Sometimes words have two meanings.

Tristan & Dulcinea.

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    tristan lucifer ivashkov 23 YEARS OLD ♔ II YEAR ♔ CHARACTER SHEETVOICE
    So all that I’m trying to say I’m looking for a better way;
    some days it just gets so hard, and I don’t wanna slip away.

    L'acqua scendeva sul suo corpo, le gocce che non facevano altro che disegnare la sua fisionomia: quelle goccioline, presenti in particolar modo sul ventre, sembravano, attraverso una danza imprecisata e sconosciuta, ricalcare i suoi addominali ad uno ad uno. Ne percorrevano ogni singolo lembo con molto affanno, quasi sperassero di ricongiungersi alle loro sorelle; un po' come facevano gli affluenti di un fiume che, giunti ad un certo punto, si incontravano e facevano sì che le loro acque, benché reduci da dei percorsi diversi, si unissero senz'alcuna distinzione; senza se e senza ma, andando incontro alla medesima fine. Il petto continuava ad alzarsi ed abbassarsi seguendo il ritmo del respiro, gli occhi erano appena socchiusi e leggermente arrossati per via del vapore sprigionatosi dall'acqua calda, ed i muscoli, a poco a poco, non facevano altro che rilassarsi sempre di più, godendosi appieno quei pochi istanti di rilassamento che, nell'ultimo periodo, erano diventati sempre più rari. Un nuovo anno accademico, infatti, era cominciato al Brakebills; e benché i mesi precedenti non fossero stati esattamente una passeggiata di salute, Tristan era ancora lì, all'interno di quel prestigiosissimo College che ospitava maghi e maghe provenienti da tutte le parti del globo terrestre. Francesi, Russi, Americani, Italiani, Cinesi. Erano tutti lì, residenti nel medesimo edificio, costretti ad una convivenza che forse, in gran parte dei casi, non sarebbe stato nemmeno del tutto errato definire forzata: stili di vita differenti che si scontravano tra loro, folklore che incontrava altro folklore, abitudini che si miscelavano con altre abitudini del tutto diverse. E poi c'era lui, Tristan, "il sanguesporco" (così era stato chiamato, una volta), che se ne stava ad osservare il mondo, apparentemente senza prenderne parte; in realtà relazionandosi ad esso soltanto in determinati momenti della giornata, o, ancora meglio, quando gli andava sinceramente di farlo. E quello, credetemi, era il momento giusto.
    Uscì dalla doccia, sul pavimento una scia di goccioline cadute dal suo corpo durante il brevissimo tragitto che lo riportò in camera; piccoli schizzi d'acqua che furono la prova più concreta ed evidente del suo passaggio, che lo portò fin davanti l'armadio. A differenza di molte persone, il guardaroba di Tristan non vantava chissà quanti vestiti: qualche t-shirt qua e là, qualche camicia, qualche paio di pantaloni, ed ecco che il suo stile poteva essere descritto ben poche parole. Tendenzialmente, mirava perlopiù a vestire abiti che lo facessero sentire comodo; ma quella sera, se lo sentiva, sarebbe stata diversa dalle altre: estrasse la sua nuovissima camicia bianca, semitrasparente, e la indossò; lasciando tuttavia sbottonati i primi tre bottoni. Da quell'apertura, dunque, era possibile vedere una piccola parte del suo petto e la catenina da cui penzolava il suo catalizzatore, perennemente a contatto con la sua pelle, quasi facesse parte del suo stesso corpo; mentre i tratti decisi e candidi di quel tessuto mettevano in evidenza le sue ampie spalle. Le gambe, invece, poco dopo vennero fasciate da un paio di jeans blu scuro che sottolinearono la magrezza delle sue gambe; mentre i piedi vennero infilate all'interno di Frau nere come la pece. Diede poi un'occhiata allo specchio e, osservando il suo riflesso, capì: era pronto.

    La strada si consumava sotto il suo sguardo distratto, mentre, attimo dopo attimo, finiva sotto le ruote della decapottabile di Hisaki, quello strano tipo che lo aveva letteralmente introdotto a New York attraverso una semplice scommessa, salvo poi far trasformare il tutto in un qualcosa di più... profondo, in un certo senso. Non erano amici, ma non erano nemmeno estranei. Si guardavano, si scambiavano sguardi, ma in realtà non si conoscevano per niente; o meglio, Hisaki non conosceva assolutamente nulla di Tristan: con la parlantina che aveva, era più facile che si perdesse all'interno dei suoi stessi discorsi, piuttosto che si rendesse conto del fatto che il suo "fratello" (così aveva preso a chiamare Ivashkov dopo una mirabile serata passata all'interno di una sala da poker) non lo ascoltasse minimamente, o che comunque non partecipasse più di tanto ai suoi monologhi. Anche in quel momento, le cose non stavano di certo andando diversamente: Hisaki, parlava, parlava, parlava; e tutto ciò che diceva, si confondeva con il suono della versione live di Stairway To Heaven, che adesso veniva riprodotta dallo stereo della macchina, donando quindi una piccola nota di dolcezza a quell'interminabile tortura. Non chiudeva mai la sua bocca, l'asiatico, se non, ogni tanto, per deglutire un po' di saliva. Guidava in un modo un po' scomposto, il tasso alcolemico che sicuramente superava il limite previsto dal codice stradale; mentre Tristan se ne stava lì, seduto al posto del passeggero e con l'avambraccio poggiato sull'estremità superiore dello sportello. Gli occhi erano perfettamente spalancati, sebbene un po' assonnati per via della tarda ora (dovevano essere, su per giù, le due del mattino), ed il viso veniva costantemente solleticato dalla dolce, fresca brezza notturna. Un piacevolissimo odore ferroso galleggiava nell'aria, segno che avesse da poco smesso di piovere, e sull'asfalto, i riflessi dei lampioni e dei vari edifici, apparivano come dei disegni piuttosto grossolani, dai contorni non ben definibili; quasi come se qualcuno avesse infilato un dipinto ancora fresco all'interno di un secchio d'acqua e poi l'avesse tirato nuovamente fuori, palesando un mix di colori indefinibili e forme a dir poco inesistenti.
    Con nonchalance, portò il bordo della bottiglietta di Tennent's alle labbra, e quando piegò il capo all'indietro, di modo che la birra potesse scorrere all'interno della sua bocca, scivolò soltanto un'insulsa gocciolina: indispettito, dunque, allontanò il recipiente e lo osservò con i suoi occhi, per poi scuoterlo appena; realizzando così che, in effetti, la birra fosse finita. Eppure, fu proprio attraverso quel gesto apparentemente innocente ed irrilevante, che una nuova realtà gli si parò davanti agli occhi: la città scorreva proprio lì, attraverso quel vetro verde scuro; e gli edifici, a quel punto, cominciarono ad apparirgli talvolta tremendamente piccoli, altre volte, invece, sorprendentemente enormi. A quel punto, dunque, la domanda che irruppe nella sua mente e che uscì inconsapevolmente dalle sue labbra, fu piuttosto ambigua. «Hai mai pensato a tutte le cose a cui non abbiamo mai fatto caso?» Biascicò senza distogliere lo sguardo dalla bottiglia, incurante che avesse appena interrotto il lungo monologo di Hisaki. «Ai dettagli, intendo. Oppure alle cose apparentemente più insignificanti. Ci hai mai pensato, Hisaki?» E a quel punto, gli occhi verde-azzurri si posarono sulla figura dell'asiatico, constatando che egli avesse distolto per un attimo lo sguardo dalla strada. «Sei ubriaco.» Disse, secco, sicuro di sé, come se quella fosse la realtà dei fatti. Ma non era così, affatto: Tristan era fin troppo lucido, quella sera. La sua temperatura corporea era salita per via dell'alcool che aveva ingurgitato, vero, ma era ancora in grado di ragionare e di reggersi in piedi. «Guarda che sono molto più lucido di te, coglione!» Ribatté lui, per poi passare la bottiglia di birra alla sua mano destra, la quale, subito dopo, si allungò oltre il finestrino e, con una certa noncuranza, lasciò cadere l'involucro di vetro come se nulla fosse. Tutto quello che udì, fu solo un piccolo tonfo. «Ah sì? E cosa te lo fa pensare?» Domandò Hisaki, scettico, spostando per un attimo lo sguardo dalla strada. «A parte l'aver imboccato una strada contromano? Beh, il fatto che tu stia guidando da tre ore con il freno a mano alzato, se proprio lo vuoi sapere.» Un sorrisetto beffardo si palesò sul suo viso, mentre l'Asiatico batté le palpebre ed abbassò lo sguardo, constatando che Tristan avesse ragione. «Ecco perché cammina più piano del solito!» E con queste premesse, il sanguesporco cominciava quasi a pensare che non sarebbero mai riusciti ad arrivare vivi al locale. Ebbene sì: lo show doveva andare avanti anche se tra qualche ora sarebbe sorta l'alba; a costo di non tornare al Brakebills!
    Fortunatamente, però, andò tutto bene: tra frenate brusche, sterzate improvvise, sorpassi pericolosi ed altre cose che avrebbero violato il codice stradale, i due riuscirono miracolosamente a giungere presso il posto prestabilito: Hisaki sembrava piuttosto frastornato (probabilmente tutte quelle curve avevano messo a dura prova il suo stato psico-fisico, che al momento non era dei migliori); Tristan, invece, per poco non baciò l'asfalto. Niente di tutto ciò, tuttavia, impedì loro di entrare all'interno del locale. Si trattava di uno spazio più o meno ampio, situato nel cuore di New York, dove la movida era quello che era; e le luci, al suo interno, erano soffuse: un gioco di blu e rosso s'impossessava di tutta la stanza; un connubio che non recava particolare fastidio ma che, al contrario, riposava appena gli occhi, per quanto gli riguardava.
    Hisaki sparì immediatamente, probabilmente troppo impegnato a fare la corte a qualche giovane del posto.
    Tristan, invece, si guardò intorno: dei divanetti di pelle poggiavano contro le pareti; nel centro del locale erano posti alcuni tavoli con sedie annesse; mentre, appena alla sua sinistra, era presente un tavolo da biliardo. Di fronte a lui, un bar. E fu proprio lì che si diresse: si avvicinò al bancone piano piano, facendo un passo alla volta, e prese posto su uno sgabello. «Un Black Russian.» Sibilò senza alcuna esitazione, prima che il barman annuisse e si cimentasse nella preparazione del drink appena ordinatogli. Nel frattempo, dunque, il ragazzo estrasse tutta la sua attrezzatura e si prodigò di rollare una sigaretta: si portò un filtro alle labbra e, senza staccarlo dalle labbra, sistemò il tabacco su un pezzetto di carta rettangolare. Fece dunque convergere quel tripudio di nicotina al centro, per poi posare il filtro all'estremità e leccare la cartuccia con la lingua, facendola richiudere su se stessa. Furono tutte azioni meccaniche, quelle, dettate da tutta l'esperienza che aveva acquisito nel corso degli anni e che, ne era sicuro, non l'avrebbe mai abbandonato. Le mani, allora, s'infilarono nuovamente nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca di un accendino, ma quando le dita cominciarono a tastare quella zona circoscritta, tutto ciò che poterono sentire sotto di loro fu soltanto il tessuto. Nient'altro. Si guardò a destra, poi a sinistra, e fu in quel momento che individuò una figura femminile seduta ad uno sgabello di distanza da lui; una ragazza che doveva avere su per giù la sua età. «Dolcezza, avresti per caso un...» Il suo sguardo, a quel punto, si assottigliò, e per la prima volta riuscì a cogliere dei dettagli cui inizialmente non aveva nemmeno fatto caso. Quei capelli color oro, gli stessi che aveva visto di sfuggita poco prima, incorniciavano un viso sì giovane, ma anche un po' più adulto rispetto a quanto si ricordasse e perfettamente roseo; mentre gli occhi cerulei, né troppo piccoli né troppo grandi, sembravano possedere una sfumatura leggermente diversa, rispetto a quella che avevano qualche anno prima. «... accendino.» Completò la frase con fare distratto, quella parola che gli sembrava tremendamente lontana, come se non fosse stato lui a pronunciarla. «... Dulcinea?» A quel punto, pronunciare il nome, quel nome, fu inevitabile. La sua voce era un po' roca, l'espressione particolarmente stranita e disorientata, ma la sorpresa che traspariva da essa era palese. «Cristo, ne è passato di tempo!» Esclamò poco dopo con le sopracciglia aggrottate; come se, effettivamente, avesse pensato a ciò proprio in quel momento: insomma, quanti anni erano passati? Due? Tre? Qualunque fosse la risposta, tuttavia, forse non era poi così rilevante. «Che ci fai, qui?» A quel punto, la domanda gli venne quasi spontanea, ma di certo non la pronunciò con fare molto sorpreso: Dulcinea era sempre stata uno spirito libero, una persona che seguiva il proprio istinto, senza badare a ciò che gli altri si aspettavano da lei. Esattamente il tipo di ragazza che più intrigava il giovane Ivashkov, che era entrato a far parte della sua vita dapprima come spacciatore (all'epoca, difatti, era solito viaggiare per via del suo lavoro), e poi come un vero e proprio amante.
     
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    I love Puddin'
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    Dulcinea Angelique Verhoeven Beelzebub has a devil put aside for me

    Rumori e ombre bianche s’addensavano intorno a lei in un turbinio di movimenti affannati, quasi angoscianti, perdendosi come fumo diafano in frantumi oltre la sua visuale, Dulcinea percepisce a malapena le membra del proprio corpo, immobilizzate da molteplici stringhe di cuoio e una camicia di forza fin troppo grande per una bambina. Vuole aprire gli occhi ma non osa darsi un così terribile spettacolo, li tiene socchiusi e le iridi adombrate dalle palpebre violacee restituiscono un fantasma vacuo, informe di una realtà fin troppo conosciuta. Medici, infermiere, diavoli candidi, mostri…ma chi siano o cosa stiano per fare non ha particolare importanza. Sente lo sfrigolio incessante di apparecchi metallici vicino alla sua testa, un concerto infernale perché Dulcinea lo sa, l’ha sempre saputo di essere dannata, “povera sventurata”, ma non piange, non ancora, le lacrime rapprendono fra l’azzurro ceruleo e le ciglia bionde come sottili aghi di luce mutando in acido, quanti sogni bruciati dal rancore ancora prima di divenire nuvole, dimenticando di abbeverare le guance calde, rosee di un’innocenza sconosciuta perfino a Cristo, quella di una bambina, una voce e un’altra ancora, una ragnatela di suoni grotteschi, un nido di vipere intrecciate con sangue e veleno…poi il dolore nitido dell’ago sotto la pelle, il sapore delle pastiglie che incontra la gola in un urlo strappato, l’odore nauseante dei farmaci è il sipario del buio più assoluto…


    Un torbido groviglio di lenzuola giaceva ammassato ai piedi della francese la quale si mise a sedere velocemente sbattendo le palpebre, assicurandosi che anche i più piccoli avanzi di incubo si sciogliessero contro la sottile velatura che appannava lo sguardo. Sogni del genere infestavano quasi tutte le sue notti fin da quanto riuscisse a ricordare, i ricordi così sfocati e inafferrabili di giorno divenivano luminescenti al chiudersi degli occhi, e tutto il dolore prima accartocciato come la lettera di un amante disperato poi gettato in un angolo inaccessibile della mente improvvisamente si rivelava per quello che era, una ferita mal suturata dalla quale ancora sgorgavano fiotti di sangue, ma non poteva dirsi routine.
    A certe cose non ci si può abituare.
    Istintivamente le dita scivolarono sul ripiano rigido del comodino abbandonandosi ad una ricerca svogliata del proprio smartphone, Dulcinea poggiò lo schermo luminoso sulle gambe intorpidite dal brusco risveglio e in parte dall’esercizio fisico del pomeriggio, era rimasta in palestra fino alle nove di sera ragion per cui, come aveva immerso la testa fra tre cuscini “requisiti” a due distratte donne delle pulizie si era addormentata. Strabuzzò gli occhi davanti alla luce artificiale emanata dal vetro, ci vollero ben cinque secondi prima che la bocca carnosa di Dulcinea si distorcesse in una smorfia disperata mentre la testa assorta in ridondanti dondolii si abbattesse simile ad una meteora dorata sul materasso. Tre minuti a mezzanotte. La peculiarità più fastidiosa di quegli incubi era che essi prosciugavano letteralmente ogni traccia di sonno lasciando il corpo a macerare nella notte, in balia dei propri pensieri, ma la francese non era certo il tipo paziente e sognatore che attende nell’agonia del buio la morbidezza delle braccia di Morfeo, decisamente no. Quasi colta da un’improvvisa scarica elettrica balzò giù dal letto emettendo un gemito nel momento in cui il tallone incontrò quello che con ogni probabilità doveva essere il gancio di un appendiabiti, assottigliò le iridi cerulee fiondandole sul pavimento nel punto preciso ove aveva percepito dolore dando il via ad una serie di movimenti nonchè imprecazioni che mai nessuno avrebbe accostato ad una signorina diplomata all’accademia di Beauxbatons. La soddisfazione s’impresse fra le sopracciglia disegnando due archi delicati quando la sagoma altrettanto nera di un abito emerse dalla penombra, le screziature argentee faticavano a coglierne i dettagli ma poco importava, il vestito per lei non aveva mai avuto la priorità assoluta; percepì parecchia pelle rimanere nuda malgrado la stoffa, lasciando scoperte le spalle, la miriade di tatuaggi che marchiavano l’incarnato d’oro e le gambe prontamente avvolte in un paio di parigine in stile retrò traslucide pescate nel cassetto lasciato perennemente aperto. I piedi calzarono tacchi nero corvino mentre gli aghi della spazzola domavano il crine biondo lasciando le ciocche ricadere sulle spalle come stelle bruciate, odiava pettinarsi troppo i capelli, al contrario di molte amava la naturalezza con la quale si arricciavano nelle giornate uggiose o si scompigliavano sul capo per una folata di vento, vi era un nonsoché di indomito, incalcolabile come il cadere delle foglie in autunno o il battito impetuoso della pioggia contro il vetro.

    ***



    Lo smog era una venere grigia senza forma ,vestita d’aria con dita di fumo avvinghiandosi possessiva rumori incessanti, come l’edera gentile inanellava le betulle nel parco urbano: la sirena della polizia, un colpo di clacson, voci screziate prive di volto morenti ,scottate dalla luce artificiale affissa sui grattacieli, la ragazza storse il naso davanti all’arazzo di odori graffianti della città, acri e ardenti permeavano fin sotto l’incarnato gelido, profumato di vento notturno e tabacco aromatico, la suola troppo alta sferzava il cemento, fiera come uno sparo perso nel vento, i tacchi a spillo veloci nel tentativo calpestare i pensieri amari. Dulcinea camminava da più di un’ora ormai verso una meta ancora imprecisata, ma più le gambe la sospingevano in avanti, più la brezza notturna arruffata dall’odore d’acqua piovana le intimavano di non fermarsi e ben presto la francese abbandonò l’idea di riuscire a riaddormentarsi per quella sera. Un rombo nel cielo convinse la bionda ad affrettare il passo, nuvole in ferro battuto e chiodi s’addensavano sopra i grattacieli divorando fameliche le stelle, la ragazza si passò le dita sulle labbra improvvisamente colta da una voglia irrefrenabile di fumo, fiondò l’intero braccio nella borsa riuscendo ad estrarre l’agognata sigaretta, la quale fu subito incastrata fra le labbra aride, cercò quindi l’accendino nelle tasche ,avanzando imperterrita nonostante non stesse degnando di uno sguardo la strada, imprecò sottovoce per la quantità di cianfrusaglie contenute in esse: svariati foglietti macchiati d’alcool contenenti numeri illeggibili, le chiavi di zia Léa, il suo telefono, pastelli a cera, rossetto senza cappuccio, una carta poker recante il jolly, un cappellino da baseball rosso, bianco e blu degli Yankees, soffocò a stento una risata stringendola forte fra denti, scosse la testa cospargendo le spalle di ciocche arricciate, ancora incredula dal ritrovamento<< Mio dio e questo? Come c’è finit… >> Non terminò la frase perché un uomo enorme le prese contro facendole cadere la borsa il cui contenuto rovinò sul cemento. Dulcinea quasi perse l’equilibrio a causa dell’urto, un lieve rossore fiorì colorito sulle gote mentre la rabbia le fece serrare involontariamente la mascella riducendo la bocca ad una sottile cicatrice rosa, si chinò radunando tutte le sue cose aiutata dal un cameriere del locale lì accanto che aveva visto l’accaduto << Grazie >> disse dedicandogli un sorriso sincero più freddo di quanto avrebbe voluto, era troppo arrabbiata, la rabbia scottava nelle vene dando fuoco al sangue, si girò di scatto guardando feroce l’uomo già in fondo alla strada << Ehi! Razza di stronzo!>> sbottò rivolgendosi alla grossa figura vestita in jeans e t-shirt azzurra picchiettata da svariate macchie, mal conteneva una pancia che avrebbe fatto invidia a una donna incinta. L’uomo voltatosi le rivolse un’espressione di puro scherno, continuò a camminare come se nulla fosse; il blu negli occhi di Dulcinea brillò mentre il sottile velo che spaziava fra pensieri e azioni si rompeva come cristallo, << Ah è così eh?!>> sussurrò portandosi una mano alla scarpa sinistra, poi senza esitare ulteriormente, prese la mira e la lanciò con forza. L’arma improvvisata colpì in pieno la schiena sudaticcia dell’uomo, il quale dopo diverse imprecazioni si toccò la colonna vertebrale dolorante. Una risata tutta zucchero e divertimento si perse fra i rumori del traffico cittadino, Dulcinea piegata in due dalla soddisfazione sentiva le lacrime imperlarle come rugiada le folte ciglia affilate di trucco nero, la vendetta le carezzava dolce la gola spegnendo il nervosismo di poco prima; con avanzi di risate crepitanti sulla lingua Dulcinea cominciò a correre per la via di New York, scalza, con la borsa in una mano e la scarpa superstite nell’altra inseguita dalla vittima del suo tacco a spillo, la pioggia fredda iniziò a cadere, la ragazza sentiva il proprio corpo vivo, pulsante di battiti ed emozioni dissonati, pelle incandescente a contatto con i sottili dardi d’argento scagliati contro cemento e asfalto, i vestiti appesantiti dall’acqua i capelli gocciolanti profumati di nuvole, sorrise quando gli occhi incontrarono il giallo canarino di un taxi fermo, ebbe appena il tempo di constatare che fosse libero prima di catapultarsi all’interno del veicolo, chiudere la portiera e intimare al guidatore di partire. Scorse dal finestrino sporco e leggermente appannato il suo inseguitore, anch’egli fradicio urlare qualcosa ma lei si limitò a sorridergli soddisfatta agitando la mano prima che l’auto si perdesse nel traffico. << Dove?>> chiese la roca voce del tassista dal sedile anteriore, Dulcinea abbandonò la schiena contro la pelle del sedile impregnata dall’odore di fumo stantio e polvere prima di << Houston Street >> rispondere sedendosi a gambe incrociate per evitare che i piedi sfiorassero il tappetino lurido del veicolo, controllò che per lo meno il contenuto della borsa fosse asciutto soffocando parole ben poco raffinate nello scoprire il suo pacchetto di sigarette simile ad un acquario per i pesci << Ha una sigaretta?>>domandò staccando la mano dal sedile per riassestarsi qualche ciocca dietro le orecchie. L’uomo non rispose alla sua domanda continuando imperterrito nella guida, la strada scivolava veloce sotto le ruote dell’auto mentre Dulcinea con qualche semplice incantesimo soffocato tentava per lo meno di asciugarsi i capelli, il tassista non avrebbe detto nulla, probabilmente aveva visto cose più strane lui di lei in centro a New York.
    Houston Street era il classico quarterie periferico di una grande metropoli, disseminato da locali aperti fino a tarda ora il cui odore di erba e fumo stantio cosparge perfino l’atrio della sala, con una sola scarpa in mano la francese entrò nel primo adocchiato, essendo scalza meno strada percorreva più i suoi anticorpi l’avrebbero ringraziata i giorni seguenti; lo sguardo azzurro si posò distratto prima sui divanetti in pelle accarezzati dalle flebili luci a neon successivamente sulle grandi bottiglie in ordine poggiate sopra lo scaffale del bar. Dulcinea liberò un sospiro flebile dalle labbra rosee curvate appena verso l’alto, i pochi occhi presenti puntati come frecce su dei, pronti a scoccare i commenti più feroci sul corpo troppo esposto, i tatuaggi, le parigine, i capelli… ma ad ogni occhiata la bionda rispondeva con un con un movimento secco del capo e un’espressione beffarda, non perché si considerasse intoccabile, tutt’altro era più umana di quanto non volesse ammettere, ma nell’anima aveva così tante cicatrici che un segno in più o uno in meno non avrebbero fatto alcuna differenza, come l’universo infinito, dolore aggiunto al dolore avrebbe fatto sempre e comunque dolore. Si sedette sul primo sgabello libero facendo dondolare i piedi in maniera quasi infantile prima di scaraventare la borsa e la scarpa superstite sopra il ripiano del bancone << Un bicchiere di assenzio nero >> esordì con un sorrisetto smagliante passando le dita sul tacco superstite, sperando così di invogliare il barista ad ingranare la marcia, strategia efficace poiché pochi istanti dopo il liquore scorreva a piccoli sorsi nella gola della ragazza. Il calore aumento di colpo e Dulcinea fece ondeggiare la testa all’indietro percependo il sangue affluire contro la pelle, per nulla al mondo avrebbe distolto l’attenzione dalla propria bevanda ma una voce maschile la convinse per lo meno a posare le iridi color cielo spezzato sulla figura seduta accanto a lei << Lo sai che l’ultima persona che mi ha chiamata così è finita con la bandiera del giappone su per … non è possibile! >> sentì le parole ricadere verso il basso e rimanere intrappolate in una gabbia di respiri, non sembrava possibile, se qualcuno glielo avesse raccontato sarebbe scoppiata a ridere; la bocca di Dulcinea piegò in un’espressione di pura sorpresa, indecisa su cosa soffermarsi: i tratti assottigliati dall’incedere del tempo, la fanciullezza che aveva abbandonato lo sguardo color mare, fragoroso e scostante come lo ricordava, simile ad un fiume in piena la francese osservò le spalle ampie del ragazzo, il petto fasciato dalla stoffa candida per poi ritornare ai suoi occhi, anch’essi ricolmi d’incredulità. Le sembrava di essere stata scaraventata contro il passato, di nuovo, perché di nuovo inciampava in una persona che aveva fatto parte della sua vita e che mai avrebbe pensato di rivedere << Quasi quattro anni … Tristan >> rispose piano sentendo le parole accavallarsi l’una all’altra, ma non avrebbe saputo dire se per colpa dell’assenzio o del viso del giovane Ivashkov puntato su di lei. Inarcò il sopracciglio sinistro dischiudendo la bocca con fare divertito per poi lanciare una rapida occhiata alla propria scarpa ancora sul tavolo << Ho avuto un piccolo incidente per strada …>> ammise passandosi la lingua sulle labbra ancora calde di liquore, lo sguardo in equilibro sul bordo in cristallo del bicchiere già mezzo vuoto, sapeva perfettamente che non era il tipo di risposta che si aspettava, lui voleva sapere perché si trovasse a New York quando l’ultima volta che si erano visti, era stato fra i confini francesi, Tristan sapeva quanto la bionda amasse il suo paese al punto tale da non essere disposta ad abbandonarlo, se non per un’ottima ragione. Ma questo Dulcinea non poteva rivelarglielo, non ancora perlomeno.
    Senza pensarci afferrò il piccolo accendino riposto nella tasca interna della borsa e come la piccola fiammella prese vita l’avvicinò alla sigaretta del ragazzo << Tu invece? Sei qui per lavoro? >> azzardò evitando palesare davanti al barman in che cosa consistesse la professione di Tristan. Sarebbe stato singolare se, ancora una volta, fosse stata la droga a farli incrociare, o meglio scontrare. Perché entrambi sembravano attirarsi addosso le situazioni pericolose come due calamite, entrambi bravano il rischio solo per sentire il vuoto affievolirsi, stupidi, ingenui, masochisti… Dulcinea non avrebbe saputo trovare un appellativo corretto per descrivere lei e Tristan, perché loro erano imperfezione , il punto nero sul foglio candido, la destra e la sinistra di Lucifero, nell’imperfezione non c’è nulla che vada come dovrebbe.

     
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    Tristan era solito classificare le persone in due sole categorie: quelle che ti ritrovavi costretto a sopportare e dalle quali, pur volendolo, non avresti mai potuto separarti; e quelle che, invece, eri proprio tu, stupido essere umano, a scegliere. Nel primo gruppo rientrava senz'alcun dubbio suo padre, quell'essere immondo; colui che il ragazzo usava definire come la causa di tutte le sue disgrazie pur sapendo che questa opinione, di rimando, fosse completamente condivisa dal vecchio, che dal canto suo aveva sempre visto il suo figliastro come la sua più grande rovina; un errore che andava corretto. E lui, sporco e sadico, aveva scelto la maniera meno ortodossa per farlo: portava ancora i segni, Tristan, della sua perfidia; cicatrici che non sarebbero mai più andate via e che gli martoriavano la schiena. Indelebili. Ecco com'erano, nonostante lui provasse a nasconderle, in un vano tentativo di rinnegare un passato che, ahimé, l'aveva segnato e non poco. Poteva fuggire quanto voleva, allontanarsi il più possibile da quella che considerava la fonte dei suoi mali; ma la verità era che i demoni non smettevano di perseguitarlo, un po' come un'ombra che rimaneva sempre legata al suo corpo, una condizione reale e necessaria che esisteva indipendentemente dal suo volere. Uno stigma, un martirio, un dolore atroce che lo consumava sin dalle profondità delle sue viscere, come se un qualcosa di indefinito stesse cercando, ardentemente, di trapassare il suo corpo. E lui, quel dolore, l'avrebbe provato per tutta la vita. Era inutile girarci attorno e tentare anche solo di essere un po' più ottimisti: quello era il mondo reale, il teatro in cui si consumavano le tragedie più atroci, uno spettacolo pieno di marionette che, alla fine dei giochi, non avevano alcuna libertà di scelta, sebbene si ostinassero ad affermare il contrario. La verità era che il mondo era governato dal Chaos, quell'entità primigenia citata nella Teogonia di Esiodo simbolo di disordine e di abisso in cui predomina l'oscurità. Brancolavano nel buio e loro, stupidi illusi, neppure se ne rendevano conto, troppo ostinati ad affermare che fosse l'uomo stesso, l'artefice del proprio destino. Tutte balle, e Tristan questo lo sapeva non bene ma benissimo. Grazie al cielo, però, per una volta il Fato aveva deciso anche di essere un po' più generoso, nei suoi confronti; ed ecco che nella sua vita, casualmente, era entrata una persona con la quale, alla fine della fiera, aveva condiviso praticamente tutto. Un passato oscuro. I medesimi modi di fare. Gli stessi demoni. Attimi di follia che si alternavano a quelli di puro amore. Quella con Dulcinea era stata una relazione sopra le righe; un giro sulle montagne russe, con tutte quelle curve pericolose, momenti di puro deliro che ti toglievano il respiro ed altri, altrettanto intensi, in cui percepivi il cuore uscire fuori dal tuo petto. Due forze che si annullavano a vicenda; una lotta ad armi pari che, silenziosamente, andava avanti da anni. Buio contro buio; esuberanza contro menefreghismo; oceano mare contro verde-azzurro. Uguali e diverse allo stesso tempo, quelle anime corrotte che, qualche anno prima, si erano incontrate in Francia per puro caso, in quei meandri oscuri in cui chiunque si sentiva un po' meno in colpa ad assecondare i propri istinti primordiali e a mostrargli agli altri, senz'alcuna inibizione.
    Si erano conosciuti, com'era giusto che fosse.
    Avevano parlato, come da copione.
    Erano stati risucchiati da quel vortice di passione e sadismo, inaspettatamente.
    Avevano giocato con il fuoco, come due perfetti masochisti che, incuranti del fatto che potessero essere bruciati da quelle fiamme ardenti, si erano spinti fin troppo oltre. Si erano trovati nella stessa maniera in cui, poi, si erano persi di vista. Ed era proprio questo, l'unico rammarico di Tristan. Quello di aver perso l'unica persona che, lo ammetteva, lo aveva capito per davvero, fino in fondo; la prima (e per il momento unica) ragazza per la quale avesse mai provato qualcosa, nonostante non lo avesse dimostrato nel migliore dei modi. Ma cosa farci? Lui era Tristan, un giocattolo difettoso, e purtroppo non poteva essere cambiato o anche solo modificato. E Dulcinea, forse, era stata la prima a non fargli pesare questa cosa. Loro erano Lucifero ed Angelica; due angeli rinnegati da un Dio che tanto magnanimo non era. Creature angeliche alle quali erano state strappate le ali e che soltanto tra loro potevano capirsi. Due bastardi, figli del peccato e di un'eccessiva lussuria che si erano incontrati e fatti del male; masochisti che si erano presi e lasciati diverse volte, tentando di celare la loro dipendenza nei confronti dell'altro. Un tripudio di "ti odio" mescolati al sesso più sfrenato e malato, in cui piacere e dolore erano divisi da una linea sottilissima, rendendo il tutto ancora più eccitante ed appagante. La storia più intensa di tutta la sua vita. Erano passati quattro anni, eppure, al solo pensiero, il suo cuore cominciava a battere all'impazzata, come se tutta quella frenesia s'impossessasse tutto d'un colpo del suo corpo, una scarica di adrenalina a percorrere la sua colonna vertebrale. «Il tempo è volato.» Constatò, inumidendosi le labbra: ricordava ancora il momento in cui, arrivato in Francia per via del suo lavoro di spacciatore, se l'era ritrovata davanti con gli occhi dotati di quella scintilla che andava in netto contrasto con la sua bellezza ancora acerba; quei tratti ancora immaturi, tipici di un'adolescente, che all'epoca non erano ancora fioriti, ma che adesso, Dio mio, possedevano quella vena adulta che, se possibile, glieli facevano apparire ancora più piacenti. Dulcinea era cresciuta, era diventata una donna. Una donna affascinante, per essere ancora più precisi. «Ho avuto un piccolo incidente per strada…» Ammise, rispondendo così alla sua domanda, lanciando uno sguardo alla scarpa posata sul bancone, proprio accanto a lei. Beh, potevano anche essere passati tutti quegli anni, ma il carattere di Dulcinea sembrava essere sempre lo stesso! «Non sono esattamente sicuro di voler sapere che fine abbia fatto l'altra scarpa...» Commentò, prima che il barista finisse di preparare il suo ordine e poggiasse, proprio di fronte a lui, il bicchiere ricolmo di Black Russian. «... In compenso, però, posso immaginarlo; e credo che questo basti ed avanzi.» Aggiunse poco dopo, con una risata divertita. Dulcinea, d'altra parte, era sempre stata così: sfrontata, maliziosa... ma anche suscettibile e reattiva. Di conseguenza, aveva una vaga idea del dove fosse andata a finire la seconda calzatura. La vide, poi, estrarre un accendino dalla tasca interna della sua borsa, e nel momento in cui la piccola fiammella si accese, l'avvicinò alla sigaretta del ragazzo, il quale si sporse appena in avanti, di modo che quell'asticella di tabacco potesse finalmente prendere fuoco e che la nicotina cominciasse a fare il suo dovere. «Grazie...» Sibilò appena, con il filtro tra le labbra, per poi fare il primo tiro. Non si stupì, ad ogni modo, quando la Francese ricambiò la sua domanda, chiedendogli, di rimando, per quale motivo anche lui fosse lì; e a quel punto Tristan si ritrovò a fare una piccola smorfia. «Mhhh sì, qualcosa del genere...» Decise di rimanere piuttosto vago, a tal proposito: di certo non poteva dirle qualcosa come "sai, ho scoperto di essere un mago perché ho quasi ucciso mio padre ed adesso frequento una scuola di magia! Che figata, vero?". «La Romania mi aveva stancato, in un certo senso.» Falso. Più che la Romania, lo aveva stancato la vita che aveva quando si trovava lì; non il Paese in sé per sé. «Ti trovo bene, comunque. Sei cresciuta parecchio, eh!» Esclamò poco dopo, posando il suo sguardo su di lei; su quei capelli color oro con i quali lui, un tempo, tanto si divertiva a giocherellare.
     
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    Dulcinea Angelique Verhoeven Beelzebub has a devil put aside for me

    A differenza di Marsiglia, New York vantava una vasta gamma di università e corsi di preparazione, in particolare di questi ultimi ve ne erano davvero di tutti i tipi: per fare i segretari, i pompieri, i pasticceri, perfino per il fattorino della pizza. Eppure, nessuno che si sognasse neanche lontanamente di istituirne uno per "l'autodifesa dal passato", la francese era certa che sarebbe stato utile a molte persone. A lei per esempio.
    Se solo avesse potuto, Dulcinea avrebbe preso a pugni tutte quelle casualità, figlie illegittime di un universo crudele, fino ad avere le mani esangui di consapevolezza, quella consapevolezza che per l'intera esistenza l'aveva sospinta in avanti come un areoplanino di carta nel vento, quella consapevolezza che come un fiammifero nelle mani di un piromane, l'aveva spinta a dar fuoco ai suoi stessi passi. Era facile vivere con la certezza di non avere nulla da perdere, gridare contro la vita senza la paura costante di poter, un giorno o l'altro, udire l'eco di tutti i ricordi persi per strada, Dulcinea veramente pensava di potersi nutrire solo dell'avvenire incerto, posare gli occhi nel sole sciolto all'orizzonte e amarlo come un vagabondo ama la strada, consapevole di non possedere altro, non valeva la pena riesumare le spoglie di certe esperienze, seppur piacevoli esse appartenevano al divenuto.
    "Non voltarti" si era detta.
    "Dietro hai solo vetri rotti" si era detta. Ma lei non ascoltava mai nessuno, talvolta nemmeno se stessa.
    Si era voltata, e l'aveva visto.
    Tristan sedeva di fianco a lei, la mascella scolpita sulla pelle chiara che ancora profumava di cenere e distruzione, le spalle larghe fra le quali aveva affondato le dita ubriache di vertigini, in una ricerca spasmodica delle ali tagliate dal dolore, la bocca corrotta nella quale un tempo sarebbe morta come una lacrima mai asciugata, in agonia, in estasi, o forse entrambe le cose, sulle labbra dove avevano inciso con baci logori i segni di una dolce maledizione, le dita lunghe che aveva stretto fra le sue in una preghiera senza dei, priva di idoli utopici, solo per godere di una vicinanza malata, incapaci di capire se tutto quel miscuglio omogeno di carne e respiri fosse solo il desidero irrefrenabile di salvarsi da se stessi. Lucifer l'aveva fatta sentire parte di qualcosa, amando il modo in cui lui le faceva del male, seppur indefinito e incontrollabile, due lembi di Inferno cuciti insieme da una passione distruttiva, si somigliavano così tanto che Dulcinea più di una volta avrebbe adagiato la testa nell'incavo del suo petto giurando di non essere in grado di distinguere il proprio battito da quello di lui, avrebbe sfiorato quegli scrigni, un vorticare di verde-azzurro, consapevole di essere l'unica a possedere la combinazione corretta per aprirli. Nessuna regola, nessuna condizione, fra loro vi era stato un tacito linguaggio fatto di graffi, gemiti e sguardi avvolti nel ferro, come se avessero aghi sulla lingua e coltelli al posto delle dita, essi non erano in grado di sfiorarsi senza farsi del male, martiri di un'innocenza negata fin dalla nascita si erano adagiati fra le meravigliose macerie dell'oblio. Era annegata in lui perdendo tutto, limiti, credenze, perfino se stessa, i loro corpi si erano uniti a tal punto da non riconoscersi senza l'altro in un abbraccio di fuoco forgiato dalla confusione, e quando il caos raggiungeva un'intensità tale le era sembrato di morire... forse perché in un certo senso era morta, aveva varcato il paradiso ed era tornata indietro più viva di prima. Tristan era stato il suo piccolo intimo miracolo.
    Ma entrambi avevano iniziato un gioco che andava ben oltre qualsiasi comprensione, sadico e corrotto.
    Dulcinea non si soffermava mai sui pro e i contro, agiva buttandosi nel fuoco dell'irruenza e quella mancanza di cautela aveva finito per scottarla, Tristan era un piromane di emozioni e non si sarebbe avvicinato se non per vederla bruciare più ardentemente. Poi l'aveva perso così come si perde un cappello in una giornata ventosa, le circostanze si erano frapposte fra di loro, i quali avevano preferito rimanere aggrappati al proprio orgoglio piuttosto che ammettere una dipendenza divenuta qualcosa di più. Mai la bionda avrebbe pensato di posare nuovamente lo sguardo su quel viso ridisegnato ormai dalla maturità, gli angoli un tempo morbidi quanto angoli di paradiso ora mostravano i segni d'una bellezza oscura, come se la notte si fosse intrecciata con la pelle per risplendere di dannazione; quattro anni erano passati dall'ultima volta che l'aveva visto ma ancora poteva sentire il cuore esplodere di battiti, ancora le mani bramavano nuove briciole di pelle da possedere con lo stessa brama e lo stesso bisogno di una volta. Un tempo gli avrebbe risposto che il tempo si ubriacava di Red Bull e per questo " metteva le ali", un tempo Dulcinea si sarebbe rifugiata in una squallida battuta solo per evitare qualsiasi sfumatura vagamente nostalgica, eppure davanti a quella costatazione così pura e vera la ragazza non potè fare a meno di sorridere poggiando entrambe le mani sul bancone quasi la solidità della materia fosse l'unica certezza rimasta << Più veloce di quanto pensassi>> rispose a sua volta afferrando il bicchiere con la mano destra e sollevandolo con fare impaziente verso il barista reclamando un nuovo giro. Dopo l'espulsione di Havel si era immischiata in questioni più grandi di lei, prendendosi l'incarico di portare la droga all'interno di Beauxbatons, un lavoro sporco il cui unico scopo era quello di allontanare il più possibile la consapevolezza di essere nuovamente sola e invece aveva conosciuto Tristan, i tratti docili da ragazzino sfrontato adagiati vicino ad un sorriso che riportava tutte le pieghe del dolore. Ora di fianco a lei sedeva un uomo, bello da togliere il fiato << Eh già, hai sempre avuto una fervida immaginazione per quanto riguarda certe cose...>> rispose curando le labbra fino modellare un sorrisetto audace, la mano scivolò sulla gamba fino a sfiorare il bordo della calza per estrarre una sigaretta, ne riponeva sempre qualcuna in posti improbabili, un po' perché se le scordava, un po' perché non si poteva mai sapere e considerando la fine del suo fedele pacchetto di sigarette non riuscì a non ringraziarsi per la propria sbadataggine. Osservò il viso del ragazzo avvinarsi alla luce tremula in bilico sul tubicino nero, l'aveva visto fare quel gesto tantissime volte, era così familiare che la francese riconosceva tutto, l'inclinazione della testa, l'angolo della bocca curvato verso il basso, il petto che si alzava per accogliere il sapore amaro della nicotina...
    Dulcinea accese velocemente la sua sigaretta lasciando le labbra appena dischiuse mentre il fumo usciva lento annaspando fra l'aria stantia del locale, gli occhi si soffermarono ben presto su Tristan, rimasto piuttosto vago sui motivi che l'avevano spinto ad abbandonare la Romania, ma lui era sempre stato così, non amava che le persone si immischiassero in faccende che non le riguardavano in alcun modo, schivo e riservato almeno per quanto riguardava la sfera personale e in fondo non si vedevano da anni, perché avrebbe dovuto fidarsi di lei? << Va bene>> asserì la bionda spezzando il rivoletto di fumo e stringendo fra le dita il bicchiere nuovamente colmo di assenzio nero per poi buttarne giù più di un terzo rivolgendogli un'occhiata furbetta << Faccio finta di crederti >> Non pretendeva alcuna spiegazione, anni addietro forse l'avrebbe preso a pugni pur di sapere di chi fosse la ragazza con cui si era intrattenuto mentre lei andava a prendere da bere , ma sapeva di non essere più in diritto di conoscere nulla di lui, e questo la metteva a disagio, la faceva sentire inutile, impotente di fronte al tempo che le aveva strappato il giovane Ivashkov e gli anni in Francia << Attento Tristan , se è un'altra delle tue battute sulla mia statura ci tengo a ricordarti che ho ancora una scarpa e nessuna paura di usarla!>> rise prendendo un lungo tiro dal tubicino bianco della sigaretta << Nel caso così non fosse allora merci beaucoup! Anche tu sei... cresciuto, e pure bene direi>> scherzò dandosi una piccola spinta e facendo compiere un intero giro allo sgabello come una vanesia attrice di teatro, dando al ragazzo una visuale completa delle condizioni alquanto disastrose del suo outfit.

     
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    Guardarsi indietro non era mai una scelta saggia, soprattutto per chi, come Tristan, si era lasciato dietro una lunga scia di vittime; cadaveri sanguinanti che, oramai, non possedevano alcuna traccia di vita. Sembravano tanti fantocci, marionette che lui aveva abilmente manipolato fino a quando, stufo, non aveva deciso di togliere loro la vita senza nemmeno curarsi di sotterrare quello che ne rimaneva in una qualche fossa. Non ce n'era bisogno, a detta sua: il tempo avrebbe fatto il suo corso. E d'altra parte, non si diceva, forse, che fosse proprio Crono a far sì che le ferite altrui si rimarginassero e che la pelle, una volta piena di graffi, tornasse ad essere liscia e morbida? Non si diceva, forse, che il tempo aiutasse a guarire? E allora cos'era quella sensazione di vuoto, a metà tra il dolore e il piacere, che si era selvaggiamente impossessata del suo cuore? I polmoni avevano smesso di fare il loro lavoro, l'ossigeno non sembrava mai essere abbastanza, e le orecchie erano fastidiosamente tappate, come se si trovasse sott'acqua. E pensare che lui ci aveva vissuto per molto tempo, in apnea. Amare una ragazza, amare lei, era stato come arrivare fino al limite della disponibilità d'ossigeno e, poi, tornare a galla per inspirare altra aria; salvo poi ritrovarsi nuovamente nelle medesime condizioni. Amarla era stato come lanciarsi nel vuoto senza paracadute; senz'alcuna certezza di cosa ci fosse alla fine della caduta. Amarla, benché fosse stato distruttivo, era stata l'unica cosa che l'avesse fatto sentire parte integrante di quel mondo; di quegli abbracci che, silenziosamente ed orgogliosamente, si scambiavano al buio. Di quei baci disperati, scaturiti dalla loro inesistente capacità di stare lontani, nonostante tutto il male che si provocavano; labbra che si sfioravano, si mordevano appena e si cercavano e ricercavano. Pezzi di anima che, secondo dopo secondo, sembravano volar via, andando a finire chissà dove, proprio come solitamente volavano via i vestiti poco prima che due persone decidessero di congiungersi fisicamente, dando vita a quel connubio di piacere e dolore che andava ogni oltre aspettativa. Eppure, ridurre la relazione che aveva avuto con Dulcinea a questo, non avrebbe reso minimamente giustizia a tutto ciò che, insieme, avevano passato: cedere ai sentimenti era stato come salire sulle montagne russe; momenti di pura felicità che si alternavano ad altri di pura tristezza e devastazione. Curve su curve, che sembravano mettere in subbuglio il suo stomaco e, al contempo, anche i suoi sentimenti; un connubio di odio ed amore che andava ben oltre ogni aspettativa. Eppure, anche per lui, alla fine, era arrivato il momento di scendere da quella giostra. Era accaduto tutto in un battito di ciglia, in un modo così improvviso che a momenti neppure lui aveva fatto in tempo a metabolizzare il tutto. Disgraziatamente, da un momento all'altro si era ritrovato nuovamente solo; lontano dall'unica persona che fosse stato mai capace di capirlo. Perché, sebbene la loro relazione fosse stata tutt'altro che sana, Tristan sapeva benissimo che nessuno sarebbe mai stato capace di comprenderlo come Dulcinea. Nessuno, nemmeno i familiari dai quali era scappato, sapeva cosa si celasse dietro quella maschera fatta di cinismo e sarcasmo; un involucro apparentemente resistente, ma in realtà pericolosamente fragile. E lei, per una volta, era riuscita a distruggerlo. Si diceva che due cariche di segno opposto si attraessero; ma cosa accadeva se, invece, ne fossero state prese in esame due dello stesso segno? La chimica e la fisica avrebbero affermato che si sarebbero respinte, ma in realtà non c'era niente di più sbagliato: due cariche dello stesso segno, difatti, si distruggevano a vicenda. Entravano in contatto ed improvvisamente era come se il chaos s'impossessasse di tutto e di tutti, travolgendo l'umanità intera con una forza tanto strana quanto intensa. Non poteva smettere di pensare a cosa fosse accaduto tra di loro, a quante cose avessero passato insieme nonostante il loro rapporto malato, ed ogni volta era come affogare in un mare di sentimenti contrastanti, sentimenti che avrebbe giurato di non possedere; non lui, che le emozioni aveva tentato di spegnerle tempo prima poiché si trovava alla mercé di un padre violento e che le emozioni, al massimo, le calpestava. E lui non voleva essere calpestato. Aveva sempre desiderato far parte degli intoccabili, quelle persone che conducevano uno stile di vita tranquillo e che seguivano una routine ben precisa che per quanto potesse essere noiosa era comunque migliore di ciò che aveva vissuto lui ogni sacrosanto giorno passato a Bucarest.
    Poi, però, inaspettatamente era arrivata Dulcinea, ed ecco che anche quella stupida convinzione aveva cominciato a vacillare, un po' come un vaso che si trovava sul bordo di una mensola e rischiava di cadere e rompersi in mille pezzi. Aveva cominciato a pensare che, forse, vivere alla giornata non fosse poi così malvagio, che il rischio lo facesse sentire molto più vivo, e, soprattutto, che l'amore potesse manifestarsi anche nelle forme più bizzarre ed improbabili. Perché Tristan l'aveva amata davvero, quella ragazza, sebbene non avesse mai avuto la forza e l'occasione di dirglielo. L'aveva amata, nonostante i graffi, gli schiaffi ed i vaffanculo che, a lungo, si erano urlati addosso nel disperato tentativo di mettere a tacere quella miriade di sentimenti che, ai tempi, nessuno dei due, probabilmente, riusciva a comprendere fino in fondo.
    «Beh, non che ci voglia così tanta immaginazione per capirlo...» Commentò ridendo appena, un suono smorzato appena dal fumo che usciva dalle sue labbra. «Scommetto che gliel'hai lanciata addosso. O che gli hai cavato un occhio servendoti del tacco.» Azzardò, sempre scherzosamente, ricordando con una certa nostalgia quanto Dulcinea sapesse essere... drastica. Semplicemente perché l'aveva testato sulla sua stessa pelle e ne portava ancora i segni, indelebili; com'erano indelebili anche le cicatrici all'interno del suo animo, crepe che rischiavano d'ingigantirsi sempre di più. La verità era, semplicemente, che si era aperto troppo con lei; o, almeno, troppo rispetto a quanto faceva di solito: troppo simili erano stati i loro caratteri; troppo simili, anche, i loro traumi, rimasugli di un passato che avevano sì tentato di celare ma che, puntualmente, era tornato sempre a galla. Una sorpresa fu, invece, udire la sua risposta successiva: anni addietro, se fosse stato vago nel dare una risposta, si sarebbe sicuramente beccato un ceffone in pieno viso con tanto di parole non esattamente amorevoli; ragion per cui, in quel momento, tutta la tranquillità ostentata dalla ragazza lo lasciò, per un attimo, stranito; e solo allora si rese conto di quanto fossero stati pesanti quei quattro anni di lontananza. «Alle volte è meglio non sapere, credimi.» Si lasciò sfuggire, con un tono di voce flebile, per poi mordersi il labbro inferiore e bere un sorso del suo Black Russian; un'aroma dolce-amaro che gli inondò la bocca e che lo costrinse a deglutire, mentre la sua mano poggiava nuovamente il bicchiere sul bancone. «Così come, alle volte, è meglio allontanarsi.» E quelle parole, probabilmente, ebbero lo stesso sapore del suo drink: forte, buono; ma anche acre. Allontanarsi da Dulcinea non era stata una scelta che aveva preso deliberatamente; bensì un obbligo. Ma nonostante questo, non poteva dire che non fosse stata la cosa migliore per tutti e due, per quella relazione che di sano aveva poco e niente.
    «Cosa ti fa pensare, esattamente, che mi riferisca alla tua... bassezza? O preferisci che la chiami scarsa altezza?» Una risata divertita si liberò dalle sue labbra, così come un'aria evidentemente ludica e scherzosa s'impossessò del suo viso e della sua voce; salvo poi calmarsi e tornare più o meno serio, seppur con un sorriso stampato sul viso. «Stavo scherzando.» Disse, lasciando che le labbra si distendessero appena, per poi bere un altro sorso di Black Russian. «Volevo dire che, nonostante siano passati quattro anni, sei ancora bellissima.» Era davvero cresciuta, Dulcinea, ed era diventata una donna in tutto e per tutto. I tratti, che un tempo erano gentili ed immaturi, adesso erano sbocciati come il più bello dei fiori, ed erano diventati più decisi ed adulti. «Merci beaucoup, mon cher.» Disse con un tono di voce basso ma profondo, e per un momento ebbe come l'impressione che la sua gola stesse tremando appena, memore di quelle piccole lezioni di Francese che era stata proprio Dulcinea a dargli: quando era approdato in Francia, difatti, conosceva ben poche cose della lingua parlata in quel posto, o meglio, conosceva soltanto le parole e le espressioni che gli erano più utili; dunque era stato quando aveva conosciuto la Verhoeven che aveva effettivamente imparato a masticare un po' la pronuncia e qualunque cosa potesse aiutarlo ad esprimersi verbalmente. «Alla fine sei uscita da quell'inferno, sì?» Le domandò poi, bevendo un altro sorso - l'ultimo - di alcool, riferendosi alla scuola che ai tempi frequentava e dalla quale aveva rischiato di essere espulsa proprio a causa sua.
     
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    Aw c'mon puddin ...dontcha wanna rev up your harley ?
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    Portò le mani in avanti, affidandosi totalmente al ripiano del bancone; quella posizione era il riflesso perfetto della volontà di Dulcinea, la quale avrebbe desiderato mettere di nuovo il proprio destino fra le mani dell'avvenire, fare tabula rasa di ciò che era stato e lasciarsi sospingere lentamente in avanti come un aquilone strappato alle esili braccia di un bimbo. Si era sempre sentita come uno schizzo primordiale, un disegno eseguito solo a matita e che per questo non ha bisogno di uno sfondo o un paesaggio da contorno, esso è il centro di sé stesso. Lei si bastava, non necessitava di alcun passato, né di una madre né di una famiglia o almeno così aveva sempre creduto, per sopravvivenza o più semplicemente per abitudine. La solitudine si era inanellata al suo essere come la più stretta delle fedi nuziali, ma quella sensazione di soffocamento le ricordava che era viva. Che quel respiro, quello che agitava il suo cuore ogni 1,3 secondi, quello si espandeva nel corpo riempiendolo di pienezza e dandole dipendenza dalla vita, nessuno l'aiutava a compierlo, le piaceva pensare che se Dio le aveva dato la capacità di respirare da sola allora avrebbe potuto fare tutto nel medesimo modo. Ma quando i suoi occhi erano caduti in quelli di Tristan, la francese aveva percepito le sue convinzioni sbriciolarsi e poi fondersi in lui per essere nuovamente plasmate, come un castello di sabbia inghiottito dalla marea. Dulcinea era reduce di quello sguardo che le rimaneva addosso come salsedine e piano piano scivolava dentro, diveniva parte di lei che mai aveva sentito una tale brezza sfiorarle il cuore, sulla pelle il torrido aroma dei suoi baci che non erano mai abbastanza ma sempre una quantità tale da potersene ubriacare. Erano nati nel grido del tramonto, due ombre proiettate dallo stesso raggio di sole che per errore si erano toccate nell'eterna fuga dalla luce; l'aveva conosciuto, ed era stato come la prima volta che le labbra della bionda avevano incorniciato di rossetto il filtro di una sigaretta. Prima, aveva sentito un calore intenso avviluppare la bocca, il sapore amaro della nicotina srotolarsi giù per la trachea, il petto divenire l'Inferno e il cuore fermarsi fra i due polmoni irreparabilmente corrotti, poi, il torpore inebriante e con lui una scintilla di dubbio che l'aveva portata a pensare che forse non avrebbe dovuto, che forse stava sbagliando, ma il respiro era esploso in un gioco di volute bianche che si arrampicavano nel cielo disegnando gigli bianchi fra il firmamento, ed era uno spettacolo così bello che a dispetto del bruciore ancora cangiante in gola, Dulcinea aveva tirato un'altra volta, un'altra, un'altra ancora, fino a perdere il conto, mentre l'aria mutava in cenere in lei diveniva sempre più nitida la consapevolezza che talvolta, si può dipendere da qualcosa o da qualcuno. Si era sentita confusa, perchè aveva sempre sventolato con vigore il vessillo della propria indipendenza, perchè nulla l'avrebbe convinta a riporre la sua sopravvivenza in qualcosa di futile come l'alcol, il fumo, la droga, o l'amore, perchè era orribile non poter fare a meno di qualcosa... allora perchè era stato così sinceramente, completamente, tremendamente bello amare Tristan?
    E nella loro violenta contraddizione, Lucifer e Angelica che si erano sempre pronunciati contro l'amore e tuttavia a favore della vita, ad un certo punto non erano più stati in grado di vivere senza amarsi. Ma ammettere una simile cosa avrebbe significato una resa che nessuno dei due era disposto a concedere all'altro, per orgoglio, per egoismo, perchè nel momento in cui i loro respiri si aggrovigliavano tutto l'universo si concentrava in un silenzio che con cura si erano costruiti, e il resto perdeva importanza. Non c'era nulla da spiegare, nulla da dire, i graffi sulla pelle sussurravano ciò che la bocca taceva, Dulcinea immergeva le mani nelle spalle di lui, indecisa se quel gesto così ancestrale fosse una preghiera per essere sollevata verso il paradiso, o il sadico desiderio di trascinare Tristan anch'esso verso l'oblio, ma rimanevano fermi, adagiati nel letto che da sempre era il loro campo di battaglia come due soldati caduti sotto i colpi di fucile; si trattavano bene solo per sentirsi in diritto di trattarsi peggio, si baciavano per poi prendersi a schiaffi, nel dolore riconoscevano se stessi e la sofferenza diveniva la più alta forma di piacere.
    Non era pronta a lasciarlo, probabilmente non lo sarebbe mai stata. Ma ricordava ancora il vento che le sferzava il viso insieme alla pioggia, i capelli bagnati, il volto sconvolto e le ciglia imperlate d'acqua mentre una macchina si fermava di fronte a lei, Tristan che scendeva e il suo profumo mescolato all'aroma piovano l'aveva avvolta come la calda melodia d'una ninna nanna, sapeva che era necessario, che lui non poteva rimanere perchè l'avrebbero arrestato, eppure mai aveva sentito un dolore tanto furibondo sconvolgerle l'anima. Mai come allora avrebbe voluto abbandonarsi fra le sue braccia, sentire le sue labbra premute contro le proprie, immergere le dita nei suoi capelli e piangere fino a non riconoscere più le sue lacrime in mezzo a quelle del cielo e gridargli che lo odiava, che non poteva lasciarla così, irreparabilmente rotta ,inesorabilmente vuota e nuovamente sola. Non gliene fregava più niente di Beauxbatons, delle zie o del proprio paese, sarebbe partita con lui se solo avesse voluto. Ma non era successo, Tristan era sparito così come il fulmine si dissolve fra le tenebre.
    La ragazza rise, passandosi distrattamente una mano fra le onde dorate dei capelli << Era troppo lontano perchè potessi cavargli un occhio, ma credo di aver centrato la spina dorsale >> ammise congiungendo le mani a mo' di pistola e fingendo di mirare verso un punto indefinito del locale. Lui la conosceva a memoria, così come si distingue la strada per tornare a casa, forse perchè per un periodo di tempo si erano considerati l'un l'altra il luogo più simile ad essa; le piaceva pensare che qualcuno l'avrebbe sempre ricordata come «Dede», una ragazzina bassa, sfrontata, che fuma nei luoghi pubblici, che cammina per strada senza scarpe ma che ama la vita più di qualsiasi altra cosa, e non come quella strana nuova persona che era diventata, spezzata dal rancore verso la famiglia paterna, corrotta dall'insensibilità verso gli altri, non voleva che Tristan pensasse che la scelta fatta anni addietro le avesse lasciato segni indelebili come il petrolio nell'acqua.
    Dulcinea lo guardò scotendo lievemente la testa, per un secondo ebbe la netta sensazione che il cuore stesse crollando ai piedi delle parole di lui e che il trucco si sarebbe sciolto per via delle lacrime imprigionate fra l'azzurro dei suoi occhi, ma stava ancora sorridendo. Nonostante tutto.
    E su quel sorriso così fragile si aggrappò per non cadere.
    << Non ti credo, lo sai... io vorrei sapere sempre tutto>> disse a voce bassa e portando la sigaretta alle labbra, il fumo l'invase scorrendo tiepidamente dentro di lei, incrociò le braccia al petto sentendo un brivido gelido rincorrersi sull'incarnato scoperto << Per alcuni è più facile di altri... allontanarsi intendo>> agitò distrattamente una mano quasi a voler cancellare i ricordi che riaffioravano come cicatrici mal suturate. Si sentiva stupida, perchè Tristan sembrava stare benissimo, com'era giusto e come più volte si era augurata dentro di sé, mentre lei invece faticava a respirare, il destino li aveva strappati l'uno dall'altro, non era colpa di nessuno, ma la consapevolezza di quella causale alimentava un dolore già acuto nei pressi del torace.
    << Pardon? Tristan ci siamo incontrati cinque minuti fa e stai già rischiando parecchio...>> rise lasciandosi trasportare da una risata d'argento, brillante, simile al liquori lucente nel bicchiere che con un sorso deciso venne terminato quasi in segno di sfida nei confronti del giovane Ivashkov. Il fondo del boccale sfrigolò contro il bancone, Dulcinea abbassò la testa contemplando il vetro scintillare sotto la luce opaca del locale, anche lei lo vedeva cresciuto, ma soprattutto diverso, sotto i tratti cesellati dal tempo vi era tutto il peso di qualcosa....qualcosa che lei non poteva sapere perchè non c'era. << Non ricordavo che reggessi così male l'alcol...sei gà in preda al delirio!>> lo canzonò divertita dal complimento tanto spontaneo, le guance lievemente arrossate dimostravano però quanto le avesse fatto piacere riceverlo. percepiva la voce del ragazzo tesa, corde di violino ancora fredde e impreparate a recitare in quella situazione, Dulcinea ricordava le piccole lezioni di francese impartite che spesso degeneravano a causa della scarsa concentrazione di ambedue, ma aveva voluto che imparasse qualcosa, forse perchè dentro di lei fioriva lentamente la speranza che lui potesse rimanere. << Oddio si... l'ultimo anno è stato un inferno>> ammise facendo un cenno al barista per chiedere un altro giro << Tu sei tornato a Bucarest dopo... si insomma...>> terminò con alzata di spalle e un sorriso fugace prima di cominciare a torturarsi il labbro inferiore.
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    Edited by ~Labyrinth~ - 20/12/2016, 00:23
     
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    tristan ivashkov

    23 - druidic sciences - Σ Θ Η - sheet
    pleasures remain. so does the pain.
    Le luci al neon del locale parevano affievolirsi secondo dopo secondo, quasi volessero creare un'atmosfera più familiare, intima, degna di chi la familiarità con qualcosa o con qualcuno l'aveva persa tempo addietro. Erano davvero poche le volte in cui Tristan riusciva ad entrare in sintonia con qualcuno, un po' per il suo caratteraccio, perlopiù perché egli stesso preferiva non relazionarsi con gli altri, ma quando ciò accadeva, era sempre una meravigliosa scoperta: le labbra abbandonavano quell'espressione neutra, priva di colore, e si distendevano appena, lasciando trapelare la proiezione speculare d'un sorriso; il corpo si rilassava tutto d'un colpo, spogliandosi d'ogni inibizione che potesse limitarne i movimenti, un po' come un robot, il quale si muoveva meccanicamente. Solitamente non si affezionava ad un particolare tipo di persona, non c'era un prototipo d'individuo con cui si relazionava più facilmente; al contrario, aveva sempre detestato porsi dei limiti, fattispecie in quell'ambito. Lui voleva essere libero, esente da tutte quelle etichette che non avrebbero fatto altro che renderlo banale, al pari degli altri uomini che si trovavano sulla faccia della Terra, insignificante come un altro qualsiasi essere umano. Aveva sempre detestato rientrare entro determinati schemi, formalità che non facevano altro che sminuirlo, come se il suo ego potesse davvero celarsi dietro quegli insulsi aggettivi, ed era per questo che aveva sempre tentato di superare i propri limiti, una sfida tra titani che sarebbe sicuramente terminata nel peggiore dei modi, con fratture, graffi, cicatrici. Eppure, lui, a tutto quel dolore, ci era avvezzo e non poco. Il dolore era ciò che lo muoveva, il dolore era ciò che lo portava a desiderare sempre di più e cose sempre più discutibili, quasi come se esse potessero riempire quel vuoto che possedeva all'altezza del cuore; deficienza d'amore, lacune da colmare, insegnamenti che non gli erano mai stati impartiti. Solitamente si diceva che Amore fosse complicato, capriccioso, viziato. Amore era intangibile, flebile, leggero, come una nube di fumo i cui componenti chimici finivano nei tuoi polmoni ancor prima che te ne accorgessi. Amore agiva silenziosamente, perché sapeva che non avrebbe mai trovato portoni spalancati, perlomeno non da una persona come Tristan, che quel sentimento lo aveva sempre ripudiato. Troppo nobile ed antico per i suoi gusti, si diceva.
    Eppure, anche lui era stato costretto a cedere.
    Anche lui si era ritrovato a far crollare le proprie barriere, lasciando che quel sentimento lo impregnasse. Perché Amore poteva essere sì meraviglioso, ma anche bastardo, scorretto, doppiogiochista. Amore ti afferrava il cuore, stringendolo con tutta la sua forza, facendoti piegare dal dolore. Amore aveva agito parlando, alle sue orecchie, in Francese, e facendo uscire dalla sua bocca pronunciando parole nella medesima lingua, come possedesse un linguaggio tutto suo, esclusivo.
    «Deve averti fatto un torto proprio grosso, allora, quello sciagurato.» Un sorriso divertito si dipinse sulle sue labbra, lembi di carne rosei impregnati d'alcool e tabacco, mentre lo sguardo sfiorava il bicchiere contenente il liquido scuro. Decise, ad un certo punto, di tagliare la testa al toro e di berlo tutto in un unico sorso, assaporando quella botta di fuoco che s'espandeva nelle sue viscere, un Inferno dal gusto dolce-amaro e a cui lui era oramai abituato.
    «Non ti credo, lo sai... io vorrei sapere sempre tutto.»
    Fregato. E adesso che si fa, Tristan?
    Lo conosceva ancora così bene da capire quando mentisse e quando, invece, non lo facesse.
    «Per alcuni è più facile di altri... allontanarsi intendo.»
    Il suo sguardo, poi, all'udire le parole successive di Dulcinea, si alzò e si spostò su di lei, lasciandosi sfuggire una sfumatura di sorpresa. Inclinò appena la testa, come a mostrarle che la stesse ascoltando con una certa attenzione. Voleva capire dove avesse intenzione di andare a parare, sebbene sapesse a cosa stesse alludendo: se n'era andato, anche lui. E sapere che quella cosa la facesse stare ancora male, gli spezzava il cuore. Aveva diciannove anni quando l'aveva incontrata; adesso, invece, ventitré: aveva raggiunto una certa maturità, ormai, arrivando a capire d'aver sbagliato. Non si pentiva d'averla amata, affatto, ma si pentiva del modo in cui l'aveva fatto. «È tutta questione di abitudine, Dede.» Il lato destro delle sue labbra si alzò per un istante, lasciando trapelare un sorriso amaro, mentre gli occhi verde-azzurri non smettevano, neppure per un secondo, di guardarla. Sembrava una bambina, nell'accezione positiva del termine. Possedeva una curiosità disinteressata, lei, tipica di chi esplorava il mondo per il gusto di farlo.
    Una piccola risata, poi, si elevò dalle sue labbra quando Dulcinea gli servì su un piatto d'argento una minaccia, mescolandosi all'ilarità di lei. Immediatamente nella sua mente cominciarono a figurare i momenti che avevano passato insieme, con un bicchiere d'alcool davanti, le risa, ed i vani tentativi di allontanare i loro corpi e le loro labbra; fotogrammi sfuocati, ma a cui lui era legato. «Mi sei mancata.» Una frase che uscì fuori dai denti con naturalezza, complice la leggerezza al capo causata dal'alcool, ma che si pentì immediatamente d'aver pronunciato, cosa che gli fece affondare i denti nel labbro inferiore: non avrebbe dovuto girare il dito nella piaga.
    «Dai, mi sarò anche fatto già qualche birra, ma non sono così ubr...» Si bloccò nello stesso momento in cui notò le gote di Dulcinea prendere colore, le labbra che si schiusero «... Oh.» Un senso di sorpresa sincero, quello che si palesò in quella piccola parola... e sì, l'alcool doveva avergli dato decisamente alla testa. Fortunatamente, però, la conversazione si spostò nuovamente su Dede, più precisamente sul suo ultimo anno all'interno della sua scuola... o prigione, come l'aveva sempre definita Tristan. Sembrava che non fossero stati dei migliori, quegli ultimi trecentosessantacinque giorni, e la cosa lo portò a starsene, almeno per un primo momento, in silenzio e a far schioccare la lingua contro il palato
    «Dai, non posso esserti mancato fino a questo punto!» Scherzava, voleva sdrammatizzare il tutto con quella pseudo-battuta, ma in realtà sapere che quella scuola del cavolo le avesse provocato non pochi disagi lo faceva sentire di merda. Se solo l'avesse portata con sé, esaudendo il desiderio di lei... se solo non l'avesse lasciata lì!
    «Tu sei tornato a Bucarest dopo... si insomma...»
    La mascella di Tristan s'irrigidì appena e lo sguardo si assottigliò per un istante, il ricordo di lui che quasi ammazzava suo padre ad annebbiargli la mente.
    «Sì. Sì, sono tornato a Bucarest.» Gli occhi, a quel punto, scivolarono sul bicchiere di Black Russian ormai vuoto. «Un altro giro.» Disse poi al barista.
     
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    Il nuovo giro venne abbandonato davanti a loro senza tante cerimonie. Dulcinea strinse il vetro fra le dita come fosse un rosario, chiedendo asilo al sapore maleducato dell'alcol, l'unica religione alla quale era rimasta fedele. Spesso si ritrovava a pregare senza sapere a quale divinità stesse sussurrando le macchie della propria esistenza. Le dava fastidio. Dio le era sempre sembrato così estraneo da poter essere tranquillamente sostituito ogni sera da una nuovo volto disposto a condividere due stronzate e un paio di birre. Se il Creatore fosse scivolato fra viscidume dei bar newyorkesi e avesse offerto una vodka a tutti, avrebbe aiutato molto più che standosene nella sua bambagia di nuvole. Ma l'incauta esigenza di chiedere aiuto la sorprendeva raramente. Di solito, era in grado di cullare da sola le proprie remore interiori. Eppure Tristan riusciva a spogliarla degli spigoli del suo orgoglio con un solo sguardo.
    Lui aveva visto fin troppo e Dulcinea proprio non riusciva a perdonarlo. E a perdonarsi.
    Anche dopo quattro anni. Quattro anni scanditi da rintocchi giornalieri pieni della sua assenza, finchè il suono non era riuscito a penetrare dentro di lei divorando famelico anche la più piccola apertura verso gli altri. Pensava di esserselo lasciato alle spalle, come tutto il resto. Era ancora ferma sullo sgabello, con gli occhi tremanti di chi non assaggia il mare da troppo tempo. Invece Tristan era lì, e sorrideva. Sorrideva come se quel giovane, terribile, meraviglioso spreco di tempo che avevano chiamato amore avesse consumato soltanto lei. Doveva essere così. Lo sapeva, lo sapeva perfettamente. Una parte di lei sperava che quell'espressione fosse il profeta sincero di una felicità fino ad allora leggendaria nel cuore del ragazzo. Che la figura di suo padre avesse smesso di nutrirsi di lui come il più famelico degli avvoltoi. Che al ritorno dal lavoro, qualunque esso fosse, ci fossero le labbra di una donna in grado di zittire la sua stanchezza. Eppure, un pezzo di Dulcinea continuava a straziarsi fra i rovi della propria solitudine, chiedendogli con prepotenza di non fingere. Di mostrare il medesimo dolore quasi fosse un'antica cicatrice. Si sentiva disgustosamente egoista e per tale ragione ingoiò quelle frattaglie di pensiero insieme all'assenzio.
    «È tutta questione di abitudine, Dede.»
    Parole sante. Era un'affermazione così vera. Allora perchè aveva il gusto acre della più rovinosa delle sconfitte? Distolse gli occhi per non vederlo annaspare fra le rovine della sua stessa desolata rassegnazione. Finivano sempre col giocare a chi infierisce con più foga, con più prepotenza. Si chiese come fosse possibile abituarsi all'ombra di ciò che era stato, convivere col vuoto un tempo pregno di baci e insulti in avaria fra le lenzuola. La verità era che Tristan non aveva mai avuto una notevole considerazione di sé, l'esistenza l'aveva assorbito così tanto da dargli la parvenza d'essere un fantasma con troppi peccati commessi nella vita precedente. Pensava che il suo vagabondare fosse così effimero da non poter lasciare impronte di alcun genere nei cuori altrui se non lo spettro di qualche carezza. Come se tutto in lui fosse irrimediabilmente trascurabile. Ma non per Dulcinea. Era inciampata in quel ragazzo e non avrebbe mai dimenticato quella caduta. Tristan era stato una bellissima, pericolosa vertigine e una volta scomparso si era ritrovata così terribilmente immobile da credere d'essere morta.
    Dede. Da quanto tempo non la chiamavano così.
    La ragazza si voltò completamente, il viso in lotta contro le pieghe di dolore che non volevano attenuarsi. Dio, perchè doveva essere sempre così trasparente? Sentiva di doverlo proteggere. Sentiva di doverlo tutelare dal rimorso che ancora infettava uno spasmo emorragico. Per una volta, solo per una volta, voleva farlo sentire innocente. Rilassò le labbra finchè non riuscì a modellare un sorriso che sperò trasmettesse quanta più leggerezza possibile.
    << Può essere ma io detesto le abitudini. Sono così noiose di solito ...>> l'indice s'intrattenne placido sull'orlo costellato di gocce scure, già in astinenza di una nuova sigaretta con la quale mandare definitivamente a puttane l'apparato respiratorio. Non avrebbe mai saputo dire se quell'improvvisa fiacchezza apparsa nei suoi polmoni fosse dovuta alle piccole ciminiere inaugurate dagli anni da fumatrice accanita o le continue ondate di sguardi che s'infrangevano fra di loro. Quello era un argomento sul quale i loro punti di vista faticavano a toccarsi. Dulcinea ripudiava la stabilità perchè comportava un minimo di controllo, lui invece la bramava incuriosito dal sapore che avrebbe potuto avere una casa, una famiglia, un'appartenenza. Lei l'aveva persuaso della beltà di cui l'ignoto è regina, lei gli aveva decantato il profumo della libertà così come Lucignolo sussurra a Pinocchio le dolcezze del Paese dei Balocchi. E lui le aveva creduto nemmeno lei sapeva perchè.
    « Mi sei mancata.»
    Quelle parole le tolsero il fiato per la dolorosa spontaneità con la quale le aveva pronunciate. Anche lui le era mancato. Da impazzire. Le era mancato tutto di Tristan. Le sue spalle larghe fra le quali le mani ritrovavano rifugio come rondini dopo l'inverno. Il sorriso sghembo che troppe volte l'aveva fatta incazzare, e poi ridere e poi incazzare di nuovo costruendo uno giostra di montagne russe al posto del cuore. E non sarebbe scesa per nulla al mondo dalla follia di quell'amore. Lo guardò come si guarda un vecchio sentiero che si è percorso da bambini col timore d'essere traditi da un qualche cambiamento. Un albero giovane, un torrente che ha deviato i detriti. Sapeva d'avere gli occhi su di lui da troppo tempo ma l'indiscrezione non era mai stata così dolcemente trascurabile. Voleva prendersi ogni cosa, ogni dettaglio, assorbire avida ogni sfumatura aromatizzata di nuovo come un libro fresco di stampa e mettersela in tasca per riscaldarsi nelle giornate uggiose. Lo voleva indietro e voleva indietro quello che erano stati. Era un'idea così impossibile e bellissima nel medesimo tempo che Dulcinea scosse la testa liberando un sorriso cristallino.
    << Sai che ti dico?>> Si sporse verso di lui e le dita si aggrapparono alla pelle del suo braccio fasciato dalla stoffa. Non era certa che quella fosse la mossa giusta. Il calore della carne riverberò oltre la camicia, oltre le ossa fino a tuffarsi in un antro invisibile di sè stessa. Non si era resa conto di quanto fosse inaffondabile il suo desiderio finchè non aveva sciupato l'infinitesimale distanza che li separava. Ma Dulcinea era sempre stata una persona che giocava col fuoco inaffidabile della propria avventatezza, se si fosse scottata o meno era un incidente di percorso che avrebbe archiviato col tempo.
    << Usciamo! Andiamo via di qui...>> lo sussurrò al suo orecchio perchè il barista insonnolito dal pressochè nullo via vai non potesse sentire. E perchè l'odore di Tristan era una sostanza della quale si sarebbe potuta nutrire per mesi fino ad incarnarsi in essa. Nemmeno attese la risposta. Lasciò la scarpa sul tavolo con qualche dollaro dentro e trascinò il ragazzo giù dallo sgabello. Fremette quando i piedi avvolti dalla labile consistenza delle parigine incontrarono le labbra gelide del parchè. Forse si sarebbe dovuta accontentare di una conversazione spicciola sui bei vecchi tempi. Forse avrebbe dovuto accettare la crisalide dei suoi ricordi che minacciavano una metamorfosi radicale. Tristan era cambiato. Lei era cambiata. Ma non le sembrava una ragione sufficiente per battezzare il loro rapporto con la gelida acqua della commiserazione. Non l'avrebbe permesso. Scosse il capo dedicandogli un'espressione furbetta mentre, senza lasciarlo, lo trascinava verso l'uscita portandosi un dito sulle labbra come una bambina dispettosa.
    L'odore piovano la investì mentre il cielo piroettava su di loro con le balze di nuvole le sue ciglia affilate di nero.
    << Allora facciamo qualcosa di divertente.. idee? Non lo so, danneggiare la proprietà pubblica, fare il bagno nella fontana di Central Park ... guidare fino al molo di Manhattan e fumarci una canna sul ponte di una nave...>>
    Il traffico brulicava con affannosa costanza intorno a loro. Dulcinea si portò l'ennesima sigaretta alle labbra e ne offrì una al ragazzo.
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    È un po' (troppo) bruttino, ma...


    Tristan Ivashkov

    23 - druidic sciences - Σ Θ Η - sheet
    pleasures remain. so does the pain.
    Cosa diavolo stavano facendo? Per quale assurdo motivo erano ancora seduti a quel bancone come due anime in pena? Perché sembravano parlarsi come due ombre che provavano nostalgia per la vita? Tutto ciò non li avrebbe portati a niente di buono, lui se lo sentiva. C'era bisogno, talvolta, di lasciarsi scorci della propria esistenza indietro, effettuare qualche taglio, porre una cesura definitiva e recidere legami di ogni sorta. Avrebbe dovuto farlo anche con Dulcinea; anzi, soprattutto con lei. Avrebbe dovuto preservare la loro relazione passata ed impedire che questa venisse corrotta da ciò che lui era diventato. Era cambiato dall'ultima volta che si erano visti, il suo stile di vita non era più lo stesso, e la medesima affermazione poteva essere pronunciata anche circa il suo carattere, sebbene in quel momento fosse un pochino smussato dall'incombenza inebriante dell'alcool che aveva ingurgitato e che ben presto aveva cominciato a circolare tra le fila del suo organismo. Quanto avrebbe voluto essere diverso, solo Iddio lo sapeva. Avrebbe tanto voluto essere... normale. Sì, normale. Un comunissimo stronzo di ventitré anni, senza poteri magici comparsi improvvisamente dal nulla, con una famiglia rispettabile alle spalle. Probabilmente, se avesse avuto tutto questo, la loro relazione sarebbe andata a finire diversamente. Probabilmente, quella sera, sotto la pioggia, non le avrebbe sussurrato un "addio" ma un "vieni con me". Per troppo tempo aveva rimuginato sulla sua decisione, salvo poi rendersi conto che ci fosse effettivamente soltanto una cosa da fare: accettarla. Avrebbe dovuto accettarla il prima possibile, farsene una ragione, andare avanti. E lui lo aveva fatto, o almeno così credeva. C'erano delle volte in cui neppure lui riusciva a capire quale corrente seguissero i suoi pensieri, a quale filo rosso si aggrappassero al fine di non annegare all'interno dell'oblio della sua mente. Avrebbe tanto voluto risolvere tutta quella faccenda con una semplicissima commutatio massa, o con un protego memoriae, ma sapeva benissimo di non poterlo fare. La magia agiva sui ricordi, sulla materia; mai sui sentimenti.
    E che a Dede piacesse o meno, avrebbe dovuto farci l'abitudine. Sapeva quanto le trovasse noiose, sapeva quanto sapesse essere esuberante, ma avrebbe dovuto comunque mettere da parte la sua espansività ed adattarsi. Sembrava una cosa pesante da dire, forse molto più dura da accettare, ma era vera. Eppure c'era anche l'altro lato della medaglia, quello che racimolava la voglia di lottare con tutte le proprie forze contro un destino avverso ed un mondo che li voleva tutti uguali, come degli insulsi automi. Ma quella faccia, Tristan, l'aveva fatta colare.
    «Sai che ti dico?»
    Ci mise un po' a captare il suono scaturito da quelle parole, ma alla fine tracannò l'ultima goccia di alcool e fece spostare lo sguardo sulla ragazza, ormai sinceramente rapito dalla melodia della sua voce.
    «Cosa?» Le palpebre sbatterono, palesando tutta la sua sincera curiosità, prima di sentire la propria pelle andare a fuoco sotto il tocco delle dita di Dulcinea. Probabilmente era l'alcool ad amplificare quell'inesistente sensazione.
    «Usciamo! Andiamo via di qui...»
    Rimase con le labbra schiuse, un po' confuso da quell'improvvisa voglia della ragazza di andare via di lì con lui. Per quale motivo? Si erano già fatti molto, troppo male; sarebbe stato da folli girare il dito in quella ferita pretendendo che lo stesso dolore avesse il medesimo gusto del piacere. Eppure, ancora una volta, tacque, come gli era già capitato di fare anche in passato. Lasciò che Dulcinea lo prendesse, che lo portasse fuori da quel locale da quattro soldi, mentre lui barcollava come una nave in balìa di una tempesta. E se non fosse riuscito a recuperare quel poco di lucidità e di autocontrollo che gli rimanevano, sarebbe senz'altro annegato. Di nuovo. Come sempre.
    L'aria sferzò contro il suo volto con la stessa potenza che poteva possedere un pugno in pieno viso. Una lama fredda, inesistente, invisibile, ma tagliente. Percepiva gli occhi stanchi, ma ancora incredibilmente spalancati; ma sapeva benissimo che ciò non fosse un valido motivo per portare avanti quella serata. Dulcinea voleva fare qualcosa di divertente; lui, invece, non credeva che fosse il caso. Non avrebbe dovuto legarla nuovamente a lui, non... non poteva farlo. Non a costo di metterla in pericolo, quando aveva già rischiato di farlo anche in passato.
    «No... io non...» Il tono era dimesso, disordinato almeno quanto i suoi capelli, segno che l'alcool ingurgitato stesse facendo il suo corso. Doveva porre, anche in quel caso, una cesura, benché facesse molto più male di quanto volesse ammettere.
    «Non posso.» Pronunciò quella sentenza scuotendo appena il capo, ma con un tono più duro rispetto a quello utilizzato in precedenza. Poggiò una mano contro il muro al suo fianco, conscio che se non l'avesse fatto non sarebbe riuscito a reggersi in piedi, ed abbassò lo sguardo. «Devo... devo tornare a... a casa.» Casa. Una parola che non possedeva alcuna pregnanza per lui, e che indicava, semplicemente, il luogo in cui passava la notte. Niente di eccessivamente sentimentale.
    «Scusa.»
    Parlava per monosillabi, l'incapacità di formulare frasi di senso compiuto che si faceva sempre più palese; ma in compenso, quella volta, quella parola venne carezzata da un flebile sussurro, un suono gentile, differente da quello emesso in precedenza. Tentò di ridestarsi e si ritrovò a chiudere gli occhi per un istante e sospirare, come a voler recuperare le poche forze che ancora aveva in corpo, e subito dopo rialzò lo sguardo, portandolo sulla ragazza. Le sorrise flebilmente, prima di allungare la mano verso i suoi fili color oro e carezzarli con delicatezza.
    «Non metterti nei guai, ok? Tieni sempre gli occhi aperti e guardati intorno, che New York può essere una città molto pericolosa.»
    Un ultimo, disperato lampo di dolcezza fu tutto ciò che si concesse, conscio del fatto che probabilmente non si sarebbero più rivisti. E se da una parte la cosa lo rincuorava, dall'altra, invece, gli provocava non poco fastidio. Probabilmente era stato pronto a lasciarla in Francia, nella speranza che potesse avere una vita migliore; ma forse non sarebbe stato mai pronto a lasciarla andare via completamente.
    «È stato bello rivederti.»
    Ultime parole, ultimo saluto, questa volta quello definitivo. E, subito dopo, si allontanò.
     
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