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.Silasciò il Brakebills alle spalle, stringendo sulla spalla il filo della tracolla leggera. Se aveva imparato una cosa vivendo con Nik, era che sapeva dare fuoco a troppe cose per i suoi gusti. Tenere i libri nella camera della confraternita era decisamente una scelta più saggia, nonostante ormai quella stanza assomigliasse più ad un deposito per gente sempre sulla strada che altro. Curiosamente, era così che si era sempre sentita. Sulla strada. Alla deriva in un mare troppo ampio, di cui aveva imparato ad apprezzare ogni frammento limaccioso di fondale. Erano stati giorni frenetici, in cui quella nuova decisione aveva avuto il potere di mutare il suo umore facendola oscillare fra un'agghiacciante terrore e una più profonda consapevolezza. Non aveva più bisogno di aggrapparsi al surrogato di una carezza, adesso aveva qualcuno che le comunicava il suo amore con ogni più piccolo gesto. Se lo ripeteva all'infinito, sperando di convincersi prima o poi che sarebbe stato abbastanza. Abbastanza per dimenticare la prima volta in cui si era trovata accanto al letto di Judith in ospedale e lei l'aveva fissata smarrita, salvo poi allungare una mano tremante per sfiorarle la guancia. Ricordava ancora la lacrima che aveva seguito il solco di quella carezza non appena aveva lasciato la stanza ed era rimasta sola. Non aveva pensato di aver sentito la mancanza di una cosa simile fintanto che non le era stata donata come un fiore germogliato su un terreno di guerra. Se solo chiudeva gli occhi sentiva la leggera brezza che quel giorno poteva lambirle la pelle quasi un soffio materno e rassicurante, che per questo si tingeva di una malinconia amara. Le piaceva fare quella strada, anche se significava allungare un po' il tragitto. Le piaceva pensare fra quegli alberi a cui si era sempre rivolta come fossero la sua casa e la sua prigione, verdeggianti e rigogliosi fintanto che si trovava nella realtà, scheletrici e bianchi quando veniva risucchiata nel suo panorama mentale. Lì aveva un tronco per ognuno di quei volti a cui avrebbe desiderato aggrapparsi con tutta la disperazione che sapeva ghermirla. Eppure, in nessuno di loro aveva mai visto incastonato il volto di Judith. Quella consapevolezza rendeva più difficile lasciarla andare. Portò i capelli dietro le orecchie, schiudendo allo sguardo un mondo vero a cui avrebbe dovuto pensare ben più di quello che era costretta ad incontrare nella sua mente. Mr. Callaway su quello si era dimostrato inconsapevolmente spietato, ridestando incubi che ringhiavano per restare sopiti. Aveva il potere di materializzarli perfino. Si bloccò all'improvviso, artigliando la fascia della tracolla come un gatto affila le unghie per aggrapparsi ad un tronco prima di cadere. Non era possibile. Se pur il docente di magia bianca fosse stato un presagio di sventura non poteva dimostrare una tale infallibilità. Prima Ray, poi lui. Logan. Solo pensare quel nome sciolse le briglia di pensieri intricati e rabbiosi, divorati in un ventre di malinconia in grado di paralizzarla. Non mosse un passo. Forse aveva anche smesso di respirare, perché la stretta feroce degli addominali non poteva permetterle di gonfiare la cassa toracica. Si limitò a salutarla. Una sola parola che aveva sognato nel buio quando era annidata fra coperte troppo spesse, e che comunque non sapevano darle calore. L'aveva sussurrata sperando potesse avere la sua voce e non quella di una bambina spaventata, convinta di esser stata abbandonata. L'aveva ringhiata quando aveva appena sedici anni e aveva ormai compreso che di preghiere fra le braccia della solitudine era ormai finito il tempo. Erano trascorse infinite vite da allora, una per ogni frammento ancora miracolosamente integro del suo essere che ringraziava di aver potuto respirare e insieme prorompeva ingiurioso verso le mani che l'avevano abbandonato. Era cominciato tutto con un primo addio. Il suo. Strinse i denti assottigliando gli occhi, senza riuscire ad evitare quell'espressione irata che sapeva renderla tremendamente simile a Judith. Del resto lui aveva la calma maestosa e disarmante di Alec incisa in ogni suo gesto. Aveva sempre rimandato il momento in cui avesse dovuto fare i conti con i suoi sentimenti convinta che il giorno del giudizio non sarebbe mai arrivato. Ed eccolo lì, racchiuso in un trench scuro che ne rendeva la figura ancora più imponente. Il suo tempismo era dei peggiori. Le bastò quella piccola riflessione per sentire un odio cocente germogliare nei suoi occhi. L'aveva cercato con disperazione. Aveva rivolto a lui ogni genere di invocazione, avendo come unica risposta il silenzio di una casa svuotata. Aveva voluto un'ultima spiegazione, dargli un'ultima possibilità, eppure lui si era limitato al distacco. Le cose dovevano sempre essere fatte a modo suo. Non lo pretendeva, ma aveva quel modo naturale di fare che piegava il destino dolcemente perché incontrasse i suoi bisogni ed i suoi desideri. E lei, impotente, non poteva che lasciarsi abbagliare da una luce in grado di ferirla ben più della più profonda oscurità. Schiuse le labbra cercando un saluto o un insulto che morì in gola insieme a metà delle emozioni che aveva provato ed erano già pronte ad essere sostituite con altre ancora sconosciute. Era stata sicura di aver scovato la chiave di volta. Nella sua mente, il Logan irreale aveva aderito a quella sua convinzione in modo perfetto, e forse di questo non avrebbe dovuto stupirsi. Era anche stato ferito da una freccia che lei era convinta non avrebbe potuto neanche scalfirlo. Quel ragazzo, però, era molto diverso da colui che aveva davanti. Leggeva su quel viso ancor più familiare di quando l'aveva lasciato le ombre di vite concluse e a volte bramate. Le vedeva come se i pori distesi del viso non fossero altro che un riflesso splendente in cui specchiarsi. Ecco un particolare che aveva dimenticato: la sensazione duplice di dover fronteggiare qualcuno che era sempre un passo avanti. Non importava quanto lei avesse camminato, lui avrebbe sempre trovato il giusto sentiero per avanzare più in fretta, riportando da lei quell'offesa per la sua piccolezza e la promessa di un tocco intimo che non l'avrebbe mai tradita. Provò a schiudere ancora le labbra, e ancora una volta non ne uscì che arrochito silenzio.–ISOBELLE OPHELIA LAGRANGE–i know the choices color all i've doneSPOILER (clicca per visualizzare)Io ti chiedo scusa. Io sono ufficialmente sconfitta..
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.Schiuso fra gli ultimi tentativi di quelle labbra trovò finalmente un moto di raucedine che emerse come da giorni di un passato lontano. Le parole di suo fratello si stavano chetando nella mente lasciando al silenzio il suo imponente spazio. Era in quello che lo riconosceva. Persino quando le raccontava quelle favole surreali e oniriche era nelle pause pregne di silenzio che scopriva cosa Logan provasse. Percepiva la stanchezza emergere pur se la sua voce si diceva invincibile, percepiva l'affetto mentre si assicurava che si fosse addormentata sul serio, e più di tutto percepiva il bisogno di alzarsi per incontrare ancora quella solitudine di cui aveva fatto la sua sposa. Con lui le parole erano ingannevoli, piegate dalle regole della lingua e da confini invalicabili che altrimenti avrebbe superato in un soffio di vento. Narravano storie con cui costruiva la realtà, ma che non dicevano nulla della voce che le sottendeva. Aveva la fronte tesa. Sapeva che quel piccolo particolare poteva testimoniare i suoi incessanti e normali tentativi di tenere le redini delle sue responsabilità presunte, così come una preoccupazione latente a cui dava appena il tempo di specchiarsi nella sua consapevolezza. Per quanto la prima ipotesi l'avrebbe convinta d'aver avuto ragione per molti di quegli anni, sospettava in quel caso si trattasse della seconda, e in qualche modo percepiva la speranza di trovarsi davanti una persona diversa da quella che l'aveva cacciata con la stessa solida fermezza d'una roccia. Bastò quello a farla risvegliare per scrutarlo con la stessa determinazione che aveva avuto un tempo nel fronteggiarlo. Per un istante si sentì fiera, come fosse stata in grado di incarnare lo spirito atavico di Alec, per lei sempre invincibile. Logan la avvolgeva e sfiorava con lo sguardo, in grado di saggiarla come avrebbe fatto con un tessuto pregiato. Se solo chiudeva gli occhi poteva sentire le sue mani scorrere la stoffa per vedere quanto intricata fosse, se potesse scorgere anche un più nascosto disegno fra le maglie, se fosse abbastanza morbida da poterla stringere fra le dita. Non era quel tipo di conoscenza maturato con l'esperienza, del resto quella era mancata più che mai vista la sua assenza negli ultimi undici anni. No, lui sapeva. Sapeva per il modo in cui scivolava fra le pieghe del mondo e se ne lasciava attraversare come parlassero la stessa lingua. Un po' come stava facendo con lei, chiedendo a quel silenzio di portarle un messaggio che le parole erano lente a trasmettere. Avrebbe potuto aspettare che dicesse qualcosa, magari che le spiegasse cosa ci facesse lì, ma sapeva che non sarebbe successo. Sarebbe stato come la pietra di una montagna, e lei scorrendo in quel dominio che non le apparteneva non poteva che sfregarlo pian piano fino a corroderne la superficie più esterna con la stessa perseveranza dimostrata dall'acqua in decine di anni. Quello non era il suo campo. Avrebbe vinto e condotto il gioco con naturalezza, ma esattamente come quando era appena una bambina, Isobelle non riusciva a permetterlo rimanendo buona e silenziosa. Sistemò la fascia della tracolla sulla spalla sentendola sfregare laddove portava il marchio indelebile di Nik. Le ricordò all'improvviso che non era più quella mocciosa agitata a cui Logan aveva cercato di trasmettere dei limiti. Si sentiva meritevole di parole adulte anche se continua a sentire di non poter raggiungere la vetta su cui la figura del fratello si posava, sempre irraggiungibile all'uomo. «Mi hai trovato?» chiese più calma di quanto credeva di poter essere. Neanche sospettava avrebbe mai fatto una simile domanda se mai l'avesse visto un'altra volta. Eppure, per quanto odiasse ammetterlo e sentisse la rabbia frustrante che accompagnava quella consapevolezza tardiva, per lei contava di più scoprire se lui l'avesse scovata per caso o meno, che immergersi in quel che aveva da dire. Forse ci sarebbe anche cascata immediatamente se non fosse stato per quel pessimo tempismo. Se c'era un disegno superiore in tutta quella situazione, evidentemente si stava rivelando. Sedò appena la curiosità vorace che divorava l'astio per non permettergli di distruggere quel mistero ancora mai svelato. Non poteva negare di vedere qualcosa di diverso su quel volto, qualcosa che più si armonizzava a quel che lei avrebbe potuto amare, in modo da resistere intensamente al passare degli anni perché provasse ancora la agitazione nel vederlo. «Dove hai vissuto?». Un'ultima domanda che rimase fredda in superficie, aggrappandosi a modi severi di giudizio che non le appartenevano. Forse per questo le sembrava tanto difficile ricorrervi senza pensare di essere davanti ad un bel po' di cazzate. Dovevano essere quelle a tenere insieme pezzi discordi che cercava di abbinare per poter tentare davvero quell'addio tanto agognato e temuto che pure voleva rivolgere a sua madre. Lui era lì, quasi un regalo del destino per permetterle di porre fine ad una straziante attesa.–ISOBELLE OPHELIA LAGRANGE–i know the choices color all i've done.
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.Lo guardava sul naso in cui tratti marcati e delicati si univano in modo perfetto, perfetto nel suo essere un'armonia fra quella che era l'asprezza con cui Judith piegava i suoi tratti più anticamente femminili e la dolcezza di quelli più mascolini e decisi di Alec. Li teneva insieme come se fosse stato in grado di prendere tutte le loro contraddizioni e frammentarle fino a renderle un impeccabile connubio di parti. Non osava sollevare gli occhi abbastanza per incontrare quelli del fratello, ma allo stesso tempo non era abbastanza codarda da spingerli semplicemente via. Restava a metà, su quel naso che si immolava come mediatore di pace fra due universi infinitamente contrastanti, e per questo profondamente simili. L'aveva capito troppo tardi. Fulmineo lo sguardo balzò su un particolare forse innocuo, ma non per lei. Le dita di Logan vibrarono come se covassero l'ombra di un gesto mai nato, convinte di dover mostrare un infinitesimale segno ad una mente che avvolgeva tutto in modo troppo completo ed ampio per cogliere sfumature sottese così piccole. Come se stesso. I suoi occhi erano tanto grandi da non potersi voltare verso l'oscurità celata nelle orbite vuote. Infilò le mani in tasca. Un altro gesto innocuo, che per lei aveva però il sapore di un risarcimento per anni spesi a guardare un'immagine inesistente. Adesso lo vedeva in modo del tutto diverso. Debole dove un giorno aveva visto una perfezione immota. Forte, laddove in passato aveva colto la codardia della fuga. Logan si era ribaltato nella sua assenza. Quell'unico gesto le sembrò un riconoscimento mancato, come se quelle dita che una volta avrebbe posato sul suo capo per darle quel tocco amorevole che credeva le mancasse adesso si ritraessero, consapevoli di non avere più davanti una creatura tanto piccola. Come gli occhi che si abbassavano sulla spinta di un'improvvisa frenesia per tornare immediatamente al loro posto, sul trono di una figura imponente. Sentì all'improvviso quanto lui non la considerasse più la bambina di un tempo, un particolare che fece montare una nota di irritazione flebile. Era malinconia più che rabbia. Stavano ancora seguendo i suoi tempi. Non aveva avuto lo stesso sguardo quando lei si era mostrata al suo cospetto come un'adulta. No, aveva dovuto attendere di piegare una mano per cogliere un fiore già sbocciato, che prima si era limitato a rimettere in piedi per aver cercato di scivolare su un terreno ricolmo di speranze ancora acerbe. All'improvviso riuscì ad afferrare una sensazione che aveva spesso provato in relazione ai suoi ricordi del fratello, una sensazione sfuggente e distorta che l'aveva fatta allontanare bruscamente. Davanti a lui non si sentiva solamente piccola. Non sentiva la differenza di statura, né i lineamenti infantili. Davanti a lui sentiva la grandezza della sua spinta alla libertà acciambellarsi come una creatura maestosa ma ugualmente leale. Si vedeva come dall'esterno. Non aveva occhi a posarsi su un ragazzo non ancora trentenne o ventenne, bensì l'accoglienza di un mondo intero in cui figurava un uomo e una ragazza che pian piano diveniva bambina per parlare di una storia altrimenti dimenticava. Vedeva se stessa nel suo sguardo, il suo passato, il suo futuro, quello che Logan credeva fosse il suo destino. E attraverso tutte queste cose vedeva lui, percependo all'improvviso la sensazione che provava lui toccando le cose. I colori di cui era tinto il suo mondo. Quella particolare fragranza su cui concentrava le narici quando arrivava l'odore del vento. I silenzi divenivano anni di luce quando parlava con lui. Viveva contemporaneamente decine di vite, una scheggia di quel che si annidava con naturalezza negli occhi del fratello. Quando parlò quasi si era dimenticata cosa gli avesse chiesto. Si era dimenticata della rabbia, della malinconia. Si era dimenticata di essere nel suo corpo. Tempo. Quale inutile variabile per chi il tempo l'aveva elemosinato e a volte plasmato. Fermato, fintanto che non fosse venuto il momento di farlo ripartire come una canzone bellissima cominciata nel momento sbagliato. Si svegliò, spostando la testa fino ad includere gli alberi più fitti oltre le panchine nel suo campo visivo. Fra loro c'erano radici profonde, dolcemente arpionate nel terreno, intimamente nascoste sotto il verde pallido del prato per conservare la privacy del bacio nutriente che offrivano alla pianta posata su di esse. Non disse nulla mentre le gambe naturalmente si portavano verso di loro e le braccia lignee da cui poteva farsi celare al mondo. Solo per qualche minuto. Si sedette con estrema delicatezza, una cosa normalmente inconsueta, ma che aveva dovuto apprendere per muoversi in perfetta sincronia su corde sospese nell'aria. Aveva appreso l'equilibrio e la calma, e in quello aveva impresso la sua spasmodica passionalità. Toccò il terreno, e solo allora tirò a sé le gambe in una posa più infantile di quanto quelle movenze potessero lasciar presagire. Alzò gli occhi fino a vederlo lontano, in quel trench scuro che lo teneva insieme, con le mani nelle tasche perché nascondessero quella pelle così umana. «E tu?». Fu l'unica cosa che si sentì di dire, lasciando che una nota sonnolenta di sfida colorasse un po' le sue parole. Non era un dubbio, né una richiesta. Voleva lui dicesse a voce alta quale fosse il suo desiderio, ferma nell'idea ancora giovane che quelle labbra non fossero mai state abituate a lasciar sfuggire un sogno. Era la sua mente a coltivarne decine fra le teorie più argute a cui solo Alec, fra quelli che lei conosceva, aveva avuto accesso. Lì dentro s'agitavano mondi, ma sulla sua bocca proliferava il silenzio. Erano quelle le sue condizioni. Esattamente come lui danzava fra le pieghe del tempo e dei rifiuti ben dissipati, lei chiedeva una verità da mettere sul piatto e la schiettezza per battere il banco.–ISOBELLE OPHELIA LAGRANGE–i know the choices color all i've done.
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.Una brezza leggera si animò di nuovo. Condusse l'odore sotteso di brughiera, quello stesso odore che lei associava al concetto di "casa" in modo delicato e ostinato, e che a volte si sentiva malinconicamente sulla pelle. Portò l'umidità di felci notturne avvolte e trapassate dalla caligine fitta. Aghi di pino estranei che sembravano essersi in qualche modo imposti nel tempo. La sabbia calda di un deserto una volta dissetato, ma ormai testardamente attaccato alla sua natura solitaria e vuota, senza sapere quante serpi e meravigliose sorgenti d'acqua pura celasse sotto la sua superficie. Un deserto che nascondeva a se stesso ogni oasi intrappolandosi nella sua stessa illusione. Non aveva bisogno di chiudere gli occhi per farsi sfiorare da quell'odore. Non voleva lasciarsene conquistare e impregnare come da quello più infantile e forte di Nikolaus, né sentiva di poterlo fare. Quel profondo coinvolgimento recluso in una nota di distacco le faceva gustare il sollievo, nonostante fosse sempre stata così legata al tatto e Logan fosse ormai per lei una scia impalpabile. Si solito ogni suo ricordo si tingeva della sensazione provata da dita che sfioravano, da pesi che spingevano gli organi interni, da presenze gelide che punteggiavano la pelle di brividi. L'odore di Logan, invece, era una carezza perduta, un'ombra lieve. Una mano che non arriva a toccare il capo, ma che si percepisce ugualmente sui capelli. Neanche se ne accorse, ma allungò la sua aura violacea perché lambisse quella natura artificiosa e il fratello anche a quella distanza. Solo i maghi bianchi potevano vederla, ma in qualche modo s'illudeva che chiunque fosse avvezzo alla magia, forse perfino un babbano, potesse sentirla accanto come un presagio d'essere accolto. Il viola, il suo viola, era l'indice di una profonda connessione con lo spirito. "Misticismo" era uno dei termini utilizzati da Callaway. Quando per la prima volta aveva parlato con lui non aveva badato a simili piccolezze. Non sentiva alcun legame con la Magia Bianca, l'aveva appresa perché voleva conoscere quell'uomo così curioso, la cui fama trapassava le pareti dell'università giungendo perfino alle orecchie più sorde. Ma era passato tanto tempo, e quell'aura le aveva permesso di presentarsi a tutte le parti ignorate di sé che negli anni avevano dovuto imporsi per farle sapere della loro esistenza. Voleva accogliere quella nuova figura fra loro, farle conoscere quella più slegata alla furia del suo corpo, come un tributo a quello che Logan era sempre stato. La gemma preziosa che aveva involontariamente lasciato cadere nel suo spirito quando a legarli non c'era che dovere. L'aveva perduta involontariamente, come spesso lei credeva si trovasse a fare. Le sembrò quasi fosse il vento a portarlo sull'erba. Rimase composto, impassibile ad occhi estranei, ma il suo corpo non comunicava la freddezza che aveva intravisto prima di lanciarsi verso la fuga del circo. Forse era stata lei ad essere troppo giovane allora. Aveva sedici anni e l'irruenza nel sangue, aveva distrutto legami con la forza di un uragano e lui non aveva voluto lasciarsene corrompere. L'aveva odiato con il più veemente senso di tradimento che l'aveva spezzata, costretta a rannicchiarsi fra lenzuola estranee in Francia percorrendo paesaggi maestosi e belli, impossibilitati a toccare la sua anima a pezzi. Aveva covato l'ira e la brama di demolizione, aveva meditato di ferirlo e devastarne la compostezza con ogni gesto. Nel suo panorama mentale quella verità si era portata a galla insieme ad un'altra consapevolezza. L'aveva visto piegato per le ferite, e con lui il suo mondo silenzioso era collassato su se stesso sciogliendosi davanti i suoi occhi. Era una lezione che avrebbe dovuto apprendere la prima volta, quando una similare furia l'aveva portata ad annegare Ray sotto spanne di acqua violenta e gelata. Allora aveva sentito dentro sé lo stesso soffocamento, distrutta dai suoi tentativi di distruggere quel ricordo quanto il suo mondo lo era stato dalla ferita di Logan. Eppure era stata cieca così a lungo. Dentro sé stringeva un frammento di entrambi. Ray, inscindibilmente suo, nella sua carne, il sangue sgorgato dal suo petto e pompato nelle vene. Logan, fautore di un mondo onirico e mistico quanto le favole che raccontava. Le sue parole avevano intessuto un sogno in cui lei si sarebbe volentieri rifugiata. Aveva costruito il suo invisibile nascondiglio e una magia più potente di quella che avrebbero mai potuto insegnarle. E quante volte aveva riproposto quel mondo donatole quando intorno a sé non vedeva che la decadenza della realtà, privata di quella meraviglia infantile e trascendentale. Si poteva dire che il tempo avesse reso entrambi più morbidi verso le loro debolezze, permettendogli di vedere che non pulsavano più per le ferite ancora aperte. Vederlo seduto sul prato la fece sorridere in modo infantile. Lui, composto, rinchiuso in un elegante ed austero trench nero, con i lineamenti giovani e morbidi a mostrare un muro di maturità per non essere sottovalutati, piegato sul terriccio, ancora una volta infinitamente accondiscendente per i capricci di una bambina testarda. Lo sentì ridere. Quel dettaglio la fece sentire improvvisamente felice. I ricordi di quando era più piccola erano stati contaminati dalla verità, dallo scoprire quel senso del dovere alla base del loro attaccamento. Almeno da parte di Logan. Da allora si era convinta che tutto non fosse altro che l'inganno di una persona fredda, non importava quanto strenuamente si sentisse ancora fermamente attaccata a sensazioni tutt'altro che distaccate e che lei era certa di aver sentito. Per un istante le tornò in mente Ethan. Le volte in cui aveva visto l'odio della sorella dipinto sugli occhi verdi ad offuscarli, avvelenati al punto da apparire infinitamente scuri. Quelle volte apriva le labbra come per dire qualcosa di evidente, una verità lampante a lungo sfuggita per chissà quale ragione, ma poi il respiro gli gonfiava il petto troncando ogni parola. Emetteva solo un sospiro, mutando il suo sguardo in un tocco carico di compatimento. Isobelle odiava quando lo faceva, e lui lo sapeva. Vestiva di nuovo i panni del giullare. Se li avesse visti lì, seduti sull'erba, forse avrebbe sorriso con una certa soddisfazione. Non ne era sicura, perché anche se fosse stato presente avrebbe socchiuso una porta immaginaria per lasciarli davanti alla loro riscoperta senza ostacolarli. In qualche modo quella risata era la prima cosa che stava conoscendo di Logan. Il particolare di un ricordo che si colorava all'improvviso abbandonando le tinte in bianco e nero. Quella era stata una scheggia sincera. Strinse le mani sulle caviglia unendo i piedi, tirandoli a sé come a voler frenare le briglie di un soddisfacimento che in quel momento avrebbe intralciato quella spontaneità. Chiuse gli occhi, assaporando il sapore di un racconto che le era mancato. Cashel. Suonava bene. Sembrava un luogo di rovine ricoperte di muschio e pub in legno dall'odore di birra e sale. Lo stesso nome di Byron, taciuto fra le pareti di casa come fosse un anatema da contrastare, fra le labbra di Logan sapeva di una profonda debolezza. Le bastò udirlo una volta per capire senza stupirsene che il suo sguardo aveva attraversato quell'uomo fino a sperimentare la pietà di chi ha compreso davvero. Si fidava di quel parere, ma come per molte delle persone che le si agitavano intorno, il suo interesse scemava come un girasole che segue la stella e non il mondo che illumina. Eppure guardava quel mondo cercando lui in ogni sua parte, per poi abbandonarlo e prendersene ciò che l'aggradava. Dell'Irlanda aveva il ricordo delle scogliere e delle distese verdi in cui la sua libertà cacciava ferina i soffioni, le foreste stregate e affilate e la nebbia nel mattino in cui il sole infilava le sue propaggini di luce con difficoltà. La colpì sentire che lui avesse parlato di lei a qualcuno. Arrossì involontariamente, irritandosi fulminea per quella sensazione di calore sulle gote. Lei non aveva parlato di lui che al dr. Rosen. A lui aveva permesso di custodire segreti, ma per il mondo la sua famiglia non esisteva come non esisteva il suo passato. Il che era strano, perché ai tempi di Hogwarts su quello si fondava tutto il suo essere. Riacquistò quel ricordo stranita. Non poteva credere di averlo dimenticato. Tutte le volte in cui aveva parlato di suo fratello Logan, al punto che Ray ed Aidan avevano cominciato a conoscerlo senza saperne il nome, perché quello l'aveva tenuto gelosamente per sé. Le sfuggiva sempre una storia su di lui, momenti in cui gonfiava il petto con orgoglio. Poi quella fierezza era scemata lasciando solo la natura selvaggia della bestiola che gli aveva promesso allora fedeltà. «Lo capiresti se guardassi i tuoi occhi». Quella constatazione le sfuggì involontariamente. Mise semplicemente a voce quanto vedeva lei stessa lasciandosi assorbire dal suo sguardo per appropriarsi del mondo che tingeva senza saperlo. Da quel punto poteva vedere quanto fosse cieco quando qualcosa si avvicinava a lui uscendo dal suo campo visivo che vedeva fin troppo lontano. Tacque di nuovo, ben decisa a non interromperlo ancora, anche se in quello non era mai stata brava. Anche quando raccontava le sue storie passava dal mutismo di chi si è impregnato di parole alla tempestività con cui doveva rigirarle fra le mani per vederne ogni angolazione. E in quel momento vide quel paesino. Le case bianche e artificiali che le ricordavano il suo bosco di betulle. Il luogo a lei caro era una foresta candida, come per Logan lo era una città altrettanto bianca. L'Irlanda di Logan era nei pub, fra le persone e le storie, la sua nelle distese e sui dirupi dove quelle storie potevano essere udite. Il vento le portava dalle strade alla prateria. Ignorò la sua domanda, aveva troppa fretta di addentrarsi in quel racconto. «Ad esempio? Che storie? Hai visto antiche città in rovina? Hai provato a dormire sotto le stelle, fuori dalla città? Quando si è lontani dall'inquinamento luminoso la notte si apre in un modo completamente diverso. Fuori dalla roulotte riuscivo a vedere il cielo sporcato dalla via lattea e così tante stelle che di solito non si vedono. Sembrano muoversi, e tutto è così vivo. Sembrano davvero cadere per incarnarsi sulla terra, così pure che potrebbero restare solo in angoli come quello che mi hai descritto o ne verrebbero rovinate» cominciò, tradendo involontariamente una vita al circo che lui non sapeva avesse vissuto. Con certe persone sembrava impossibilitata a stringere segreti fra le dita. «In posti del genere immagino di vedere spiriti sconosciuti camminare e toccare tutto, forti del fatto che non esisteranno mai occhi in grado di stanarli». Parlava come se la sua voce fosse già l'eco di se stessa, lontana e diffusa nell'aria ancor prima di sfiorare le labbra. Si ridestò guardando altrove. Un uomo che camminava troppo frettolosamente per i sentieri del parco, artificioso come lo erano quegli alberi. Logan era la seconda persona che la faceva sentire piegata dall'impossibilità di comunicare quello che davvero avrebbe voluto dire, di non poter sentire come bramava, annullando il suo corpo per dissolversi e toccare tutte le cose che la circondavano, abbattendosi con furia quando incontrava quelle aberrazioni di vita. «...a parte i tuoi. Tu vedi solo quello che agli altri sfugge, ignorando ogni cosa che ti sembri banale e che invece loro potrebbero insegnarti per decine e decine di anni, senza mai riuscire a farti capire davvero». Nella sua voce c'era sconfitta più che amarezza. In verità era una consapevolezza dormiente appena destata per farle visita. Non le dava tristezza. Conoscere i suoi limiti aveva solidificato i suoi punti forti. Aveva scoperto ci fosse qualcosa di più dell'individualità stringente che si arrogava ed imponeva, qualcosa raggiungibile solo a chi avesse radici altrettanto forti. Ad esempio, guardando Logan in quel momento, dopo averlo conosciuto davvero solo nella sua assenza, si accorgeva che insieme parevano un paesaggio impossibile. Lei l'acqua volubile che da placida diveniva violenta, lui l'immensa parete di roccia che le faceva da diga innalzandola dal suolo, senza mutare la sua natura parossistica, permettendole di scatenarsi laddove i danni non avrebbero intaccato la stolidità del mondo che lui costruiva. Quell'acqua avrebbe forse potuto attraversare le pietre più porose, depositando su di esse un po' di sale e detriti che le avrebbero sporcate di quell'imperfezione in grado di renderle finalmente naturali, prendendo per sé la loro traccia calcarea come candido compenso.–ISOBELLE OPHELIA LAGRANGE–i know the choices color all i've done.
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.Fu il vento a scrivere un sorriso sulle labbra ancor prima che lui parlasse. Nei suoi incubi e nei suoi sogni poteva odiarlo e rivolgergli tutta la sua rabbia, poteva ucciderlo e ferirlo, ma nella realtà, con lui davanti in carne ed ossa, mai avrebbe potuto lasciare che i colori del fratello sfuggissero dalle sue dita. Era una relazione strana, fallace dal principio se avesse dovuto guardarla come un mero rapporto familiare. L'aveva capito col tempo, quel tempo intessuto della sua assenza che aveva distrutto il mondo che la circondava. Dove prima vedeva stelle vive e bellissime che danzavano nel cielo, poi aveva visto la nebbia dell'inquinamento luminoso. I pesci guizzanti e lucenti divennero creature imprigionate in una rete di crudeltà. Aveva guardato sciogliersi il suo mondo con il suo abbandono. Era una consapevolezza agghiacciante, crudele, ma la fece sorridere. Non era più la bambina che aveva bisogno di parole per vedere la magia che la circondava. Nessuno avrebbe mai compreso quanto fossero radicate nel profondo le sue favole. Logan non aveva mai solo raccontato. Logan aveva parlato al seme di un animo infantile sapendo di rivolgersi al presagio di una futura rete intricata di rampicanti proveniente dalla stessa semenza. Lui era cresciuto da solo, e in qualche modo aveva cercato di trovare la stessa pianta che s'innalzasse laddove era arrivato anche lui. Aveva voluto che percorresse lo stesso cammino, che seguisse i suoi passi, eppure si era stupito nel notare quanto indipendente e forte fosse riuscita a germogliare. Isobelle ripensò a molte delle sue storie. Quella del medico e del gufo, la sua preferita. Un uomo testardo che aveva cercato di far capire che il mondo era come lo vedeva, eppure si era scontrato con una verità a lui incomprensibile, che gli altri accettavano senza capire. «Ti ricordi del gufo? Anche se il medico aveva torto, anche se tutti gli altri avevano ragione, alla fine è stato l'unico a capire davvero perché». Quell'osservazione forse non c'entrava nulla, forse avrebbe dovuto tacerla, ma era bastato che lui confessasse di sentirsi perso perché naturalmente affiorò sulle sue labbra. In qualche modo le sembrava di vederlo, quel medico, quello che fino alla fine aveva dedicato tutto se stesso nella causa in cui credeva e che alla fine gli aveva fatto perdere di vista quel che davvero contasse per lui. Eppure non poteva che vederlo come vittorioso, alla fine. Colui che più di chiunque altro era riuscito a far suo un mondo sconosciuto. C'era un'altra storia. L'uomo che intesseva mondi. Raccattava i bambini sperduti e creava con le dita adunche, lunghe e sottili reti di sogni da disperdere davanti a sé perché i bambini potessero navigarci in una terra nuova e maestosa. Non ci aveva mai pensato, sciocca fino in fondo, ma Logan era in tutte quelle storie. L'aveva cercata con una disperazione silente perché lo capisse. Tirò i capelli dietro le orecchie, incurvandosi appena verso il prato per disegnare ghirigori affondando l'indice nel terriccio umido. Era difficile parlargli di una vita che le era sfuggita fra le mani. Aveva visto così tanto, eppure nulla sembrava adatto. Decise di raccontare qualcosa che aveva il sapore di lui e di lei insieme. «Caleb mi ha prestato la sua moto. L'ho portata con me in Francia, ma da Cherbourg mi sono subito messa in strada. Mentre ero sul traghetto, quello che parte da Dublino, mi sono accorta che l'odore del mare non è sempre lo stesso. Quando l'acqua si è fatta scura, più profonda e insondabile, non sentivo più il sapore di casa. Si era perso del tutto, e più mi avvicinavo alla costa, più sentivo invece un odore diverso che impregnava il mare. All'inizio l'ho odiato. Mi sembrava fosse più... brutto, più gretto. Quindi mi sono messa in sella e mi sono lasciata tutto alle spalle. Non avevo una meta, ma volevo ritrovare un odore che mi piacesse. È successo sulla riva del Reno. Non assomigliava neanche lontanamente a quello di casa, però era forte, scuro... e ho deciso che volevo sentirne di più, farne parte. Ho girato per le varie città, ma qualcosa mi teneva sempre lontana. Finché non ho visto il volantino di uno spettacolo. Non saprei dirti cosa c'è stato che mi abbia colpito, forse il fatto che fosse diverso. Non c'erano solo numeri tipici, come quelli che ti aspetti di vedere. C'era un uomo... lo chiamavano il trasformista. Quando l'ho visto non gli ho creduto. Sembrava di vedere davvero persone diverse. Non aveva solo vestiti differenti, era qualcosa di più ampio... i gesti, la voce, il modo in cui camminava. Sembrava un camaleonte umano. La cosa strana è che non ho mai conosciuto qualcuno dall'identità così ben delineata e definita. Era tutte quelle persone, eppure nessuna al tempo stesso. Nessuna di loro riusciva a intaccare quello che era. Ne sono rimasta... affascinata. In generale era tutto così dinamico, così mutevole. Sempre sul punto di essere altro, anche restando sempre uguale. Così mi sono unita al circo». Tagliò corto su quell'ultima frase come fosse l'ennesimo dei suoi giochi, guardandolo d'improvviso con la stessa irriverente aria infantile di chi voleva scegliere gli orari per andare a dormire. «Tocca a te»–ISOBELLE OPHELIA LAGRANGE–i know the choices color all i've done.
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.Se chiudeva gli occhi finalmente riusciva a sentire come una melodia silente, cantata stesso dai pensieri di Logan. Negli anni, quando erano al Manor, era sempre stata troppo piccola, o forse troppo ottusa per comprendere quanto il fratello aveva da dire. Era un ottimo ascoltatore, ma pessimo quando si trattava di parlare a sua volta. Comunicava in altri modi, decine di altri modi, e lei fin troppo a lungo non se n'era accorta. Aveva bevuto dalle sue storie senza accorgersi che quelle erano le sue parole per lei, sbuffato per le sue scuse senza accorgersi che celavano il suo bisogno di trovare uno spazio più privato per sé. Avrebbe potuto disfare la matassa del suo passato per afferrare ogni filo di quell'immensa tela solo per rendersi conto di non aver ancora compreso nulla. Era semplicemente fuori dalla portata della sua logica, perché appartenente a quella fin troppo ampia e ramificata del fratello. Invece, per il suo istinto, per le sue sensazioni, e ogni parte più piccola di lei parossistica nella sua profonda illogicità, c'era una speranza. Con quelle avrebbe potuto toccare le sue parole, ne era sicura, perfino quando non le avesse comprese. Quello era il suo compito: comprendere e spiegare, forse sotto forma di storia come aveva fatto per tutta l'infanzia della sorella. Conferma di quel pensiero arrivò quella frase, appena sussurrata per essere depositata nel vento e subito portata lontano, ormai parte del passato. Ricreavano il presente di istante in istante, rendendolo pregno di tutte quelle informazioni a lungo sconosciute. Era ironico, perché a tutti gli effetti gli stava dando una seconda possibilità. Anzi, forse era la sua prima. Non l'aveva mai ascoltato come avrebbe dovuto, aveva fatto più capricci di quanta comprensione avesse mai elargito. Ora che era pronta ad ascoltarlo, paradossalmente non era vittima di quella profonda e incrollabile ammirazione provata un tempo. L'aveva spogliato delle vesti di un dio per portarlo accanto a sé, umano anche nella sua straordinarietà. Per un istante si sentì fin troppo lontana. Aveva lottato fino a sentire solo dolore nelle dita per strappare da lui esattamente quello che desiderava, ed era fuggito via. Senza accorgersene l'aveva fatto infinite volte, sempre convinta di poter trovare finalmente qualcosa che non avesse bisogno di compromessi, che fosse come lei la chiedeva. Non aveva avuto molto successo, aveva dovuto distruggere, ricominciare, andare avanti. Era stata scavata dagli errori quasi quanto dalle persone che erano scomparse. Eppure era lì, a riposarsi come dopo una lunga e struggente traversata. Riprendeva aria, malinconicamente consapevole che il cammino da lei intrapreso era più solitario di quanto avrebbe voluto. Forse per Logan non c'era tutto lo spazio sperato. Quando se n'era andato l'aveva costretta a risistemare gli spazi della sua solitudine. Quello che una volta era interamente destinato a lui, quello enorme, spazioso, maestoso, era stato smantellato per buttarvi i suoi demoni e le sue speranze. Agitazioni continuamente mutevoli perché nulla avrebbe potuto crescere lì dove aveva dovuto estirpare il fratello. E tutto il resto, apparteneva ormai a qualcun altro. Logan non sarebbe mai tornato ad essere per lei quello di una volta, una consapevolezza che la intristiva e rendeva felice al tempo stesso. Alla fine era cresciuta. Senza di lui, da sola, ma era cresciuta. Lo capiva da come la guardava. Come se stesse cercando l'Asticello e lo intravedesse meno spesso di quanto si sarebbe aspettato. Ma per quanto potesse sentirsi lontana, ecco qualcosa che la trascinava di nuovo tremendamente vicino, come fossero due barche alla deriva fra le onde, destinate a sfiorarsi solo quando il mare l'avesse concesso loro. Quella volta fu il nome di Alec a farlo tornare da lei. Per quanto il loro rapporto con il padre fosse sempre stato tremendamente diverso, Alec era per entrambi l'appellativo con cui rivolgersi a quell'imponente figura. L'avevano sempre ritenuto normale, anzi, sarebbe stato strano usare parole come "papà" o "mamma", infinitamente vuote in quella famiglia. Una famiglia che comprendeva anche Ethan. Abbassò lo sguardo quando le chiese di parlare del fratello, infinitamente lontano sin da quando aveva lasciato casa, forse persino più di Logan. «Conosci Ethan. Sta bene. Lavorava nella riserva di draghi in Romania, ma puntava di essere trasferito in quella scozzese per stare più vicino a casa. Credo ci sia riuscito a questo punto... ti immagini un irlandese nella riserva scozzese? Non che debba temere chissà cosa, ormai è più grosso di te e me messi insieme». Da quanto non parlava con Ethan? Non lo vedeva da quando aveva lasciato il circo, questo era certo. Il suo ultimo messaggio forse apparteneva a quell'estate, difficile collocarlo precisamente nel tempo. Alla fine, per quanto ci provasse, si era dovuto arrendere all'allontanamento di Isobelle quanto a quello di Logan. Ne aveva avuto il presagio fin dai tempi di Hogwarts. Glielo leggeva nello sguardo ogni volta che l'aspettava fuori dall'ufficio del preside perché ne aveva fatta un'altra delle sue. Sapeva che prima o poi una di quelle partacce sarebbe stata l'ultima. Così come aveva saputo, quando era andata a trovarlo in Romania, che non sarebbe durata a lungo.
Si immerse nel nuovo racconto di Logan, chiudendo appena gli occhi perché dietro le palpebre potessero agitarsi le immagini oniriche di quelle esperienze come ombra danzanti su un muro. Così vide il bagliore delle fiamme, rosso e arancio, violento laddove cercava di toccare il mondo, ma appena più chiaro e giallognolo quando non diveniva che luce. Si sentiva parte di quegli alberi come Herne, solo scattante fra i tronchi e non loro parte integrante. E da lì lo osservava. Vedeva la spavalderia che forse entrambi condividevano, quella che lo faceva restare tranquillo, consapevole che nel peggiore dei casi avrebbe avuto una curiosità insaziabile da offrire a quel popolo antico, e per lui di più potente c'era da dare solo conoscenza. «Da come ne parli mi sembra Alec visto da qualcuno che non è suo figlio» esclamò con un filo di voce, sorpresa dalle sue stesse parole. Per un attimo si era persa in quel nugolo di pensieri, aveva visto qualcosa dall'esterno e si era accorta che per quanto potesse esser convinta di rapportarsi a suo padre con il distacco di una persona a lui vicina e nulla più, aveva inconsapevolmente comunque vestito i panni di figlia. Ora immaginava un Alec più giovane, fuori dalla famiglia. Uno che parlava con quel fare serio, ma profondamente appassionato come quando da bambina lo aveva sorpreso con Judith. Forse quel Herne si differenziava da suo padre principalmente per il modo in cui sapeva includere ben più di una manciata ristretta di persone in quell'adorazione rispettosa. Anche nelle loro esperienze avevano avuto vite diametralmente opposte. Lui fra gli alberi, a contatto con la magia vera, quella più profonda, lei per le strade, truffando con una magia fasulla e insipida. Giunse il silenzio, quello che Logan voleva lei riempisse con un nuovo racconto. Isobelle sapeva di non poter dire nulla che potesse avere lo stesso sapore delle storie di suo fratello. Infondo lei non aveva avuto un maestro, si era dovuta arrangiare da sé in ogni istante. I suoi occhi finirono automaticamente sulla cicatrice all'attaccatura del polso, una linea sottile e ricurva che l'orologio di Roch aveva tagliato un po' troppo in profondità quando le aveva afferrato il braccio. Nel vederla pensò quasi di non aver ancora detto nulla sugli ultimi anni perché se ne vergognava. Era la vita che aveva voluto, quasi in ogni sua parte, ma sapeva bene di non poter confessare a molti cosa avesse fatto. Non certo alla sua famiglia, questo era sicuro. «Dopo il circo sono venuta in America con una persona conosciuta in Germania. Non sapevamo fare granché, quindi ci siamo arrangiate con il lavoro. Io sono finita a cantare in un nightclub». Neanche si accorse di aver aperto bocca, parlando con una tranquillità innaturale. Non le piaceva ricordare Ninon. Non le piaceva ricordare il periodo con Ninon. Ogni volta che la sua mente si concentrava su un qualsiasi dettaglio che la coinvolgesse, subito spediva ogni pensiero nell'oblio dove anche quella ragazza era finita. Non poté non pensare di aver tirato in ballo l'argomento quasi per vendetta, per sbattere in faccia a suo fratello cosa avesse passato. Se ne pentì subito, non perché non volesse farlo sentire in colpa, sentimento che ancora faticava ad attribuirgli, ma perché odiava arrogarsi pietà. Non voleva che la guardasse come una vittima di qualcosa di troppo crudo, di triste. Aveva scelto ogni momento. «Mi esibivo praticamente tutte le sere, fra le nove e mezzanotte. Dopo di me arrivavano le vere cantanti, quelle che facevano spettacoli e balletti, e tutti ascoltavano. Io ero quella che teneva compagnia agli uomini ricchi fuggiti dagli uffici, dalle mogli, e che ancora non avevano trovato una prostituta. A volte trattavano noi come fossimo una di quelle ragazze, ma Jerry sapeva sempre rimetterli al loro posto. L'avresti detestato. Era uno di quelli che pensava solo al guadagno personale, ai soldi. Anche il suo nome era solo una bugia. Si chiamava Ronald, in realtà, ma diceva che era pessimo per gli affari. Di un "Jerry", invece, si fidavano tutti. Era un nome poco pretenzioso, semplice, colloquiale». Il nome di un bastardo senza moralità. Ricordava ferocemente come avesse voluto ucciderlo. Non fargli del male, ucciderlo. Non ne aveva mai avuto il coraggio, alla fine, ma aveva ringraziato l'infarto che si era portato via quel grasso maiale. Spostò lo sguardo lontano. L'aria era limpida nel parco, nonostante fuori si potesse notare la patina sfocata dei tubi scappamento. Lo smog doveva essere anche lì, ma forse in misura minore, per questo non ci faceva molto caso. Stava in silenzio da troppo tempo. «Mi piaceva cantare lì. Il pubblico non esisteva. Avevo un faretto sempre puntato in faccia. Non faceva molta luce, ma bastava perché oltre di esso non vedessi nulla. Era un enorme miasma di fumo e non potevo scorgere altro che le braci dei sigari e delle sigarette accese. Cantavo molte canzoni di Judith, sia quelle inglesi che cantava a tutti noi che quelle irlandesi che teneva per sé o concedeva più di rado. Mi sembrava di essere sospesa in un momento senza tempo, persa nel fumo. Le sue canzoni mi riportavano a casa, ma era un posto così diverso che l'illusione durava appena qualche istante. Pensavo a come sarebbe stata la mia vita se non fossero successe tutte quelle cose. Poi mi accorgevo che sarebbe stato inutile, che tutti sapevano di non avere idea su dove collocarmi nel futuro. Non lo sapevo neanche io, e in realtà non lo so ancora. Credo che un giorno me ne sarei andata comunque. Quando finivo lo spettacolo, spesso salivo sui tetti ad aspettare l'alba. Guardavo le luci della città, nei salotti che scorgevo dalle finestre. Cantavo a squarciagola finché non mi gridavano di smettere, e allora riprendevo più forte...». Se non fosse stata attenta si sarebbe persa sulla scia di quei ricordi. Li aveva rinchiusi troppo a lungo per barattarli con una nuova storia e sperare di uscirne illesa. «Poi ho ritrovato Allyn. Forse te lo ricordi... Ethan l'avrà nominato decine di volte nelle sue lettere. Diceva che era il più promettente fra i grifondoro. Praticamente una fabbrica di scherzi e sarcasmo pungente». Praticamente suo marito, finché non si fosse decisa a sistemare la cosa.–ISOBELLE OPHELIA LAGRANGE–he makes the sound, the sound the sea makes to calm me down.SPOILER (clicca per visualizzare)Gif e citazione nuove solo per te, cara. Per il post mi dispiace, ma ho perso la versione originale e sto ancora piangendo.. -
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Edited by » avalanche. - 7/5/2017, 21:36. -
.Sentiva una nota di nervosismo incrinare la calma di Logan, di solito solida quanto una montagna antica. Il suo capriccio l'aveva portata a scostare il velo di apparente ignavia perché la cruda realtà mostrasse una caviglia candida e nuda. Lasciò al silenzio il compito di richiudere la ferita che lei non sarebbe riuscita a ripulire impietosa perché si abbandonasse al naturale percorso della guarigione. C'erano troppi discorsi chiusi che ancora bruciavano come cosparsi dal sale. Alec era uno di quelli. Il suo eroe invincibile, piegato proprio da suo fratello ad una sconfitta feroce. Aveva intaccato la sua figura maestosa facendole scoprire che le sue spalle non erano che quelle di un uomo, impossibilitate a sorreggere davvero il peso del mondo come Atlante. Ai suoi occhi ora non era che mortale, ma niente avrebbe potuto incrinare l'ammirazione profonda che continuava a rivolgergli. In quel momento aveva un sapore diverso, il sapore reso più acre dal dolore e da un passato silente che era stata costretta ad attribuirgli.
Il gioco fu interrotto dal presagio di una confessione che le mozzò il respiro. Fu catapultata all'improvviso nel vorticare della sua memoria, alla ricerca di un "ti voglio bene" altrettanto cristallino. Forse l'aveva sepolto per non dover lenire la rabbia con una sofferenza maggiore, forse non c'era mai stato. Per parlare nel loro modo così intimo dovevano comunque arroccarsi dentro bolle di sapone per lasciarsi trascinare dal vento senza esserne sferzati. Quella dichiarazione gli fece sollevare la testa per uscire dal suo guscio invisibile e guardarla in modo decisamente più diretto. Si accorse solo in quel momento di aver dato per scontato che non ne fosse capace. Invece riusciva a mostrarle lo stacco fra le loro personalità anche in quello, allontanandosi dalla difficoltà che lei provava nello scoprirsi così tanto. Oppure era stata un'altra Isobelle a non saperlo fare, una che non avrebbe neanche lontanamente immaginato di vederlo e non soccombere alla seducente possibilità di lanciargli contro ogni frammento del dolore che le aveva procurato affilandone i contorni perché facesse più male. Annuì appena, alzandosi per camminare al suo fianco. Lei era l'unica a capire. Così aveva detto. In qualche modo quella era una conferma di qualcosa che aveva sempre temuto: la possibilità dolorosa che loro fossero per davvero simili, che se non altro avessero la facoltà di incontrarsi laddove nessuno riusciva a spingersi. Un luogo curioso, dove lei si sentiva libera di palesare un corpo troppo debole per imporsi sul mondo, ma capace di attraversalo e tagliarlo con ogni arto ossuto attaccato da giunture su cui la pelle si tendeva per sottolinearne gli avvallamenti. Alla fine era arrivato il momento di chiarire. Qualche anno prima avrebbe perfino pianto per il sollievo di esser vissuta abbastanza da vederlo, di poter andare a chiudere gli scrigni in cui aveva depositato pezzi di carne di cui si era dovuta liberare per non affogare quando era andato via. Le dispiacque notare che quelle parole non erano che semplici chiavi. Sarebbe bastato davvero così poco per sigillare baratri bui in cui l'eco del vuoto l'ammaliava per farla scendere a carezzarne il fondo. «Anche io sono andata via» cominciò, fermandosi all'improvviso. Ricordava lo sguardo di Alec quando l'aveva vista sulla porta di casa. Aveva detto che sarebbe tornata, che usciva con Caleb per una rapida gita. Suo padre doveva aver pensato solo per un istante che fosse bello vedere sua figlia abbandonare finalmente la sua stanza dopo settimane in cui era a stento scivolata in cucina per mangiare. «Non frainterdermi, l’abbiamo fatto in modi differenti, perché siamo persone differenti e ci siamo lasciati dietro cose altrettanto differenti». Alec quel giorno aveva avuto la possibilità di capire che non sarebbe tornata indietro. Doveva averlo ferito ben più di quanto avesse compreso allora, perché nei suoi ricordi quello sguardo improvvisamente consapevole di aver fatto fuggire un secondo figlio rifletteva una sconfitta agghiacciante. Eppure allora non ricordava di averla notata, folle nella sua parossistica cecità. Aveva avuto bisogno che fosse così, o non avrebbe potuto lasciare il manor. Lei non aveva avuto bei progetti e ambizioni da arrogarsi come scusa per trovare impropria la parola "perdono". «…la libertà me l’hai data attraverso tutte le tue storie. Così come una prigione da cui uscire con molta più difficoltà» proseguì, pensando solo per un attimo al lavoro che il Dr. Rosen aveva portato avanti con lei, a quante cose le avesse fatto capire su suo fratello. Soprattutto, quante cose le aveva fatto capire sulla desolazione che la sua partenza aveva lasciato dietro di sé. «Credo che Ethan avesse ragione e che io non sia mai riuscita ad ascoltarlo. Ma sì, aveva ragione: dici di aver fatto questo per noi, per renderci liberi… ma la verità è che tu per primo cercavi qualcuno che ti vedesse come un semplice ragazzo. Un fratello, un figlio, un amico. Il mondo che hai creato per me non era solo un dono che mi hai fatto, era anche una richiesta. La voglia che qualcuno abitasse quel luogo insieme a te». Fu costretta a prendere una pausa, perché non sentiva più dove fosse finito il respiro. Non aveva mai pensato di poter essere così calma nel proferire parole così dure e dolci insieme. In verità, non aveva neanche mai pensato di poter arrivare a formularle. «Puoi dire che fu un atto altruistico, ma c’era un profondo egoismo in quello come in molti dei tuoi gesti. Non te ne faccio una colpa e non sono arrabbiata… non più. Hai cercato la tua vita, te la sei costruita, ed è stata una vita meravigliosa. E io mi auguro che ti abbia lasciato più di bei ricordi e qualche insegnamento da snocciolare in un bel racconto. Ma non puoi cristallizzare tutto in una storia. Assegnare i ruoli del mondo, decidendo chi sia la principessa, l’eroe, il cavaliere, o il mostro incompreso, lasciando per te quello dell’eremita o del narratore. Ti stai incastrando in una sola storia, la tua, e io non sono più un personaggio ad appannaggio delle tue parole. Ho costruito i miei racconti appena ho smesso di viverli. Ti amerò sempre non solo come un fratello, ma come quello che è stato… tutto il mio mondo. Tu però hai fatto una scelta. Una scelta obbligata visto come... si sono svolte e non evolute le cose. La conseguenza di quella scelta è che io non sono più la bambina che pende dalle tue labbra. Se vuoi parlarmi, come un fratello parla ad una sorella, come noi parliamo va bene, ma non provare più a bloccarmi nelle tue storie, Logan». Si immobilizzò per guardarlo direttamente negli occhi, senza più fuggire lungo i confini lontani di Central Park. Dirlo ad alta voce la faceva sentire così bene. Come se si fosse appena liberata da un peso. Come se si fosse appena accorta di aver camminato per anni, raggiungendo infine una meta che aveva creduto ancora lontana. «Ma sì. Quello da cui sto scappando non sei tu. In qualche modo mi hai dato comunque la possibilità di essere libera. Così come hai intrappolato per sempre una parte di me in quei racconti». Sorrise, perché per quanto quell'ultima frase potesse apparire la più crudele, aveva imparato ad apprezzarlo. Aveva scoperto che andava bene così, che quella parte infantile non sarebbe dovuta appartenere a nessun altro. L'averla lasciata lì, accanto un medico e il suo gufo, fra i fili di sogni o in una foresta di ghiaccio, le aveva anche permesso di trovare una nuova identità e concederle di crescere come altrimenti non avrebbe mai fatto. «Lasciami essere altrettanto onesta. Non approvo la tua scelta. Penso tu abbia preferito il modo più crudele per ottenere il migliore dei risultati. È stato efficace, ma non posso non pensare che qualcosa di altrettanto bello potesse nascere anche da un approccio diverso, più accomodante».–ISOBELLE OPHELIA LAGRANGE–he makes the sound, the sound the sea makes to calm me down.. -
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