storia
Ed ecco il secondo argomento dolente. La mia storia può dirsi triste, ma dipende da chi l’ascolta. Passo presto a spiegare. Non ho mai conosciuto i miei genitori. Ero appena neonato quando fui lasciato sui gradini del civico n. 900 di Tremont Ave, sede dell’Amazing Grace Orphanage Home International, alle cure materne di diverse suore. Uno dei pochi luoghi forse, in cui mi sia sentito davvero al sicuro. Perché, per quanto gli anni peggiori del Bronx fossero ormai alle spalle, la criminalità era ancora molto presente e diffusa anche tra i più giovani, in particolar modo nelle scuole. In tenera età, bastava fingere disinteresse e starne fuori anche se si trattava di qualcuno che conoscevi. Era l’unica regola per non finire nei guai e, da buona regola, la infransi alla prima occasione, quando vidi l’anziano di un negozio di abbigliamento, poco distante dall’orfanotrofio, avere dei problemi da dei ragazzini poco più grandi di me, che spacciavano all’ingresso del suo negozio. Lui gli aveva chiesto solo di andarsene, ma loro gli si erano rivoltati contro, malmenandolo. Il mio intervento servì a nulla. Lasciai andare lo zaino e corsi ad aiutarlo, ma fui pestato malamente assieme al vecchio. Urlai con quanto fiato avevo in gola, ma mi fecero tacere a furia di percosse, finché sulla soglia della porta non si stagliò la figura di un uomo che intervenne ad aiutarci, facendo scappare i ragazzini. Lo minacciarono, ma lui non parve farci caso. Si sincerò delle mie condizioni e si prese immediatamente cura dell’anziano. Mi chiese se fossi suo nipote, ma gli risposi di non avere alcun legame col vecchio. Ero intervenuto solo perché questi non lo meritava.
Mi alzai e uscii dal negozio, senza proferire parola. Mi sedetti sul muretto vicino, asciugandomi il sangue al labbro con la maglia, prima di rientrare dalle suore. Spiegare cosa mi fosse accaduto le avrebbe rese più apprensive e volevo evitarlo.
Non mi accorsi dell’uomo finché non mi fu alle spalle. Mi offrì il suo fazzoletto per pulirmi e si sedette accanto a me.
- Volevi fare l’eroe? – chiese. – Che speranze avevi di aiutarlo? –
Non gli risposi, tenendo basso lo sguardo, ma in realtà non me ne lasciò nemmeno il tempo perché la sua voce si fece di colpo sorpresa.
- Come ci sei riuscito?! – esclamò.
Lo fissai con sguardo interrogativo.
- I capelli! In negozio li avevi biondi! E ora li hai castani. – spiegò con evidente curiosità.
Lo fissai stranito, convinto che delirasse e mi allontanai, abbastanza impaurito da quell’uomo.
Tornato all’orfanotrofio, spiegai che avevo rubato una bici ed ero caduto. Fui messo in punizione, ma nulla di più. Raggiunsi i bagni del dormitorio per darmi una ripulita. Nello sciacquarmi la faccia, ripensai a quanto accaduto e una cupa rabbia nei confronti di quei ragazzini per ciò che mi avevano fatto, mi montò dentro e d’istinto fissai lo specchio per guardarmi. Lanciai un urlo quando osservai distintamente i miei capelli diventati color porpora. Mi raggiunsero un paio di suore, spalancando la porta, allarmate. Mi trovarono seduto sul pavimento con le mani nei capelli.
Mi aiutarono a rialzarmi, ma quando mi guardai nello specchio, i miei capelli erano tornati al loro colore originale. Preso in contropiede dalla situazione, inventai che mi avesse spaventato un insetto e aspettai che mi lasciassero nuovamente solo.
Mi fissai stranito allo specchio. Tentai di concentrarmi provando ad emulare ciò che prima era stato così naturale, ma nulla cambiò.
Riflettei, sperando di trovare una soluzione al problema, ma questa non venne finché il ricordo di quei ragazzi non mi riattraversò la mente. Fissai sbalordito i miei capelli tingersi di piccole pagliuzze dorate. La sorpresa mi fece preoccupare, ma anziché urlare cercai di calmarmi cercando di pensare ad altro. In quello stesso istante, i miei capelli tornarono ad essere castani.
Mi fissai, sbalordito da me stesso. Che diavolo era questa capacità? Da dove spuntava?!
La sorpresa lasciò il posto alla preoccupazione. Da quella breve esperienza avevo imparato che per comparire dovevo lasciar spazio alle emozioni. Sarebbe bastato contenerle, respirare a fondo e soprattutto stare lontano da qualsiasi tipo di rissa.
Mi sciacquai nuovamente il volto, ma in quell’istante sentii distintamente il campanello dell’orfanotrofio suonare. Non ci badai molto, probabilmente pensai era un altro dei ragazzi appena rientrato, ma aguzzai l’orecchio quando sentii distintamente dei passi, procedere spediti nella direzione dei bagni.
Spiai da dietro la porta del bagno e riconobbi di spalle, l’uomo che mi aveva salvato al locale.
Con passo felpato, scostai la porta per allontanarmi. Se non mi avesse trovato, probabilmente sarei stato dimenticato presto, ma l’uomo colse il mio movimento, voltandosi nell’esatto momento in cui lasciai il bagno.
I miei occhi incrociarono i suoi e presi a correre. Lui rimase dov’era, ma lo sentii distintamente mormorare in una lingua sconosciuta. Mi irrigidii come fossi fatto di pietra e caddi riverso sul pavimento in marmo del lungo corridoio.
L’uomo mi raggiunse, sollevandomi di peso e muovendosi verso l’uscita dell’orfanotrofio. Solo i miei occhi erano capaci di muoversi. Vidi le suore mentre l’uomo le scavalcava a grandi passi. Sembravano essersi addormentate.
Feci appello ad ogni fibra del mio essere per urlare, ma le mie labbra erano serrate.
Non potei far altro che lasciarmi trasportare fin dentro la sua auto che partì a velocità considerevole, lasciando il quartiere.
L’uomo si fermò pochi minuti più tardi. Appena fuori città, mi fece uscire dall’auto e mi prese la mano.
Fui risucchiato in un vortice e mi sentii lo stomaco in subbuglio per qualche secondo, finché atterrai sul pavimento di un motel. L’uomo chiuse a chiave la porta e mormorò altre strane parole, prima di rivolgersi a me e spezzare la pastoia che mi bloccava.
Istintivamente corsi verso la porta e urlai per farmi sentire, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono. Guardai inorridito l’uomo che noncurante si era seduto ai piedi del letto e mi fissava. Aver perso la voce mi impaurì molto e fissai l’uomo in lacrime.
- Sta tranquillo. Non voglio farti del male ragazzino. –
Non gli credetti, ma cercai di calmarmi per quanto possibile, appiattendomi ad un angolo della stanza con gli occhi fissi sull’uomo.
- Ti ho tolto la voce solo temporaneamente. C’è qualcosa che devi sapere e, a giudicare dalla tua età, non hai molto tempo. –
La mia sorpresa crebbe, ma la paura era maggiore.
Fu allora che mi rivelò l’unica cosa che non mi sarei mai aspettato di sentire. Io ero un mago.
Persino per l’uomo la cosa si rivelò inusuale. Accennò al fatto che la comunità magica evitava il bronx per il tasso di criminalità, che comunque fosse una zona controllata da un certo ministero e che quello che riuscivo a fare, pur se inconsciamente, era un dono molto raro.
Mi restituì la voce quando ormai fu conscio che volevo saperne di più. Mi raccontò di Ilvermorny, una scuola di magia e stregoneria americana e che fossi nell’età per frequentarla.
Con mia grande sorpresa mi anticipò economicamente le spese dell’occorrente per il primo anno. Mi riportò solo più tardi all’orfanotrofio, spiegandomi che sarei dovuto restare lì l’estate perché non poteva adottarmi, ma che avrebbe provveduto lui alla mia istruzione Mi informò anche che sarebbe giunto all'istituto un incaricato del Ministero che avrebbe "spiegato" alle suore che un anonimo benefattore si era offerto per occuparsi della mia istruzione presso un rinomato collegio americano.
In tutto questo, sfuggì la cosa più ovvia e fu solo appena prima di salutarlo che gli chiesi come si chiamasse.
Mi lasciò solo il suo nome: Fredrick.
Avvenne come mi aveva anticipato. Conoscere Ilvermony e gli altri miei simili fu un’esperienza quasi surreale. Alcuni del primo anno eccellevano molto più di me nelle materie, con le quali inizialmente ebbi qualche difficoltà. Ci misi un po’ per mettermi in pari e da quel momento conservo solo ricordi piacevoli di quell’esperienza.
Il problema erano le estati. Il Bronx non cambiava, anche se da fuori appariva il contrario. Il monopolio dello spaccio era di pochi uomini che si arricchivano alle spalle della povera gente. Inoltre, io mi sentivo sempre più un pesce fuor d’acqua in quel posto.
Ad alcuni dei ragazzi dell’orfanotrofio, che avevano ormai una posizione consolidata nella criminalità, non sfuggì che ritornavo lì sempre allegro e ben nutrito. Mi chiesero dapprima di spacciare, ma rifiutai diverse volte, poi si interessarono alla mia vita, facendomi domande alle quali non potevo rispondere. Ero bravo ad inventarmi stronzate sul momento, ma il loro scopo non era quello di sapere la realtà. Erano perlopiù convinti che avessi rubato qualcosa di valore e mi pagassi gli studi.
Una notte mi tesero una trappola e mi malmenarono, cercando di farmi parlare, ma esagerarono e, preoccupati delle mie condizioni, fuggirono.
Quando le suore mi trovarono, fui ricoverato d’urgenza nell’ospedale più vicino. Le suore dell'istituto informarono Fredrick dell’accaduto e lui mi trasferì in un ospedale magico.
Mi curarono le ferite in un batter d’occhio, nonostante avessi una costola incrinata e qualche osso rotto.
I colpevoli spalancarono gli occhi dalla sorpresa quando mi videro ricomparire sulla soglia dell’orfanotrofio in perfetta forma, solo un paio di settimane dopo il loro tiro mancino.
Ero purtroppo obbligato a tornarci finché non fossi diventato maggiorenne, ma conscio che potesse ricapitare, Fredrick mi insegnò diverse mosse di autodifesa in quel lasso di tempo e i risultati si videro subito.
Per quanto fossero in gruppo, erano solo ragazzi disagiati e senza spina dorsale. Bastò spaventarli per essere lasciato in pace, ma come tardai a scoprire, l’esperienza non mi aveva insegnato niente.
Tronfio delle mie capacità, qualche anno dopo, alla fine della mia esperienza ad Ilvermorny, mi capitò di essere nuovamente coinvolto nel Bronx, stavolta durante una rapina. Ci presero in ostaggio e, convinto com’ero delle mie capacità, feci l’enorme cazzata di voler mandare a monte la rapina. Oh ci riuscii, pur rimediando una pallottola nel fianco, ma quel che è peggio, mi inimicai uno dei boss del Bronx. Riuscii a scamparla in orfanotrofio e fui costretto a lasciarlo, vivendo perlopiù da latitante.
Diverse volte fui costretto a fuggire, ma complice l’adrenalina degli inseguimenti, fui presto in grado di servirmi del mio dono per depistare i miei inseguitori, scoprendo di riuscire a modificare non solo i capelli ma anche gli occhi e altre peculiarità fisiche, pur non avendone ancora il controllo.
Arresosi all’idea di vedere i suoi sforzi vanificati inspiegabilmente, il boss tentò più e più volte di reclutarmi tra le sue fila dietro cospicue somme di denaro che mi fecero vacillare, promettendomi la morte se avessi rifiutato.
Messo con le spalle al muro accettai, ma al primo colpo importante, il Governo ci beccò e riuscii a non lasciare tracce del mio coinvolgimento solo grazie al mio essere metamorfomagus.
Carico di adrenalina, mi smaterializzai nel motel dove alloggiava Fredrick, ma lo stupore si tramutò in orrore nel vederlo a terra, privo di sensi.
Cercai di rianimarlo, ma non c’era polso. Il suo colorito era freddo e i suoi occhi fissavano il soffitto.
Con le lacrime agli occhi, glieli chiusi delicatamente e avvertii il ministero del decesso.
Poco prima che arrivassero, notai che la lampada del suo scrittoio era rimasta accesa. Avvicinandomi per spegnerla, notai la lettera che stava ancora scrivendo. Era la risposta alla mia, dove lo informavo di essere stato costretto a servire il boss per avere salva la vita.
Conservo ancora quella lettera:
“Caro Trev,
al contrario di quello che pensi, capisco bene la tua scelta.
Tu hai un dono e te lo ripeterò sempre, non va sprecato. Non serve solo a cavartela quando sei con le spalle al muro. Può fare del bene, può aiutare in modi che ancora non comprendi.
Tu sei diverso da me e forse, per certi versi, questa diversità ti ha tenuto in vita finora, ma ricorda una cosa. Il boss di un quartiere non sarà mai lontanamente paragonabile a un mago oscuro.
Se vuoi scappare fallo, è lecito, ma qualsiasi ordine viene intimorito dagli ambienti e dai loschi traffici magici e non, che girano all’interno del Bronx.
Ti ho incontrato, facendoti conoscere il mondo al quale appartieni, solo perché sono stato così folle da dare la caccia all’uomo sbagliato! Ma grazie a questo tu ora puoi fare una scelta, puoi decidere di dare un senso alla tua vita e raccogliere questa eredità.
Spero di inviarti questa lettera prima che sia troppo tardi, ma voglio insistere. La tua vita e il dono che ti è stato dato, sono da preservare! Ma se guardi appena più in là di te stesso, capirai che c’è qualcosa di più importante! Confido in te ragazzo, l’ho sempre fatto. Raccogli la mia eredità.”Mi sentii svuotato e caddi in ginocchio con la lettera in mano. Le lacrime mi rigavano le guance e quasi non sentii la porta del motel si spalancarsi per lasciar entrare gli agenti del Ministero.
Mi trascinarono via assieme al corpo esanime del mio mentore per interrogarmi, ma il veritaserum mi scagionò da possibili accuse.
Fu quella la prima volta in cui venni a contatto col M.A.F.I. e ne rimasi affascinato. Da Fredrick avevo saputo, in passato, che pochissimi dei suoi colleghi volevano aver a che fare col Bronx e avvertii la sottile pergamena della sua lettera, farsi pesante dell’eredità che mi lasciava.
Mi iscrissi a Brakebills e completai la laurea specialistica in Criminalistica e Criminologia, facendo richiesta, dopo essere stato sottoposto ad un duro addestramento, di far parte del M.A.F.I. come agente.
Il mio difetto, fin da subito, fu la scarsa propensione a seguire le regole o le indicazioni ricevute e fui presto etichettato come polemico.
Eravamo diversi io e Fredrick, in particolare in quello: lui così propenso alle regole, io così incline a non esserlo. Non ero lui e forse mi sarei fatto uccidere anche prima, ma senza la sua ferma convinzione io non avrei mai conosciuto una sola alternativa alla criminalità.