Votes given by _ZoRa_

  1. .
    wolf wool pack ▪ ex-whyos ▪ 31 y.o. ▪ sheetvoicemusiclook
    mitja

    grimes
    lycan
    theta
    russian
    adopted
    La guarda salire in macchina con un sorriso che mette fuori un po’ i denti (in un modo che lui crede sia abbastanza sexy). Passa da lei a quello che ha in mano, poi di nuovo a lei. Persone così sono il suo pane quotidiano, perché in fondo sono quasi tutte storie del cazzo quelle che hanno alle spalle. Alla Brakebills era diverso, era lui quello strano, la sua storia assurda non era scontata e doveva raccontarla, era un casino, troppo un casino. Ci si era iscritto per Jesse, per Nica, ma poi alla fine quando è andato tutto a puttane, beh, non ne è stato sorpreso. Mica ci si vede a fare qualche lavoro serio, impegnato, che tutti i giorni deve andare per tutto il giorno in un posto e i soldi che arrivano a fine mese sono sempre gli stessi. No. Troppo noioso, troppo fuori corde, troppo tutto per la sua vita. Così lo preferisce. Non è uno che sta dietro ai soldi, gli basta un tetto, da bere e da drogarsi, da mangiare e neanche troppo bene, un po’ a cazzo di cane, poi chiamare qualcuno e andare a fare esattamente quello che stanno andando a fare. «Perfetto» la vodka, per lui, è sempre perfetta, e probabilmente Beca lo sa, non lo sorprenderebbe neanche, alla fine lui è uno semplice. Allunga la mano per raggiungere il sacchetto, lo sposta dietro ma prende due birre. Ne apre una e gliela passa, poi la seconda che si infila in mezzo alle gambe per cercare le sigarette ed accenderne una prima di prendere un sorso. «E non importa che capisci, è sexy» anche questa è una convinzione, e sopratutto in altri momenti serve sempre a far cagare un po’ più sotto la gente, gli da quel tono rabbioso che delle volte, se è fortunato, non lo fa neanche arrivare alle mani. Ma quelle sono altre storie, quella dell’accento sexy ne è una del tutto diversa. «Ty khochesh' skazat' mne net?1 lo dice per rimarcarlo, piegando appena la testa di lato nel lanciarle ancora uno sguardo prima di mettersi a fissare la strada, la birra ancora in bilico fra le gambe, la sigaretta premuta fra i denti. Gira le chiavi e la macchina parte con quel rumore che sa dovrà controllare cosa è dovuto prima o poi, ma per adesso la macchina va e non importa il resto. Ci penserà poi, magari quando si fermerà in mezzo al niente e non potrà farne a meno. «Sai com’è. Feste movimentate, risse, cazzi e mazzi» o anche le mille volte che lo fa cadere, a casa o nei cessi in cui si chiude per acchittare una striscia quando va da qualche parte in cui non è il caso lo faccia in mezzo a tutti. «‘Sti cosi ci respiri male sopra e si rompono» scivola fuori dal parcheggio e si immette in strada, sfilando la sigaretta dalle labbra per lasciar uscire il fumo. «Ecco il piano. Tempo quindici minuti e siamo arrivati, ci facciamo un’altra botta prima di entrare, poi ci spacchiamo»


    1 non è vero?
  2. .


    Dorian Rivera
    'Cause our love is a ghost that the others can't see out





    Furono gesti meccanici i suoi, una sequenza sufficientemente oliata da permettergli di perdersi nella sequenzialità. Togli la caraffa dal supporto, svuota i rimasugli, riempi l'acqua, aggiungi la miscela, rimetti a riscaldare. Le volte che lo aveva fatto completamente assonato o in stato di trance non si contavano più ormai, tanto che Emilia lo aveva ribattezzato il caffeinomane. Ovviamente lei tendeva ad esagerare, romanzando ogni cosa, ma non poteva negare come quella brodaglia scura riuscisse a compensare la totale astinenza da dipendenze più pesanti e pericolose. Però era anche diventato un rito, soprattutto al mattino quando si concedeva di rianalizzare il giorno prima e i sogni conseguenti. Così fece anche con l'incontro di poco prima.
    Lo sguardo sprezzante di Beca, la delicatezza delle mani sottili, la crudeltà delle sue parole che faceva contrasto con la dolcezza di un corpo premuto contro il proprio; le spiegazioni frammetarie e gli sguardi che raccontavano vite lontane tra di loro. Dorian, sebbene non riuscisse a rispondere sagacemente a tutti i suoi interventi, non si perse nemmeno un dettaglio. E così venne a scoprire che il fato aveva deciso di continuare il gioco crudele con loro, mettendo le loro strade così vicine ma perennemente parallele. Quando glielo fece notare morse tra i denti un'imprecazione frustata perchè dianime, lo sapeva che Beca voleva cancellare ciò che erano le sue origini ma sarebbe bastato così poco per ricucire il loro rapporto molto prima.
    Ritornò al presente al suono dell'inconfodibile bip della macchinetta, così allungò due mani nel ripiano sopra il lavabo e prese due tazze: una di Stich e una della Morte Nera. Stonavano parecchio con tutto ciò che il suo appartamento razionale impersonificava ma erano regali di Emy e mai se ne sarebbe vergognato. Versò il contenuto bollente nelle due tazze e si chiese se quella domesticità desse fastidio a Beca. Non gli era passato inosservato il commento relativo alla casa, in particolar modo il senso di vuoto che lei aveva voluto imprimerci all'interno. Si era mordicchiato il labbro e aveva fatto finta di niente, palesemente inadeguato nel fornire un vero conforto morale in quel frangente.
    Aggiunse giusto una goccia di sciroppo d'acero nel proprio caffè e, afferrata tra i denti una bustina di zucchero raccattata dalla dispensa, tornò verso il tavolino con le due tazze. Le appoggiò con attenzione sul ripiano facendo in modo che quella di Stich fosse vicino a lei e la bustina poco distante, poi si premurò di raccattare tutti i libri e li lanciò sul letto con fare sgraziato.
    "Sì lo frequento." confermò mentre prendeva posto davanti a lei, seduto a gambe incrociate sul tappeto grigiastro. "Non era un bel periodo quando ho ricevuto la mia lettera per Ivelmorny." cercò di spiegare, quasi a dover dare una giustificazione alle proprie ambizioni; perchè in fondo aveva sempre vissuto per qualcun altro e anche solo provare a fare qualcosa per sè stesso instillava in lui il senso di colpa. "Così Karina ha deciso di farmi studiare a casa, ho dato qualche esame da privatista e con il mio essere fottutamente povero a merda sono riuscito ad entrare con una borsa di studio." cominciò a sciogliere i nodi della propria storia nel modo più naturale che potesse, guardandola dal basso verso l'altro con quel ghigno petulante che negli anni non era cambiato. Una faccia da schiaffi, ecco qual era quella di Donny.
    Allungò la mano e prese la Morte Nera, soffiandoci poi sopra e prendendo un lungo sorso della bevanda. Una carezza bollente gli si piantò nel petto, solletticando positivamente ogni nervo del proprio corpo. "Ah sì Karina è quella che ci ha adottato, la nostra tipa dei servizi sociali." si premurò di specificare, riappoggiando la tazza e fissando le mani poco dietro la schiena così che il busto fosse reclinato all'indietro e lui potesse scorgerla meglio. La squadrò nuovamente dalla testa ai piedi e la consapevolezza di avere dinnanzi a se una Beca diversa da quella dei propri ricordi si fece sempre più strada, lasciandogli in bocca un sapore agrodolce. I vestiti corti e aderenti sul corpo femminile, il tono tagliente e la distanza fisica erano gli aspetti che più stonavano con la versione bambina di lei. Di certo non era stata un principessa nei modi e nelle parole, ma c'era una vitalità e un calore che ora - a malincuore - vedeva sbiaditi. Il mondo doveva averle fatto davvero male durante la sua assenza e per questo si odiò dentro.
    "Emilia impazzirà quando saprà che sei qui a New York." sviò i pensieri con l'escamotage di sua sorella. Non sapeva nemmeno lui come affrontare il mastodontico discorso che erano le loro vite, per questo fu più facile parle di quella di qualcun altro. "Rispondendo alla tua domanda, lei ora... " inciampò sulla lingua, incerto su come metterla giù. "...sta meglio. Non è un periodo facile per lei visto il suo problema peloso." ora anche mio, pensò e la mano istintivamente andò alla cicatrice sull'occhio; quella quasi invisibile che aveva dato il via a tutto. "Alla fine siamo finiti al Sacred Heart per colpa di una polmonite e non ci hanno più fatto andare via. Soprattutto i primi tempi non faceva che piangere il tuo nome." gli occhi si rabbuiarono per qualche istante, mentre il magone gli impediva di continuare.
    "Ci sei mancata tanto." in quel pronome condiviso si nascondeva un bisogno tutto personale. Per questo allungò una mano verso di lei, invitandola a prendere posto accanto a sè, a colmare quella distanza che sapeva essere necessaria ma che lo straziava nelle parti più intime del proprio essere.




    code role © hime. created for Brakebills GDR ma di libero usufrutto ovunque
  3. .
    Johy <3 e poi si vola da Emma e il bagno

    jackals
    influencer
    new york accent
    31 y.o.
    the empress
    diana gallows
    «Oh no, al contrario» un sorriso piegato negli angoli delle labbra, un punto immutevole che sa farsi affilato quando vuole. È la staticità ad essere un veleno che sopporta male, quando tutta la sua via è un caos che cresce e di cui tiene una presa talmente stretta da soffocare tutto ciò che è un contrasto inaccettabile. «Lo adoro» ma è cresciuta per essere immagine che può infilarsi ovunque, conosce i costumi di mondi diversi dal suo e sa indossarli uno ad uno senza che nulla possa mai spezzarsi. Sa come stare in un posto come quello senza che neanche un respiro sia fuori posto, ed è in fondo il punto divertente, quello di guardare ogni cosa che accade consapevole di avere nelle ossa un segreto che brucia il mondo. Lo sguardo si muove già in cerca di Emma, perché ha un bisogno che ossessiona le vene, e perché ci sono punti che sono interrogativi da snocciolare insieme, pezzo per pezzo, come fanno da mesi fianco a fianco. Ma non sposta mai gli occhi del tutto, tenendo ancora parte della sua attenzione ferma su Joshua. Anche nell’allontanarsi è un soppesare continuo, perché ogni cosa che fa lì è una mossa che deve sempre legarsi alle altre e dare di lei un disegno preciso, senza sbavatura alcuna. «Magari ci vedremo lì dopo» è un gesto leggero quello con cui lo saluta mentre intorno la musica si ferma e tutto va avanti, ma adesso non le importa quando ci sono urgenze che pretendono di più di un perpetuare regole che in fondo valgono sempre e solo in parte. «Ti dispiace accompagnarmi un attimo in bagno» rivolge un saluto a quello che quasi paradossalmente è il compagno di Joshua, una coppia divisa fra lei ed Emma in qualcosa che trova essere solo ironico. Allunga un braccio verso di lei, così che possano stringersi in quel punto, prima di muoversi verso i bagni con un sospiro che fa crollare la maschera solo nella stretta privata delle loro due esistenze, senza che ci sia spazio per nessun altro. «Ho bisogno di una botta, cazzo» glielo mormora piano anche se sono ormai lontane dalla folla e da orecchie indiscrete che non hanno diritto di ascoltare nulla di quello che scivola fra di loro. «Che vuoi fa’ co’ Riley?» le chiede mentre scivola dentro il bagno, controllando che sia vuoto prima di premersi di fronte allo specchio per darsi un’aggiustata rapida, quando in fondo non è di certo lì per questo.
    ©
  4. .
    tumblr_mt7cvfPiB21qmgkn7o2_250
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    Charlie
    kovacs - weasley. Idgie. 33 anni. licantropo . mamma . ex paramedico militare . queer
    casa di lara
    Almeno smette di parlare. Svuota la testa e si lascia andare all'istinto. Per un istante Joseph sparisce, così come Horace, Ben, e tutti gli altri che a modo loro sapranno occupare parte della propria attenzione. Cala il sipario della preoccupazione. Ogni velo viene reciso e non importa se sono ancora vestite, un bacio resta un bacio e Lara ormai sa com'è che bisogna guardare Charlie. In che punto la si scopre meglio. D'altronde è un libro aperto, anche se nascosto tra una maglietta e un paio di jeans.
    E la bacia. Si china verso di lei per compensare la differenza d'altezza e la bacia. Ancora e ancora, come se la vergogna o la reticenza fossero già andate a farsi benedire. Se la stringe al petto, come se andasse protetta e non fosse lei una di quelli che si occuperanno di mantenere le promesse. Con una mano le tira via la maglia dal collo. La spinge verso la spalla, come a scoprire quanta più pelle possibile. In un gesto che non è coordinato, ma che esce spontaneo. Perché parte dall'alto al basso e a Charlie pare di sbucciarla piano. Di scoprirla daccapo con più dedizione, con una lentezza diversa che scava nei dettagli, che si premura di imprimerne immagini sulle retini. Perché di Lara non ha voglia di perdersi nulla, nemmeno quando ancora non sono niente e probabilmente non lo saranno mai. Ma a Charlie non serve darsi un nome, quanto capire fin dove spingersi per sentirsi sempre così. Sempre così appagata, così maledettamente felice.

    "Ce la fai a guidarmi fino al piano di sopra?" un ansimo leggero che è preludio della foga del momento. Un prendere respiro dai baci solo per raccapezzarsi un istante e allora tornare a comprendere cos'è che la circonda. Dov'è che si trova, com'è che può muoversi senza buttar giù tutto. Anche se è lei la prima a spingerla contro il lettino. La prima a far scivolare le mani sui fianchi per serrarli meglio, per sollevarla lì.
    ©
  5. .
    mother — wiccan —rexana bishop— tattoo i-ii-iii-iv
    look — hakka — voice
    Non lo pensava possibile, ma si illuminò anche di più per la risposta, la conferma che avrebbero fatto qualcosa di così intimo, quotidiano, insieme, qualcosa che era anche così innocente che poteva non sentire la profonda ansia di ciò che fra loro tre non era ancora stato definito, e avrebbe richiesto intere ore. Ore per Pierre che si svegliava, speranza poi che lo facesse prima di dover andare a prendere Arkell, o addirittura avrebbero dovuto slittare quella conversazione a notte fonda, e sentiva di non poter aspettare così tanto.
    E poi la sua mano, uno sfioramento appena, ma fu capace di interrompere i pensieri. Si era sentita scossa, come da elettricità vivente, da bruciore, così breve e naturale che spalancava scenari in cui fosse possibile anche ogni giorno.
    Ma non ci voleva pensare, troppo precoce, già in grado di farla sentire in colpa per quella speranza che non sapeva nemmeno se potesse avere.
    «Inizia a prendere le uova e il latte in frigo» lei prese invece la ciotola e la frusta dal cassetto, la cannella, il cacao, possibili varianti della ricetta originale che potessero creare una colazione variegata e piena di scoperte. «Anche una mela e una banana» aggiunse, per un'altra idea improvvisa, pancake ancora diversi, che quasi non riusciva a pensare ad altro. Non fosse che ogni gesto, aveva pure il nome di Jean vicino, della sensazione di saperlo lì, a girare con naturalezza nella cucina, scoprire il posto dove tenevano questo e quello, essere a una distanza di pelle infinitesimale al punto che sentiva la sua gelare per immagini continue nella testa. Rimarcavano la notte passata, rimarcavano tante notti, i punti che avevano avuto in comune e le scoperte che invece erano state una sorpresa. Per una in particolare si sentì sorridere di nuovo, con le labbra che affondavano nelle guance sporgenti.
    Faticava anche a guardarlo troppo a lungo, come fosse troppo luminoso, così prese il latte e si lasciò sfuggire un'occhiata, poi con le uova, lo stesso teatrino, anche mentre mischiava ogni tanto alzava gli occhi e un po' le veniva da sorridere.
    Si fermò solo quando le saltò un battito, perché già da poche parole intuiva di cosa stesse per parlare. Non la sua conclusione, si era aspettata più la necessità di chiarire che avrebbe dovuto attendere, per quella l'espressione della sua faccia e forse il rossore la faceva sprofondare dentro sé stessa come una tartaruga nel guscio.
    «Anche io» poteva dirlo? Le venne il dubbio, ma solo dopo che era già uscito, che reclamava qualcosa di più, perché non sarebbe mai stato sufficiente a spiegare cosa avesse provato quel solo "sono stata bene". E infatti le parole premevano, doveva stare concentrata per non farle uscire tutte insieme, per dirgli quanto avesse pensato a lui, avesse voluto toccarlo, quanto la sciogliesse anche solo il ricordo di averlo baciato di nuovo, persino quel "ti amo" che gli aveva sempre detto e che le era stato permesso, e che in quel momento avrebbe significato però qualcosa di più che non poteva dire. «Mi sei mancato-» e troncò la frase perché già rivelare quanto le fosse mancato doveva essere un po' troppo.
    Riprese a mescolare, voleva evitare la tentazione di aggiungere altro, qualcosa di troppo, ma sentì l'istinto un po' più spudorato che era la sua vera natura, e alla fine lo guardò di sbieco con un sorriso diverso. «Hai un bel tatuaggio».
    pensievea.a.a.
    home — paleontologist — woman of letters — 32yo —
  6. .
    mother — wiccan —rexana bishop— tattoo i-ii-iii-iv
    look — hakka — voice
    Un sobbalzo, per quello che non si aspettava, ed era qualcuno sveglio così presto di mattina. Ed era pure un sobbalzo più forte, perché chiunque fosse, Pierre o Jean, era comunque motivo di un battito in più. Una mattina così strana, in cui anche la luce sembrava diversa e maggiore, come lo era il sorriso, che si allargò con una forza tale da darle l'impressione potesse divorare tutta la faccia. Si era sollevata di scatto, un istinto, anche se le pentole erano ancora a terra, eppure sapeva che non era stato quello a darle un capogiro.
    Dieci anni precisi quasi anche al mese, erano tanti ad essere passati dall'ultima volta che aveva potuto vedere Jean in quel modo, che l'aveva toccato e stretto senza nemmeno un filtro di stoffa, e sentiva l'ammontare di tutta quell'attesa pronta a implodere come la materia di una stella nascente.
    «Cazzo!» e quasi si trovò a urlarlo, non troppo perché Pierre ancora dormiva, ma abbastanza perché non riuscì a contenerlo, era il fiume che esondava da una fonte chiusa troppo a lungo. E di nuovo undici anni erano passati da quando invece si sentiva sulla soglia di un simile imbarazzo con lui, imbarazzo che non era disagio ma una trepidazione sottile, l'indefinitezza delle possibilità che potevano accadere e avrebbe voluto, ma che ancora non erano esistite. Come allora si tirò dietro i capelli, nervosa, guardò le pentole sul pavimento e si chinò a raccoglierle, e quasi poteva sentire la pelle fremere e poi tremare quando anche Jean si avvicinò e lei iniziava a mangiare un sorriso fra le labbra, divisa fra il guardarlo e poi distogliere gli occhi.
    Non sapeva cosa fosse successo, solo che era stato giusto e l'aveva sentito anche in Pierre quanto avesse solo iniziato qualcosa di perfetto che era specchio del loro spirito e affetto. Ma stavano danzando sull'indefinito, e questo non la rendeva sicura come aveva imparato ad essere anche con Jean, com'era nel suo carattere quando iniziava l'intimità. Sapeva solo che a quella distanza era irrefrenabile l'istinto a baciarlo, anche solo a strusciare una guancia contro il suo volto e sentire la carezza della barba scambiandosi dolcezze inevitabili come fossero ancora in Francia. E non sapeva se fosse possibile o un sogno da richiudere in un nuovo cassetto, diverso perché avevano temprato la nostalgia.
    «Bene» e continuò a parlare sfuggendo con gli occhi, proprio come i primi tempi in cui doveva dargli informazioni per la caccia ma già non riusciva a toglierselo dalla testa, quando a vederlo arrivare da lontano sentiva in lontananza la canzone di Top Gun come se risuonasse dentro l'aria.
    Stava più che bene, ma non avrebbe saputo come dirlo, forse lo facevano gli occhi che dovevano avere una luce tremante, li sentiva vibrare come se fosse materia fin dentro la sclera.
    Si alzò mettendo sul fornello la padella, abbassando un po' quella maglietta che teneva tutto scoperto e anche quello sapeva dei primi giorni in cui si scoprivano svestiti, adesso solo incerta se sembrasse troppo sfacciata a stare così quando poteva essere stata la fuga di una notte. «Volevo fare i pancake» nel mentre girava la punta del piede contro il pavimento, pensava a quanto naturale fosse al di là di tutte quelle incertezze, di quanto ancora più naturale sarebbe stato continuare una routine ormai persa nel tempo, ma che ancora si sentiva scritta nei muscoli. «Ti va di farli insieme?».
    pensievea.a.a.
    home — paleontologist — woman of letters — 32yo —
  7. .
    sheetvoicelookmusic
    eså åkerlund
    dėlïshk - DIMENSIONAL TRAVELER - HALF-GENASI - CĘRILLIĀN - 24 y.o.
    He was warrior and mystic, ogre and saint, the fox and the innocent, chivalrous, ruthless, less than a god, more than a man
    Gli avevo annuito quando aveva scandito quella parola. Me-mo-ria. Uno dei pilastri della mia vita, scandito così nitidamente da apparire quasi come un colpo, un pungo che non avrei potuto evitare neanche se ci avessi provato con tutto me stesso. Era importante, e allo stesso tempo era un macigno. Una forza di gravità a sé stante che mi trascinava in tutti quei punti, irripetibili, e che pure avrei potuto scrutare ancora ed ancora, come una malattia incurabile. Mi rendevo conto di quanto fossimo posizionati sui poli opposti dell’esistenza, sui poli opposti di quella stessa memoria che in modo diversi, contrastanti, ci rendeva egualmente schiavi. Non v’era mai scampo. Ovunque andassimo, chiunque fossimo, saremmo sempre stati schiavi di ciò che ricordavamo o di ciò che, invece, si era perso nei meandri del tempo. Lo guardai per qualche secondo. Non ero certo di poter aggiustare, di poter allungare le mani e ritrovare fra quei buchi dei pezzi che avrebbero potuto diventare, poi, un puzzle completo che di lui avrebbe restituito un’immagine più completa, meno spezzata. Ma lo sarebbe stata? Io conservavo tutti i miei ricordi, uno ad uno, eppure non sapevo dirmi meno sperso, rotto, di lui. Anche la memoria aveva il suo peso, così come la sua assenza, eppure non potevo essere il cieco giudice di quell’uomo. Non lo sarei stato di nessuno. L’uomo all’ingresso attirò la nostra attenzione e con un cenno, feci intendere a John che avremmo dovuto seguirlo per arrivare al nostro tavolo. Era una domanda così semplice la sua, scarna di ogni parola complessa che inevitabilmente, ne avrebbe compromesso la sincera e semplice intenzione. Ero sempre stato legato alle parole, ai discorsi, a quei concetti complessi da estendere lettera dopo lettera e frase dopo frase, ancora ed ancora, come se da solo e con la mia voce avessi dovuto riscrivere il Sarsham dall’inizio alla fine, e tenere pure conto dei suoi mutevoli confini. Eppure quella volta il mio vocabolario era limitato, tranciato di ogni complessità non poteva che esprimere, nel suo essere basilare, il cuore stesso di ogni pensiero. Non v’era spazio per altro in quella comunicazione stentata che doveva far conto di differenze invalicabili, ed in qualche modo la mia mente che era sempre stata aggredita da quegli stessi concetti di nebbia e polvere, doveva riadattarsi a qualcosa che, semplicemente, avrei potuto spiegare con un gesto. Mi sedetti, indicando per lui la sedia posta dall’altro lato del piccolo tavolo, prendendo un respiro mentre ancora ero consapevole di quella sua domanda sospesa che mi sembrava talmente carica, gravida, da scuotermi dentro le ossa. «Posso... » corrugai appena la fronte. Provare, tentare. Erano concetti astratti che non avrei saputo come mimare, come premere a fondo perché comprendesse quanto quella stessa promessa fosse non quella di una riuscita, ma di un tentativo. Era tutto ciò che potevo offrirgli, l’unica certezza che conservavo era quella che avrei semplicemente tentato tutto il possibile. Lo guardai ancora, lasciando andare un respiro con le sopracciglia ancora corrugate e ancora in cerca di una parola che avrei potuto spiegare perché ne comprendesse il profondo senso, e potesse afferrarlo. «Provare, sai cos’è?» glielo chiesi guardandolo, quasi dimenticandomi del tutto lo scopo primario, e molto più istintivo, per cui eravamo lì. Sapevo che quello era uno di quei ristoranti che usava delle immagini, delle volte, su alcuni piatti, ma non c’era modo di sapere cosa gli sarebbe potuto piacere, o per lui di comprendere tutto ciò che si trovava di fronte. Rinunciai a quel compito per il momento, decidendo di concentrarmi invece su quel punto spinoso finché il cameriere non fosse venuto da noi. «Io non sono sicuro di aggiustare» con lentezza, e ancora con il sussidio delle mani per quanto possibile, cercavo di iniziare anche a creare delle frasi più continuative. Forse era troppo, non ne ero sicuro. «Voglio provare» ancora quella parola. Mi resi conto di quanto fosse esattamente così: astratto. Il tentativo non aveva qualcosa di concreto con cui rappresentarlo, era una volontà. Era labile come il soffio del vento, come un sospiro nella notte. Un sogno ad occhi aperti. Quando si avvicinò il cameriere gli elencai una serie di piatti da portare al tavolo, insieme a due bottiglie d’acqua, una naturale ed una frizzante. «Sai cos’è una promessa?» una seconda domanda che per me era piena di valore, di un senso che sapeva di sabbia, di sole e di due lune, di notti lunghe e stelle infinite, di qualcosa che egualmente a tutto il resto, non avrei saputo come spiegare.


    Questo è quello che ha ordinato:
    Samosa
    Aloo Tikki
    Poori Chole
    Idli Sambhar
    Shai Paneer
    Paneer Tikka Masala
    Dal Tadka
    Aloo Gobi
    Bhindi Masala
    Banigan Bhartha
    Pollo Harayali
    Pollo Tandoori
    Pollo al Curry
    Capra Vindaloo
    Kashmiri Naan
  8. .
    mother — wiccan —rexana bishop— tattoo i-ii-iii-iv
    look — hakka — voice
    Strano vestirsi in un modo di nuovo diverso, che non era quello che dava l'aspetto di mamma, l'aspetto che voleva urlare al mondo, e non era nemmeno le vesti in cui si sentiva sicura. Era l'aspetto da lavoro, quello che la rendeva sempre nervosa, come fosse ancora in quei tempi passati in cui non riusciva ad andare a un esame perché non si sentiva mai preparata. Aveva dato un bacio ad Arkell lasciandolo con Pierre e se n'era presa pure un altro, un incoraggiamento per un giorno che aspettava e che diventava elettrizzante pure solo nell'aria che respirava. Una corrispondenza fitta, poi il silenzio, poi di nuovo la vita che rifioriva fra le antichità che tornavano alla luce.
    Sarebbe stata curiosa di vederlo se pure non ci fosse uno scopo dietro quell'incontro, l'occasione di poter tornare a fare quello che amava per davvero, e non solo nel tempo ritagliato per quell'altro bambino che sentiva così suo, come gli Uomini di Lettere. E pure paura ovattata, per quel legame ormai indissolubile fra lei e il suo Elqa, il suo spirito e i suoi sogni. Era stata l'ultima in cui l'aveva potuto vedere da fuori, quella in cui aveva pure fatto il suo tirocinio, e poi c'era stato il New Mexico e il convinto terrore che a tornare fra le sue anticaglie stesse fidando la sorte di una qualche maledizione. Si faceva coraggio perché voleva davvero sapere che volto avesse l'uomo con cui aveva scambiato idee e fonti, condiviso saggi e teorie, un appiglio estraneo al suo mondo che pure era stato così suo.
    Entrò nel cafè sapendo chi guardare perché ne aveva trovato una foto in una vecchia pubblicazione, ma le fattezze non erano mai paragonabili a quelle statiche e prive di vita, quelle che non erano gesti e movimenti che ne caratterizzavano tutta l'essenza. Ma lo riconobbe comunque, e questo generò un sorriso, aperto per quel successo e molto di più per tutto quello che significava.
    «Salve dottor Hill, sono un po' in anticipo» ma così era anche lui, e non poteva spiegare quanto strano fosse scoprire l'estraneità del primo contatto, un impatto peculiare, quando in quelle fitte mail si era trovata a parlare con qualcuno che le sembrava di conoscere da molto più tempo.
    pensievea.a.a.
    — no accent — paleontologist — woman of letters — 32yo —
  9. .
    wolf wool pack ▪ ex-whyos ▪ 31 y.o. ▪ sheetvoicemusiclook
    mitja

    grimes
    lycan
    theta
    russian
    adopted
    Se ci pensa è quasi assurdo che si trova qui, in questa situazione che è una bolla in cui sì, okay, c’è un po’ di spazio vuoto perché è sempre così quando qualcuno se ne va, ma loro stanno bene. E nessuno se n’è andato perché la situazione è diventata troppo un casino, troppo complessa, troppo una merda e non c’era proprio un cazzo di altro da fare. No, Noah è andato per stare a casa, più vicino alla sua famiglia, e loro si sentiranno e si vedranno, e lì ci sono loro tre che stanno bene e allora, ma che cazzo potrebbe volere di più dalla vita? Niente. Se si allunga ha la droga, gira la mano e prende un sorso di birra, dall’altro lato ha la sensazione di Lara, in testa i ritmi di Jesse che vanno avanti ancora ed ancora e non si fermano. E si sente in pace con il cazzo di cosmo. Si gira verso di Lara solo dopo la delucidazione di Jesse, e certo, ovvio, gli viene naturale da infilare la mano contro il fianco di Lara per solleticarla solo un po’, qualche secondo, i denti fuori nel sorriso e la testa che va sempre più veloce e corre verso le cose buone che ci sono proprio ora nella sua vita. Che è stata un macello, davvero un macello, ma è passato e in qualche modo è arrivato ad essere proprio qui, assurdo e fantastico. «Pizdièz1» ancora con i denti da fuori, prima di prendere il labbro inferiore in una morsa che gli lascia gli angoli in sù. «E hai capito tu, scommetto che è una gnocca, pizda2, vero?» ha il solo tono che può avere, perché le donne dei suoi compagni sono sempre intoccabili, e a lui importa solo punzecchiare Lara, come sempre. Si calma solo con un altro sorso di birra, un tiro di canna che accetta anche se è su di giri e gli piace esserlo in quel modo accelerato, infatti è solo uno prima che la allunghi e la faccia molleggiare in direzione di Jesse. Jesse che ne ha sicuro più bisogno di lui, cosa che sarebbe chiara anche senza quei cambi repentini di canzoni, e il muoversi, e tutto. «Io? No. Ma le cose che faccio per voi, Lara, le cose» un altro sorso di birra, la testa che preme più di lato solo per farla cozzare per un secondo contro quella di Lara. «Però, però, però, aspetta» si rimette più dritto per guardare di novo Jesse. «Voglio la meth, e facciamo serata fino al mattino, poi!–» si interrompe per un secondo e ne approfitta per un altro sorso di birra. «Ci devi dedicare almeno una canzone, così luci su di noi, momento pausa, mossa ad effetto e poi vado a farmi ammirare da vicino e mi porto qualcuno a casa, cristo devo scopare»


    1 cazzo
    2 fregna
  10. .


    Dorian Rivera
    'Cause our love is a ghost that the others can't see out





    Attimi di quiete. Per la prima volta, da che ne aveva memoria, il turbinio di pensieri che faceva da sottofondo alle sue giornate si era arrestato. Fremeva, Dorian, ma non di rabbia come era abituato. No. Fremeva di un'emozione fragile e vulnerabile, di una felicità che non pensava di poter ritrovare nel casino che era diventata la sua vita. Fece proprio ogni dettaglio: dal ruvido sfregare dei vestiti contro il viso, alla rigidità del suo corpo, per finire con il lieve tono di voce a cui si doveva ancora abituare. Se ne cibò con parsimonia, centellinando ogni secondo perchè acquistasse il valore che meritava, perchè la paura che potesse scomparire come fumo impalpabile lo artigliava ancora con forza.
    Però si concesse di sciogliersi, di godersi quegli attimi, e quando percepì le di lei braccia ricambiare lo slancio d'affetto le labbra si incurvarono in un sorriso ancora più accentuato. Socchiuse gli occhi e si beò del contatto, le dita trovarono naturalmente il loro posto contro la nuca di Beca. Gesti incerti che si tramutarono in una lieve carezza con i polpastrelli, le labbra poco sopra l'orecchio e immerse nei capelli biondi. Si era mosso memore di un passato fatto di corpi infantili, stropicciati dalle avversità di un'infanzia strappata: giacigli improvvisati, corpi stretti l'uno all'altro con la speranza di acquisire un po' di calore, vuoti colmati da carezze fugaci. Così come allora, concedersi quegli attimi di vulnerabilità non era cosa comune, mostrare il fianco scoperto significava mettere a rischio la propria sopravvivenza. Ma con Beca ogni regola si infrangeva contro il bisogno fisico di averla accanto, di assicurarsi che lei stesse bene.
    Dovevano re-imparare l'alfabeto dei loro corpi, capire dove inserire la punteggiatura dei gesti e la sintassi di un sentimento che non aveva definizioni. Ci sarebbe voluto tempo e Dorian, bruciasse il mondo, se lo sarebbe preso quel tempo. Non gli importava cosa avrebbe dovuto fare, ma le avrebbe concesso ogni cosa; avrebbe concesso loro quella seconda possibilità che, in più di un'occasione, aveva agognato nei propri sogni. Le accarezzò per un'ultima volta la nuca con gesti concentrici e leggeri prima di scostare lievemente i loro corpi e guardarla dritto negli occhi. Sciolse l'abbraccio e, con fare incerto, appoggiò la mano destra contro la guancia di Beca, sfiorandola con una dolcezza che non gli apparteneva.
    "Ilvermony?" la confusione prese spazio sul suo volto, ma non ce la fece a staccarsi da lei. "Emilia era lì..." lasciò la frase incompleta, a metà tra una risposta alla sua domanda e un quesito mal posto. Fece per concederle un'ultima carezza e poi abbassò il braccio, allungandolo verso la sua mano un'implicita domanda.
    "C'è molto da raccontarti, ma preferirei non farlo qui." ci tenne a precisare e se fosse riuscito a intrecciare le loro dita l'avrebbe trascinata con sè in direzione del proprio appartamento.
    Aspettò che la seguisse, i passi mal celavano l'agitazione interiore e per dissimulare ficcò la mano libera dentro la tasca della giacca, avviluppò le dita con forza attorno al taccuino e ricercò nella strada di casa quei punti saldi e familiari. Non ci misero molto ad arrivare in un vecchio palazzo bruno dall'aspetto fatiscente e dall'odore poco invitante.
    "Qui c'è casa mia." lo proferì a metà tra l'incertezza e la punta di orgoglio. Non poteva certo scordarsi di tutti i loro progetti verbali su una casa futura, un luogo dove loro tre avrebbero potuto allontanarsi da un modo che non smetteva di ferirli. Non sapendo in che situazione versasse ora, Dorian aveva timore di buttare sale su ferite ancora aperte, ma simultaneamente ricercava quell'infantile approvazione da parte sua. Le fece cenno con il capo di seguirlo prima di muoversi a sua volta e rinforzare la richiesta con la prossemica.
    Non ci vollero che tre rampe di scale mal intonacate e si ritrovarono di fronte a una porta che stonava accanto alle altre: ben messa, riparata in più punti e curata anche nella pulizia. Prese una chiave dalla punta liscia, solo l'impugnatura presentava un caratteristico cerchio alchemico inciso sopra al quale fece appello immediatamente. In pochi attimi la trasmutazione mettallurgica fece cambiare forma all'oggetto, facendole assumere la dentellatura scelta per quel giorno. Quando vivi senza un tetto e riesci finalmente a conquistarne uno la paranoia è compresa nel pacchetto. Quel posto, per quanto piccolo e dismesso, era diventato il suo posto sacro, il suo fottuto spazio nel mondo e se cambiare magicamente la serratura ogni giorno gli permetteva di aver un minimo di sanità mentale beh... chi era lui per sottrarsi.
    Si girò con il mezzo busto vesto di lei, un ghigno appena accenato, e aprì la porta. "Mi casa es tu casa." bonfocchiò lasciandole lo spazio necessario per entrare. Appena varcata la soglia Beca avrebbe visto una singola stanza dai toni freddi, meticolosamente organizzata in spazi ben definiti. A destra una piccola cucina con tavolino annesso, quasi a formare una ridotta penisola con sgabelli annessi. Di fronte, sulla parete di sinistra, una letto rifatto con precisione e sormontato da coperte e morbidi cuscini. In mezzo la grossa finestra ad illuminare un tavolino rotondo dove spiccavano le uniche cose fuori posto, ovvero i libri dell'imminente esame di psicocinesi.
    "Mettiti dove vuoi" le disse, indicandole il grosso e morbido tappeto ai piedi del letto, su quale erano poggiati - oltre al tavolino - pouf e cuscini dalle forme più disparate, dolce concessione di Emy. Donny, lasciata la giacca all'appendino all'ingresso, si diresse verso la caraffa di caffè presente sul ripiano della cucina, le spalle rivolte verso Beca, le mani indaffarate e tremanti, il cuore impazzito nel petto.




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    Aprì gli occhi in una ragnatela di luce che si districava dalla finestra, intrecci di braccia che non avevano smesso di restare avvinghiati pure quando le porte scure della notte si erano chiuse, e avevano ricoperto tutti e tre con un velo. Un sorriso che si stampo sulle labbra nel riconoscere un braccio diverso, uno preciso, che avevano messo tra loro come forma di legante. Voleva quel secondo in cui era sola sveglia e tutti ancora addormentati, per guardare come anche Jean fosse al posto giusto, una sensazione fisica che si impossessava del sangue, irrorava la carne, si faceva addirittura respiro. Sentiva il crepitio nel petto, iniziato da quando Pierre aveva avuto un'idea che subito aveva chiamato qualcosa tenuto in profondità, troppa la paura di rovinare qualcosa in quella cristalleria dove camminava con cautela. Eppure era stato stupido, perché c'era sempre stato qualcosa di più forte dell'intemperie, qualcosa di saldo, ma nell'indefinitezza di una situazione imprevedibile, il timore di perdere quello che c'era fra loro era stato più grande, e aveva richiesto delicatezza per ogni minimo gesto.
    Ora invece c'era la faccia di Jean, con gli occhi chiusi, sulle sue gambe intravedeva il profilo sottile del polpaccio di Pierre. Secondi in cui guardava solo quell'immagine, e poi le veniva da ridere, e si copriva la faccia con il lenzuolo.
    ma non voleva svegliarli, nessuno dei due, così cercò di scivolare leggera da sotto le coperte, camminava in punta di piedi con i calcagni freddi sul pavimento. Cercò con il silenzio di aprire un cassetto per prendere una maglietta, e si sentiva così stupida e leggera che ne scelse una che la faceva ridere quanto quello che era successo. Tutto cosparso di una sensazione effervescente. Un altro cassetto, dove prese degli slip e dei calzini, anche se fuori sarebbe stato presto caldo dentro c'era ancora il fresco della notte, ancora vicina, a quell'ora così precoce.
    Ancora in punta di piedi, cercò di andare fuori dalla stanza senza svegliarli, per scendere di sotto, verso la cucina. Era strano pure essere vestita, abituata com'era anche al clima della sua famiglia, quando Arkell non c'era aveva l'abitudine di girare nuda, come si sentiva a suo agio. Ed era strano, perché Arkell non c'era, l'avevano portato da Nova il giorno prima e sarebbero andati a prenderlo solo ore dopo, ma non sentiva la sua mancanza in modo così viscerale. Non vedeva l'ora di rivederlo, ma aveva una serenità diversa che dilatava il tempo e le forniva anche più calma.
    Cercò la padella per poter preparare i pancake, la colazione per tutti, ma nel tirarla fuori sentì il boato delle padelle che sbattevano cadendo fuori dal mobile. «Razzo» imprecò, anche senza Arkell ancora con la censura che si era costretta ad avere davanti a lui perché diceva troppe parolacce, e allora si era impegnata per edulcorarle almeno e farle essere diverse. Un'abitudine troppo radicata per non farlo anche quando era da sola.
    Sperava non si fosse svegliato nessuno, Pierre no di certo, e sorrise anche a quel pensiero, perché lui non si vegliava mai così presto anche quando era così imbranata da far crollare casa, quando passava l'aspirapolvere e pareva che neanche la fine del mondo avrebbe potuto disturbarlo al piano superiore.
    Cominciò piegata a terra a rimettere a posto, richiuse l'armadietto e si mise all'opera, più bello ancora aprire il frigo e sentire quella felicità comporre dieci ricette di pancake diversi, le voleva fare tutte, anche se ne sarebbe bastata una sola.
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    Dorian Rivera
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    Si concentrò sugli stimoli sensoriali che lo circondavano: il gracchiare nervoso dei clacson, l'odore acre dello smog, la brezza leggera di quel primo maggio. Si aggrappò come un naufrago nel mare in tempesta, ripetendo come una dolorosa litania ogni singolo frammento di realtà. Era un trucchetto che aveva imparato con la psicoterapia, soprattutto i primi anni - quando quella nuova vita gli andava troppo stretta - era stato ciò che gli aveva evitato di impazzire.
    Non passarono che pochissimi minuti prima che lo scampanellio gli annucciasse che lei era uscita. Il silenzio tra di loro spiccava nel concerto sgraziato della città, ma se lo concedettero. Abbassò le mani dal viso, passandole per un'ultima volta tra i capelli nel tentativo di calmarsi, e girò il busto nella sua direzione. Onestamente non sapeva cosa aspettarsi e per questo non ebbe la forza di rifiutare la sigaretta allungata da quelle mani sottili. L'afferrò con una solidità fittizzia e la fece scivolare tra le labbra un paio di volte prima di bloccarla e pizzicare l'estremita opposta con le dita. Bastò un piccolo e breve innesco elementale per accendere la stecca di nicotina: bruciò la carta e bruciò la gola, i polmoni, il dolore. Ormai perso in quel filone di ricordi, Dorian ripescò dalla memoria quei mesi che aveva condiviso con Beca e come le sigarette e il fumo avessero, in più di un'occasione, tenuto a bada i morsi della fame. Quando il cibo scarseggiava e dovevano razionarlo, centellinario fino all'ultimo, veniva spontaneo ad entrambi dare il poco che avevano ad Emilia. Così le labbra si stringevano attorno alla carta sgualcita e, inspirata una bella boccata di fumo, immaginavano lauti pasti in immacolate case. Quella mattina provò a chetare un fame diversa.
    Lasciò a lei le parole e il compito di colmare quella distanza che li divideva. Onestamente non gli importava cosa gli avrebbe recriminato, ne sentiva già le colpe incise nel corpo, e poteva illudersi che quella bocca parlasse per Beca. Per questo, quando le frasi incominciarono a inanellarsi una dietro l'altra, più sprezzati e crude, Dorian sentì nuovamente mancargli la terra sotto i piedi.
    La nebbia di poco prima si fece più rada e a mano a mano che lei parlava le immagini della sua Beca e di quella ragazza cominciarono a sovrapporsi. Come rapide stilettate, ogni più piccolo gesto divenne una realizzazione: l'arricciarsi delle labbro, l'incedere del corpo, lo scostarsi dal viso i capelli. La mano si bloccò a mezz'aria con la sigaretta stretta tra le dita, sul viso incorniciato dal fumo l'espressione più inebetita del creato.
    Ci mise qualche secondo di ritardo a metabolizzare le sue parole, il dolore della perdita ancora troppo viva, ma lentamente gli occhi gli si accesero di vitalità. Se si fosse soffermata sul suo viso probabilmente Beca avrebbe visto l'alternarsi di un variopinto ventaglio di emozioni: diffidenza, confusione, speranza, realizzazione, sollievo. A Dorian sembrò di ritornare a respirare dopo un'apnea duranta quattordici anni e gli angoli della bocca si alzarono in un sorriso che non aveva nulla a che vedere con la sua solita strafottenza. Dorian le donò un sorriso intriso del più sincero affetto, un sorriso che pensava di aver perso da tempo.
    "Cazzo, sì che sei una stronza Beca." rispose con lo stesso cameratismo e la fissò per qualche istante mentre finalmente le immagini dei suoi ricordi e la sua versione adulta trovavano un punto d'incontro. Inspirò a pieni polmoni l'ultimo tiro di sigaretta e la buttò per terra, incurante, tutto perchè la sua concentrazione era ormai direzionata verso di lei.
    Con poche semplici falcate la raggiunse e la cinse con braccia all'altezza delle spalle, spingendola contro il suo petto. Dalla trasformazione aveva incominciato a mettere su massa muscolare e, sebbene avessero la stessa altezza, lei risultava così piccola rispetto lui. La cosa gli piacque più del lecito. Incastrò il viso contro l'incavo del suo collo e inspirò l'odore della sua pelle, avido di dettagli e di quel calore che ricercava durante le notti più agitate. "Ti devo molto di più." borbottò contro la stoffa dei vestiti, il senso di colpa a inzuppargli le parole. La strinse più forte, quasi a volerla rendere parte di sé, prima di alzare il volto così che le labbra fossero vicino all'orecchio di lei. Gliele sussurrò come un'intima carezza, il respiro caldo a nascondere l'emozione. "Ti ho cercata così a lungo. Pensavo di averti persa."




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    Dorian Rivera
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    Sentì il cuore fermarsi nel petto. Bastarono poche semplici parole e l'unica cosa che percepì Dorian fu un fischio sordo, violento e improvviso, attraversargli le orecchie. Boccheggiò in cerca di aria ma sentiva la gola occlusa e i polmoni di cemento.
    temo per te che quella Beca sia ormai bella che andata.
    Quella frase poteva voler dire tutto e niente, ma alle orecchie del rimorso che lo fagocitava da anni era l'ennesima riprova che avesse fallito. I terrori più profondi si erano fatti carne e ossa e sangue e lui, nuovamente, non era stato in grado di evitarli. Cazzo, non era giusto. L'aveva cercata per anni, non subito per colpa di quei cazzo di servizi sociali, ma Dorian ci aveva provato. Aveva ripreso le vecchie vie battute, il ristorante e la linea dell'autobus su cui si fiondava per scappare inosservati. Era riuscito a sgattaiolare anche dentro la vecchia sacrestia della chiesa abbandonata, quel piccolo affratto dove si erano messi a pianificare una vita insieme.
    Non ce la fece a guardarla, gli occhi ormai lucidi e carichi di lacrime scottanti, pregne di sensi di colpa. Rimase, dunque, con il capo chino e i pugni serrati sulle cosce, il respiro sempre più corto e rapido. Dannazione, doveva riprendere il controllo immediatamente, prima che il dolore si trasformasse in rabbia e avesse una delle sue crisi.
    Eppure non ci riusciva, l'unico pensiero che veniva ripetuto ciclicamente nella sua testa era Beca è morta. C'era un incatesimo alchemico che aveva sempre attirato la sua attenzione: Sinestesia. La capacità di trasformare il flusso eterico di un evento e trasmutarlo in altro, ne rimaneva affascinato ogni singola volta. In quel momento gli sembrò di averlo attivato perchè dentro di sé sentì solamente il bianco dell'assenza, della perdita, del rimorso.
    Alla sua domanda alzò di scatto la testa verso l'alto nella speranza che l'umidità degli occhi si asciugasse. Estrasse velocemente dalla tasca dei pantaloni una piccola scatolina, dalla quale tirò fuori con mani esperte lo psicofarmaco e lo inghiottì con l'aiuto di un sorso di caffè. Ci mise pochi secondi e dopo aver poggiato la tazza in ceramica con un tonfo duro sul ripiano, girò la testa verso la propria interlocutrice. Probabilmente avrebbe notato il rossore di un pianto incompleto o il dolore inciso in cicatrici non visibili all'occhio umano. Si schiarì la gola e si strofinò la punta del naso con l'indice della mancina, quasi a dissimulare l'evidente crollo emotivo in essere. "Lei era la mia famiglia." si interruppe per la fatica di articolare le parole. "O almeno prima che venissimo divisi dai servizi sociali." non voleva dare troppe spiegazioni, ma se quella ragazza aveva conosciuto Beca allora forse poteva concedersi quella mezza verità. "Ho provato a cercarla..." altra pausa "per anni." provò a deglutire ma fu come inghiottire tizzoni ardenti. "Forse ti ha parlato di me, anche se conoscendola probabilmente mi odiava. Sono Donny." ce la poteva fare, bastava solo pronunciare una parola dietro l'altra. Si illuse di avere tutto sotto controllo ma quando provò a chiederle cosa fosse successo, iniziando con un semplice Sai cosa dovette interrompersi bruscamente. "Dammi un attimo." le buttò trafelato, uscendo a grandi falcate dalla porta del bar ma rimanendo davanti la grande vetrata, a portata di sguardo.
    Cazzo. Cazzo. Cazzo. Non ce la faceva a dirlo, a realizzarlo, anche solo a pensarlo. In tutti quegli anni aveva vissuto nell'illusione che lei avesse trovato una famiglia, che stesse bene e per questo non l'aveva più vista bazzicare i loro posti. Ora la verità era calata come una scure sul suo capo e l'unica cosa che voleva fare era urlare fino a perdere la voce. Immerse le mani nei capelli e si coprì il viso prima di bloccarsi immobile in mezzo al marciapiede. Col fiato sospeso in gola fece finta di poter cristallizzare il tempo: tutto pur di non sentire quel dolore.




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    mitja

    grimes
    lycan
    theta
    russian
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    Non ce la fa a stare a casa. Non è per qualche cazzata sentimentale (forse un po’ sì) ma più che altro una vera e propria incapacità fisica. Forse è che ha preso un po’ di roba, forse è che si annoia troppo facilmente, forse è che abituato ad avere una vita che è sempre una roulette russa e a lui piace così, piena di caos e cose da fare. Potrebbe essere che è sempre, o quasi, in botta di cocaina e questo di sicuro non aiuta a tenerlo calmo, ma è un ragionamento che non si possa pretendere faccia. È uno che vive così: a cazzo di cane. Ha dei metodi che sono abitudini radicate, e nessuna voglia di cambiarle. Quindi, ci ha messo poco a beccare il telefono, rigorosamente sbeccato in un angolo e con tanto di schermo che non si sa come si tiene su, e scrivere a Beca. Il fatto che ormai non stia più nel Bronx non ha fatto sì che perdesse certe abitudini, alla fine quando deve far festa, serata, è più o meno sempre lì che torna. E poi ci sono i suoi fratelli, lì, ed è sempre probabile beccarne uno o l’altro che ormai sono grandi e bazzicano nelle stesse zone. Ora, certo, non è sicuramente lui il fratello responsabile (per fortuna), ma è sicuramente quello che se hai un problema, va a prenderlo a cazzotti. La gente più o meno lo conosce, ha una nomea, ma se fa vedere il suo muso ogni tanto è meglio, così si ricordano a chi non rompere le palle. Essere stati incastrati per omicidio, essersi dati alla macchia e tutto, ha un po’ dei maledetti lati positivi. Ho preso roba, andiamo a far serata? Il succo è quello, quindi quello ha inviato. Non si è preso la briga di cambiarsi, sono cose del tutto futili per lui, invece si è infilato in macchina con una sigaretta in bocca, dopo aver tirato la prima botta della serata (forse sono anni che non guida senza essere almeno un po’ in botta, chi sa se ne sarebbe capace). Qualcuno gli ha scritto di una festa da qualche parte (c’è sempre una festa da qualche parte) e non gli frega neanche sapere molto altro, perché il giro è sempre quello, la gente pure e poi c’è la coca a risolvere più o meno tutto il resto. Probabilmente il rumore della radio avverte della sua presenza ancor prima che prenda il telefono per un sto giù, scendi rapido, mentre lui si accende una sigaretta. Porta da bere, aggiunge poco dopo, che era sicuro di avere qualcosa in macchina ma ci ha trovato solo una bottiglia vuota. Abba il volume solo quando la vede spuntare, piazzandosi un sorriso in faccia aspettando che salga in macchina. «He-yo, velikolepiye1» infila una mano in tasca, così da poter tirar fuori il sacchetto dove tiene la polvere. «Serviti, c’è una roba giù non ho capito dove ma l’ho piazzato sul navigatore» fa un cenno al telefono sul cruscotto, probabilmente pericolosamente destinato a cadere giù alla prima curva troppo stretta. «Ho anche qualche pasta se preferisci»


    1 splendore, ogni tanto dai lo vedi non è una bestia

    Edited by usul; - 3/5/2024, 18:40
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    Diana & Chrys ,
    bonus: fissiamo un secondo Emma
    C6RRC2C
    C6RRC2C

    Joshua Çevik

    mago nero | rockstar | marito & padre | 30 anni
    luce di speranza
    A me non frega un cazzo di quello che vuole dirmi, del modo in cui stiamo ballando, dei sorrisi affilati che ci scambiamo. Qualunque cosa ci sia qua sotto non mi interessa, sono un coglione, amore mio e questo resto. Sono quello che non balla, se non con te, per un fottuto matrimonio.
    Ma se spingermi così serve a farti parlare nella mia testa, allora magari ti renderai conto che è con me che stai ballando, anche se non ci stringiamo.
    Già, ché a sta cazzo di cosa voglio porre rimedio.
    Anche se quello che mi dici mi fa sentire fottutamente osservato, e così va bene. Così va di cristo.
    Per questo tira e molla sento che ti stai già stancando, Chrys. Ed io sorriso, stranamente convinto di aver già vinto la tua gelosia sulla mia pelle.
    "Non ti piace quando le cose si movimentano?" le chiedo, rallentando i passi sul calar della musica. Un valzer, grazie a Tharizdun, dura poco o niente, un'apostrofo tra la tua voglia di variazioni sul tema, amore mio, e la mia di stare lontano da questi stronzi. Loro che sono casa tua, la sua dimora, la società su cui t'imponi per la creatura meravigliosa che sei.
    Mia, e meravigliosa. E preferisco essere un trofeo che un ballerino. "Mi rendo conto che sono più un marito trofeo che un ballerino da sala" lo dico anche a lei, allentando piano la presa, proprio quando dai sfoggio di te.

    /Vieni nel mio angolo a rinfrescarti la cipria, Cowboy/ è un ringhio che ti faccio arrivare alle tempie, Chrys, mentre lentamente mi inchino come gli altri manichini, alla mia temporanea dama. "Allora ti farò sapere se anche per me questo open bar vale la pena" un congedo, in un sorriso che si spegne quando mi sposto, quando i miei passi mi portano quasi dietro di te, Chrys. Quando il mio secondo ringhio ti può gelare il sangue così come può mandarlo in fiamme. Uno sguardo ad Emma, diretto, occhi negli occhi. /Ora/ diventa un ordine, un gioco al rialzo, vieni qui a ballare con me, smettila di fare la cavalletta con altri.
    ©

    Girovita Lotteria: 69
575 replies since 5/9/2015
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