva di godere nel sentire mani altrui vibrare, sciogliersi nel sesso come una musica sul timpano, conscia che non avrebbero mai toccato quella parte che lei segregava nelle viscere e ancora più a fondo, aveva il retrogusto di ossa e di anima, perchè era sua. Fottutamente sua. E il silenzio con cui Tristan cospargeva la lingua, funereo, quasi fosse in lutto per tutte le parole dette e dovesse versarvi le ceneri di quella notte per espiare, non era che una resa. Non aveva bisogno d'irretire il cuore in mille serrature e forse era stanco di farlo. Stanco di spazzare i suoi lati peggiori come fossero briciole sotto un'inconsistente facciata Con lei si era sempre sentito in pieno diritto d'essere stronzo. Biglietti in prima fila riservata ove Dulcinea si sedeva ad ammirare la libertà sguinzagliata del gran bastardo che era. Urlavano percosse, tacevano la rabbia con le unghie e ricucivano dai loro corpi quel piccolo mondo marcio, quasi fossero ago e filo. Tristan non avrebbe mai trovato dolcezza in lei, o pietà; parlavano la lingua delle lune zingare, nude di pallori sui tetti insieme agli uomini che sussurrano all'eroina, la corteggiano si direbbe perchè ondeggi nel sangue più velocemente. Aveva provato a denigrare quel mondo, a scrollarselo di dosso perchè il destino gliel'aveva sputato sulle spalle fin da bambina, e l'idea che qualcosa di superiore decidesse per lei la riempiva d'ira. Nemmeno suo padre era riuscito a tenerla al sicuro. Ora invece quell'esistenza la sfiorava con una delicatezza vorace perchè lei, era la madre che non aveva mai avuto. E che Tristan lo volesse o meno era anche la sua.
    << Infatti non sono nostalgica. é che le cose belle e divertenti le farei ancora, e ancora, e ancora...>>La voce colorò il suo silenzio, pareva steso apposta perchè lei vi passasse le labbra, delicate quanto un pennello dalla punta sottile. Spense la danza a qualche centimetro da lui, come se il sfiorarlo potesse bruciarla più di quanto non stesse facendo la droga sottopelle. Non che gliene importasse granchè. Qualcuno avrebbe detto che l'abuso dell'eroina non era che un suicidio per fasi, sminuzzato in un arco di tempo nettamente più ampio. Per lei era diverso. L'ultimo passo prima del burrone era quello in cui si annidava la vita, più andava a fondo e più sentiva quanto i polmoni stringessero capricciosi l'aria, quanto la superficie fosse bella e trasparente dal punto più basso del fondale. Forse per tale motivo tendeva ad avvicinarsi, pur sapendo di far sanguinare i mesi passati con la sua sola presenza. Gli aveva fatto male e con ogni probabilità era riuscita anche a farlo incazzare, solo per ritrovare al proprio ritorno, quella voglia furibonda di capire che Tristan recitava con gli occhi. Era strano, aveva assistito a quel cazzo di casino come qualsisi altro, conscia che non fosse propriamente normale, eppure una parte di lei non ne era stata sorpresa. Si era sempre sentita legata a lui, aveva stretto Tristan come se fosse il bando di quel groviglio che si portava dentro, toccandolo aveva l'impressione di ascoltare una voce familiare che la chiamava da lontano e urlava il suo nome. E la cosa folle, era che quel grido si perdeva nello spazio del suo corpo, non era originato da una zona precisa. Non esisteva mappa per trovarlo ma c'era. L'unica indicazione per non sentirsi perduta. Vederli, vedersi così uniti, così meschini eppure dipendenti l'una dall'altra, l'aveva confusa. Perchè sarebbe bastato poco, davvero poco perchè le cose prendessero velocità su una situazione differente, inarrestabili quanto una palla sopra un piano inclinato. Una risata si alzò stancamente dalle labbra per camminare fra i tratti distesi del volto. Dulcinea schioccò la lingua, annuendo piano mentre tirava un pugno scherzoso alla spalla del ragazzo. <<Touchè Ivashkov>> La verità era che lei continuava a disseminare motivi per tornare, depositava pezzi di sé fra le strade costruite fuori e dentro la gente, quasi fossero calzini in una stanza d'albergo perchè un giorno il futile pretesto di volerseli riprendere l'avrebbe sospinta di nuovo lì, dove in fondo era stata bene. é raro dimenticarsi vestiti in posti odiosi. Perfino a Bristol era certa d'aver lasciato qualcosa che un giorno il suo essere avrebbe domandato indietro. Funzionava così.
    << Tristan...non ci voglio certo io per dirti che sei libero di farlo. Non si deve per forza diventare persone migliori, forse è più importante rimanere aggrappati a se stessi. Quando hai solo te stesso l'unica cosa che puoi mandare a fanculo è la tua vita. E quella è la tua cazzo di vita, decidi tu cosa farne.>> Sapeva a cosa si riferiva. non riusciva a divincolarsi dalle mani di quell'amante così dolce che lo nutriva al senso della dissoluzione. Lo faceva stare bene, era risultato perfetto ed uno studente qualunque della vita si sarebbe accontentato. Ma Tristan era un matematico, fermo ad analizzare il procedimento di quell'espressione e lo vedeva terribilmente sbagliato. E l'eroina per lui non era che un'immensa, stupida formula in grado di concedergli il numero definitivo, con cui risolvere ogni verifica. Gli occhi già velati d'inconsapevolezza si spalancarono nel vederlo avvicinarsi per usufruire di quel paradiso in ebollizione dentro la sigaretta. Lo guardò beandosi di quella fame che gli esplodeva in volto e subito la voglia irrefrenabile suonò le vene come corde di violino. Lasciò che le avvolgesse il polso, perdendosi fra gli spiragli della realtà che si infilavano a malapena quando le loro carni entravano a contatto. << Puoi. Solo se trattieni>> il mormorio si adagiò fra loro prima di scivolare via, portandosi dietro i secondi. Era un tempo vergine, che non sapeva nulla del passato e a cui non importava del futuro. Era un'anarchia di gesti da cui sgusciava fuori il loro bisogno di sentirsi angeli andati a male e non provarne vergogna. La mano di Dulcinea raggiunse la nuca del ragazzo, laddove la pelle lasciava posto all'ispida morbidezza dei capelli. Ed era un gesto violento, lo sapeva, ma non malvagio. Allungò il collo, scoprendo i lembi candidi sfiorati dalle ciocche, ove sguazzavano pulsazioni annacquate, quasi fossero in un barattolo ricoperto di madida condensa, finchè le labbra non furono davanti alle sue. Si abbeverò del fumo mescolato al suo respiro, avida anche delle scorie, prima di lasciarsi scivolare anch'essa sul cemento. Le gambe ammantate solo dalle parigine sottili srotolate maliziosamente sul cemento. Cazzo, era tutto così fottutamente strano. Avrebbe voluto spezzare il silenzio con una battuta ma Tristan non pareva dello stesso avviso. << Si. L'ho vista anche io, non so cosa fosse, davvero non ne ho la più pallida idea...Non sapevo che pensare cazzo, perchè non eravamo noi, lo so bene. Ma ci assomigliavano così tanto che avremmo potuto esserlo. Perchè avrebbe avuto perfettamente senso. E la cosa che più mi ha confuso non è stata la tua devozione a Tharizdun, o gli intrallazzi con la mafia o il fatto che fossi immensamente borghese vestita così...ma che sembravamo stare bene. Nonostante la merda in cui eravamo immersi, e non che ora vada meglio considerando che lavoro al Pendragon, sembravamo fottutamente felici. Questo mi ha... non lo so...scossa. Anche tu l'hai vista vero?>> parlò tutto d'un fiato, puntando gli occhi blu su di lui e il suo viso pulito dalla luce scarna, anoressica del lampione. Ed era vero che non sapeva che cazzo pensare. Soprattutto di Tristan. Infilò in tasca la sigaretta vitrea oramai finita prima di sussurrare << Ci vorrebbe un'altra dose...>>
    22 y.o
    dress [ x]
    I know the moment I looked into your eyes
    I'd have to swallow all your lies


    Edited by _Wednesday_ - 28/7/2018, 19:12
  4. .
    carey mcmillan

    I'll need some information first just the basic facts, can you show me where it hurts
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    Sgranava il rosario, scioglieva le dita in carezze ridondanti su ogni perla mansueta, quasi stesse rassicurando l'animale domestico. Non sapeva se sarebbe venuto. Quella lettera prima di vestire inchiostro e carta era stata una danza, nuda quanto un pensiero. Un valzer inarrestabile sulla cui melodia i mostri della sua mente si prendevano per mano. Era terrificante per lei una tale dinamica in testa, l'odore del movimento seduto in alto, fra le narici il suo trono, e l'impressione che ad un certo punto non avrebbe sentito più nulla tranne la ferocia con cui le paure mobili si sarebbero ingozzate di tutto il resto, pulendo ogni cosa non fosse caos. Keegan aveva lasciato solo un gran frastuono di cui Carey era unica prediletta ascoltatrice. Chiusa a doppia mandata nelle ripercussioni, nelle viscere abbandonate di un onere di cui lui non aveva pagato l'affitto. Ed era arrabbiata per l'insostenibile leggerezza con cui aveva improvvisato la morte. Schiaffeggiando il copione di una vita che aveva amato farle gocciolare sul collo, con la bocca come un chiodo insanguinato, crocefissa al suo orecchio, mentre lei guardava il nulla ozioso e pigro fuori dalla finestra. Le raccontava quanto sarebbe stato bello tornare in Irlanda ad agosto, magari in treno, per affondare gli occhi nel verde acquoso di nebbia con la stessa impaziente stanchezza di una testa che incontra un cuscino la notte. Quanto il vestito da sposa di sua madre le calzasse a pennello e che avrebbe dovuto far attenzione a non sporcarlo laddove i polsi vomitavano dolore. Lo facevano tutt'ora. Con la carne pallida boccheggiante, in punta di piedi sulle ossa quasi fosse un bambino nel mare, che tanto ha scalciato per uscire dall'acqua materna e ora non vuole rinunciare all'aria.
    Non aveva mai voluto il futuro che Keegan innaffiava con cura, ma l'ardore con cui perseverava nell'accudire quel sentimento informe e acerbo l'aveva sempre rassicurata. Accettava l'handicap di quell'amore, si sforzava d'ignorare le lacune in cui il suo desiderio inciampava e le sue ginocchia finivano rompendosi sul duro rifiuto. La verità era che lui era stato disposto a farsi male tanto quanto lei e quell'idea la cullava in una cinica consolazione.
    Le chiese amavano intonare i passi della gente, non vi era salmo più bello, li portavano in alto fino a illuderli d'aver passeggiato sulle piume d'un cherubino, perfino quando la meta di quella liturgia si accoccolava nell'Inferno. Carey lo capiva da come i muri gonfi d'incenso se li caricavano in spalla e gli facevano toccare l'aria timida nascosta fra le volte. Vi era una delicatezza paterna infinita, impastata all'odore del cuoio nuovo delle scarpe di Seamus che faceva salire Theo sui suoi piedi. Era una miseria di centimetri, davvero una miseria, avrebbe potuto raggrumarli sul righello con cui già da bambina amava violentare i polsi, ma a lei suo fratello, in quel momento, era sempre sembrato infinitamente più grande. Così anche Ardan nel suo cavalcare involontariamente la solennità che solo l'acustica della casa di Dio sapeva concedere. Rimase immobile, perchè lei al contrario non voleva essere innalzata dal rumore, gettata in alto come uno stormo d'uccelli punto dall'ago invisibile d'una primavera finita. Non sapeva autografare col proprio corpo l'aria selvatica che le premeva addosso, non sapeva domarla. Ardan invece era liquido, una goccia d'acqua combattuta dalla voglia di sciacquare tutto e la coerenza sferica della propria forma. Ogni movimento era un duello per restare abbracciato all'idea di sé, eppure rimaneva quella voglia capricciosa di fluire un poco nell'estinzione di ciò che restava. L'ultimo morso è sempre il più buono. Come quel silenzio d'incenso e il suo pungiglione conficcato lì, un'insetto prigioniero della carne che aveva avvelenato, Carey lo sentì dimenarsi fra loro senza successo finchè lui non parlò. L'odore dell'alcol si trascinava stancamente sulla bibbia sonnecchiante, posata a fianco di quell'uniforme nera al sapore d'abito a cui proprio non sa rinunciare. Posò il rosario sulle gambe finchè non assomigliò ad un mucchietto di perle bianche, attenta alla sua minuscola montagna di credenze pallide. Gli occhi cerulei s'incagliarono nel consueto nulla cha amava fissare quando le parole erano ancora troppo lontane dalla gola, trovando però l'altare. Lo percepiva muoversi, sedersi, ma non distolse lo sguardo. Avrebbe voluto ci fosse un dettaglio abbastanza importante, in grado di rubarla al desiderio di voltarsi e farsi dilaniare dall'intimo e immenso gelo che solo quel ragazzo sapeva far convivere con la soffocante limpidezza delle iridi. Le sue erano sempre frementi ma non esplodevano mai, come se qualcuno avesse chiuso in una bottiglia una nuvola sorpresa mentre rimuginava una tempesta dentro di sé. Guardarlo era un po' così.
    Portò la mano pallida sul legno della panca davanti a lei, carezzando gli attimi di vita depositati lì insieme alla polvere, poi lentamente voltò il capo verso di lui. Le mani indossavano piccole gocce d'acqua, simili a perle vitree in corsa sulla sabbia. Ognuno di loro aveva il proprio rosario, in fondo. Si chiese quali preghiere potesse contenere il suo.
    << Mi riuscirà molto difficile raccogliere informazioni al Circolo. La mia residenza al Manor è finita.>> Abbassò il capo, invitando il biondo delle ciocche a distendersi fra i lembi pallidi del collo. Non sapeva quanto fosse conveniente sminuzzare quella dose di sapere solo per lui. Non lo conosceva abbastanza da capire quanto ne valesse la pena. Ardan sapeva pizzicare tutte le sue insicurezze nell'unica, delicata e bellissima, melodia dell'ignoto. Era imprevedibile.
    << Ci sono novità che puoi dirmi o valga la pena sapere?>> Lo mormorò piano, sfiorando i temporali in viaggio sul suo viso come un'ala di gabbiano. Senza la volontà di entrare veramente nell'esplosione di quell'apatia, alzò i grandi occhi azzurri finchè non trovò i suoi.

    [ 19 · sheet · music · voice ]



    Edited by _Wednesday_ - 26/7/2018, 20:13
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    dulcinea verhoeven

    I'm glad 'cause they feed me the fuel that i need for the fire to burn and it's burnin
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    Lo sbattere della porta inchiodò il vicolo nel silezio, come se le ombre avessero martellato suoi suoni fino a schiacciarli completamente. Il risultato erano le macerie del gran casino che sentiva frullare oltre l'uscio. Il desiderio incontenibile degli uomini riconosceva le ali in uno sguardo buttate sul palco, ove danzavo le ragazze. Poggiò la nuca dorata contro il compensato e socchiuse gli occhi qual tanto per lasciarsi tagliare da un'unghia di luce secca, sputata a forza dal neon dell'insegna come un conato elettrico. La musica del Pendragon le ansimava addosso, asmatica, pareva il respiro affannoso dei muri reggenti quel luogo del cazzo. Quel bofonchiare di stucco e mattoni scivolava nel sangue e trovava l'eroina, le sentiva tenersi la mano e corteggiarsi in quel linguaggio di fughe sbrigative con cui poi tinteggiavano gli organi. Era un'alchimia strana, di quelle che nemmeno al Brakebills avrebbero insegnato a dovere. Non c'era più tornata dopo la festa di Jesse, ed anche in quel momento il suo volubile ritorno era stato suggerito non tanto dalla determinazione di finire quella dannata scuola, quanto per il piacere di germogliare sconcerto negli occhi di chi l'aveva vista dissiparsi come le prime nuvole all'alba. E voleva tenerla accesa, la scintilla di una rabbia acquazzone, imprevista, che coglie impacciato il volto e scatena il duello di un sorriso contro la bile sepolta in gola. La divertiva il contrasto emotivo che qualche mese d'assenza, malato di un mutismo terminale, sapeva provocare. L'ira nel ventre della felicità, una accoccolata dentro l'altra, sempre più vicine, fino a respirarsi come righe d'un foglio accartocciato che non si vorrebbe mai leggere. Costrette decifrare un punto dove incontrarsi non faccia troppo male e ricucire un'emozione unica. Non lo faceva mai con cognizione, se ne rendeva conto quando l'essere cominciava a darsele di santa ragione con ciò che sopravviveva della propria coscienza. Abbastanza da incagliare, seppur per poco, quella voglia di febbricitante di muoversi perchè proprio non ce la faceva ad attecchire in un posto, né mentalmente né fisicamente. Ma era una libertà complicata da assaporare e ancora non era convinta che entrare nella Mafia fosse la soluzione giusta. Valeva la pena provarci. Come al solito non aveva nulla da perdere.
    Lasciò ricadere una mano nella tasca del sottile accappatoio nero alla ricerca del fedele pacchetto rosso e bianco. Il vento ingentiliva la carne rovente dallo sferragliare di occhi. Sapevano inventare mappe esotiche fra le isole di pizzo, rifugi di pudore che andavano macchiando l'oceano dorato dell'epidermide. Dulcinea piantò il filtro all'angolo destro della bocca, la schiena aderente all'angoscia respiratoria del muro scrostato e lo sguardo bambino perso, come tutti i bambini, in un posto che non esisteva..

    [ 22 · sheet · music · voice ]

  6. .

    Dulcinea A. Verhoeven
    21 | studentessa | Voce | Song | Sheet
    Aveva uno sguardo chiodato, fisso su un'espressione battuta calda per ferire. Sull'attenti, una frontiera ove si paga il pedaggio per accedere ai pensieri. Le piaceva quando gli uomini mescolavano la colonia al profumo dell'invalicabile. Da adolescente, la fase che più l'eccitava nel mentre dei suoi piccoli furti era scassinare le serrature, il doloroso e insistente corteggiamento del passepartout dentro la serratura, la sua volontà a torturare il senso del limite. Quello le dava fastidio. L'idea che qualcuno o qualcosa potesse permettersi di decidere dove poteva arrivare e dove no. Che vi fossero scogliere che il grande mare del potenziale non avrebbe potuto masticare un'onda dopo l'altra. Erano i mezzi ad essere limitati, il suo essere soffocata fra un piano bar merlato di volti sconosciuti e il whiskey scadente. Nell'ondeggiare fra l'uno e l'altro dettava la legge motoria della propria insoddisfazione, così grande da far visita ai passi già calpestati. Le possibilità che sentiva di meritare vivevano nel peso dell'inesistenza come arti fantasma. Ed era una sensazione sempreverde, non possedeva docili inverni in cui appassire o lattiginosi autunni per conquistare un letargo. Lei la sfidava, si sfidava.
    Ogni impresa aveva corpo, in quel caso specifico decisamente impostato. Fece decollare gli occhi su di lui e come la ladra bambina sopravvissuta alla donna che era prese a trafugarne i dettagli e a metterseli nelle tasche buie di un battito di ciglia. Una stanchezza profonda aveva fatto il nido in ogni taglio che il tempo mai sufficiente aveva attenuato, quasi i lembi di pelle non ne volessero sapere di far pace con i propri simili. Dulcinea inclinò la testa e le ciocche bionde si abbandonarono al letto di pelle fra l'omero e il collo. << ...grazie>> accompagnò la voce ad un sorriso liquido, giocoso quanto i guizzi delle carpe nei fiumi d'alta montagna. Quel gesto aveva un sapore inaspettato, soprattutto in un posto come quello. Gli uomini meno possiedono, maggiore è il bisogno di rivendicarlo, cospargerlo di saliva perchè se ne imbevesse come terra, e il cielo che ad ogni pioggia battezzava il proprio possesso. Perfino un accendino sarebbe apparso inestimabile a quella gente. E lui evidentemente no, non ne faceva parte.
    Le dita tamburellarono sulla sedia prima di aderire sinuose al manico, una alla volta. La estrasse repentina per poi girarla e sedersi a gambe divaricate, lo schienale a mo' di poggiolo per i gomiti mentre faceva scattare il clipper dell'accendino. << Ha avuto un imprevisto, diciamo che ci siamo fatte un favore a vicenda. Spero non le sia dispiaciuto quello che ha visto>> sbuffò parole velate di bianco verso di lui, il corpo rilassato in balia dell'esiguo sostegno della sedia. Come pensava, non aveva niente a che vedere con il resto della gentaglia sparsa per il locale. Era quasi certamente il direttore. Ma non per questo avrebbe variato atteggiamento nei suoi confronti. L'intrigava abbastanza mettere da parte il ruolo di entrambi, in quel momento.
    << Faccio la barista, ma non è esattamente uno di quei lavori che riempie di soddisfazione. Lei è...il proprietario? >> prese un'altra sorsata di fumo, inarcando le sopracciglia incuriosita dalle parole dell'uomo, intingendo gli angoli delle labbra di malizia infantile << Mmh Empatina? Cos'è?>>
  7. .
    Dulcinea A. Verhoeven
    Non si mosse fino all'ultimo, la schiena nostalgica di una scusa per non cadere. Il corpo stava strozzando tutto il veleno col rigore della sua pazienza . La pelle fredda pareva non scalpitare per raggiungere quell'immagine che andava sfiancando le ombre col rumore d'una suola affidata all'asfalto. E poi il cuore tuonava un duello contro i polmoni, soffocato, ironicamente, dal respiro e quel riempirsi che non bastava mai, lo sentiva sgomitare per ricordarle che lui sapeva farlo esplodere con un'esima vicinanza. Non ci aveva mai pensato, ma aveva un modo bellissimo di avanzare. Lui il dolore lo camminava, sussurrandolo un passo alla volta alla terra, che era orecchio dell'Inferno. Un normale itinerario per Tristan era la favola calpestata della propria sofferenza. In quel momento come quattro anni prima, Dulcinea si ritrovò bambina, ad ascoltare una muto racconto della buonanotte che invero le avrebbe dilaniato il sonno. Da ragazzina si era sempre sentita inadeguata, come se le avesse fatto ascoltare una canzone straniera priva di sottotitoli. Nella giovane, perenne overdose di allegria e incoscienza, finiva per ripudiare i drammi altrui come i propri. Di Tristan andava serbando un ritratto in cui la riluttanza verso il prossimo mangiava i chiaroscuri e rendeva ciechi alcuni punti, così come la scelleratezza s'era bevuta la beltà di Dorian Gray. Poteva tentare d'interpretare, farsi un'idea per sostituire il vuoto lasciato dal colore ma non avrebbe mai afferrato la versione versatile e integrale di ciò che era. Un disegno è completo, realmente e splendidamente, solo agli occhi dell'artista che l'ha pensato, rinnegato e poi eseguito. Così aveva smesso di credere che «completarlo» a modo suo l'avrebbe reso più alla sua portata, che con un abbraccio sarebbe arrivata la certezza d'aver collezionato in un nido di dita ogni suo rilevo come un'alpinista clinico e minuzioso. Qualcosa sarebbe sempre scappato. Dettagli su suo padre, le tenerezze parsimoniose e segrete, per questo chiuse a doppia mandata col silenzio. I disagi di quell'adolescenza dannata e le compagnie in cui si era sentito vivo morendo. La consapevolezza rabbiosa in corsa dietro ai misteri di Tristan simile ad un cane dietro ad una macchina. Ed in quell'istante, con la luce del lampione sdrucciolevole sui suoi zigomi pallidi e le iridi tutelate dall'ombra, colse l'immensità di ciò che si era persa in quei mesi. Il sapore indecente della bile ribollì in gola, rovente contro il gelo di un'egoismo che l'aveva portata a lasciargli un messaggio, come un marchio bestiale nell'aria. Quel fottuto messaggio. Con tutti i casini che ritmicamente intonavano la sua vita, Vlad e compagnia bella, aveva avuto perfino la faccia tosta di esigere lealtà da parte sua. Forse perchè era davvero l'unica persona su cui era andata a posarsi il ronzio di quella parola, bisognosa del nettare della fiducia dopo anni di fioriture velenose. Si fidava, eppure nessuno dei due avrebbe esitato nel puntarsi un coltello alla gola, perfino durante l'amplesso. Era una cosa che non avrebbe saputo spiegare. Gente come loro, cuciva il sospetto perfino nelle trame dell'amore, aspettandosi che il tradimento come una tarma avrebbe divorato i tessuti della stoffa più preziosa. Non si sarebbe certo stupita se perfino la droga avesse scelto di giocarle un tiro mancino, far scomparire quel viso in pendenza sulla sua testa, inghiottito dalla strada come l'ultimo boccone d'un sogno. Alzò lo sguardo. Ed era bellissimo cazzo. Ogni volta che lo guardava era come la prima e mai che riuscisse a comprendere se la mutevolezza infinitesimale di quel gesto semplice fosse lui, in costante moto rivoluzionario come un pianeta o lei, che banalmente amava si sorprendeva nel vederlo reinventare il mondo attorno a loro, quasi fosse una stella fissa in cerca d'un pezzo di cielo non ancora sfiorato. E dire che loro erano riusciti a saggiare molte sfumature d'un rapporto. Erano stati amici e nemici, confidenti e fidanzati, leali e traditori, amanti e rivali, salvezza e corruzione, astinenza e overdose, spesso tutto insieme. Ma in quel momento? Avrebbe dovuto rifletterci prima di versare gli occhi in quelli affaticati del ragazzo. Ed era dannatamente complicato non perdersi nel volto di Tristan, si sentiva simile ad un assassino stanco che dimentica ove poter colpire. Inesorabilmente affondava, perchè nella sua stanchezza riconosceva la propria, quella che non avrebbe mai denudato e solo l'eroina costringeva a prostituirsi sul ciglio della pelle, nello stesso modo in cui il mare riconosceva la pioggia e la prendeva con sé, senza distinzione. Alla luce malata del lampione affioravano le occhiaie come petali di una notte sbocciata nell'insonnia. Non potè fare a meno di chiedersi se anche lui avesse avuto la tentazione di chiamare una persona, nel cuore della sera, riversagli un po' di sofferenza addosso. Se anche lui avesse avuto bisogno, non d'essere compreso, rincuorato o compatito, solo ascoltato. O forse mandato a fanculo, giusto per ricordagli che esistono posti dove scappare. Tipo "a fanculo". Giusto per scrollarsi di dosso un peso come aveva fatto lei, selvaggia e indomita quanto un bastardo di strada che scuote il pelo dopo un acquazzone. Tirò piano dalla sigaretta, il fumo riempì vorace i centimetri che li separavano mentre la mano destra carezzava il metallo gelido del lampione. << Sei sorpreso dal mio nuovo status di brava bambina? Potrei ancora dedicarti un lancio>> lo sussurrò mesta con la bocca ancora madida di volute bianche, a pochi centimetri dalla sua. Si dondolò appena facendo fuggire una risata dalle labbra per poi compiere una piccola piroetta, ascoltando quel ritaglio di pensiero rimasto a ballare dentro il Pendragon. << In forma dici...>> rise argentina, ma non credeva d'aver mai dato vita un suono così pieno d'amara ironia.<< Suppongo possa esser stata l'aria di Bristol...un toccasana se non vai oltre i due mesi di permanenza, sul serio>>. Poggiò il capo al lampione sentendo le forze risucchiate da un calore sempre più violento dentro le viscere. Non si sentiva bene. Assolutamente no. << Tu invece? Le scout-girl adesso distribuiscono biscotti anche di notte? Ma la strada per l'inferno è sempre lastricata di buone intenzioni...N'est-il pas vrai?>> gli sorrise maliziosa, facendo oscillare il filtro tra le dita. Ci stava provando Tristan ad uscirne, almeno così le era sembrato prima di partire. Almeno così le era stato detto. Poi l'aveva visto al Rucy con Ronan ed aveva capito che una parte di lui rigettava il cambiamento come il corpo esplodeva in febbre ad un'infezione. Paradossale quanto il suo essere bramasse ciò che per altri sarebbe stato tossico e mortale, rifiutando invece il linimento della normalità. Lei già sapeva che non sarebbe sopravvissuta in una dimensione in cui un giorno fotocopiava l'altro e l'immensa stampante della vita finiva per impilare i momenti nel rigido, meccanico plico di sensazioni grigie, squadrate. Tristan probabilmente sì. Lui sapeva sopravvivere ovunque. Ma vivere era tutta un'altra cosa.
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  8. .
    Dulcinea A. Verhoeven
    Il calore del whiskey era una miccia, liberata nella promessa d'esplodere lungo l'esofago. Lasciò che scorticasse la pelle per farne accudire l'irrefrenabile desiderio sotto le sue carezze abrasive. Grondava verso il basso mentre le sensazioni prendevano quota. C'era il cuore tirato dai fili di un'avaria emotiva infinita, mai stanca. Il sangue impettito nelle vene correva così forte da costringerla ad affidare il peso ad un lampione. Era senza fiato e più le nari si contorcevano setacciando piacere nell' aria, più riemergevano i fumi dell'eroina. All'inizio lavorare al Pendragon era stato dannatamente semplice, così come farsi assumere. La spensieratezza liquida con cui ballava, lanciando i movimenti senza risparmiarsi quasi fossero penny in una slot machine pur di vedere il suo mondo rotolare, tentando una combinazione in grado di soddisfarla. E come i giocatori patologici non lo faceva tanto per vincere, quanto il consolatorio piacere di possedere un'influenza, seppur su un fottutissimo display. D'altro canto, su tutto il resto aveva completamente perso il controllo. Havel era un ricordo appoggiato allo stipite della mente, elemosinava un affetto a cui Dulcinea dedicava pochi spiccioli. L'aveva difesa, l'aveva aspettata e poi cercata nell'affannoso tentativo di far fiorire amore laddove lei innaffiava la loro amicizia con distanza sciolta in violenti acquazzoni. Era rimasta una rabbia melmosa ove s'imbrattavano i sensi di colpa. Principalmente per non aver saputo gestire la situazione. Il destino le metteva in mano persone meravigliose e lei rimaneva a rigirarsi i primi azzardi d'un rapporto fra le dita che finivano col precipitare a causa del suo tocco impulsivo, indelicato. Ed era ironico quel minuscolo, infinitesimale contrappasso per il quale lei si trovava sempre a dover maneggiare relazioni che richiedevano una delicatezza d'essere. Un'indulgenza cieca per le crepe. Lei ricordava solo che da bambina finiva sempre in castigo perchè ogni anno il Natale era scandito dalla puntualità con cui faceva precipitare le palle di vetro dall'alberello. Un ricordo vestito dal tagliente fischio del globo in picchiata sul marmo. E poi crash. Esplose come bombe su vittime invisibili. Il fatto era che se fossero state infrangibili, vederle oscillare sul rachitico ramo di plastica non avrebbe avuto il medesimo effetto. C'era bellezza nella loro fragile e sprovveduta sopravvivenza, appese ad un gancio per non abusare di ciò che forse avrebbe potuto salvarle. Invece sceglievano di amare la gravità e affamate come dita d'una amante la percorrevano tutta d'un fiato, il suo corpo nudo d'aria, fino al suolo. Sceglievano sempre ciò che le rompeva. Come lei d'altra parte e il suo ardore che simile all'edera faceva il nido raggomitolandosi nelle crepe piuttosto che far razza su un terreno stabile. Lasciò cadere la bottiglia ormai vuota. Serrò gli occhi con foga, reclinando la testa all'indietro mentre portava una sigaretta alle labbra. Non aveva la forza di aprire le palpebre e ritrovarsi il viso sciacquato dalla luce a palesare le sue condizioni. Occhiaie violacee cullavano il rossore della sclera mentre la pelle sfioriva pallida, gelida al pellegrinaggio della brezza di maggio. La percepiva sottovoce fra le gambe scoperte e nel giubbotto in pelle spalancato come un grido. Sentiva freddo e avrebbe voluto chiuderlo eppure l'unico movimento a cui la sua mente diede il permesso fu far scorrere il pollice sul clipper davanti alla nicotina.
    22 y.o
    dress [ x]
    I know the moment I looked into your eyes
    I'd have to swallow all your lies


    Edited by _Wednesday_ - 6/6/2018, 04:45
  9. .
    Dulcinea A. Verhoeven
    Era raro che Dulcinea riuscisse a cogliere la demarcazione sottile che distingueva le situazioni complicate da guai di proporzioni mastodontiche. In parte perchè nulla riusciva ad apparirle eccessivamente ingarbugliato o privo di soluzione. Il suo cervello s'incaponiva per rovistare nel ventre infinito delle possibilità e tirar fuori il riquadro frastagliato che avrebbe potuto dare senso al puzzle. L'unico problema, era la sua incapacità di arrendersi all'evidenza d'un enigma più grande di lei (non che ci volesse tanto) o ancor peggio a ignorare la possibile evoluzione negativa di anche un solo passo falso. E una peculiarità di quei momenti era la loro tendenza a trovare facile la via per peggiorare. Dalla padella alla brace sarebbe stato il caso di dire, e nel caso specifico della francese, anche parecchio azzeccato. Perchè con Damian uscirne indenni era pressochè impossibile. Non importava quanto la sua pelle mansueta, addestrata da un gelo militare e proteso come le steppe russe sulla terra, regno incontrastato del Generale inverno. I suoi occhi erano trincee sotto i quali bruciavano le battaglie efferate. Nel mozzicone d'un movimento, la promessa di una soddisfazione mai sfamata, marciava il grande esercito del desiderio. E se non si prestava attenzione colpiva a morte la voglia di lui come un proiettile mai visto e scivolato a tradimento prima nel sangue, poi nella vita. Credeva d'averlo imparato, ancora sentiva i bossoli infetti di rabbia imprecare nelle vene, laddove la chirurgia del tempo non era riuscito ad estrarli. Quello di Damian ancora fremeva nella carne, sussurrava fuoco al braciere che aveva in testa e il corpo incontrollato come lapilli disobbedienti. Era rabbia infangata dal disprezzo che in quel momento ribolliva nell'eco della propria incoscienza. Per non aver capito, fino a quell'istante, che quello era l'unico modo in cui lei sapesse vivere. Era stata stupida a pensare che potesse essere diverso. Che una sola persona potesse rendere tutto diverso. Scosse appena la testa, scompigliando i ricordi che caddero come le ciocche bionde arricciate contro gli zigomi. L'unica cosa che voleva fare in quel momento era portare Damian al limite, collezionare il mosaico del suo cedimento un tassello alla volta per riempirsi gli occhi dell'immagine di lui che, a mano a mano, si vestiva unicamente di perdizione. La divertiva pensare che quel ragazzo avrebbe potuto addentare la sfumatura costosa di qualsiasi cosa, immaginare rotte con cui disinnescare l'impossibile e arrivare dove nessuno si era mai spinto eppure lei gli sfuggiva. Voleva vedere fino a che punto sarebbe resistito, quanto avrebbe sopportato prima che le mani fiorissero sotto il sole della bramosia, spalancando la loro corolla come se appartenessero ad un beduino nel deserto e lei il miraggio d'un oasi.
    << Ed è là che sei andato una volta lasciata Parigi?>>
    C'era curiosità distillata nella sua voce. Lo vedeva diverso, la firma di un cambiamento di cui lui era contratto esplicito. Eppure non avrebbe saputo dire cosa in Damian fosse mutato al punto da sollevare un velo d'attenzione in un momento come quello. Ogni via di fuga cancellata, rimpiazzata con le sbarre di un corpo ramificatosi per racchiuderla meglio, prigione egoista che il ragazzo aveva edificato per strofinarsi addosso il suo reclamo di libertà. Una cosa alla quale Dulcinea non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. E più lui la tocca più sente l'epidermide amplificarsi, esplodere in un grido capriccioso chiedendo d'essere sfamata. Si lasciò condurre nel privè con apparente facilità prima di spingerlo a tradimento sui divanetti. La polvere d'una risata candida si sparse nell'aria gonfia di musica e suoni infermi quanto ali d'insetto.
    << Guardami Damian>>
    Salì sul tavolino dove i camerieri erano soliti poggiare gli alcolici e iniziò ad ondeggiare. Vorticava tutto, il mondo trascinato dal gran pennello della velocità e i fianchi che rispondevano ad una musica incoglibile se non da lei, fasciati dal rosso della stoffa. Le braccia smascherarono le clavicole portando indietro i capelli instancabili quanto acrobati, sempre crucciati in capriole color sole estivo. La testa fluttuava oramai perduta su quella leggerezza che gonfiava il sangue e la faceva sentire dannatamente bene e le labbra culla della malizia inneggiarono un sorriso. Scese velocemente con le membra ancora sporche dell'eco di quella danza e si portò su di lui. Lontano anno luce dalla mansuetudine d'una carezza che avrebbe potuto smussare i suoi movimenti, germogli della più pura irruenza, Dulcinea si abbeverò nell'esondazione di quegli istinti. Tese la schiena, inarcandola come fosse in attesa dell'ultima scoccata di freccia e ancorò le gambe nude ai fianchi di lui. Le cosce morsero il suo bacino mentre le dita giocose liberavano il primo bottone della camicia, portò le labbra contro il suo orecchio << Che dici? Sono stata brava ?>>.
    21 years
    caotico buono
    Aw, c'mon, Puddin'!
    Don't you wanna rev up your Harley?
  10. .
    Dulcinea A. Verhoeven
    L'idea di uscire «con qualcuno» era un bolo di consapevolezza difficile da sminuzzare e Dulcinea aveva preso a masticarlo con calma insieme al suo chewigum rosa, in continua avaria fra una guancia e l'altra. Raramente qualcuno glielo chiedeva e una parte di lei possedeva un abbozzo rudimentale, ma ben delineato del perchè. Non era il genere di persona in grado di mantenere lineare la cardiografia di una situazione così...normale. Vandalismo gratuito sulla benchè minima imposizione a parte, rovesciava l'apatia serale con la stessa semplicità con cui avrebbe potuto urtare un bicchiere d'acqua sul tavolo e famelica l'urgenza del cambiamento conquistava centimetri. Credeva di piacere alla gente quando tutto si sarebbero aspettata meno la sua presenza, incontrata non per volere, ma perchè la furibonda mano del caos aveva frugato nell'ignoto probabile e fra tutte le possibili variabili era saltata fuori lei. Pura fortuna, o sfortuna. Questione di punti di vista. Il fatto era che lei stessa faticava a darsi una scaletta per poi seguirla con ordine militare. Gli impegni erano abiti sempre troppo succinti in cui soffocava il suo avvenire prossimo, nel tentativo di respirare altre opzioni. Impegno, impegno, impegno. La sola parola le dava i brividi, prometteva di zittire il propria pirotecnica maniera di dipingersi nel mondo, sedando la tela del suo essere con cornici irrilevanti. Era sboccata e lo sapeva. E credeva lo sapesse anche Joel considerando che all'invito del ragazzo doveva aver risposto qualcosa come « Cazzo si, perchè no?». Era facile destreggiarsi fra una violenza linguistica e l'altra, le imprecazioni non erano mai ingombranti fintanto che si dondolavano sulle labbra, in sella ad proprio destriero di silenzio, possente quanto un secondo. Stavano bene nei cessi pubblici o dette d'impeto e per Dulcinea ogni occasione era buona. Nell'infilarsi l'attillato top nero doveva averne sparate almeno una decina, giusto per condire l'esasperante nulla accoccolato fra la lancetta dell'orologio e la tacca che segnava le undici. Non le andava d'essere la prima a presentarsi, solo per poi ritrovarsi ad armeggiare l'asfissia dell'attesa come un bullone stretto dentro i minuti e che lei proprio non avrebbe saputo come allentare. Non le aveva dato l'impressione d'essere un ritardatario. A dirla tutta, faceva fatica ad inquadrarlo con precisione su qualsiasi aspetto. Di giorno portava la fiera muscolosità e alto il nome dei membri della Ψ Β Z e di notte appassiva sugli sgabelli del Rucy, quasi fosse sfinito dalla propria esplosiva fioritura dovuta alla fotosintesi di una vita che forse non voleva. Ed era strano, vedere un ragazzo simile raggomitolarsi su un bicchiere, languente come un lampione inglese che a fatica accettava di sostenere la propria luce. Non tanto perchè fosse uno «sportivo». Probabilmente la confraternita dei suddetti era la meno sana che vi fosse fra feste alcoliche e chissà cos'altro, ma per il dualismo caotico in cui oscillava, come un penny vibrante lanciato sul tavolo che non vuol cedere a nessuna delle due facce.
    Sapeva dove fosse Park Avenue, e visualizzarlo non fu complicato, la mente stringe con forza il ricordo dell'incontro con Havel fino ad estrarre le viscere di un'immagine precisa e creare un portale. L'aria fresca tirò i fili invisibile della pelle affannosi di collezionare l'ossigeno puro che ancora sopravviveva a New York mentre s'incamminava verso il locale. I tacchi altissimi come spari sul cemento erano mascherati appena dal gran formicaio di macchine, instancabile perfino nel nero della notte. Entrata nella taverna sfoderò un sorriso zuccherato, gli occhi vispi e saettanti di blu veleggiarono da un lato all'altro fino a tuonare silenti su Joel. Prese una sigaretta portandola al lato destro della bocca prima di raggiungerlo e accomodarsi di fronte al ragazzo << é il clichè più vecchio del mondo, la cheerleader con l'atleta>> il lato destro delle labbra si isso svelando la dose d'ironia che da sempre faceva il nido sul rossore della pelle. Fece scattare il clipper dell'accendino e subito la sigaretta prese vita << Anche se ...non sono esattamente la canonica cheerleader. Allors...che prendiamo da bere?>>.
    22 y.o
    french
    Inside my heart is braking
    But my smile still stays on
  11. .
    Si sistemò sull’orlo della panchina con la traballante titubanza degli uccellini. Non era per niente comoda, ma dietro quella piccola fatica sospingeva la paura di dover spiccare il volo al minimo segnale. Togliere il disturbo per lasciare il fianco ad una solitudine che forse preferiva in sorte. Lo capiva benissimo. Lei stessa da piccola preferiva il grande acquazzone della tristezza piuttosto che un riparo di giocattoli costosi e la noncuranza di amicizie viziate. Roman non aveva preteso di riparla dall’assenza dei suoi, non aveva provato a riempire la frattura che gridava un vuoto incolmabile. Si era preso cura di lei e basta, per quanto fosse difficile destreggiarsi nel roseto dei silenzi che Euridice ergeva intorno ad un sollievo, troppe volte inespugnabile. Ne era rimasto ferito e quella consapevolezza le spezzava il cuore. Eppure, malgrado il senso di colpa la portasse a fondo ogni giorno di più, c’era la sua presenza a liberarla dall’apnea. Le faceva respirare una quotidianità che i suoi polmoni trattenevano avidi, ogni molecola conquistava leggerezza, librando i pensieri su cielo che non credeva di toccare. Roman la guardava, i suoi occhi avrebbero potuto toccare ogni parte di lei con l’immota soggezione che si deve al cristallo e lei non avrebbe avuto paura. Liberò un sorriso nel vederlo balzare in piedi e si affrettò a fare altrettanto. Percepì il suo braccio intrecciarsi al suo quasi fossero i fili di un braccialetto in corda. Non poté fare a meno di trattenere il respiro chiedendosi quanto sarebbe durato quel delicato incontro, una carezza che prometteva di non finire. Ed era confusa. Incredibile confusa. C’era una sfumatura in quella piccolezza antica che non aveva mai visto e non si spiegava da quale arcobaleno d’emozioni fosse precipitata, come una goccia sopravvissuta al sole. Posò lo sguardo sul suo zigomo, quella piccola valle di pelle dove si fermava a riposare la timidezza. Lì svaniva solitamente la sua vergogna. Eppure si ritrovò le guance arrossate dallo sfregarsi improvviso d’un pensiero. Aveva sempre pensato che Roman calzasse i canoni di un bel ragazzo. Ma forse per la prima volta si sentiva testimone perfetta di una bellezza che solo lei poteva cogliere appieno. Così vicina, tanto che perfino il residuo dolciastro della sigaretta diveniva dettaglio fisico, una pennellata sul quel quadro dipinto sull’anima che Euridice intravedeva come nessun altro. Distolse gli occhi ansiosa, sistemando i capelli biondi perché ricadessero fuori dal colletto. << Quasi subito, è una strada che faccio spesso da sola>> rispose piano, immergendo il viso nella caotica processione di macchine. Era una cosa che faceva spesso, camminare in solitudine. La faceva sentire parte di un qualcosa che nemmeno lei si sapeva spiegare. Forse essere normale. Senza quella magia che non aveva mai sentito sua. Chiunque l’avrebbe reputata stupida, usurpatrice di un dono che non sapeva apprezzare né sfruttare. << Non preoccuparti. Davvero Roman, non c’era bisogno>> gli posò una mano sulla spalla, quasi potesse assorbire un nervosismo che non si spiegava. << ...E vivere da Mary mi piace, molto più che stare al Brakebills. Lo so che ti sembrerà assurdo...ma io mi trovo più a mio agio con i babbani. Prima di venire a New York volevo raggiungere i miei in Belgio, fare la pasticcera. È stupido vero?>> Scosse appena la testa, scoprendo un sorriso malinconico<< E tu? Come ti trovi qui a NY?>>
    22 years
    half veela
    voice
    Suddenly the world seems such a perfect place
    Suddenly it moves with such a perfect grace
  12. .
    Carey McMillan
    Trasalì. La voce ruvida di Ardan smussò quella piccola curiosità come la carezza di una carta vetrata sul legno, ne grattò l'impeto audace fino a scoprire il più fragile osso di un dolore antico. Le labbra si strinsero, compiangendosi in un abbraccio minuscolo, cercando di sorprendere uno spazio l'una nell'altra in cui sparire. A volte dimenticava di stare al suo posto e che all'aria non importava d'essere sazia o meno delle parole . Durante le cene in famiglia in poche occasioni osava diradare quella nube invisibile di marginale appariscenza che prima degli abiti Carey vestiva con la lingua segregata nel palato. Christine gliel'aveva spiegato: era necessario. La vita in chiaroscuro devota alle persone che invece dovevano apparire complete e androgine. L'assoluzione dall'orgiastico baccanale di un discorso esploso sottovoce nel Manor. Il silenzio stampella che reggeva il goffo e avanzare delle conversazioni storpie d'anima nella casa. Posò le dita sul tavolo, avendo particolare riguardo per il dettato del tempo che l'albero aveva tradotto in genuini screzi bruni. L'indice si alzò appena, rimase tremante a gridare un ricordo ancora bollente sul polpastrello prima di porgersi al piano rigido, cedendo il posto all'anulare. Non aveva più osato avvicinarsi ad un pianoforte dopo la morte di Theo. Non voleva violare con la banalità d'una commemorazione l'amore invincibile che lui aveva nutrito per ogni vibrazione e lei vedeva sopravvivere in una trincea di bianco e nero, ma le schegge di quotidiana dolcezza schizzate via da un unico pensiero erano sufficienti ad infettarla. Ripensò ai momenti in cui il fratello affidava il pallore delle sue mani ad una altrettanta eburnea tastiera, chiedendole di prestare attenzione all'infinitesimale squarcio fra un suono. Lì facevano il nido note selvagge e mai punte dall'orecchio umano. Lei era esattamente quello: una nota insonorizzata, mozza o più semplicemente mai scoperta .
    «Sono le più belle. Sono come i tesori dei pirati»
    Ma lei non ci aveva mai creduto.
    Doveva stare zitta, crocifiggere una volta per tutte il bisogno impellente che danzava in gola fino a sedurre la volontà della parola. Ci provava da sempre, la ferrea addomesticazione di se stessa si teneva strette le sue rivoluzioni emotive come fossero mosche e lei una ragnatela. Da bambina quel continuo reprimersi era un meraviglioso dovere, ora le maglie certosine di quell'immensa trappola erano lise. Bastava un niente perchè qualcosa sgusciasse via. La consapevolezza d'essere una cattiva carceriera delle proprie debolezze le squarciava il petto, scombinava il sangue assemblandolo sulla dittatura di una rabbia cacofonica al cui interno si raggrumava un canto terribilmente triste. Il terrore del giudizio altrui tramontava su Carey vomitandole addosso il buio come la sera ghigliottinava il giorno. Il panico del sole mutilato dai colori del cielo sull'infinito bisturi dell'orizzonte, lei se lo sentiva in testa ad ogni aggressione e rifiuto. Non importava da chi provenisse. Ardan avrebbe dovuto essere l'ennesimo sconosciuto in breve collisione coi suoi interessi ma un suo semplice screzio nella voce era bastato a pigiarsi sulle sue stigmate sollevando una nube che doveva contenere molte cose. Ira e profonda insoddisfazione verso se stessa. Come se non fosse sufficiente percepiva lo sguardo del ragazzo dappertutto, metteva a soqquadro il gelo dell'epidermide con scie roventi, fra i capelli, sui guanti ancora tiepidi, sotto le unghie con cui aveva raspato nelle cicatrici cercando di sentire una vita che costantemente taceva. Si chiese se sentisse l'odore del sangue permeare fino al cuore di quell'oceano che prendeva respiro nei suoi occhi implacabili. Non vi era altra parola da legare a quel volto. Sembrava l'angelo Michele sorpreso con una spada fra le mani, a tradurre la bontà divina in forza vergine da qualsiasi misericordia. Quella di Ardan non era cattiveria fine a se stessa, ma la stava trapassando e prima o poi avrebbe sarebbe arrivato laddove forse nemmeno lei osava avventurarsi. C'erano cose che non voleva vedere e lui le stava denudando una per una.
    Il diniego si sciolse nella mascella irrigidendosi appena, Carey alzò il meno ma solo per un secondo, resasi conto d'avere gli occhi completamente offuscati lo ributtò sul tavolo con la stessa arrendevole disperazione d'una mano scadente a poker. Tremava, tanto le ossa erano fradice, inzuppate di un pianto che non riusciva a scivolare normalmente nel mondo esterno. Avrebbe voluta urlargli di smetterla, che non meritava quella morsa in cui l'aveva stretta per aver osato sciogliere un suo ricordo. Per Russell, lei sentiva l'intimità estranea di due rotaie, ne seguiva parallelamente la traiettoria consapevole di non poterlo toccare davvero. Voleva sapere perchè a volte la coglieva l'impressione di vagabondare in un molo deserto, in cui sopravvivevano solo i fantasmi di quelle vite mai ancorate alla memoria. Delle persone vive faticava a non afferrare esclusivamente il male
    << No...affatto.>> Scosse il capo, prendendosi avida tutti i secondi possibili per concretizzare una minima negazione. La voce, ridotta ad una fiammella sonora le parve insufficiente, come se una realizzazione più vivace potesse spegnarla col proprio alito. Era certa che non molti potessero vantare una risposta affermativa. Carey credeva che quelli come Ardan non andassero "conosciuti". Ardan andava incontrato , una, due, tre volte, tutte come se quella collisione di esistenze fosse la prima, l'unica e l'ultima, lavando via ogni preconcetto creato, lasciandosi sorprendere anche dal suo essere ogni secondo diverso eppure costante. Il braccio scivolò in avanti e le dita sfiorarono titubanti il bicchiere che lui aveva riempito d'alcol. Poggiò il bordo sul labbro inferiore senza trovare il coraggio di bere con violenza. Ne deglutì un sorso microscopico strizzando le ciglia per l'improvvisa corsa di quel sapore nella gola. Aveva gli occhi ancora adagiati nei suoi.
    19 y.o
    black magican
    Inside my heart is braking
    But my smile still stays on

    Facciamo che mi vuoi bene anche se fa schifo perché ieri il computer s'é mangiato quello buono...e anche se muovo una persona che tira avanti a monosillabi :')
  13. .
    Sono orribile perdona il ritardo

    Dulcinea A. Verhoeven
    21 | studentessa | Voce | Song | Sheet
    Il sangue ammaestrava movimenti sempre più fluidi, agguerriti contro la perdizione da tappezzeria con cui le altre agghindavano le ciglia degli uomini, quasi fossero neon appollaiati sullo squallore d'una strada periferica. Di sfuggita, coglieva le altre ballerine e la loro preghiera in tacco a spillo, esibirsi in dondoli simili a quelli dei trapezisti, per non sprofondare contrarre il contagio del marciume che invero già proliferava in loro. Si difendevano fondendo la pelle all'acciaio del palo, affacciandosi quel tanto che bastava ad afferrare una banconota e svellere un altro giorno di sussidi prima di rannicchiarsi al rossore delle luci, nella timidezza degna delle onde. A Dulcinea invece, dei soldi, non gliene era mai fregato un cazzo. Non aveva nulla che la legasse a quel posto, nessun debito di cuore, di memoria o d'affetto e forse per quel motivo ogni organo del suo corpo pareva vibrare nell'eco di una libertà che non credeva sarebbe tornata da lei. Il Brakebills gliela stava risucchiando via come un parassita sopito nella terra ove per sbaglio aveva posto la radice di un intimo desiderio d'affetto. Un solo abbraccio di Ayumo o uno sguardo di Tristan sarebbe bastato a rinvigorire quel filo profumato d'appartenenza che una parte di lei allentava con la costante d'una scarpa slacciata. Sentiva l'ego rappreso nelle catene sconfortanti del suo stesso indugiare. Ma alla fine, l'avventatezza cruenta della sua sparizione era stato un avvertimento. Il vuoto che aveva incastrato dietro la suo sparizione era la conchiglia che se posta vicino all'orecchio avrebbe narrato il suono di un'indipendenza che come il mare non poteva essere calcolata. Per questo era lì e non poteva tornare come se nulla fossa. Sull'acciaio si posava svogliata, senza stringersi ad esso, solo perchè la mente mordesse lasciva la consapevolezza di quanto calore amplificasse il suo corpo saggiandola. In quella tela di sfumature monocordi e stagnanti, lei rivendicava una tridimensionalità furente affinchè i suoi spigoli potessero pungere o sfiorare l'attenzione di chiunque. Solo per un attimo fievole quanto la beccata d'un tordo prima di volare via. Piegò le gambe con una lentezza immane, lasciandole lievemente divaricate, quel tanto che bastava a farci sgusciare dentro le ombre e le brame degli uomini, giunte fin lì sulle ali d'un respiro. Inarcò la schiena all'indietro, il braccio destro avvinghiato all'asta per costruire un equilibrio dopo l'altro mentre i capelli volavano schizzavano come lapilli d'oro sulla schiena, corteggiati dal un ciclone invisibile che Dulcinea custodiva dentro ed eruttava nel mondo con la potenza d'un vulcano, in una risata fuori luogo e cristallina. E mentre ballava, fra le ombre ad alleviare il piacere crudo di quel posto, notò un uomo distante, in tutti i sensi possibili Non c'era ricerca nel suoi occhi, pellegrinavano sul tragitto d'un corso già compiuto troppe volte e di cui aveva imparato a memoria i passi. La guardava senza saper dove infilare le unghie per dissotterrare un piacere sepolto. L'angolo della bocca svelò un sorriso malizioso ove si rincorreva il viaggio della sua vivace curiosità.
    Continuò a danzare finchè una ragazza non le fece cenno di darle il cambio. Scese dal palchetto accompagnandosi a piccoli saltelli, innaffiando il seme di un'andatura bambina che già si credeva donna in fiore. Non aveva alcun problema a passare in mezzo ai tavoli, la pelle s'era indurita così tanto laddove i giudizi l'avevano percossa da risultare oramai insensibile a tocchi da lei giudicati indifferenti. C'era l'esoscheletro della propria assuefazione a mitigare qualsiasi mano avventata mentre lo sguardo pensava a bruciare la minima intenzione sul nascere. Era l'espressione che aveva modellato per le professoresse insistenti e in generale coloro che non credevano potesse ergersi sfrontata oltre l'apparenza divertente d'una ragazzina furbetta. Arrivò fino al tavolo dell'uomo, gli occhi azzurri vergano per qualche istante gli assiomi rigidi che ne hanno cesellato la mandibola e le iridi artiche quanto stelle cresciute sospese sui ghiacciai. Notato il pacchetto di sigarette sul tavolo, portò la gamba sulla sedia per sfilare dal reggicalze l'ennesima sigaretta. Sorrise appena portandosela alle labbra. << Me lo daresti un accendino? Ricambierò il favore... je te jure>>
  14. .
    Jasmine Rhiana Nilab
    La sera sonnecchiava si cullava leziosa fra le rughe lignee di Ben, rimasto a bofonchiare sommessamente con un uomo nel pudore ombroso del tavolo più lontano. Jasmine vedeva appena la sua figura ridisegnata maldestramente dalle mani inferme d’un bagliore, come fosse uno schizzo a carboncino da immolare nel buio d’un cassetto. Non coglieva le parole della conversazione, si sbucciavano prima cadendo con la stessa ingenuità d’un bimbo in corsa verso qualcosa poi inciampato sul selciato. Impegnava la mente andando in soccorso di quella piccola umanità semplice, così diversa da ciò che l’aspettava fuori. La cercavano. Lo sapeva. Il nome Jack Doyle’s era stato un mantra dal corpo d’inchiostro, recitato nella voce grassa e pesante di un titolo di giornale. Si era esentata dal lavoro per evitare lo sciame di fotografi e poliziotti nel locale ma quanto successo era una malattia dal sangue d’aria, aveva proliferato sui passaparola fino ad arrivare ai capillari vicoli di NY. Jasmine abbassò il capo, la testa grondante d’una pesantezza invincibile, chiamava la terra quasi la gravità della morte la stesse vincendo. L’avrebbero trovata perché la sua indolenza chiudeva le unghie sulla speranza sino a soffocarla. In un certo qual modo, credeva perfino di meritarlo. Vedeva il suo destino srotolarsi d’innanzi a lei come un papiro già vergato dalla penna, ove ormai non c’era più spazio per incidere una virgola o correggere termini. Poteva leggerne l’esito, l’ultima riga amara da deglutire sostava in gola, sui battiti accelerati da mesi. Perché nonostante i suoi demoni le di fossero infilati in ogni piega della carne e della mente, saggiando tutte le sue dolorose sfumature, tremava. La paura sciabordava incessante contro il cuore, promettendo un moto interminabile e immane come le onde del mare. Il proiettile che avrebbe scavato il suo viaggio dentro di lei probabilmente già fremeva nella canna di una di quelle pistole che da ragazza aveva amato stringere fra le dita. A volte se le sentiva ancora in mano nello stesso modo in cui un paraplegico a volte percepiva le proprie gambe, un arto che la completava, e le falangi abbracciavano il fantasma di quella libertà in ferro. Il modo in cui sputava sull’impotenza, una goccia di saliva in acciaio ai duecento all’ora contro gli altri. Un’immagine che le era rimasta dipinta sugli occhi e tanto allora le era parsa affascinante, tanto ore ne coglieva le sfumature grottesche, le pennellate diaboliche spaventata serrava le palpebre come il giovane Dorian Gray di fronte alla propria anima. Ma nemmeno il buio sciacquava quell’immagine oramai indelebile e le sue colpe le aveva trascritte nel sangue appartenuto a Dunya.
    Si passò una mano fra i capelli scuri e la treccia sfatta fra le spalle mentre osservava il locale svuotarsi lentamente, quasi stesse sbadigliando. Avrebbe voluto cercare Will dopo l’attacco, raccontargli quanto temesse i sicari di Delgado o cercare Logan e trovare conforto nei suoi silenzi d’edera, avvolgenti e mai giudici altrui. Puntellò i gomiti sul bancone, lo sguardo assente sulla porta e i pensieri lontani secoli.
    27 y.o
    wesen
    voice
    Sheet
    All of Rubin's cards were marked in advance
    The trial was a pig-circus, he never had a chance.
  15. .
    Carey McMillan
    Silenzioso, era il roseto dei suoi sguardi, in un viaggio di spine e occhi pazienti sul muro del rifiuto che lei ergeva, Ardan inventava rami rampanti da cavalcare con l’audacia di un pensiero; ogni battito di ciglia era un petalo nella fioritura della sua mente. Quell’arrampicarsi furibondo vinceva la vertigine della monotonia che Carey credeva sterile per il seme di qualsiasi coscienza. Ma non la sua. L’avevano sempre guardata come un paesaggio ove era semplice solidificarsi nel volto di un protagonista in primo piano mentre lei incipriava l’orizzonte truccandolo come una geisha nella sua appariscente insignificanza. Era nebbia in un mondo di volumi e spessori, involontaria donatrice del diritto d’emergere. Non risaltava mai e forse nemmeno voleva. Non da quando Theodore era morto. Non da quando la malattia di Christine madida del grande acquazzone della tristezza aveva iniziato a gocciolare dalla sua stessa esistenza, come avesse una perdita segreta arrovellata fra i movimenti. Ovunque camminasse il corpo lacrimava urla di una tale disperazione che Carey si era sentita in dovere di pulire quel suono agghiacciante, lenirlo come un'aspirina che curava solo sparendo. Smembrata fino all'osso dall'acqua per sguinzagliare un più viscerale beneficio. Mentre gli occhi salivano in groppa a quel pensiero li sentì dinoccolarsi irresistibilmente verso Ardan quasi avesse montato un destriero troppo furioso per sottrarsi alla guerra. Anche lui schiumava frizzante nell'ipotesi di morire per qualcosa di più ampio, dentro l'immenso per inquinarne le prospettive, sconquassarle in un unico abbraccio. Una volta sciolti i lacci della vita, la sua mente sarebbe esplosa nella voracità che serbava degli altri quanto di sé stesso simile ad un bicchiere rovesciato sul tavolo, il desiderio di afferrare tutto dall'inscindibile volontà di rimanere sé stesso. Ardan era il duello irrisolto dell'acqua e la sua voglia d'infinito contro la propria forma, prigione di coerenza. Era una supposizione rudimentale, costruita per impegnare le dita di una mente che altrimenti avrebbe accarezzato il morbido rilievo di un'analogia. Non voleva alloggiare nei pochi punti che li univano solo in apparenza, allo stesso modo i pagani avevano fatto del cielo graffito con le loro costellazioni, immaginando dialoghi di stelle in realtà straniere alla loro stessa razza. Questione di luce, di temperatura e dimensioni. Allo stesso modo Carey si chiedeva perché il germe di quella diversità profonda e atavica continuasse a proliferare nel sangue ammaestrando battiti amari. Una parte di lei ne era conscia e subito veniva morsa da propio ego per essere prosciugata fra denti simile ad una sanguisuga. Era il modo il cui si accostava a lei e i loro dubbi si corteggiavano in un valzer di spazi abbandonati e poi vissuti. La loro era la danza sfiorata di due isole che un tempo dovevano aver bevuto il sale e il sole della stessa terra. Ora assaporavano quella spaccatura che irrimediabilmente lì avrebbe allontanati, eppure lì chiamava nel nome di due sponde contrarie ma complementari.
    Adagiò i palmi vicino alla candela, uno sopra l’altro, come se una volesse adempiere al triste compito d’essere un sudario per l’altra. La mano destra fremeva bollente al ricordo della fiamma in un sepolcro di pelle sotto il gelido bacio della sinistra. Da lì, Ardan perforava la penombra simile ad una meteora nella rotaia della propria morte bianca. Colse le sue parole alla prima fioritura perché non si sciupassero nel tentativo di preservane un significato radicale. Le piacevano sbocciate sulla merlatura di quell’impulsività che lei ammirava e sulla quale era disposta a sporgersi. <<...di poca importanza...>> Fece suo quel segmento canoro, confezionandolo in un sussurro. Le labbra fremettero appena come un vento rimasto ingarbugliato fra le fronde d’un salice. Era certa che per lui fosse così, che le emozioni per la sua mente avessero la valenza di quei penny naviganti sui fondali delle tasche, il grigio consunto ammainato in un misto di fastidio e consapevolezza per un’ingombrante quanto sorprendentemente minuscola presenza. Carey si conosceva abbastanza da sapere che non necessariamente un viso austero era retaggio di un’anima fredda. Ma ciò che più invidiava ad Ardan era quella condensa di gelo che appannava una violenta irrazionalità. Mentre lei continuamente veniva tradita dalle feritoie trasparenti del suo terrore che scivolavano via come fossero gocce su un vetro e lasciavano intravedere sempre troppo.
    << Non temo la morte, forse la sopportazione mi inquieta di più, quando non si riesce a scorgere il confine. Stare al Manor dopo tutto per me è...difficile...in un certo senso questa causa è il margine che da senso alla mia residenza lì.>> Abbassò gli occhi fra i nervi cromatici del ripiano prima di riassettare una ciocca bionda che invero era perfettamente in ordine di fianco alla guancia. Sentiva un nervosismo strisciante guizzare sotto l’epidermide fino a darle il voltastomaco. Keegan era morto, e contemporaneamente il rifugio da quell’inferno creato da Persephone. Fece un cenno d’assenso alla proposta di un bicchiere, senza aver il coraggio di controbattere che lei non beveva mai, sfiorando con le gote rosse d’imbarazzo un sotteso segno d’ospitalità. Impalata dal proprio respiro, non mosse nulla se non le labbra chiare, incapaci di frenarsi << Conoscevi bene Russell?>>
    19 y.o
    black magican
    Inside my heart is braking
    But my smile still stays on
126 replies since 28/8/2015
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