If I could start again, a milion miles away.

Isy/Logan

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    logan rohan lagrange 29 years old ranger dcmc voice role song
    P
    untò i palmi delle mani per tirarsi su lentamente dalla panchina non appena quell'andatura così familiare si palesò al limitare di quell'angolo di Central Park. Poggiò sopra le sbarre di ferro il giornale.
    Si aprì non appena gli voltò le spalle, lasciò che alcune pagine volassero e si infrangessero sull'aiuola curata, sui fiori piegati da un'improvvisa folata di vento. Gli angoli inchiostrati tremarono appena, poi si accasciarono come il corpo di Daniel nel folle tentativo di riportare in vita un uomo.
    Quelle immagini non sarebbero andate via dalla sua testa facilmente. Non riusciva a immedesimarsi così tanto, ma sapeva quanto potesse essere importante una vita, una qualsiasi vita. Qualsiasi persona assumeva la propria importanza non appena la si incrociava nel proprio cammino, e qualsiasi persona che non rientrasse in quel cammino perdeva l'umanità che gli spettava.
    Logan si era allontanato troppo, e allo stesso tempo in quel momento era fin troppo vicino.
    Lo sguardo era basso sulle punte delle scarpe di cuoio nero. creavano una fossa in mezzo a quel sentiero verde, al limitare delle barriere di quel posto che aveva tenuto quella ragazza parzialmente al sicuro, più di quanto lui avesse mai fatto.
    I capelli erano compostamente pettinati e arricciati, la riga laterale che venne però distrutta da un altro colpo di vento. Era intermittente, quel pomeriggio, era un pulsare continuo.
    Il trench era sempre lo stesso, l'orologio era sempre lo stesso. Durante quella notte poco distante entrambi erano stati macchiati da quel sangue non suo, ma a Logan piaceva quel trench. Qualche incantesimo l'aveva aiutato a liberarsi di quelle ombre rosse che come mani cercavano invano di scalfirlo. Era tranquillo, ma non del tutto. La bocca dello stomaco era chiusa, mentre il respiro lento era fin troppo posato.
    Nessun lineamento fuori posto. Nessuna ruga increspava il volto asciutto, forse solamente alcune occhiaie rigavano le palpebre, segni di qualcosa che aveva vissuto e da cui ne era uscito. Una decina d'anni.
    Alzò le spalle. Alzò gli occhi. L'aveva aspettata per un po', ma in quell'istante desiderò poterla attendere ancora. Non vi erano parole giuste, non vi erano intenzioni nobili, solo un moto insolito verso una parte del proprio passato, un essere composto da carne e ossa, un essere che pur umano aveva il potere di intimorire l'animo di Logan Rohan Lagrange.
    Isobelle Ophelia Lagrange.
    Sorrise. La guardò negli occhi, il taglio così uguale al suo, il portamento ricolmo della figura che ricordava di sua madre Judith. Un brivido involontario, celato fin troppo bene. Judith.
    Il sorriso fu un breve solco tra la linea del tempo, un solco soffiato, sofferto, pesato. Semplice. Nascondeva troppe cose, ma al contempo non aveva paura di mostrarle.
    « Ciao »
    Non vi era nient'altro da aggiungere. Un saluto sarebbe stato necessario per un inizio, troppe parole sarebbero state controproducenti. Sotto l'imperanza di Isobelle Logan si sentiva ai bordi di un campo minato.
    Callaway alla fine l'aveva convinto. Aveva utilizzato le giuste parole, e a quelle Logan non aveva potuto replicare. Avrebbe voluto passare subito alla questione principale, ma non poteva. Non poteva sbrigarsela con poco, non quella volta, non voleva vederla scappare come l'ultima volta, come quando aveva volutamente recitato la parte dell'insensibile capostipite di un'idea perduta e sgretolata da quel vento che soffiò ancora una volta e ancora una volta si acquietò improvvisamente.
    Voci di bambini che correvano intorno, latrati di qualche cane, un sole tra i bordi dei noccioli fin troppo robusti. Una donna poco più in là, una donna di fronte a lui, una donna con capelli di un castano quasi ambrato, una chioma intrepida che sfidava il proprio peso modellandosi in volute ribelli. Ancora una volta Judith.
    Era più bella di come se la immaginava. Era cresciuta con una propria luce negli occhi, il volto si era assottigliato, le forme alla fine avevano modellato anche il suo corpo, nuovi nei che non conosceva o a cui non aveva fatto caso l'ultima volta le tempestavano il collo e gli zigomi. Le labbra erano tremendamente piene, ma allo stesso tempo assottigliate dall'incurvatura degli angoli profondi e piatti. Alec.
    Quei vestiti non le davano il giusto compenso. Si nascondeva dentro di loro, ma allo stesso tempo ne usciva al di fuori con una decisione e una corrente burrascosa che presagiva un clima di fiorenti battaglie. Non era più l'Asticello che ricordava, ma allo stesso tempo era come se qualcosa di quella creatura adesso così aliena a quella donna vivesse ancora nel suo imperante portamento modellato da una furia lenta e costante.
    Quella furia, quel coraggio che l'aveva spinta molte volte nella foresta senza neanche far caso alle possibili conseguenze. Logan paziente l'aveva presa per mano e riportata a casa fin quando aveva potuto, fin quando aveva voluto. Dopo l'aveva lasciata, dopo lei si era lasciata circondare da quel bosco quanto lui, ma senza di lui era diventata una splendida ragazza.
    Era una sensazione meravigliosa e orrenda allo stesso tempo.
    Ancora Judith. Se la ricordò ancora una volta. Era partito tutto da lì, dal volere e dalle confessioni che Isobelle aveva comunicato a Callaway. Una stretta al petto. Logan non aveva neanche la più pallida idea di quante cose fossero mutate e non aveva avuto neanche la capacità di prevederle, di poter reagire nel modo più giusto per evitare la sofferenza di una famiglia da cui era fuggito con l'erronea convinzione di esserne in qualche modo limitato.
    Isobelle invece stava cercando di curare i rami che lui aveva reciso. Avrebbe voluto chiederle di Judith, avrebbe voluto sentirle dire che in realtà stava meglio di quanto pensasse.
    Non riuscì a dire altro che quel saluto sussurrato, non riuscì a fare altro che mantenere quella posa costruita, quel sorriso che poi appena si spense lasciandone solo un'ombra composta.
    Non voleva che i propri pensieri fossero troppi. Non voleva sbagliare con lei, quel pomeriggio.
    Si morse la lingua.
    Ci ripensò.
    « Non so se ti piace ancora lo yogurt. Quello ai frutti di bosco. Non so dove potremmo comprarne uno, qui intorno »
    Strinse le labbra. Gli angoli si abbassarono in una smorfia come lo sguardo tra le ciglia sottili, quasi come stesse meditando tra sé e sé lasciò che la testa venisse scossa di poco con un tremendo e quasi comico disappunto.
    Nuovamente lo sguardo su quello di Isobelle. Nuovamente la bocca che tornava a contornarsi di un sorriso mal accennato, mesto e carico di un retrogusto di leggerezza, come un bambino che corre per la strada del quartiere cercando in tutti i modi di far volare un aquilone.
    Il vento si alzò e si abbassò di nuovo. Poteva prendere la corrente giusta, ne era sicuro.
    « Sono davvero pessimo. Quando imparerò a conoscere per bene questa città sarà sempre troppo tardi »
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    Si
    lasciò il Brakebills alle spalle, stringendo sulla spalla il filo della tracolla leggera. Se aveva imparato una cosa vivendo con Nik, era che sapeva dare fuoco a troppe cose per i suoi gusti. Tenere i libri nella camera della confraternita era decisamente una scelta più saggia, nonostante ormai quella stanza assomigliasse più ad un deposito per gente sempre sulla strada che altro. Curiosamente, era così che si era sempre sentita. Sulla strada. Alla deriva in un mare troppo ampio, di cui aveva imparato ad apprezzare ogni frammento limaccioso di fondale. Erano stati giorni frenetici, in cui quella nuova decisione aveva avuto il potere di mutare il suo umore facendola oscillare fra un'agghiacciante terrore e una più profonda consapevolezza. Non aveva più bisogno di aggrapparsi al surrogato di una carezza, adesso aveva qualcuno che le comunicava il suo amore con ogni più piccolo gesto. Se lo ripeteva all'infinito, sperando di convincersi prima o poi che sarebbe stato abbastanza. Abbastanza per dimenticare la prima volta in cui si era trovata accanto al letto di Judith in ospedale e lei l'aveva fissata smarrita, salvo poi allungare una mano tremante per sfiorarle la guancia. Ricordava ancora la lacrima che aveva seguito il solco di quella carezza non appena aveva lasciato la stanza ed era rimasta sola. Non aveva pensato di aver sentito la mancanza di una cosa simile fintanto che non le era stata donata come un fiore germogliato su un terreno di guerra. Se solo chiudeva gli occhi sentiva la leggera brezza che quel giorno poteva lambirle la pelle quasi un soffio materno e rassicurante, che per questo si tingeva di una malinconia amara. Le piaceva fare quella strada, anche se significava allungare un po' il tragitto. Le piaceva pensare fra quegli alberi a cui si era sempre rivolta come fossero la sua casa e la sua prigione, verdeggianti e rigogliosi fintanto che si trovava nella realtà, scheletrici e bianchi quando veniva risucchiata nel suo panorama mentale. Lì aveva un tronco per ognuno di quei volti a cui avrebbe desiderato aggrapparsi con tutta la disperazione che sapeva ghermirla. Eppure, in nessuno di loro aveva mai visto incastonato il volto di Judith. Quella consapevolezza rendeva più difficile lasciarla andare. Portò i capelli dietro le orecchie, schiudendo allo sguardo un mondo vero a cui avrebbe dovuto pensare ben più di quello che era costretta ad incontrare nella sua mente. Mr. Callaway su quello si era dimostrato inconsapevolmente spietato, ridestando incubi che ringhiavano per restare sopiti. Aveva il potere di materializzarli perfino. Si bloccò all'improvviso, artigliando la fascia della tracolla come un gatto affila le unghie per aggrapparsi ad un tronco prima di cadere. Non era possibile. Se pur il docente di magia bianca fosse stato un presagio di sventura non poteva dimostrare una tale infallibilità. Prima Ray, poi lui. Logan. Solo pensare quel nome sciolse le briglia di pensieri intricati e rabbiosi, divorati in un ventre di malinconia in grado di paralizzarla. Non mosse un passo. Forse aveva anche smesso di respirare, perché la stretta feroce degli addominali non poteva permetterle di gonfiare la cassa toracica. Si limitò a salutarla. Una sola parola che aveva sognato nel buio quando era annidata fra coperte troppo spesse, e che comunque non sapevano darle calore. L'aveva sussurrata sperando potesse avere la sua voce e non quella di una bambina spaventata, convinta di esser stata abbandonata. L'aveva ringhiata quando aveva appena sedici anni e aveva ormai compreso che di preghiere fra le braccia della solitudine era ormai finito il tempo. Erano trascorse infinite vite da allora, una per ogni frammento ancora miracolosamente integro del suo essere che ringraziava di aver potuto respirare e insieme prorompeva ingiurioso verso le mani che l'avevano abbandonato. Era cominciato tutto con un primo addio. Il suo. Strinse i denti assottigliando gli occhi, senza riuscire ad evitare quell'espressione irata che sapeva renderla tremendamente simile a Judith. Del resto lui aveva la calma maestosa e disarmante di Alec incisa in ogni suo gesto. Aveva sempre rimandato il momento in cui avesse dovuto fare i conti con i suoi sentimenti convinta che il giorno del giudizio non sarebbe mai arrivato. Ed eccolo lì, racchiuso in un trench scuro che ne rendeva la figura ancora più imponente. Il suo tempismo era dei peggiori. Le bastò quella piccola riflessione per sentire un odio cocente germogliare nei suoi occhi. L'aveva cercato con disperazione. Aveva rivolto a lui ogni genere di invocazione, avendo come unica risposta il silenzio di una casa svuotata. Aveva voluto un'ultima spiegazione, dargli un'ultima possibilità, eppure lui si era limitato al distacco. Le cose dovevano sempre essere fatte a modo suo. Non lo pretendeva, ma aveva quel modo naturale di fare che piegava il destino dolcemente perché incontrasse i suoi bisogni ed i suoi desideri. E lei, impotente, non poteva che lasciarsi abbagliare da una luce in grado di ferirla ben più della più profonda oscurità. Schiuse le labbra cercando un saluto o un insulto che morì in gola insieme a metà delle emozioni che aveva provato ed erano già pronte ad essere sostituite con altre ancora sconosciute. Era stata sicura di aver scovato la chiave di volta. Nella sua mente, il Logan irreale aveva aderito a quella sua convinzione in modo perfetto, e forse di questo non avrebbe dovuto stupirsi. Era anche stato ferito da una freccia che lei era convinta non avrebbe potuto neanche scalfirlo. Quel ragazzo, però, era molto diverso da colui che aveva davanti. Leggeva su quel viso ancor più familiare di quando l'aveva lasciato le ombre di vite concluse e a volte bramate. Le vedeva come se i pori distesi del viso non fossero altro che un riflesso splendente in cui specchiarsi. Ecco un particolare che aveva dimenticato: la sensazione duplice di dover fronteggiare qualcuno che era sempre un passo avanti. Non importava quanto lei avesse camminato, lui avrebbe sempre trovato il giusto sentiero per avanzare più in fretta, riportando da lei quell'offesa per la sua piccolezza e la promessa di un tocco intimo che non l'avrebbe mai tradita. Provò a schiudere ancora le labbra, e ancora una volta non ne uscì che arrochito silenzio.
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    Io ti chiedo scusa. Io sono ufficialmente sconfitta.
     
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    logan rohan lagrange 29 years old ranger dcmc voice role song
    A
    ssistette alla totale trasmutazione dell'animo di Isobelle. Gradualmente si abituò alla sua complessità, come se per troppo tempo non avesse allungato le mani verso il camino che aveva mantenuto acceso, ma sua sorella gli stava ironicamente facilitando le cose. Lo spettro di sensazioni che gli regalò fu così tanto ampio, così tanto spontaneo e naturale da fargli cogliere all'istante chi fosse diventata Isobelle Lagrange.
    Fu quasi invidioso della sua espressività. Fin da piccola Isobelle aveva avuto il dono di dimostrare esattamente ciò che avrebbe voluto manifestare ancor prima delle proprie parole. Ogni gesto raccontava di lei in modo autoreferenziale, mentre lui riusciva sempre a mostrarsi poco e male a tutti. Forse era per quel motivo che se n'era andato. Era interiormente conscio del fatto che Isobelle quanto Eithan, che Judith quanto Alec sarebbero rimasti inevitabilmente paralizzati e delusi se col tempo Logan avesse per sbaglio lasciato cadere tutte le sue protezioni.
    Da ragazzo generoso, che era solito distribuire premure e saggi consigli, da testurbante amante di ogni qualità possibile, i Lagrange avrebbero intravisto la nota fuori posto, l'accordo stonato. Se fosse rimasto in quel maniero prima o poi sarebbe accaduto, e quando sarebbe accaduto Logan si sarebbe ridimensionato nel Logan reale, quel Logan che riusciva a vedere solo lui e che alla fine non gli dava neanche fastidio, ma che agli altri sarebbe potuto risultare come una dimostrazione della falsa costruzione che lui aveva edificato nel tempo.
    Era così sbagliato...Logan non aveva mai lavorato per un secondo fine o per dimostrarsi ciò che non era, ma aveva sempre, costantemente, il turbamento strisciante che gli altri considerassero la sua persona come un totale malinteso, una finzione.
    Se solo fosse stato come Isobelle, se solamente per un attimo avesse potuto imitare quella genuina sincerità che animava e accartocciava quel volto dolciastro probabilmente non avrebbe mai avuto l'impellenza di intraprendere quella strada così tortuosa, alla ricerca di storie e racconti di enorme grandezza che avrebbero potuto rassicurarlo sul pensiero costante che sì, lui era davvero quel Logan.
    Non ne uscì che il silenzio. Con uno sguardo rilassato e presente la vide aggrapparsi alla tracolla per rischiare di non essere investita dall'imponenza di un fratello che avrebbe voluto essere solamente un fratello. Isobelle non si sarebbe mai dimostrata così impotente e ricca di reazioni spropositate davanti a Eithan. In quel momento avrebbe voluto essere anche lui.
    In ritardo, però, si rese conto che in quel momento non avrebbe voluto essere né Eithan né Isobelle, e neanche Logan. Gli sarebbe bastato essere uno sconosciuto, ma in quel caso non avrebbe colto tutte quelle sfumature in un solo viso.
    Dopo la negazione, dopo l'estraniazione, Logan tornò finalmente in sé...e quasi si sentì fiero di essere quello che aveva provocato in Isobelle così tanta passione.
    Per un attimo quel volto gli ricordò i momenti in cui, dalle scogliere di Moher, riusciva a guardare il tramonto. Quando ancora era l'allievo di Herne, quando ancora la tunica lo copriva come una coperta pesante in cui rannicchiarsi e guardare il mondo da quello spiraglio. L'Irlanda era preziosa proprio perché di tramonti come quelli non ne aveva mai visti, e raccogliendo le mani davanti al grembo tutto sembrava fermarsi e assumere altre forme. Isobelle era preziosa allo stesso modo.
    Il portamento di Logan si imbevette di pazienza, una pazienza stoica, della resistenza di una roccia al limitare del dirupo. Continuò a guardare pacificamente Isobelle negli occhi, a rispondere alla sua furia incanalandola in piccoli tratti accondiscendenti. L'impercettibile sorriso mesto e gentile resistette ignaro del rumore, dei tuoni che rimbombavano tra le costole della ragazza dai suoi stessi occhi.
    Non voleva assolutamente forzarla. Avrebbe potuto aspettare una sua parola per ore, se fosse stato necessario. D'altronde quello era un martedì, e il martedì settimanale era il suo giorno libero. Non aveva fretta.
    Dopo l'agitazione e il timore momentaneo, arrivò addirittura a pensare che Isobelle, ancora dopo anni ed anni, avesse la particolare capacità di farlo veramente sorridere interiormente, di contagiarlo con una strana sensazione di istintiva e contraddittoria esuberanza, che adesso crescendo aveva forse imparato a tenere silente nel suo animo, ma per niente invisibile.
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    Schiuso fra gli ultimi tentativi di quelle labbra trovò finalmente un moto di raucedine che emerse come da giorni di un passato lontano. Le parole di suo fratello si stavano chetando nella mente lasciando al silenzio il suo imponente spazio. Era in quello che lo riconosceva. Persino quando le raccontava quelle favole surreali e oniriche era nelle pause pregne di silenzio che scopriva cosa Logan provasse. Percepiva la stanchezza emergere pur se la sua voce si diceva invincibile, percepiva l'affetto mentre si assicurava che si fosse addormentata sul serio, e più di tutto percepiva il bisogno di alzarsi per incontrare ancora quella solitudine di cui aveva fatto la sua sposa. Con lui le parole erano ingannevoli, piegate dalle regole della lingua e da confini invalicabili che altrimenti avrebbe superato in un soffio di vento. Narravano storie con cui costruiva la realtà, ma che non dicevano nulla della voce che le sottendeva. Aveva la fronte tesa. Sapeva che quel piccolo particolare poteva testimoniare i suoi incessanti e normali tentativi di tenere le redini delle sue responsabilità presunte, così come una preoccupazione latente a cui dava appena il tempo di specchiarsi nella sua consapevolezza. Per quanto la prima ipotesi l'avrebbe convinta d'aver avuto ragione per molti di quegli anni, sospettava in quel caso si trattasse della seconda, e in qualche modo percepiva la speranza di trovarsi davanti una persona diversa da quella che l'aveva cacciata con la stessa solida fermezza d'una roccia. Bastò quello a farla risvegliare per scrutarlo con la stessa determinazione che aveva avuto un tempo nel fronteggiarlo. Per un istante si sentì fiera, come fosse stata in grado di incarnare lo spirito atavico di Alec, per lei sempre invincibile. Logan la avvolgeva e sfiorava con lo sguardo, in grado di saggiarla come avrebbe fatto con un tessuto pregiato. Se solo chiudeva gli occhi poteva sentire le sue mani scorrere la stoffa per vedere quanto intricata fosse, se potesse scorgere anche un più nascosto disegno fra le maglie, se fosse abbastanza morbida da poterla stringere fra le dita. Non era quel tipo di conoscenza maturato con l'esperienza, del resto quella era mancata più che mai vista la sua assenza negli ultimi undici anni. No, lui sapeva. Sapeva per il modo in cui scivolava fra le pieghe del mondo e se ne lasciava attraversare come parlassero la stessa lingua. Un po' come stava facendo con lei, chiedendo a quel silenzio di portarle un messaggio che le parole erano lente a trasmettere. Avrebbe potuto aspettare che dicesse qualcosa, magari che le spiegasse cosa ci facesse lì, ma sapeva che non sarebbe successo. Sarebbe stato come la pietra di una montagna, e lei scorrendo in quel dominio che non le apparteneva non poteva che sfregarlo pian piano fino a corroderne la superficie più esterna con la stessa perseveranza dimostrata dall'acqua in decine di anni. Quello non era il suo campo. Avrebbe vinto e condotto il gioco con naturalezza, ma esattamente come quando era appena una bambina, Isobelle non riusciva a permetterlo rimanendo buona e silenziosa. Sistemò la fascia della tracolla sulla spalla sentendola sfregare laddove portava il marchio indelebile di Nik. Le ricordò all'improvviso che non era più quella mocciosa agitata a cui Logan aveva cercato di trasmettere dei limiti. Si sentiva meritevole di parole adulte anche se continua a sentire di non poter raggiungere la vetta su cui la figura del fratello si posava, sempre irraggiungibile all'uomo. «Mi hai trovato?» chiese più calma di quanto credeva di poter essere. Neanche sospettava avrebbe mai fatto una simile domanda se mai l'avesse visto un'altra volta. Eppure, per quanto odiasse ammetterlo e sentisse la rabbia frustrante che accompagnava quella consapevolezza tardiva, per lei contava di più scoprire se lui l'avesse scovata per caso o meno, che immergersi in quel che aveva da dire. Forse ci sarebbe anche cascata immediatamente se non fosse stato per quel pessimo tempismo. Se c'era un disegno superiore in tutta quella situazione, evidentemente si stava rivelando. Sedò appena la curiosità vorace che divorava l'astio per non permettergli di distruggere quel mistero ancora mai svelato. Non poteva negare di vedere qualcosa di diverso su quel volto, qualcosa che più si armonizzava a quel che lei avrebbe potuto amare, in modo da resistere intensamente al passare degli anni perché provasse ancora la agitazione nel vederlo. «Dove hai vissuto?». Un'ultima domanda che rimase fredda in superficie, aggrappandosi a modi severi di giudizio che non le appartenevano. Forse per questo le sembrava tanto difficile ricorrervi senza pensare di essere davanti ad un bel po' di cazzate. Dovevano essere quelle a tenere insieme pezzi discordi che cercava di abbinare per poter tentare davvero quell'addio tanto agognato e temuto che pure voleva rivolgere a sua madre. Lui era lì, quasi un regalo del destino per permetterle di porre fine ad una straziante attesa.
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    n fiato carezzò il respiro calmo. Un fiato estraneo, ruvido quanto le mani di sua madre. Non seppe in che modo, ma il ricordo di quei pochi tocchi gestiti con foga arrivarono puntuali insieme all'incertezza di Isobelle. Logan non era mai stato un amante del contatto fisico. Lo parsimoniava, lo distribuiva a chi ne aveva bisogno al momento giusto, ma non l'aveva mai chiesto per sé. Preferiva la distanza alla vicinanza, preferiva guardare una persona nella sua interezza piuttosto che toccarla lasciando che le palpebre si chiudessero e venissero accecate dall'intimità.
    Isobelle era in bilico. Capì che non sapeva cosa fare perché qualsiasi reazione sarebbe bastata ma allo stesso tempo si sarebbe dimostrata controproducente. Non vi erano né parole né gesti abbastanza precisi, e in quella confusione Isobelle dava l'impressione di un animale spaurito che non riusciva a capire se fosse più saggio avvicinarsi ancora o scappare via.
    Logan aveva quasi paura a muovere le dita, intorpidite da quell'immobilità così innaturale. Lasciò che s'infilassero nelle tasche del trench, fece un profondo respiro dopo che la prima domanda di Isobelle si fece spazio con una fatica immensa, come se avesse dovuto incidere con la punta delle sue stesse unghie l'apertura delle labbra.
    Socchiuse le palpebre per un attimo. Mi hai trovato. Che razza di incipit per un discorso così difficile. Se Isobelle non avesse usato quel tono così ostile e distorto Logan l'avrebbe ancora rivista bambina, l'avrebbe rivista correre tra i cespugli intorno al giardino aspro del manor, in autunno inoltrato, i piccoli stivali di gomma che si inzaccheravano nel fango mischiato alle foglie rosso fuoco insieme alle gambe sottili quanto due bastoncini.
    Se fosse stata bambina avrebbe utilizzato quelle stesse parole in un contesto del genere. Avrebbe quasi accusato Logan di averla trovata poco dopo aver finito di contare con la fronte contro il ruvido tronco di cedro, di aver vinto prima che lei potesse ingannare i suoi occhi.
    Mi hai trovato. L'avrebbe detto quasi stizzita, con quel cipiglio troppo serio per non essere preso ironicamente dal maggiore dei tre Lagrange. Si sarebbe messa poi le mani sui fianchi, i capelli scompigliati come paglia scura con quella frangetta che Judith si ostinava a tagliarle.
    Quei capelli però erano allungati. Erano rimasti crespi, brulli come pezzi di terra incolta, ma erano cresciuti...e le parole che avrebbero fatto ridere Logan un tempo adesso gli fecero abbassare lo sguardo. Lo stava già abbassando inconsapevolmente troppe volte. Lo rialzò.
    Avevano davvero giocato a nascondino per tutto quel tempo. Da quanto andava avanti quella partita?
    "L'hai trovata davvero, alla fine?"
    L'acida ironia di Ahkal. Era stata in silenzio fin troppo, mentre lui quel silenzio invece voleva portarlo avanti.
    "Chi può dirlo"
    "Cosa ti aspettavi?"
    "Nulla in particolare"
    "Il tuo petto si sta allargando. I polmoni formicolano...sembra che tu abbia trovato molto di più"

    Touché. Non si sarebbe mai aspettato che Isobelle potesse superare le proprie aspettative. In meno di due minuti dal loro primo sguardo l'aveva già fatto un'infinità di volte.
    Seconda frase, e adesso il sorriso ricomparve sfuggente ancora una volta, come quelle piccole folate di vento. Le chiome degli alberi si diramavano dietro le spalle di Isobelle come dita che muovevano l'archetto di un violino in mezzo a un palcoscenico vuoto, in una melodia veloce e appassionata.
    Gli occhi di Logan si strinsero, le guance s'incavarono leggermente non appena le labbra si schiusero, crepate e secche per la poca attenzione che il ragazzo stava prestando alla propria voce.
    Dove aveva vissuto. Al contrario dell'altra, quella domanda era tinta di una maturità fuori dal tempo, fredda e inospitale come allo stesso tempo insolitamente pacata, una domanda che però non era a conoscenza del dettaglio più importante: Logan non viveva mai in nessun luogo.
    « Per risponderti dovrei raccontarti. Dovremmo sederci da qualche parte, dovremmo avere un po' più di tempo »
    Il sorriso si spense. Per la prima volta Logan guardò Isobelle non più come la bambina che correva tra le foglie d'autunno, ma come la donna che camminava tra il prato di primavera. La guardò serio, come avrebbe guardato una persona della sua stessa età, con la sua stessa maturità.
    Quello sarebbe stato il passaggio più delicato e decisivo. Quella volta, al contrario della precedente, non sarebbe stato Logan a scegliere, ma Isobelle. In un battito di ciglia si ritrovò mentalmente avanti nel tempo, e quasi la vide già andar via. Nessuna alternativa lo spaventava realmente, avrebbe accettato qualsiasi opzione in silenzio con la consapevolezza che dopo quell'incontro non ce ne sarebbe stato più un terzo uguale.
    « Vorresti che ce l'avessimo? »
    La voce si trasformò in un sussurro scandito. Gli occhi si smossero lievemente, piccole sfaccettature diamantate trascinate da una carezza malinconica.
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    Lo guardava sul naso in cui tratti marcati e delicati si univano in modo perfetto, perfetto nel suo essere un'armonia fra quella che era l'asprezza con cui Judith piegava i suoi tratti più anticamente femminili e la dolcezza di quelli più mascolini e decisi di Alec. Li teneva insieme come se fosse stato in grado di prendere tutte le loro contraddizioni e frammentarle fino a renderle un impeccabile connubio di parti. Non osava sollevare gli occhi abbastanza per incontrare quelli del fratello, ma allo stesso tempo non era abbastanza codarda da spingerli semplicemente via. Restava a metà, su quel naso che si immolava come mediatore di pace fra due universi infinitamente contrastanti, e per questo profondamente simili. L'aveva capito troppo tardi. Fulmineo lo sguardo balzò su un particolare forse innocuo, ma non per lei. Le dita di Logan vibrarono come se covassero l'ombra di un gesto mai nato, convinte di dover mostrare un infinitesimale segno ad una mente che avvolgeva tutto in modo troppo completo ed ampio per cogliere sfumature sottese così piccole. Come se stesso. I suoi occhi erano tanto grandi da non potersi voltare verso l'oscurità celata nelle orbite vuote. Infilò le mani in tasca. Un altro gesto innocuo, che per lei aveva però il sapore di un risarcimento per anni spesi a guardare un'immagine inesistente. Adesso lo vedeva in modo del tutto diverso. Debole dove un giorno aveva visto una perfezione immota. Forte, laddove in passato aveva colto la codardia della fuga. Logan si era ribaltato nella sua assenza. Quell'unico gesto le sembrò un riconoscimento mancato, come se quelle dita che una volta avrebbe posato sul suo capo per darle quel tocco amorevole che credeva le mancasse adesso si ritraessero, consapevoli di non avere più davanti una creatura tanto piccola. Come gli occhi che si abbassavano sulla spinta di un'improvvisa frenesia per tornare immediatamente al loro posto, sul trono di una figura imponente. Sentì all'improvviso quanto lui non la considerasse più la bambina di un tempo, un particolare che fece montare una nota di irritazione flebile. Era malinconia più che rabbia. Stavano ancora seguendo i suoi tempi. Non aveva avuto lo stesso sguardo quando lei si era mostrata al suo cospetto come un'adulta. No, aveva dovuto attendere di piegare una mano per cogliere un fiore già sbocciato, che prima si era limitato a rimettere in piedi per aver cercato di scivolare su un terreno ricolmo di speranze ancora acerbe. All'improvviso riuscì ad afferrare una sensazione che aveva spesso provato in relazione ai suoi ricordi del fratello, una sensazione sfuggente e distorta che l'aveva fatta allontanare bruscamente. Davanti a lui non si sentiva solamente piccola. Non sentiva la differenza di statura, né i lineamenti infantili. Davanti a lui sentiva la grandezza della sua spinta alla libertà acciambellarsi come una creatura maestosa ma ugualmente leale. Si vedeva come dall'esterno. Non aveva occhi a posarsi su un ragazzo non ancora trentenne o ventenne, bensì l'accoglienza di un mondo intero in cui figurava un uomo e una ragazza che pian piano diveniva bambina per parlare di una storia altrimenti dimenticava. Vedeva se stessa nel suo sguardo, il suo passato, il suo futuro, quello che Logan credeva fosse il suo destino. E attraverso tutte queste cose vedeva lui, percependo all'improvviso la sensazione che provava lui toccando le cose. I colori di cui era tinto il suo mondo. Quella particolare fragranza su cui concentrava le narici quando arrivava l'odore del vento. I silenzi divenivano anni di luce quando parlava con lui. Viveva contemporaneamente decine di vite, una scheggia di quel che si annidava con naturalezza negli occhi del fratello. Quando parlò quasi si era dimenticata cosa gli avesse chiesto. Si era dimenticata della rabbia, della malinconia. Si era dimenticata di essere nel suo corpo. Tempo. Quale inutile variabile per chi il tempo l'aveva elemosinato e a volte plasmato. Fermato, fintanto che non fosse venuto il momento di farlo ripartire come una canzone bellissima cominciata nel momento sbagliato. Si svegliò, spostando la testa fino ad includere gli alberi più fitti oltre le panchine nel suo campo visivo. Fra loro c'erano radici profonde, dolcemente arpionate nel terreno, intimamente nascoste sotto il verde pallido del prato per conservare la privacy del bacio nutriente che offrivano alla pianta posata su di esse. Non disse nulla mentre le gambe naturalmente si portavano verso di loro e le braccia lignee da cui poteva farsi celare al mondo. Solo per qualche minuto. Si sedette con estrema delicatezza, una cosa normalmente inconsueta, ma che aveva dovuto apprendere per muoversi in perfetta sincronia su corde sospese nell'aria. Aveva appreso l'equilibrio e la calma, e in quello aveva impresso la sua spasmodica passionalità. Toccò il terreno, e solo allora tirò a sé le gambe in una posa più infantile di quanto quelle movenze potessero lasciar presagire. Alzò gli occhi fino a vederlo lontano, in quel trench scuro che lo teneva insieme, con le mani nelle tasche perché nascondessero quella pelle così umana. «E tu?». Fu l'unica cosa che si sentì di dire, lasciando che una nota sonnolenta di sfida colorasse un po' le sue parole. Non era un dubbio, né una richiesta. Voleva lui dicesse a voce alta quale fosse il suo desiderio, ferma nell'idea ancora giovane che quelle labbra non fossero mai state abituate a lasciar sfuggire un sogno. Era la sua mente a coltivarne decine fra le teorie più argute a cui solo Alec, fra quelli che lei conosceva, aveva avuto accesso. Lì dentro s'agitavano mondi, ma sulla sua bocca proliferava il silenzio. Erano quelle le sue condizioni. Esattamente come lui danzava fra le pieghe del tempo e dei rifiuti ben dissipati, lei chiedeva una verità da mettere sul piatto e la schiettezza per battere il banco.
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    ovette trattenersi davvero per non stupirsi di quella reazione così improvvisa. Non fece neanche in tempo a chiudere le labbra un'altra volta che Isobelle aveva già incrociato le gambe in mezzo al prato. Un moto di commozione gli grattò la gola a quel gesto tanto accondiscendente quanto prepotente e frettoloso. C'erano momenti in cui gli sembrava cresciuta, in cui quegli anni in cui lui si era tenuto distante si rendevano esageratamente concreti, così tanto da occupare lo spazio che li separava anche in quel momento. Poi, magicamente, quei momenti venivano soppiantati da altri in cui invece, ingannevoli come illusioni dolci e antiche, gli suggerivano quanto lui fosse rimasto il ragazzo che riusciva a calmare l'animo di quella bambina attraverso le aspettative delle proprie storie, che lei trattava come fossero un tesoro prezioso, forse con più cura di lui, che invece le lasciava scappare come fossero dialoghi di poco conto, che le utilizzava erroneamente per scopi più alti, per plagiare quella personalità turbolenta ed estranea al suo modo di porsi.
    I viaggi, le avventure che aveva trascorso, tutto quello che aveva vissuto gli sembrarono solamente, appunto, storie. Storie inventate dalla propria fantasia, come si fosse svegliato finalmente da un lungo sonno e si fosse reso conto di essere ancora al maniero, di non aver violentemente reciso alcun legame.
    Aveva diciott'anni guardando Isobelle seduta in quel modo. Li aveva ancora, li sentiva tutti e solo quelli. Attraverso il suo sguardo ruvido e curioso la voce arrochita e greve di Judith fece capolino, ma non in modo brusco, non come quando in fin di vita ci si era aggrappato dopo aver recluso Percival.
    Era soffice e vicina, e Isobelle era una delle tante piante che stava travasando in silenzio al fianco di sua madre.
    Si trattenne da non versare alcuna lacrima. Niente avrebbe potuto tradire la compostezza dei suoi occhi che la guardarono accomodarsi nel bel mezzo del nulla, un veliero tra le onde verdi e luminose. Non vi era alcun dettaglio che potesse in qualche modo tradire l'impassibilità del soffice volto di quel ragazzo che invece dentro di sé aveva un'esplosione di sentimenti da tenere a bada tanto quanto i propri spiriti sopiti.
    Era però una bella sensazione. Si sentì mosso da qualcosa di palpabile dopo tanto tempo, anche se dolorosa. I gesti di Isobelle urlavano a gran voce quanto non meritasse tutta quell'accondiscendenza, quanto invece Judith non fosse lì accanto a lui, quanto adesso stesse patendo un destino crudele senza la sua presenza.
    Judith...forse era sua la colpa. Ma come avrebbe potuto, come avrebbe potuto fermarsi prima di sapere, e se anche avesse saputo, come riuscire a farlo? Neanche Judith avrebbe voluto, neanche Alec avrebbe voluto, nessuno sarebbe stato davvero felice. Le cose non sarebbero cambiate con la sua presenza, si sarebbero andate a complicare in un nugolo di incomprensioni. Aveva perseguito la scelta giusta per se stesso e per loro, era stato felice quando Isobelle si era presentata davanti a lui dopo anni insieme a Caleb. Lei aveva avuto più di qualcuno in grado di insegnarle a vivere, capisaldi che erano stati validi anche per lui stesso anni e anni prima...e poi lei se la sapeva cavare benissimo da sola. Avrebbe messo una mano sul fuoco per dimostrarlo a tutti, ne era stato sempre sicuro, fin dall'inizio, fin da quand'era piccola e Judith, fin troppo simile a lei, l'aveva ritenuta forse troppo immatura.
    Isobelle fingeva di essere così. In realtà era sempre stata un passo avanti a tutti, solo che si perdeva spesso a giocare con i suoi inganni. Le piaceva confrontarsi con gli altri più di quanto volesse ammettere, perciò invece di andare avanti, di continuare a dare le spalle al resto come Logan faceva ogni giorno, lei invece ci ripensava, si voltava, tornava indietro e perdeva tempo per amare quelle trappole ignote che come lei erano gli esseri umani.
    Le sopracciglia di Logan, da lievemente increspate, si alzarono delicatamente. Il volto dell'ex grifondoro ebbe una trasformazione radicale dopo quella reazione inconsueta, ma fu un processo tremendamente lento. Prima gli occhi si allargarono, poi si ridimensionarono nuovamente, poi si strinsero quasi in un moto di dolcezza infinita che mosse la testa da un lato inclinandola di poco, come volesse cogliere ciò che Isobelle gli stava dimostrando, come volesse conservare ogni minimo gesto per un ritratto ancor più completo di ciò che aveva immaginato nel momento in cui Daniel gli aveva solamente detto: "Isobelle Ophelia è una mia studentessa".
    Il sorriso si schiuse quasi timidamente, poco alla volta...poi mostrò i denti e le guance che si infossarono nella prima e unica risata spontanea e palese dopo mesi.
    Noreen era in grado di farlo, ma solamente in alcuni casi. Attraverso il percorso di Herne la stazza di Logan si era ancor più fortificata nell'equilibrio della non dimostrazione di sentimenti così netti, che ormai lo infastidivano...ma non poté in alcun modo evitare di ridere in quel contesto, perché Isobelle si era seduta esattamente come molti anni fa, quando Logan le prometteva di raccontarle alcune storie se solo lei fosse stata ferma e zitta per un secondo.
    La risata fu roca e bassa, molto più bassa rispetto al suo tono di voce, ma mostrata con gusto. Non ci era più abituato, e chissà quando gli srebbe capitato un'altra volta in quel modo spontaneo, perciò se la godette fino alla fine come se anche lui fosse spettatore di un fatto così inconsueto.
    « Con sederci da qualche parte intendevo una panchina » mormorò in quella risata per poi scuotere paternamente la testa e ruotare la testa da un lato, la risata che si spense ma non il sorriso davvero divertito.
    Quando la voce fioca di Isobelle replicò con un astio che mal celava tutto quel resto che Logan aveva già colto, il fratello tornò a guardarla. Fece una pausa di silenzio e l'espressione divenne enigmatica, in bilico tra il sorriso di prima e la serietà del dopo. Immobile la guardò un attimo, come stesse studiando un quadro. In effetti lo sembrava. Non sapeva come mai, ma le ricordò quel certo ritratto di Monet, colazione sull'erba. Isobelle non era nuda, non aveva la pelle così pallida, ma vi era qualcosa di irriverente nel suo portamento, qualcosa che in realtà aveva sempre dimostrato con fierezza.
    « Ma certo »
    Lo mormorò come stesse toccando con quel soffio una reliquia. I passi si mossero lenti ma sicuri sull'erba, la carezzò con le scarpe e buttando un respiro dalle narici si sedette accanto a lei. Rimase un attimo a fissare il parco, il vento che mosse i capelli a entrambi come le fronde degli alberi sotto cui camminavano persone che in quel momento sembravano componenti di un presepe.
    Erano tutti così piccoli...eppure si muovevano lo stesso, sotto lo sguardo vigile dei due fratelli Lagrange.
    Prese fiato. Sarebbe stato un racconto molto lungo, ma Isobelle lo aveva richiesto con forza, e mai Logan si sarebbe sognato di non accontentarla.
    « Ho vissuto a Cashel per un po', durante i primi due anni. Byron è un brav'uomo, dopotutto » esordì, le braccia che raccolsero le gambe che si piegarono vicine al petto, lo sguardo ancora ipnotizzato da Central Park. Non voleva rovinare l'idea che Isobelle aveva ancora di quello sconosciuto...inoltre, nonostante i propri sbagli, Logan era sicuro che infondo Byron lo fosse davvero.
    « L'Irlanda è affascinante, le persone sono parte di quella terra e la abitano con felicità, vivono alla giornata come se il futuro non esistesse. Rispettano il passato con allegria, gli errori con leggerezza. Ho imparato a rivalutare il rumore delle voci, è piacevole starli a sentire »
    Si mise eretto con la schiena, un sorriso appena lambì le labbra imbevuto di una nostalgia che però non era affatto malinconica. Quelle storie erano passate, e il passato era solo una pietra su cui poggiarne altre.
    « C'era un posto, il Capitol. Non ho mai amato la Guinness, ma la birra artigianale lì ha un gusto che non sono mai riuscito a trovare da nessun'altra parte. Ci andavo ogni sera, quasi ogni sera. Mi piaceva perché era uno di quei classici posti a cui non avresti dato un galeone, ma che al loro interno contenevano il cuore del paese. Lì la gente andava e veniva come un porto di mare, ma Victorie, la proprietaria, lei c'era sempre. Le ho parlato a volte di te, di voi. Ogni volta che lo facevo lei alzava un sopracciglio, rideva e mi offriva un'altra pinta, ancora adesso non ne capisco il motivo. Probabilmente quando ci mettiamo tutti insieme riusciamo ad essere sempre tremendamente comici » fece una pausa, uno sbuffo che arricciò di poco gli angoli della bocca.
    « Le strade erano strette, molto lunghe, ma le case erano quasi tutte basse e dipinte di bianco. Sai, i viali del centro erano totalmente ricoperti dai noccioli, d'autunno le foglie rosse cadevano e quando ci passavi di sopra rischiavi spesso di scivolare...lo ammetto, sono caduto molte volte. Erano comunque tutti costruiti con piccole pietre di ardesia incastrate tra loro, ruvidissime. Si dice che quelle strade siano state costruite dai romani e che non ci sia mai stato il bisogno di ripararle, perciò non hanno mai apportato nessuna modifica...e poi ho incontrato delle persone, dei no mag. Sono strani, davvero strani, ma divertenti ed estremamente interessanti. Non sai quanto mi sia trovato in difficoltà la prima volta in cui sono salito su una macchina non volante, insomma, usano davvero le strade e alcune di quelle macchine sono davvero silenziose, non come quella di zia Myrtile. Mi hanno fatto girare un po' l'Irlanda, in quel periodo, durante il primo anno in cui, beh... » lasciò correre la frase non inoltrandosi, arricchendola solo con una scrollata di spalle. Continuò imperterrito: « ...e sembra piccola, l'Irlanda, ma è così meravigliosa Isobelle, devi credermi. Lì i colori sono davvero diversi, ad esempio » indicò il prato di fronte a loro: « Questo non è verde. Cioè, sì, lo è, ma non davvero. Credo che il verde si possa vedere solo lì, è proprio...vivo. E' tutto più vivo, sembra un'esplosione di storie che puoi solo cercare, e cercare ancora, e non ne avevo mai abbastanza ai tempi. Ho studiato molto per questo, volevo davvero far parte di quel mondo. Non so se ci sia mai riuscito davvero »
    Si voltò sovrappensiero, si bloccò un attimo perplesso, come si fosse svegliato da un lungo sonno: « Ti sto annoiando? »
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    Una brezza leggera si animò di nuovo. Condusse l'odore sotteso di brughiera, quello stesso odore che lei associava al concetto di "casa" in modo delicato e ostinato, e che a volte si sentiva malinconicamente sulla pelle. Portò l'umidità di felci notturne avvolte e trapassate dalla caligine fitta. Aghi di pino estranei che sembravano essersi in qualche modo imposti nel tempo. La sabbia calda di un deserto una volta dissetato, ma ormai testardamente attaccato alla sua natura solitaria e vuota, senza sapere quante serpi e meravigliose sorgenti d'acqua pura celasse sotto la sua superficie. Un deserto che nascondeva a se stesso ogni oasi intrappolandosi nella sua stessa illusione. Non aveva bisogno di chiudere gli occhi per farsi sfiorare da quell'odore. Non voleva lasciarsene conquistare e impregnare come da quello più infantile e forte di Nikolaus, né sentiva di poterlo fare. Quel profondo coinvolgimento recluso in una nota di distacco le faceva gustare il sollievo, nonostante fosse sempre stata così legata al tatto e Logan fosse ormai per lei una scia impalpabile. Si solito ogni suo ricordo si tingeva della sensazione provata da dita che sfioravano, da pesi che spingevano gli organi interni, da presenze gelide che punteggiavano la pelle di brividi. L'odore di Logan, invece, era una carezza perduta, un'ombra lieve. Una mano che non arriva a toccare il capo, ma che si percepisce ugualmente sui capelli. Neanche se ne accorse, ma allungò la sua aura violacea perché lambisse quella natura artificiosa e il fratello anche a quella distanza. Solo i maghi bianchi potevano vederla, ma in qualche modo s'illudeva che chiunque fosse avvezzo alla magia, forse perfino un babbano, potesse sentirla accanto come un presagio d'essere accolto. Il viola, il suo viola, era l'indice di una profonda connessione con lo spirito. "Misticismo" era uno dei termini utilizzati da Callaway. Quando per la prima volta aveva parlato con lui non aveva badato a simili piccolezze. Non sentiva alcun legame con la Magia Bianca, l'aveva appresa perché voleva conoscere quell'uomo così curioso, la cui fama trapassava le pareti dell'università giungendo perfino alle orecchie più sorde. Ma era passato tanto tempo, e quell'aura le aveva permesso di presentarsi a tutte le parti ignorate di sé che negli anni avevano dovuto imporsi per farle sapere della loro esistenza. Voleva accogliere quella nuova figura fra loro, farle conoscere quella più slegata alla furia del suo corpo, come un tributo a quello che Logan era sempre stato. La gemma preziosa che aveva involontariamente lasciato cadere nel suo spirito quando a legarli non c'era che dovere. L'aveva perduta involontariamente, come spesso lei credeva si trovasse a fare. Le sembrò quasi fosse il vento a portarlo sull'erba. Rimase composto, impassibile ad occhi estranei, ma il suo corpo non comunicava la freddezza che aveva intravisto prima di lanciarsi verso la fuga del circo. Forse era stata lei ad essere troppo giovane allora. Aveva sedici anni e l'irruenza nel sangue, aveva distrutto legami con la forza di un uragano e lui non aveva voluto lasciarsene corrompere. L'aveva odiato con il più veemente senso di tradimento che l'aveva spezzata, costretta a rannicchiarsi fra lenzuola estranee in Francia percorrendo paesaggi maestosi e belli, impossibilitati a toccare la sua anima a pezzi. Aveva covato l'ira e la brama di demolizione, aveva meditato di ferirlo e devastarne la compostezza con ogni gesto. Nel suo panorama mentale quella verità si era portata a galla insieme ad un'altra consapevolezza. L'aveva visto piegato per le ferite, e con lui il suo mondo silenzioso era collassato su se stesso sciogliendosi davanti i suoi occhi. Era una lezione che avrebbe dovuto apprendere la prima volta, quando una similare furia l'aveva portata ad annegare Ray sotto spanne di acqua violenta e gelata. Allora aveva sentito dentro sé lo stesso soffocamento, distrutta dai suoi tentativi di distruggere quel ricordo quanto il suo mondo lo era stato dalla ferita di Logan. Eppure era stata cieca così a lungo. Dentro sé stringeva un frammento di entrambi. Ray, inscindibilmente suo, nella sua carne, il sangue sgorgato dal suo petto e pompato nelle vene. Logan, fautore di un mondo onirico e mistico quanto le favole che raccontava. Le sue parole avevano intessuto un sogno in cui lei si sarebbe volentieri rifugiata. Aveva costruito il suo invisibile nascondiglio e una magia più potente di quella che avrebbero mai potuto insegnarle. E quante volte aveva riproposto quel mondo donatole quando intorno a sé non vedeva che la decadenza della realtà, privata di quella meraviglia infantile e trascendentale. Si poteva dire che il tempo avesse reso entrambi più morbidi verso le loro debolezze, permettendogli di vedere che non pulsavano più per le ferite ancora aperte. Vederlo seduto sul prato la fece sorridere in modo infantile. Lui, composto, rinchiuso in un elegante ed austero trench nero, con i lineamenti giovani e morbidi a mostrare un muro di maturità per non essere sottovalutati, piegato sul terriccio, ancora una volta infinitamente accondiscendente per i capricci di una bambina testarda. Lo sentì ridere. Quel dettaglio la fece sentire improvvisamente felice. I ricordi di quando era più piccola erano stati contaminati dalla verità, dallo scoprire quel senso del dovere alla base del loro attaccamento. Almeno da parte di Logan. Da allora si era convinta che tutto non fosse altro che l'inganno di una persona fredda, non importava quanto strenuamente si sentisse ancora fermamente attaccata a sensazioni tutt'altro che distaccate e che lei era certa di aver sentito. Per un istante le tornò in mente Ethan. Le volte in cui aveva visto l'odio della sorella dipinto sugli occhi verdi ad offuscarli, avvelenati al punto da apparire infinitamente scuri. Quelle volte apriva le labbra come per dire qualcosa di evidente, una verità lampante a lungo sfuggita per chissà quale ragione, ma poi il respiro gli gonfiava il petto troncando ogni parola. Emetteva solo un sospiro, mutando il suo sguardo in un tocco carico di compatimento. Isobelle odiava quando lo faceva, e lui lo sapeva. Vestiva di nuovo i panni del giullare. Se li avesse visti lì, seduti sull'erba, forse avrebbe sorriso con una certa soddisfazione. Non ne era sicura, perché anche se fosse stato presente avrebbe socchiuso una porta immaginaria per lasciarli davanti alla loro riscoperta senza ostacolarli. In qualche modo quella risata era la prima cosa che stava conoscendo di Logan. Il particolare di un ricordo che si colorava all'improvviso abbandonando le tinte in bianco e nero. Quella era stata una scheggia sincera. Strinse le mani sulle caviglia unendo i piedi, tirandoli a sé come a voler frenare le briglie di un soddisfacimento che in quel momento avrebbe intralciato quella spontaneità. Chiuse gli occhi, assaporando il sapore di un racconto che le era mancato. Cashel. Suonava bene. Sembrava un luogo di rovine ricoperte di muschio e pub in legno dall'odore di birra e sale. Lo stesso nome di Byron, taciuto fra le pareti di casa come fosse un anatema da contrastare, fra le labbra di Logan sapeva di una profonda debolezza. Le bastò udirlo una volta per capire senza stupirsene che il suo sguardo aveva attraversato quell'uomo fino a sperimentare la pietà di chi ha compreso davvero. Si fidava di quel parere, ma come per molte delle persone che le si agitavano intorno, il suo interesse scemava come un girasole che segue la stella e non il mondo che illumina. Eppure guardava quel mondo cercando lui in ogni sua parte, per poi abbandonarlo e prendersene ciò che l'aggradava. Dell'Irlanda aveva il ricordo delle scogliere e delle distese verdi in cui la sua libertà cacciava ferina i soffioni, le foreste stregate e affilate e la nebbia nel mattino in cui il sole infilava le sue propaggini di luce con difficoltà. La colpì sentire che lui avesse parlato di lei a qualcuno. Arrossì involontariamente, irritandosi fulminea per quella sensazione di calore sulle gote. Lei non aveva parlato di lui che al dr. Rosen. A lui aveva permesso di custodire segreti, ma per il mondo la sua famiglia non esisteva come non esisteva il suo passato. Il che era strano, perché ai tempi di Hogwarts su quello si fondava tutto il suo essere. Riacquistò quel ricordo stranita. Non poteva credere di averlo dimenticato. Tutte le volte in cui aveva parlato di suo fratello Logan, al punto che Ray ed Aidan avevano cominciato a conoscerlo senza saperne il nome, perché quello l'aveva tenuto gelosamente per sé. Le sfuggiva sempre una storia su di lui, momenti in cui gonfiava il petto con orgoglio. Poi quella fierezza era scemata lasciando solo la natura selvaggia della bestiola che gli aveva promesso allora fedeltà. «Lo capiresti se guardassi i tuoi occhi». Quella constatazione le sfuggì involontariamente. Mise semplicemente a voce quanto vedeva lei stessa lasciandosi assorbire dal suo sguardo per appropriarsi del mondo che tingeva senza saperlo. Da quel punto poteva vedere quanto fosse cieco quando qualcosa si avvicinava a lui uscendo dal suo campo visivo che vedeva fin troppo lontano. Tacque di nuovo, ben decisa a non interromperlo ancora, anche se in quello non era mai stata brava. Anche quando raccontava le sue storie passava dal mutismo di chi si è impregnato di parole alla tempestività con cui doveva rigirarle fra le mani per vederne ogni angolazione. E in quel momento vide quel paesino. Le case bianche e artificiali che le ricordavano il suo bosco di betulle. Il luogo a lei caro era una foresta candida, come per Logan lo era una città altrettanto bianca. L'Irlanda di Logan era nei pub, fra le persone e le storie, la sua nelle distese e sui dirupi dove quelle storie potevano essere udite. Il vento le portava dalle strade alla prateria. Ignorò la sua domanda, aveva troppa fretta di addentrarsi in quel racconto. «Ad esempio? Che storie? Hai visto antiche città in rovina? Hai provato a dormire sotto le stelle, fuori dalla città? Quando si è lontani dall'inquinamento luminoso la notte si apre in un modo completamente diverso. Fuori dalla roulotte riuscivo a vedere il cielo sporcato dalla via lattea e così tante stelle che di solito non si vedono. Sembrano muoversi, e tutto è così vivo. Sembrano davvero cadere per incarnarsi sulla terra, così pure che potrebbero restare solo in angoli come quello che mi hai descritto o ne verrebbero rovinate» cominciò, tradendo involontariamente una vita al circo che lui non sapeva avesse vissuto. Con certe persone sembrava impossibilitata a stringere segreti fra le dita. «In posti del genere immagino di vedere spiriti sconosciuti camminare e toccare tutto, forti del fatto che non esisteranno mai occhi in grado di stanarli». Parlava come se la sua voce fosse già l'eco di se stessa, lontana e diffusa nell'aria ancor prima di sfiorare le labbra. Si ridestò guardando altrove. Un uomo che camminava troppo frettolosamente per i sentieri del parco, artificioso come lo erano quegli alberi. Logan era la seconda persona che la faceva sentire piegata dall'impossibilità di comunicare quello che davvero avrebbe voluto dire, di non poter sentire come bramava, annullando il suo corpo per dissolversi e toccare tutte le cose che la circondavano, abbattendosi con furia quando incontrava quelle aberrazioni di vita. «...a parte i tuoi. Tu vedi solo quello che agli altri sfugge, ignorando ogni cosa che ti sembri banale e che invece loro potrebbero insegnarti per decine e decine di anni, senza mai riuscire a farti capire davvero». Nella sua voce c'era sconfitta più che amarezza. In verità era una consapevolezza dormiente appena destata per farle visita. Non le dava tristezza. Conoscere i suoi limiti aveva solidificato i suoi punti forti. Aveva scoperto ci fosse qualcosa di più dell'individualità stringente che si arrogava ed imponeva, qualcosa raggiungibile solo a chi avesse radici altrettanto forti. Ad esempio, guardando Logan in quel momento, dopo averlo conosciuto davvero solo nella sua assenza, si accorgeva che insieme parevano un paesaggio impossibile. Lei l'acqua volubile che da placida diveniva violenta, lui l'immensa parete di roccia che le faceva da diga innalzandola dal suolo, senza mutare la sua natura parossistica, permettendole di scatenarsi laddove i danni non avrebbero intaccato la stolidità del mondo che lui costruiva. Quell'acqua avrebbe forse potuto attraversare le pietre più porose, depositando su di esse un po' di sale e detriti che le avrebbero sporcate di quell'imperfezione in grado di renderle finalmente naturali, prendendo per sé la loro traccia calcarea come candido compenso.
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    i era sciolta, finalmente. In realtà era bastato così poco che quasi Logan se ne stupì. Aveva avuto paura per niente, aveva avuto paura di un rifiuto che in realtà non aveva motivo di esistere, non con lei. Per quanto le scelte di entrambi si fossero rivoltate le une contro le altre, per quanto il tempo avesse caricato di aspettative confusionarie quel contatto, poche parole, pochi gesti bastavano per rimettere al proprio posto un vaso troppo prezioso che già una scheggia ne avrebbe potuto significare il suo disastro.
    In quelle schegge, però, i sorrisi erano ancor più veri. Non vi era nulla di costruito, vi era una spontaneità che non coglieva da tempo, un'irruenza nel dimostrare al proprio fratello maggiore qualsiasi sfumatura che il volto di Isobelle fosse in grado di rappresentare.
    Se a Logan piaceva dipingere, con le proprie storie, un mondo inedito e costruito su misura per pochi eletti, Isobelle ne stava rappresentando i colori in cui lui intingeva il pennello per creare le proprie figure, la materia prima delle proprie invenzioni...ed era così appagante quando era lei stessa l'unica a guardare l'opera compiuta prima di tutti gli altri, come se avesse la spontanea capacità di guidare Logan, di farlo tornare alle origini e stupirsi a sua volta di quante piccole parti fosse composta.
    "Lo capiresti se guardassi i tuoi occhi".
    Quella frase, quel sussurro per un attimo lo fece voltare lievemente meravigliato. Nessuno si era mai soffermato sui propri occhi, o almeno così credeva. Logan era consapevole di attrarre le persone, a volte, su un campo totalmente legato al "sentire", non al "vedere". Alcuni attendevano con impazienza che le proprie pause finissero, altri volevano immergersi nei suoi silenzi, altri ancora prestavano attenzione solo alla pienezza delle proprie parole scandite con cura. Logan cercava di accontentare un po' tutti, anche se spesso trovava soddisfazione, in una discussione, nel condurre l'altro nei percorsi che più lo aggradavano.
    In tutto ciò aveva sempre creduto che nei suoi occhi non vi fosse nulla di interessante. Avrebbe voluto chiederle cosa avesse visto, di tanto interessante in uno sguardo che tra l'altro non le aveva neanche lontanamente rivolto abbastanza, ma non aveva tempo per quel genere di cose. C'era così tanto da dire, così tanto da ascoltare che tutte quelle minime considerazioni passavano in secondo piano. E allora continuò a parlare mentre sentiva la presenza di Isobelle che con entrambe le mani, frettolosamente, prendeva ciò che Logan le stava dando poco per volta tendendoselo stretto e portandoselo via, lontano, per poi sotterrarlo da qualche parte, nel suo rifugio segreto tra gli alberi.
    Si ricordò un dettaglio lontano, di quanto da piccola Isobelle amasse la terra. In autunno era solita immergere le mani nella fanghiglia guadagnandosi, nei pochi giorni liberi dal lavoro, i rimproveri brevi e concisi di Alec, mentre Logan era solito guardarla da distante, spesso seduto sull'angolo del muro di cinta dell'ala est del maniero, il pantalone largo che veniva poggiato sul pietrisco a secco e la schiena piegata nello sfogliare lentamente le pagine di un nuovo libro. Spesso i rumori e i gesti di Isobelle lo distraevano dal flusso della lettura, e gli succedeva in quei casi di rimanere ipnotizzato con lo sguardo verso di lei, che in lontananza giocava in modo così semplice da renderlo quasi disarmato.
    Erano momenti in bilico, quei classici momenti in cui si è rapiti ancora dalle parole stampate con cui si sta creando un mondo nuovo, ma allo stesso tempo dai disturbi esterni che però non riescono a risvegliare del tutto la lucidità interiore. Isobelle, per lui, sarebbe rimasta sempre in quel bilico etereo.
    Si era preoccupato per nulla, tra l'altro, per l'ennesima volta. Isobelle si schiantò nei suoi racconti come l'oceano in tempesta. Forse non era riuscita a diventare ancora il capitano della propria barca, e allora si era persa in quelle profondità che smuoveva con irruenza guardando le stelle quanto lui, ma in modo totalmente differente...e come primo soggetto del loro riconoscersi dopo una vita, Isobelle utilizzava proprio le stelle.

    "Capitano, Capitano! Ho avvistato il primo astro cadente, bisogna catturarlo!"
    "Svelta! Passami il catalizzatore di luce e punta l'arma!"

    Voci lontane. Eco di un vento che ancora una volta si alzò e lo portò verso momenti estremamente brillanti, di tinte pastellate, fotografie sviluppate in bianco e nero e poi dipinte a mano.
    Lo sguardo di Logan si fece lievemente distante, mentre sempre con interesse, seppur non la guardasse e le desse solamente il proprio profilo, ascoltava stavolta le sue, di storie. Storie confusionarie che non avevano un senso lineare, composte da piccoli dettagli che si accavallavano l'uno sull'altro, sostituendosi a quelli vecchi e creandone di nuovi. Era come se a ogni parola le venisse in mente un diverso argomento e che, di conseguenza, non si facesse specie a concluderne nessuno.
    Era così diverso e affascinante dal modo in cui Logan affrontava ogni parte della propria vita e del proprio passato...lui spesso ricordava tutto, ma ne comunicava solamente la propria visione. Isobelle ne coglieva invece gli attimi fuggenti, quegli attimi di contorno che Logan non considerava mai abbastanza.
    Isobelle cominciò a instradarsi, a metà di quelle descrizioni, come si stesse slegando dalla gabbia che Logan le aveva imposto nel suo parlare e stesse tentando di costruire, o perlomeno, di abbozzare o lasciar intravedere qualcosa di ciò che non sarebbe neanche stata capace di esprimere. Era sempre tumultuosa, frettolosa, ansiosa di riuscire a dire sempre più del dovuto pur non addentrandosi affatto, ma Logan intuì quanta maturità ci fosse in quei discorsi scomposti ma allo stesso tempo riferiti da parole con un lessico così tanto curato. Da lì riconobbe, per l'ennesima volta, quanto non fosse più quella bambina che confondeva solo le proprie mani nella terra e ne spostava le zolle per vedere cosa ci fosse sotto, allo stesso modo in cui cercava in qualsiasi modo di ferire quelle stelle fin troppo lontane.

    "Crede che io sia riuscita a prenderla?"
    "Non sono sicuro, Mastro Asticello, ma sembrava un buon tiro".

    Fece una pausa di silenzio. Assimilò quella valanga di parole come se le stesse di nuovo ripetendo tra sé e sé una per una, per coglierne un significato più profondo, il giusto significato che Isobelle avrebbe voluto dare a quella confessione che mai avrebbe creduto che potesse uscire dalle sue labbra.
    Il volto di Isobelle era una cruda composizione in attesa di lasciarsi ammirare.
    Si rese conto, più di qualunque altro momento prima d'ora, quanto le volesse infinitamente bene. Era un bene che andava aldilà del legame familiare, anzi, forse proprio di familiare non aveva nulla. Era simile alle chiavi della porta di casa, un oggetto sempre presente nella taca che si tira fuori per entrare in un mondo che in qualche modo, ha un odore tremendamente riconoscibile, un odore che sa solo lontanamente agli altri farebbe lo stesso effetto.
    « Devi farmi un immenso favore, Isobelle. Ti prego, non mi reputare così complesso. Io guardo solamente ciò che reputo interessante, come tutti gli altri...e tu hai sempre avuto una bella mira. Mi sto solamente perdendo nella tua traiettoria »
    Mosse le labbra flebilmente durante la prima parte della frase, come stesse per confessare il più atroce dei suoi misfatti, il segreto più inconfessabile di tutta un'intera esistenza. Gli sembrò quasi che il peso del mondo gravasse su di lui, come se fosse su un palcoscenico e i riflettori non facessero altro che accecarlo. Poi nella seconda parte, si raccolse stringendo ancor di più le gambe al petto e lo sguardo distante, sempre con quella distanza, come se Isobelle fosse un panorama immenso e lontano, catturarono i suoi occhi.
    Era un moto di ammirazione totale, che improvvisamente cambiò i propri piani.
    « Continua » la esortò: « Raccontiamoci poco alla volta, un po' ciascuno, va bene? »
    Lo disse con premura, con un'estrema delicatezza. Il prossimo sarebbe stato il suo turno, ma per il momento voleva che fosse ancora quello di Isobelle, della sua roulotte e delle sue stelle.

    "Voglio prenderne una".
    "Bisogna pazientare, Mastro Asticello. Le stelle sono capricciose".

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    narrato – «parlato»pensato
    Fu il vento a scrivere un sorriso sulle labbra ancor prima che lui parlasse. Nei suoi incubi e nei suoi sogni poteva odiarlo e rivolgergli tutta la sua rabbia, poteva ucciderlo e ferirlo, ma nella realtà, con lui davanti in carne ed ossa, mai avrebbe potuto lasciare che i colori del fratello sfuggissero dalle sue dita. Era una relazione strana, fallace dal principio se avesse dovuto guardarla come un mero rapporto familiare. L'aveva capito col tempo, quel tempo intessuto della sua assenza che aveva distrutto il mondo che la circondava. Dove prima vedeva stelle vive e bellissime che danzavano nel cielo, poi aveva visto la nebbia dell'inquinamento luminoso. I pesci guizzanti e lucenti divennero creature imprigionate in una rete di crudeltà. Aveva guardato sciogliersi il suo mondo con il suo abbandono. Era una consapevolezza agghiacciante, crudele, ma la fece sorridere. Non era più la bambina che aveva bisogno di parole per vedere la magia che la circondava. Nessuno avrebbe mai compreso quanto fossero radicate nel profondo le sue favole. Logan non aveva mai solo raccontato. Logan aveva parlato al seme di un animo infantile sapendo di rivolgersi al presagio di una futura rete intricata di rampicanti proveniente dalla stessa semenza. Lui era cresciuto da solo, e in qualche modo aveva cercato di trovare la stessa pianta che s'innalzasse laddove era arrivato anche lui. Aveva voluto che percorresse lo stesso cammino, che seguisse i suoi passi, eppure si era stupito nel notare quanto indipendente e forte fosse riuscita a germogliare. Isobelle ripensò a molte delle sue storie. Quella del medico e del gufo, la sua preferita. Un uomo testardo che aveva cercato di far capire che il mondo era come lo vedeva, eppure si era scontrato con una verità a lui incomprensibile, che gli altri accettavano senza capire. «Ti ricordi del gufo? Anche se il medico aveva torto, anche se tutti gli altri avevano ragione, alla fine è stato l'unico a capire davvero perché». Quell'osservazione forse non c'entrava nulla, forse avrebbe dovuto tacerla, ma era bastato che lui confessasse di sentirsi perso perché naturalmente affiorò sulle sue labbra. In qualche modo le sembrava di vederlo, quel medico, quello che fino alla fine aveva dedicato tutto se stesso nella causa in cui credeva e che alla fine gli aveva fatto perdere di vista quel che davvero contasse per lui. Eppure non poteva che vederlo come vittorioso, alla fine. Colui che più di chiunque altro era riuscito a far suo un mondo sconosciuto. C'era un'altra storia. L'uomo che intesseva mondi. Raccattava i bambini sperduti e creava con le dita adunche, lunghe e sottili reti di sogni da disperdere davanti a sé perché i bambini potessero navigarci in una terra nuova e maestosa. Non ci aveva mai pensato, sciocca fino in fondo, ma Logan era in tutte quelle storie. L'aveva cercata con una disperazione silente perché lo capisse. Tirò i capelli dietro le orecchie, incurvandosi appena verso il prato per disegnare ghirigori affondando l'indice nel terriccio umido. Era difficile parlargli di una vita che le era sfuggita fra le mani. Aveva visto così tanto, eppure nulla sembrava adatto. Decise di raccontare qualcosa che aveva il sapore di lui e di lei insieme. «Caleb mi ha prestato la sua moto. L'ho portata con me in Francia, ma da Cherbourg mi sono subito messa in strada. Mentre ero sul traghetto, quello che parte da Dublino, mi sono accorta che l'odore del mare non è sempre lo stesso. Quando l'acqua si è fatta scura, più profonda e insondabile, non sentivo più il sapore di casa. Si era perso del tutto, e più mi avvicinavo alla costa, più sentivo invece un odore diverso che impregnava il mare. All'inizio l'ho odiato. Mi sembrava fosse più... brutto, più gretto. Quindi mi sono messa in sella e mi sono lasciata tutto alle spalle. Non avevo una meta, ma volevo ritrovare un odore che mi piacesse. È successo sulla riva del Reno. Non assomigliava neanche lontanamente a quello di casa, però era forte, scuro... e ho deciso che volevo sentirne di più, farne parte. Ho girato per le varie città, ma qualcosa mi teneva sempre lontana. Finché non ho visto il volantino di uno spettacolo. Non saprei dirti cosa c'è stato che mi abbia colpito, forse il fatto che fosse diverso. Non c'erano solo numeri tipici, come quelli che ti aspetti di vedere. C'era un uomo... lo chiamavano il trasformista. Quando l'ho visto non gli ho creduto. Sembrava di vedere davvero persone diverse. Non aveva solo vestiti differenti, era qualcosa di più ampio... i gesti, la voce, il modo in cui camminava. Sembrava un camaleonte umano. La cosa strana è che non ho mai conosciuto qualcuno dall'identità così ben delineata e definita. Era tutte quelle persone, eppure nessuna al tempo stesso. Nessuna di loro riusciva a intaccare quello che era. Ne sono rimasta... affascinata. In generale era tutto così dinamico, così mutevole. Sempre sul punto di essere altro, anche restando sempre uguale. Così mi sono unita al circo». Tagliò corto su quell'ultima frase come fosse l'ennesimo dei suoi giochi, guardandolo d'improvviso con la stessa irriverente aria infantile di chi voleva scegliere gli orari per andare a dormire. «Tocca a te»
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    a favola del medico e del gufo.
    A Logan si aprì un mondo: faticava ormai a ricordarsi il percorso che lo aveva accompagnato all'interno della foresta, la prima volta in cui aveva cercato il villaggio dei druidi. Erano passati anni, anni interi in cui i cambiamenti si erano radicati fortemente facendogli quasi credere che lui avesse da sempre vissuto all'interno di quel luogo che adesso aveva lasciato, ma che in qualche modo ritrovava sempre, ovunque, in qualsiasi dettaglio di quella metropoli così estranea per uno come lui. Probabilmente non si sarebbe mai abituato, probabilmente non avrebbe mai accettato appieno quella troppa confusione che a volte lo faceva sentire lontano, ma adesso che stava iniziando a conversare con Isobelle quella concezione non sembrava poi così difficile e complicata.
    Isobelle aveva sempre abitato in una città affollata. Si era sempre radunata nella confusione degli altri per evitare di sentire la propria, il contrario che Logan era solito fare, e per lei i racconti degli altri diventavano aria fresca in cui poter respirare. Guariva le proprie ferite stando nel centro del passaggio tra un ponte e l'altro da sola, com'era solita fare da piccola. Seppur le piacesse correre e giocare con Jillian e battibeccare con Eithan, seppur amasse riempire di rumore quella casa fin troppo grande, la sua indipendenza la portava a rannicchiarsi in un angolo non appena qualcosa non andava per il verso giusto...ma poi eccola ricominciare a correre, a saltare, a infastidire con le sue grandi parole chi avrebbe voluto pace.
    Lei doveva essere ascoltata da tutti, perché sapeva di avere sempre parole importanti da dire.
    Si lasciò andare, rialzò le spalle e portò la schiena all'indietro, le mani che dietro il busto puntarono le braccia a sostegno del proprio corpo, immergendo i palmi nel delicato prati verde, che a sprazzi lasciava intravedere piccole spighe di graminacee. Inclinò il volto verso l'alto quasi sovrappensiero, le sopracciglia che si alzarono lievemente e gli occhi verdi che si strinsero di poco per contrastare la luce del sole che diretta gli investiva il volto squadrato da lineamenti morbidi.
    Quella favola era stata da sempre una delle preferite di Isobelle, forse perché era una di quelle attorno a cui aveva perso più tempo. Di solito improvvisava, di solito inventava i personaggi principali non appena apriva bocca accanto al letto di Isobelle e ne intesseva una storia che spesso, in seguito, era costretto a modificare per la poca memoria che lo legava ai piccoli dettagli. In quei casi Isobelle se ne accorgeva subito, sveglia e perspicace: come non aspettasse altro lasciava sfuggire uno sbuffo frettoloso e deluso tra le lenzuola e allora Logan si interrompeva per pochi istanti, cercava di ricordare e ricominciava da dove la sorella aveva interrotto nel migliore dei modi.
    La favola del medico e del gufo invece era stata tremendamente pensata. In quel momento Logan riuscì anche a ricordarsi il momento in cui l'aveva ideata, il momento in cui l'aveva iniziata a scrivere addirittura su carta sdraiato sul letto a baldacchino del dormitorio dei Grifondoro. Era una storia personale...ma in tutte vi era un po' di lui, in realtà. Utilizzava spesso quel metodo per avvicinarsi ancora di più a Isobelle, a farla sentire parte del suo mondo interiore, almeno per un po', almeno attraverso la fantasia. Sapeva quanto ai tempi fosse piccola, lo sentiva dal bisogno di chiamarla Asticello, quel nomignolo che racchiudeva un po' tutto e un po' niente sulla personalità di sua sorella, ancora troppo accennata per poter essere in qualche modo definita...ma allo stesso tempo non aveva mai voluto trattarla per ciò che era, una bambina. Tramite quei racconti era come se le stesse facendo presente le loro condizioni e le volesse fare aprire gli occhi su ciò che Logan vedeva davanti a sé. Spesso inventava personaggi a sua misura, modellava ciò che pensava riguardo Isobelle e lo trasformava in fonti incantate, maghi irruenti, guerrieri impavidi...e gufi parlanti.
    Il medico e il gufo era stata la sua preferita, la loro, proprio perché ritraeva esattamente entrambi nel modo più fedele che Logan avesse mai potuto trovare. Non era un caso che a Logan fosse venuta in mente, dopo anni, di colpo, durante la prima volta in cui si era messo alla ricerca di quel villaggio di druidi in attesa di trovare la propria strada ancora una volta diversa dalle precedenti.
    Non era un caso che Isobelle avesse finalmente capito il senso di quella favola durante quel loro primo, vero incontro dopo infinite peripezie da parte di entrambi.
    Logan era così soddisfatto in quel momento, perché si rese conto che entrambi avevano ripercorso quella favola esattamente durante il punto di svolta della loro crescita.
    La vita era un cerchio, come diceva Herne. Si passa il proprio tempo convinti di perseguire qualcosa, di evolversi, di distanziarsi dal passato, ma il fine ultimo è sempre quello di ritornare al punto d'origine con ogni sorta di esperienza e consapevolezza appresa, per guardarlo in modo diverso.
    Finalmente Isobelle aveva capito, e fu come se gli avesse tolto un peso. Non serviva più parlare con lei attraverso allegorie. Ripercorse con piacere le parole di quella favola che sapeva ancora a memoria dopo anni...poi la consapevolezza di aver colto solo in quel momento quanto avesse in sé una perfetta profezia, un dettaglio che lui, nonostante l'avesse raccontata infinite volte, non aveva mai colto.
    Lo sussurrò ipnotizzato dalle fronde degli alberi, un mormorio lieve che disse più a lui che a Isobelle.
    « "Giustizia vuol dire saper concedere seconde possibilità..." »
    L'aveva detto il gufo. L'aveva detto quella volta, ed era ciò che Isobelle stava facendo. Seconde possibilità. Lui non ne aveva mai date abbastanza.
    Si rese conto quanto Isobelle invece le ricercasse da una vita. Aveva quell'arroganza che cercava la voglia di un recupero, di un'armonia probabilmente irraggiungibile, perché la vita è una salita tortuosa e difficile da intraprendere nel modo in cui si vuole. Chissà quante volte era caduta su quei ciottoli ferendosi le ginocchia mentre lui non c'era.
    Non riusciva però a catalogare quell'osservazione come un dettaglio negativo, a farsene una colpevolezza. Per lui era solamente positivo che Isobelle fosse stata in grado di intraprendere quel percorso da sola, con le sue forze, i suoi errori, le sue idee...lui non aveva dovuto fare altro che aspettarla al suo capolinea proprio quando aveva concluso la parte più difficile, pronto per darle la spinta necessaria per rimettersi in cammino.
    Non si era poi sforzato più di tanto. La soddisfazione più grande era quella di averla rincontrata già forte, e con quella continuò ad ascoltarla interessato, guardando il cielo e socchiudendo gli occhi, rilassato da quella parentesi che mai avrebbe immaginato di ottenere così facilmente.
    Era stanco, la stessa mattina aveva dovuto rassicurare Daniel e quella notte vi era stato l'attacco al museo, ma nonostante ciò aveva voluto affrettare i tempi, per una volta, con lei. Daniel l'aveva convinto, alla fine. Pensò che non appena si fossero rincontrati di nuovo avrebbe dovuto davvero ringraziarlo per averlo smosso dal suo torpore.
    Caleb...
    Sentì quel nome e un altro peso lo fece deglutire. Come avesse già previsto che Isobelle avrebbe citato quel nome aveva chiuso preventivamente gli occhi, per fortuna, evitando il sussulto interiore di sentire quel nome.
    Gli portava ancora quella confusione strisciante che non avevano mai chiarito. Gli portava l'affetto di un fratello che con violenza aveva cercato di imporsi alle scelte di Logan, un profeta che aveva fatto saggiare per la prima volta la libertà a un assetato che non si era accontentato di così poco. Aveva bisogno di sapere come stesse, ora che aveva avuto il coraggio di conversare con Isobelle...poco per volta tutti i blocchi che si era imposto durante la propria crescita stavano crollando in una smania ingiustificata di ritorni.
    Era proprio da lui prestare la moto a Isobelle, proprio come a Logan aveva prestato la propria grinta. Con quella il ragazzo era riuscito a fuggire, e in quel frangente era come se Caleb avesse dato la possibilità ad Isobelle di fare altrettanto, un gesto che Logan, nella sua unica lungimiranza, non aveva neanche preso in considerazione, probabilmente perché troppo semplicistico e materiale.
    Isobelle aveva solamente avuto bisogno di una moto per iniziare la propria storia...e l'unico ad averlo intuito era stato proprio Caleb.
    Solo il suo nome gli fece venire in mente la sua ingombrante e necessaria mancanza nel suo presente.
    Poi, nuovamente, il trasformista. Mentre Isobelle parlava Logan si vide senza difficoltà in quei panni. Isobelle l'aveva cercato in mille altre persone pur non sapendolo.
    Aprì gli occhi di poco, impresse nella mente quelle parole.

    "Era tutte quelle persone, eppure nessuna al tempo stesso. Nessuna di loro riusciva a intaccare quello che era. Ne sono rimasta... affascinata. In generale era tutto così dinamico, così mutevole. Sempre sul punto di essere altro, anche restando sempre uguale".

    "La prima volta che ti ho visto eri un albero. La seconda volta eri un bersaglio, credo, poi sei diventato il redentore di Greed, dopo di che sei stato il mio… salvatore e ora ho come l’impressione che tu stia cercando di diventare il mio riflesso per capire cosa provo, forse per aiutarmi, non lo so. Non posso fare a meno di chiedermi quante metafore dovrai attraversare prima di essere semplicemente te stesso ai miei occhi".

    Aveva sbagliato tutto con lei. Forse Daniel aveva ragione, forse non avrebbe dovuto supporre che il proprio allontanamento non avrebbe causato alcun danno...ma dall'altra c'era sempre quella sicurezza che gli urlava quanto fosse stato necessario, quanto in caso contrario Isobelle non avrebbe mai avuto, di conseguenza, la necessità di mettersi alla prova e di partire come lui aveva fatto tanti anni prima, quanto la sua presenza non avrebbe fatto altro che bloccarla nel suo corpo da bambina esile. Non avrebbe mai accettato, mai sopportato un simile compromesso...entrambi si erano costruiti in modo diverso, da soli.
    Quello, persone come Daniel non l'avrebbero mai compreso, mai fino infondo. In quel frangente ne ebbe la certezza.

    "Isobelle è una singolarità preziosa, ma ha bisogno di cure, lei non è come te, lei ha bisogno di amore".

    Logan non poteva trattarla come un uccellino ferito, ma come una predatrice solitaria che aveva già saggiato la difficoltà di trovarsi persa. Era un nodo essenziale per una completa metamorfosi interiore, per quanto ancora forse non ne avesse consapevolezza...e lei era esattamente come lui.
    Lei era sua sorella, figlia di Alec e Judith Lagrange quanto lui ed Eithan. Provenivano tutti dallo stesso ramo, erano un albero secolare e solitario in mezzo a una radura.
    Sorrise e abbassò lo sguardo per lanciarle una divertita occhiata fugace: « Sapevo che l'avresti fatto. Gliel'avevo detto anche a Caleb, quella volta, credo non se ne fosse accorto più di tanto » disse genericamente, saltando a piè pari il significato di "quella volta". La sapevano entrambi, non c'era bisogno di aggiungere altro.
    « Alec dovrebbe essere soddisfatto di noi. Una figlia circense e un...non so neanche come definirmi. Un druido, credo, ti racconterò meglio poco alla volta. Potremmo mettere su un gruppo, con dei requisiti del genere potremmo essere ancora meglio delle Sorelle Stravagarie » sorrise ricominciando a guardare altrove. L'aveva detto con un cipiglio ironico pieno di un'accorta dolcezza, come se Alec non fosse suo padre ma il suo più caro amico.
    Poi pensò di conseguenza ad Eithan. Eithan che correva per casa proclamandosi il suo protettore. Non si sarebbe stupito se fosse rimasto lui con Alec e Judith, e ancora non si sarebbe stupito neanche se Alec avrebbe deciso, un giorno, di dare in eredità al fratello tutto il maniero dei Lagrange...dopotutto, los apeva anche lui, gli altri due non avrebbero beneficiato appieno di quel dono.
    « Immagino che Eithan sia ancora il più normale tra noi. Era destinato ad esserlo, infondo...spero abbia avuto una buona vita. Come sta? »
    Troppe domande. Si stava aprendo e i silenzi sembrarono un ricordo lontano, ma non voleva appesantirla. Prese fiato e iniziò a raccontare: « Mi hai fatto ricordare un episodio in particolare che mi ha fatto pensare dopo anni a quella favola. Dopo essermi trasferito a Cashel ho lavorato come apprendista in una sede distaccata del Ministero che si occupa della catalogazione delle rune antiche, ma lo sai, non amo molto stare fermo per lunghi periodi, così sono partito di nuovo, ho lasciato tutto. Volevo trovare quella parte della magia antica, volevo ritrovare davvero le mie radici più profonde, così quando da Byron ho saputo che vicino Moher si diceva ci fosse l'ultimo clan di druidi ancora esistente ho cominciato a cercarlo. Ho impiegato giorni, non riuscivo a trovare informazioni, mi sono perso nei grandi boschi che delimitano la scogliera, ho perso la mappa. In quel frangente, non chiedermi come mai, mi è venuta in mente quella storia...e poi ho acceso un fuoco, di notte. Mi sono rilassato, mi sono detto che era inutile cercare qualcosa di così sconosciuto, che avrei dovuto pazientare per permettere che lei si avvicinasse a me. E' stato più o meno così che mi è apparso davanti Herne. Ti sarebbe piaciuto, ne sono sicuro. A te piacciono le persone misteriose e complicate, e Herne è entrambe. Mi ricordo ancora lo scoppiettare del fuoco, le scintille che ballavano nella notte indisturbate, il cielo pieno di stelle, i rami del quercio sotto cui mi ero disteso un attimo e il tronco su cui, di fronte a me, dall'altro capo del focolare, si era seduto Herne. La prima volta in cui si è mostrato a me non mi ha parlato, non ha detto una parola e io ho fatto altrettanto, ci siamo solo guardati per quelli che mi sono sembrati anni, e poi lui è scomparso nel nulla...ma ancora adesso lo reputo come il Dio della foresta di Moher. Aveva in sé una possanza e una nobiltà che andava oltre i secoli, mi ha attratto come un'allucinazione, l'ho cercato disperatamente per giorni, scoprendo che infine lui per tutto quel tempo mi aveva visto nella foresta, mi aveva osservato con gli occhi degli alberi e mi aveva messo alla prova per vedere se fossi degno di scoprire il luogo in cui si nascondeva. Mi ha permesso di raggiungere il villaggio, alla fine, era lui che comandava il mio percorso. Mi sono lasciato guidare, e ho continuato a lasciarmi guidare per cinque anni. E' stato il mio maestro, mi ha insegnato tutto quello che so, magie legate alla natura, alla vita, alla morte. Mi ha messo molte volte in difficoltà e in soggezione, troppo antico, molto spietato nei suoi silenzi e nelle sue considerazioni. Un uomo meravigliosamente complesso...ancora adesso non riesco a coglierne l'esatto disegno, ma col tempo ho capito quanto lui potesse essere l'unico in grado di comandare i suoi sudditi trattandoli allo stesso modo come suoi pari »
    La guardò e si ammutolì, in attesa di un altro suo racconto.
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    narrato – «parlato»pensato
    Se chiudeva gli occhi finalmente riusciva a sentire come una melodia silente, cantata stesso dai pensieri di Logan. Negli anni, quando erano al Manor, era sempre stata troppo piccola, o forse troppo ottusa per comprendere quanto il fratello aveva da dire. Era un ottimo ascoltatore, ma pessimo quando si trattava di parlare a sua volta. Comunicava in altri modi, decine di altri modi, e lei fin troppo a lungo non se n'era accorta. Aveva bevuto dalle sue storie senza accorgersi che quelle erano le sue parole per lei, sbuffato per le sue scuse senza accorgersi che celavano il suo bisogno di trovare uno spazio più privato per sé. Avrebbe potuto disfare la matassa del suo passato per afferrare ogni filo di quell'immensa tela solo per rendersi conto di non aver ancora compreso nulla. Era semplicemente fuori dalla portata della sua logica, perché appartenente a quella fin troppo ampia e ramificata del fratello. Invece, per il suo istinto, per le sue sensazioni, e ogni parte più piccola di lei parossistica nella sua profonda illogicità, c'era una speranza. Con quelle avrebbe potuto toccare le sue parole, ne era sicura, perfino quando non le avesse comprese. Quello era il suo compito: comprendere e spiegare, forse sotto forma di storia come aveva fatto per tutta l'infanzia della sorella. Conferma di quel pensiero arrivò quella frase, appena sussurrata per essere depositata nel vento e subito portata lontano, ormai parte del passato. Ricreavano il presente di istante in istante, rendendolo pregno di tutte quelle informazioni a lungo sconosciute. Era ironico, perché a tutti gli effetti gli stava dando una seconda possibilità. Anzi, forse era la sua prima. Non l'aveva mai ascoltato come avrebbe dovuto, aveva fatto più capricci di quanta comprensione avesse mai elargito. Ora che era pronta ad ascoltarlo, paradossalmente non era vittima di quella profonda e incrollabile ammirazione provata un tempo. L'aveva spogliato delle vesti di un dio per portarlo accanto a sé, umano anche nella sua straordinarietà. Per un istante si sentì fin troppo lontana. Aveva lottato fino a sentire solo dolore nelle dita per strappare da lui esattamente quello che desiderava, ed era fuggito via. Senza accorgersene l'aveva fatto infinite volte, sempre convinta di poter trovare finalmente qualcosa che non avesse bisogno di compromessi, che fosse come lei la chiedeva. Non aveva avuto molto successo, aveva dovuto distruggere, ricominciare, andare avanti. Era stata scavata dagli errori quasi quanto dalle persone che erano scomparse. Eppure era lì, a riposarsi come dopo una lunga e struggente traversata. Riprendeva aria, malinconicamente consapevole che il cammino da lei intrapreso era più solitario di quanto avrebbe voluto. Forse per Logan non c'era tutto lo spazio sperato. Quando se n'era andato l'aveva costretta a risistemare gli spazi della sua solitudine. Quello che una volta era interamente destinato a lui, quello enorme, spazioso, maestoso, era stato smantellato per buttarvi i suoi demoni e le sue speranze. Agitazioni continuamente mutevoli perché nulla avrebbe potuto crescere lì dove aveva dovuto estirpare il fratello. E tutto il resto, apparteneva ormai a qualcun altro. Logan non sarebbe mai tornato ad essere per lei quello di una volta, una consapevolezza che la intristiva e rendeva felice al tempo stesso. Alla fine era cresciuta. Senza di lui, da sola, ma era cresciuta. Lo capiva da come la guardava. Come se stesse cercando l'Asticello e lo intravedesse meno spesso di quanto si sarebbe aspettato. Ma per quanto potesse sentirsi lontana, ecco qualcosa che la trascinava di nuovo tremendamente vicino, come fossero due barche alla deriva fra le onde, destinate a sfiorarsi solo quando il mare l'avesse concesso loro. Quella volta fu il nome di Alec a farlo tornare da lei. Per quanto il loro rapporto con il padre fosse sempre stato tremendamente diverso, Alec era per entrambi l'appellativo con cui rivolgersi a quell'imponente figura. L'avevano sempre ritenuto normale, anzi, sarebbe stato strano usare parole come "papà" o "mamma", infinitamente vuote in quella famiglia. Una famiglia che comprendeva anche Ethan. Abbassò lo sguardo quando le chiese di parlare del fratello, infinitamente lontano sin da quando aveva lasciato casa, forse persino più di Logan. «Conosci Ethan. Sta bene. Lavorava nella riserva di draghi in Romania, ma puntava di essere trasferito in quella scozzese per stare più vicino a casa. Credo ci sia riuscito a questo punto... ti immagini un irlandese nella riserva scozzese? Non che debba temere chissà cosa, ormai è più grosso di te e me messi insieme». Da quanto non parlava con Ethan? Non lo vedeva da quando aveva lasciato il circo, questo era certo. Il suo ultimo messaggio forse apparteneva a quell'estate, difficile collocarlo precisamente nel tempo. Alla fine, per quanto ci provasse, si era dovuto arrendere all'allontanamento di Isobelle quanto a quello di Logan. Ne aveva avuto il presagio fin dai tempi di Hogwarts. Glielo leggeva nello sguardo ogni volta che l'aspettava fuori dall'ufficio del preside perché ne aveva fatta un'altra delle sue. Sapeva che prima o poi una di quelle partacce sarebbe stata l'ultima. Così come aveva saputo, quando era andata a trovarlo in Romania, che non sarebbe durata a lungo.
    Si immerse nel nuovo racconto di Logan, chiudendo appena gli occhi perché dietro le palpebre potessero agitarsi le immagini oniriche di quelle esperienze come ombra danzanti su un muro. Così vide il bagliore delle fiamme, rosso e arancio, violento laddove cercava di toccare il mondo, ma appena più chiaro e giallognolo quando non diveniva che luce. Si sentiva parte di quegli alberi come Herne, solo scattante fra i tronchi e non loro parte integrante. E da lì lo osservava. Vedeva la spavalderia che forse entrambi condividevano, quella che lo faceva restare tranquillo, consapevole che nel peggiore dei casi avrebbe avuto una curiosità insaziabile da offrire a quel popolo antico, e per lui di più potente c'era da dare solo conoscenza. «Da come ne parli mi sembra Alec visto da qualcuno che non è suo figlio» esclamò con un filo di voce, sorpresa dalle sue stesse parole. Per un attimo si era persa in quel nugolo di pensieri, aveva visto qualcosa dall'esterno e si era accorta che per quanto potesse esser convinta di rapportarsi a suo padre con il distacco di una persona a lui vicina e nulla più, aveva inconsapevolmente comunque vestito i panni di figlia. Ora immaginava un Alec più giovane, fuori dalla famiglia. Uno che parlava con quel fare serio, ma profondamente appassionato come quando da bambina lo aveva sorpreso con Judith. Forse quel Herne si differenziava da suo padre principalmente per il modo in cui sapeva includere ben più di una manciata ristretta di persone in quell'adorazione rispettosa. Anche nelle loro esperienze avevano avuto vite diametralmente opposte. Lui fra gli alberi, a contatto con la magia vera, quella più profonda, lei per le strade, truffando con una magia fasulla e insipida. Giunse il silenzio, quello che Logan voleva lei riempisse con un nuovo racconto. Isobelle sapeva di non poter dire nulla che potesse avere lo stesso sapore delle storie di suo fratello. Infondo lei non aveva avuto un maestro, si era dovuta arrangiare da sé in ogni istante. I suoi occhi finirono automaticamente sulla cicatrice all'attaccatura del polso, una linea sottile e ricurva che l'orologio di Roch aveva tagliato un po' troppo in profondità quando le aveva afferrato il braccio. Nel vederla pensò quasi di non aver ancora detto nulla sugli ultimi anni perché se ne vergognava. Era la vita che aveva voluto, quasi in ogni sua parte, ma sapeva bene di non poter confessare a molti cosa avesse fatto. Non certo alla sua famiglia, questo era sicuro. «Dopo il circo sono venuta in America con una persona conosciuta in Germania. Non sapevamo fare granché, quindi ci siamo arrangiate con il lavoro. Io sono finita a cantare in un nightclub». Neanche si accorse di aver aperto bocca, parlando con una tranquillità innaturale. Non le piaceva ricordare Ninon. Non le piaceva ricordare il periodo con Ninon. Ogni volta che la sua mente si concentrava su un qualsiasi dettaglio che la coinvolgesse, subito spediva ogni pensiero nell'oblio dove anche quella ragazza era finita. Non poté non pensare di aver tirato in ballo l'argomento quasi per vendetta, per sbattere in faccia a suo fratello cosa avesse passato. Se ne pentì subito, non perché non volesse farlo sentire in colpa, sentimento che ancora faticava ad attribuirgli, ma perché odiava arrogarsi pietà. Non voleva che la guardasse come una vittima di qualcosa di troppo crudo, di triste. Aveva scelto ogni momento. «Mi esibivo praticamente tutte le sere, fra le nove e mezzanotte. Dopo di me arrivavano le vere cantanti, quelle che facevano spettacoli e balletti, e tutti ascoltavano. Io ero quella che teneva compagnia agli uomini ricchi fuggiti dagli uffici, dalle mogli, e che ancora non avevano trovato una prostituta. A volte trattavano noi come fossimo una di quelle ragazze, ma Jerry sapeva sempre rimetterli al loro posto. L'avresti detestato. Era uno di quelli che pensava solo al guadagno personale, ai soldi. Anche il suo nome era solo una bugia. Si chiamava Ronald, in realtà, ma diceva che era pessimo per gli affari. Di un "Jerry", invece, si fidavano tutti. Era un nome poco pretenzioso, semplice, colloquiale». Il nome di un bastardo senza moralità. Ricordava ferocemente come avesse voluto ucciderlo. Non fargli del male, ucciderlo. Non ne aveva mai avuto il coraggio, alla fine, ma aveva ringraziato l'infarto che si era portato via quel grasso maiale. Spostò lo sguardo lontano. L'aria era limpida nel parco, nonostante fuori si potesse notare la patina sfocata dei tubi scappamento. Lo smog doveva essere anche lì, ma forse in misura minore, per questo non ci faceva molto caso. Stava in silenzio da troppo tempo. «Mi piaceva cantare lì. Il pubblico non esisteva. Avevo un faretto sempre puntato in faccia. Non faceva molta luce, ma bastava perché oltre di esso non vedessi nulla. Era un enorme miasma di fumo e non potevo scorgere altro che le braci dei sigari e delle sigarette accese. Cantavo molte canzoni di Judith, sia quelle inglesi che cantava a tutti noi che quelle irlandesi che teneva per sé o concedeva più di rado. Mi sembrava di essere sospesa in un momento senza tempo, persa nel fumo. Le sue canzoni mi riportavano a casa, ma era un posto così diverso che l'illusione durava appena qualche istante. Pensavo a come sarebbe stata la mia vita se non fossero successe tutte quelle cose. Poi mi accorgevo che sarebbe stato inutile, che tutti sapevano di non avere idea su dove collocarmi nel futuro. Non lo sapevo neanche io, e in realtà non lo so ancora. Credo che un giorno me ne sarei andata comunque. Quando finivo lo spettacolo, spesso salivo sui tetti ad aspettare l'alba. Guardavo le luci della città, nei salotti che scorgevo dalle finestre. Cantavo a squarciagola finché non mi gridavano di smettere, e allora riprendevo più forte...». Se non fosse stata attenta si sarebbe persa sulla scia di quei ricordi. Li aveva rinchiusi troppo a lungo per barattarli con una nuova storia e sperare di uscirne illesa. «Poi ho ritrovato Allyn. Forse te lo ricordi... Ethan l'avrà nominato decine di volte nelle sue lettere. Diceva che era il più promettente fra i grifondoro. Praticamente una fabbrica di scherzi e sarcasmo pungente». Praticamente suo marito, finché non si fosse decisa a sistemare la cosa.
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    Gif e citazione nuove solo per te, cara. Per il post mi dispiace, ma ho perso la versione originale e sto ancora piangendo.
     
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    e labbra di Logan si tesero in un sorriso sincero ma lontano. Con gli occhi invece di guardare un briciolo di Central Park, grazie alle parole di Isobelle, cercava di andare oltre, di toccare adesso, dopo di lei, anche Ethan. S'immaginava tendere le braccia verso l'altro capo del mondo, sfiorare con le dita i lineamenti di quella persona quanto un cieco avrebbe fatto davanti a una nuova conoscenza con cui aveva già raggiunto la confidenza necessaria per potersi permettere certi comportamenti inusuali, fin troppo invadenti.
    Ricordava l'ultima volta che aveva visto Ethan. Era poco più che un ragazzino, come lo era anche lui d'altronde, ma quelli erano anni in bilico. Era da molto tempo che suoi pensieri non andavano al mezzano e di conseguenza si sentì tremendamente in colpa, come si fosse scordato di una cosa importante quando ormai era troppo tardi per tornare indietro. Di Isobelle se n'era preso cura a distanza, forse perché i loro dialoghi passati, seppur semplici, eterei e fantasiosi, celavano dentro di essi più valore, più autenticità. Era stato sorprendente rivederla dopo tanto tempo, ancor più stare ad ascoltarla, ma in un certo modo c'era qualcosa di intatto, di invariato, che come un collante adesso li lasciava sedere uno accanto all'altra in quell'angolo di città distante.
    Ethan non l'avrebbe riconosciuto. Se l'avesse scorto passeggiare tra le strade di un qualunque luogo avrebbe faticato a coglierne la somiglianza, i movimenti, l'espressività del volto. Sarebbe stato come ricominciare da capo, leggere la prima pagina di un libro di cui non si conosce neanche l'autore...e si vergognò a pensarlo. Era suo fratello, eppure forse non lo era mai stato. Con Isobelle Logan si era sempre sentito tale, era un moto interno, all'altezza dello stomaco, un nodo che indissolubile lo legava a quell'anima così priva di schemi ma allo stesso tempo così perspicace. Con Ethan era stato molto difficile, forse non ci aveva neanche provato perché entrambi si erano dati lo spazio che desideravano nella consapevolezza interiore che i loro modi di comunicare erano molti, ma troppo differenti tra loro.
    Ciò che Logan coglieva passava attraverso Ethan come se neanche lo vedesse, e lo stesso avveniva al contrario, solo che a differenza di Ethan Logan ne era stato cosciente fin dall'inizio. Ethan somigliava al figlio che Alec avrebbe voluto e Logan se n'era andato con la consapevolezza sincera che Ethan avrebbe potuto colmare perfettamente la sua mancanza, perché di fatto Alec nutriva un affetto profondo per il mezzano, un affetto che Logan era impossibilitato a dargli.
    Nessuno in quella casa avrebbe avuto problemi nell'essere felice se ci fosse stato Ethan al suo posto, ma Isobelle aveva sempre avuto un rapporto contraddittorio con lui. Logan aveva sempre cercato di appianare le divergenze, di essere l'ago della bilancia, di dare a uno ciò che mancava per poi subito dedicarsi all'altro evitando che si sentisse vuoto...ed era ovvio che alla fine, Isobelle se ne fosse andata. La bilancia si era inclinata troppo da un lato e lei come un liquido si era lasciata scivolare dal piatto ed era entrata in profondità nelle pieghe di un legno poroso che l'aveva totalmente assorbita, che se n'era nutrito lasciando evidente solo un alone di pregnanza.
    Conosci Ethan. Sì, lo conosceva in quel senso, aveva la sensazione di un'ombra di ciò che era stato per lui, in minor parte rispetto a tutti i familiari che avevano abitato il manor. Ethan stava bene, e sarebbe stato sempre bene, era una costante che non sarebbe mai cambiata...ma dietro quel bene non sapeva cosa ci fosse. Il bene era una parola troppo ampia per poter solamente immaginare una persona in carne ed ossa, come lo era il male.
    Si immaginò un ragazzone grosso, impacciato e sorridente che accarezzava i draghi. Un druido, una circense e un domatore di draghi. Sì, sarebbe stata una storia che, se ci avesse pensato prima, l'avrebbe volentieri raccontata alla Isobelle di una decina di anni prima.
    Credo ci sia riuscito a questo punto. Neanche Isobelle sapeva. Si sentì un peso addosso, il peso di aver guidato quella ragazza al di fuori della propria famiglia solamente per dimostrare che sarebbe stata in grado di inseguire i passi di quel fratello che prima di tutti se n'era andato. Era un peso scostante, intervallato da quella voce che gli diceva che no, lei aveva voluto intraprendere il proprio percorso, aveva voluto fare della sua vita ciò che voleva quanto Logan, perché si somigliavano, era evidente, e ne era orgoglioso quanto il grifondoro che era stato.
    Si voltò non appena finì il racconto su Herne. Di profilo la spalla di Isobelle tracciava una linea curva e sinuosa. Non vi era più l'osso sporgente, si sarebbe notato anche attraverso la stoffa di quella maglietta, ma no, adesso era rientrato, com'erano rientrati anche i tendini del collo spesso troppo teso. Era momentaneamente calma, era rilassata, era centrata nei propri racconti, un po' meno nel proprio passato, ma come Logan guardava spesso in avanti, e anche quando abbassava lo sguardo recitava i propri pensieri nel modo più spontaneo possibile.
    Si voltò ancora una volta sorpreso non appena colse il commento su Alec, cercò nei lineamenti di Isobelle ciò che aveva detto e ne ritrovò i colori di casa mischiati a un animo ormai quasi totalmente ricostruito. Avrebbe voluto che l'avesse detto più forte, che glie l'avesse fatto notare con vanto, che si fosse davvero resa conto del peso di quell'osservazione consumata in un tempo troppo ridotto perché le potesse dare giustizia.
    Isobelle aveva il timore di mettere i piedi tra i rami e di rimanerne incastrata, ma Logan era certo che nulla avrebbe potuto far rivoltare la propria foresta contro una persona tanto sentita nel profondo quanto amata e apprezzata. Vi erano delle falle irrisolte accompagnate però da un filo attraverso cui condividevano luoghi comuni, ma attraversati da ognuno di loro in giorni e momenti differenti. Anche adesso entrambi, seppur nello stesso spazio, non si erano mai toccati. Logan avrebbe forse dovuto farlo, sentiva la pressione di Daniel Callaway intorpidirgli le dita e costringerlo verso un atteggiamento non suo, ma lievemente lo scostò insieme alla mano destra che si intrecciò tra i propri capelli per portare i ricci ormai corti oltre la fronte.
    Non sarebbe stato il modo giusto, e loro lo sapevano.
    Fece una pausa di riflessione in cui pensò che infondo, sia Alec che Herne erano stati suoi maestri in periodi diversi della sua vita. Si rese conto di quanto fosse stata lunga non appena iniziò a parlare, si rese conto di aver guardato il profilo di Isobelle per tutto quel tempo e poi sorrise mesto, intriso di una dolcezza che aveva col tempo dimenticato e accantonato in una parte del corpo in cui abitava e che quasi lo fece appassionare e affezionare a ciò che Isobelle aveva celato in quella frase forse senza neanche prestarci troppa attenzione.
    « Sono felice che tu pensi questo di Alec » disse alla fine. Non riuscì a parlare di sé, ma era una risposta sincera. Alec meritava quelle parole più di chiunque altro e Logan non era mai stato in grado di dargliele con altrettanta facilità e semplicità.
    Poi attese. Stette in silenzio ad ascoltare il racconto di Isobelle che al contrario di un crescendo si piegò e si infossò infondo a un pozzo. Logan aveva come l'impressione di guardare dall'alto sua sorella immersa in quell'acqua che le bagnava le ginocchia. Non ne vedeva il corpo ma sapeva che era lì sotto, lo sapeva perché sentiva la sua voce mischiarsi con quella di Judith, e a un certo punto poi quella di Judith veniva superata da quella della sorella che si tramutava in urla disperate, urla che sbattevano contro le pareti di pietra creando un eco che saliva fino alle sue orecchie tanto da fargli tremare i timpani.
    Si resse mentalmente al bordo di quel pozzo con entrambe le mani. Attraverso quei canti lontani sentiva la vicinanza di ciò che Isobelle si era ritrovata a fronteggiare: la solitudine.
    Non ce la fece, e quella volta la sua tranquillità vacillò piano e silenziosa. Finalmente scostò lo sguardo dalla sorella, dal suo profilo che adesso non era più così giusto da guardare con lo stesso orgoglio. Era stata brava. Ruotò la testa dall'altro lato velocemente, uno scatto che gli fece stringere gli occhi in una smorfia quasi di rammarico e non poté evitare che una mano andasse a percorrere con le prime tre dita le guance fino ad arrivare al mento e stringerlo quasi tra pollice, indice e medio.
    Lasciò che la mano cadesse nuovamente accanto ai bordi del trench, sul prato.
    « Hai fatto bene. A cantare più forte, intendo » puntualizzò. Lui che aveva sempre avuto le parole giuste prima ancora che arrivassero alla propria mente adesso faticava a praticare quel percorso così naturale per uno come lui.
    « Sai, io... »
    Sentì la voce roca. La gola era secca, non avrebbe voluto, avrebbe voluto comportarsi diversamente con lei, non lasciarsi andare e trasportare da certe cose che avrebbero potuto renderla triste in un momento del genere, già troppo in bilico, già troppo fragile. Era stata brava, così brava...
    « ...mi sento in dovere di dirti una cosa, perché ti voglio bene Isobelle. Davvero, ti voglio bene, e voglio che tu lo sappia perché non te l'ho mai detto, va bene? E voglio bene ad Alec, a Judith, a Ethan, a tutti...ma sono sicuro che tu sia l'unica in grado di capire esattamente cosa intendo, perciò abbi pazienza, è molto difficile per me affrontare questo argomento »
    Prese fiato. Si alzò lentamente facendo leva con entrambe le mani sul terreno umido, poi si voltò verso Isobelle ancora seduta, un sorriso fugace a contornare le labbra, un sorriso rassicurante, come il proprio corpo, fermo e levigato dal proprio essere, le spalle rigide e avvolte da quel trench nero che ne assottigliava i contorni.
    « Facciamo due passi? »
    Attese che Isobelle lo seguisse, che si alzasse e trovasse il proprio posto accanto a lui, poi iniziò a camminare piano, gli occhi che si alzavano a volte sulle fronde degli alberi verso i viali di central park. L'andatura era come sempre, costante, un cronometro che teneva il ritmo dei propri pensieri ordinatamente disposti e mostrati in modo limpido e chiaro, senza crearsi il problema che magari agli altri sarebbero risultati ostici.
    Attraversarono uno dei tanti ponti di legno. Lì i fiumiciattoli artificiali lasciavano che gli alberi crescessero intorno a loro, mentre l'acqua placidamente scorreva lasciando intravedere qualche pesce rosso nuotare a pelo d'acqua: « E' giusto che tu non sappia nulla del tuo futuro. E' un tuo diritto » esordì e le parole erano proferite come una carezza. Avrebbe voluto rassicurarla nei propri dubbi, perché quelli facevano parte di lei. Alec non aveva mai prestato molta attenzione alle incertezze, ai difetti. Logan li ammirava con entusiasmo, partiva spesso da quelli per ritrovarsi in mondi altrui che traevano forza dalle proprie debolezze e ne rimaneva affascinato.
    « Uno dei miei desideri più grandi era evitare che la nostra famiglia ti trasmettesse la stessa agitazione che ai tempi hanno trasmesso a me. In Alec coglievo il timore di non sapere quale direzione avrei intrapreso. Avevo pensato che andarmene sarebbe stata la scelta migliore sia per me che per voi. Io ero confuso ma avrei trovato la mia strada, Alec avrebbe capito attraverso di me e voi sareste stati liberi »
    La libertà. Il dono più grande che Logan possedeva aveva cercato di lasciarlo tra le crepe di quel maniero durante la sua assenza. Aveva ricoperto ogni pietra di quella voglia di arrampicarsi a mani nude sugli imprevisti scelti con i propri sforzi, quella voglia di imprimersi quelle cicatrici sulle mani che un giorno avrebbero portato sul proprio corpo l'infinita soddisfazione dell'aver vissuto ogni tempo e ogni luogo nel modo migliore.
    « Ti senti libera? » azzardò alla fine quasi sforzando la voce. Fu più una preghiera che una domanda, sperò con tutto se stesso di esserci riuscito.
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    Edited by » avalanche. - 7/5/2017, 21:36
     
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    scheda
    narrato – «parlato»pensato
    Sentiva una nota di nervosismo incrinare la calma di Logan, di solito solida quanto una montagna antica. Il suo capriccio l'aveva portata a scostare il velo di apparente ignavia perché la cruda realtà mostrasse una caviglia candida e nuda. Lasciò al silenzio il compito di richiudere la ferita che lei non sarebbe riuscita a ripulire impietosa perché si abbandonasse al naturale percorso della guarigione. C'erano troppi discorsi chiusi che ancora bruciavano come cosparsi dal sale. Alec era uno di quelli. Il suo eroe invincibile, piegato proprio da suo fratello ad una sconfitta feroce. Aveva intaccato la sua figura maestosa facendole scoprire che le sue spalle non erano che quelle di un uomo, impossibilitate a sorreggere davvero il peso del mondo come Atlante. Ai suoi occhi ora non era che mortale, ma niente avrebbe potuto incrinare l'ammirazione profonda che continuava a rivolgergli. In quel momento aveva un sapore diverso, il sapore reso più acre dal dolore e da un passato silente che era stata costretta ad attribuirgli.
    Il gioco fu interrotto dal presagio di una confessione che le mozzò il respiro. Fu catapultata all'improvviso nel vorticare della sua memoria, alla ricerca di un "ti voglio bene" altrettanto cristallino. Forse l'aveva sepolto per non dover lenire la rabbia con una sofferenza maggiore, forse non c'era mai stato. Per parlare nel loro modo così intimo dovevano comunque arroccarsi dentro bolle di sapone per lasciarsi trascinare dal vento senza esserne sferzati. Quella dichiarazione gli fece sollevare la testa per uscire dal suo guscio invisibile e guardarla in modo decisamente più diretto. Si accorse solo in quel momento di aver dato per scontato che non ne fosse capace. Invece riusciva a mostrarle lo stacco fra le loro personalità anche in quello, allontanandosi dalla difficoltà che lei provava nello scoprirsi così tanto. Oppure era stata un'altra Isobelle a non saperlo fare, una che non avrebbe neanche lontanamente immaginato di vederlo e non soccombere alla seducente possibilità di lanciargli contro ogni frammento del dolore che le aveva procurato affilandone i contorni perché facesse più male. Annuì appena, alzandosi per camminare al suo fianco. Lei era l'unica a capire. Così aveva detto. In qualche modo quella era una conferma di qualcosa che aveva sempre temuto: la possibilità dolorosa che loro fossero per davvero simili, che se non altro avessero la facoltà di incontrarsi laddove nessuno riusciva a spingersi. Un luogo curioso, dove lei si sentiva libera di palesare un corpo troppo debole per imporsi sul mondo, ma capace di attraversalo e tagliarlo con ogni arto ossuto attaccato da giunture su cui la pelle si tendeva per sottolinearne gli avvallamenti. Alla fine era arrivato il momento di chiarire. Qualche anno prima avrebbe perfino pianto per il sollievo di esser vissuta abbastanza da vederlo, di poter andare a chiudere gli scrigni in cui aveva depositato pezzi di carne di cui si era dovuta liberare per non affogare quando era andato via. Le dispiacque notare che quelle parole non erano che semplici chiavi. Sarebbe bastato davvero così poco per sigillare baratri bui in cui l'eco del vuoto l'ammaliava per farla scendere a carezzarne il fondo. «Anche io sono andata via» cominciò, fermandosi all'improvviso. Ricordava lo sguardo di Alec quando l'aveva vista sulla porta di casa. Aveva detto che sarebbe tornata, che usciva con Caleb per una rapida gita. Suo padre doveva aver pensato solo per un istante che fosse bello vedere sua figlia abbandonare finalmente la sua stanza dopo settimane in cui era a stento scivolata in cucina per mangiare. «Non frainterdermi, l’abbiamo fatto in modi differenti, perché siamo persone differenti e ci siamo lasciati dietro cose altrettanto differenti». Alec quel giorno aveva avuto la possibilità di capire che non sarebbe tornata indietro. Doveva averlo ferito ben più di quanto avesse compreso allora, perché nei suoi ricordi quello sguardo improvvisamente consapevole di aver fatto fuggire un secondo figlio rifletteva una sconfitta agghiacciante. Eppure allora non ricordava di averla notata, folle nella sua parossistica cecità. Aveva avuto bisogno che fosse così, o non avrebbe potuto lasciare il manor. Lei non aveva avuto bei progetti e ambizioni da arrogarsi come scusa per trovare impropria la parola "perdono". «…la libertà me l’hai data attraverso tutte le tue storie. Così come una prigione da cui uscire con molta più difficoltà» proseguì, pensando solo per un attimo al lavoro che il Dr. Rosen aveva portato avanti con lei, a quante cose le avesse fatto capire su suo fratello. Soprattutto, quante cose le aveva fatto capire sulla desolazione che la sua partenza aveva lasciato dietro di sé. «Credo che Ethan avesse ragione e che io non sia mai riuscita ad ascoltarlo. Ma sì, aveva ragione: dici di aver fatto questo per noi, per renderci liberi… ma la verità è che tu per primo cercavi qualcuno che ti vedesse come un semplice ragazzo. Un fratello, un figlio, un amico. Il mondo che hai creato per me non era solo un dono che mi hai fatto, era anche una richiesta. La voglia che qualcuno abitasse quel luogo insieme a te». Fu costretta a prendere una pausa, perché non sentiva più dove fosse finito il respiro. Non aveva mai pensato di poter essere così calma nel proferire parole così dure e dolci insieme. In verità, non aveva neanche mai pensato di poter arrivare a formularle. «Puoi dire che fu un atto altruistico, ma c’era un profondo egoismo in quello come in molti dei tuoi gesti. Non te ne faccio una colpa e non sono arrabbiata… non più. Hai cercato la tua vita, te la sei costruita, ed è stata una vita meravigliosa. E io mi auguro che ti abbia lasciato più di bei ricordi e qualche insegnamento da snocciolare in un bel racconto. Ma non puoi cristallizzare tutto in una storia. Assegnare i ruoli del mondo, decidendo chi sia la principessa, l’eroe, il cavaliere, o il mostro incompreso, lasciando per te quello dell’eremita o del narratore. Ti stai incastrando in una sola storia, la tua, e io non sono più un personaggio ad appannaggio delle tue parole. Ho costruito i miei racconti appena ho smesso di viverli. Ti amerò sempre non solo come un fratello, ma come quello che è stato… tutto il mio mondo. Tu però hai fatto una scelta. Una scelta obbligata visto come... si sono svolte e non evolute le cose. La conseguenza di quella scelta è che io non sono più la bambina che pende dalle tue labbra. Se vuoi parlarmi, come un fratello parla ad una sorella, come noi parliamo va bene, ma non provare più a bloccarmi nelle tue storie, Logan». Si immobilizzò per guardarlo direttamente negli occhi, senza più fuggire lungo i confini lontani di Central Park. Dirlo ad alta voce la faceva sentire così bene. Come se si fosse appena liberata da un peso. Come se si fosse appena accorta di aver camminato per anni, raggiungendo infine una meta che aveva creduto ancora lontana. «Ma sì. Quello da cui sto scappando non sei tu. In qualche modo mi hai dato comunque la possibilità di essere libera. Così come hai intrappolato per sempre una parte di me in quei racconti». Sorrise, perché per quanto quell'ultima frase potesse apparire la più crudele, aveva imparato ad apprezzarlo. Aveva scoperto che andava bene così, che quella parte infantile non sarebbe dovuta appartenere a nessun altro. L'averla lasciata lì, accanto un medico e il suo gufo, fra i fili di sogni o in una foresta di ghiaccio, le aveva anche permesso di trovare una nuova identità e concederle di crescere come altrimenti non avrebbe mai fatto. «Lasciami essere altrettanto onesta. Non approvo la tua scelta. Penso tu abbia preferito il modo più crudele per ottenere il migliore dei risultati. È stato efficace, ma non posso non pensare che qualcosa di altrettanto bello potesse nascere anche da un approccio diverso, più accomodante».
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    E
    ccola, la Isobelle che non conosceva. Dietro l'altra, la vide quasi poggiarle una mano sulla spalla, un cenno del mento che fece spostare la bambina che con le mani dietro la schiena osservava e ascoltava i dialoghi di quella donna che adesso lo guardava negli occhi.
    Aveva scoperchiato volontariamente quella scatola rimasta chiusa per anni, e seppur avrebbe voluto tornare indietro e restare in silenzio per permettere alle loro storie di accavallarsi concludendosi in un epilogo diverso ormai aveva interrotto il loro corso. Era stato frettoloso, probabilmente, incauto.
    Riprovò la paura di confrontarsi con Isobelle. No, non era una paura, piuttosto una malinconia latente e di sfondo, grinze che rendevano il paesaggio pieno di contrasti densi e incarnati nei movimenti dei rami che si piegavano sulle acque del fiume.
    L'aveva provata spesso, quella sensazione. Era come un soffio d'aria gentile che lo scostava dalla troppa vicinanza che lui aveva sempre voluto, intellettualmente, richiedere a quel genere di persone con cui si sentiva in una specie di connessione. Non era una sofferenza, non era un peso, piuttosto era un allontanamento momentaneo che nel complesso gli permetteva di guardare ogni piega nel modo più chiaro possibile, come un osservatore che davanti a un meraviglioso quadro pieno di forme ed elementi per apprezzarne ancor più il valore si concedeva un paio di passi indietro.
    Li stava facendo davvero. Dopo essere andato così in fretta verso un punto, adesso in silenzio concesse a Isobelle di parlargli di ciò che avrebbe voluto se solamente lui non fosse andato via. Paziente, composto, alle giuste accuse l'unica cosa che fu in grado di fare fu osservare e cogliere minuziosamente ogni lettera di quel nuovo volto raccogliendola in entrambe le mani per comprenderlo e amarlo più di prima.
    Voleva che Isobelle stesse al centro. Ogni cosa che lui aveva compiuto nei suoi riguardi e nei riguardi della propria famiglia l'aveva dedicata a loro e a lui a fin di bene, e quando da piccolo si fermava sulla punta di quel lucernaio tenendo le mani di sua sorella tra le dita parlava a Isobelle di quelle storie che avrebbero voluto solamente raccontare a quella gracile bambina come lui la vedeva davvero.
    Erano regali nascosti tra pieghe di parole fin troppo semplici da comprendere, così che lei vedesse solo la parte buona di quel mondo allo stesso modo in cui lui cercava di vivere ogni cosa. Facilitava quei complessi ragionamenti che non sarebbe riuscito altrimenti a spiegare...ma nonostante i suoi sforzi, alla fine non ce l'aveva fatta.
    Forse aveva sbagliato a rapportarsi con tutti scombinando per ognuno il giusto modo...ma ripensandoci, conversare e appianare le divergenze era una delle cose che più gli riusciva semplice.
    "Vuoi..."
    "No...no. Va tutto bene"

    Un moto di sollievo, rumori di maree lontane che aveva dimenticato gli invasero il petto.
    "Non è necessario. Voglio provare ciò che lei ha patito".
    "E' immensamente...grande"
    "E' il corso degli eventi, Noruei. E' il tempo, sono le speranze in cui gli uomini si rifugiano per migliorare la propria esistenza. Niente è nocivo se è tracciato con la giusta intenzione".
    "I-io non credo sia la scelta giusta, N-Noreen, lei-lei mi aveva detto che dovevo-dovevo fare qualcosa, io.."
    "Ti mostro una cosa. Guarda tramite i miei occhi, guarda la luce fuori da questo corpo"
    "..."
    "Noruei?"
    "E'-è...dolce. E' come un profondo mare pieno di-di..."
    "Non piangere, non farlo per me, questo è un momento felice di due persone felici, e io voglio che anche lei se ne renda conto"

    Un involucro. Ebbe subito la sensazione di essere inglobato in una bolla d'acqua cristallina. Non c'era alcuna manifestazione al di fuori, solamente all'interno era come se la pelle trasudasse quell'elemento che raramente aveva il coraggio di espandersi in modo così netto.
    Echi di mareggiate ancora, accompagnarono anche canti gaelici. Chiuse gli occhi per un brevissimo attimo, infinitamente breve. In quell'attimo il tempo aveva perduto la propria labilità, fermo come un blocco di marmo in attesa di essere modellato. Nelle venature sottili intuiva lo scorrere delle ramificazioni della foce di Moher che ricercavano la loro via più breve per confondersi con gli scogli del mare, aguzzi e a picco davanti all'arco di scogliere bianche e muschiate.
    Un inclinazione delle labbra. Erano ancora una linea piana e sottile, ma adesso gli angoli erano brevemente piegati. Non era un sorriso, non ve n'era neanche l'ombra, ma nonostante tutto sembrava quasi più concreto di tutti gli altri che aveva serbato a Isobelle.
    Si fermò proprio al centro del ponte di cemento. Una strada piana che avrebbe collegato l'inizio alla fine di uno svincolo attorniato dai salici. Gli archi di pietre bianche sembravano braccia che si piegavano immergendo le mani dentro la debole corrente del canale in cui si diramavano poche ninfee e altrettante carpe.
    Il sole creava un nido di chiaroscuri sulla pelle del viso di Isobelle tremolando nella propria stasi. Si avvicinò di poco a lei, giusto per guardarla negli occhi ancora una volta e rallentare l'agitazione che ormai era lontana e che avrebbe voluto di conseguenza sottrarre anche a lei. Sapeva quanto Isobelle nelle situazioni che richiedevano più importanza fosse in grado di mantenersi, al di fuori, pienamente in possesso del proprio controllo, ma sapeva anche quanto fosse difficile mantenere la giusta rotta dietro quel respiro tremendamente silenzioso.
    Si avvicinò alle onde poggiando i palmi sulla superficie della marea per cercare di appiattirla come creta. Non aveva la stessa densità, ma lasciava quasi la stessa traccia di umidità tra le linee dei polpastrelli.
    « Posso...provare un piccolo approccio diverso? » disse alla fine. Disse solamente quello. Non aveva né l'ombra di una risposta né aveva le soluzioni che Isobelle cercava...ma parlando ancora avrebbe finito, nuovamente, per farla sentire in trappola.
    Quelle storie, per lui, erano semplicemente una spinta dolce per non aver paura, ma non si era accorto, a quei tempi, con quanta minuzia le avesse costruite. Invece di immaginare una strada per lei aveva materializzato una casa senza porte, una casa accogliente con mille finestre in cui la luce del sole passava senza alcun limite, ma difficilmente apribili. E così, poi, lui se n'era andato.
    Si avvicinò ancora. Era la prima volta che lo faceva. Si ricordava rare volte in cui Judith l'aveva circondato da bambino con le braccia, ma lui non aveva mai fatto altrettanto. Aveva poggiato una mano sulla spalla, aveva dato un pizzicotto alle guance spigolose di quella bambina dalle gambe strette, ma non si era mai piegato nel ricoprirla di calore.
    Si chinò non appena le loro scarpe si sfiorarono, le braccia circondarono le spalle che ancora, nonostante tutto, ritrovò esili. Il capo si poggiò sopra i capelli secchi e profumati quasi con timore, come avesse paura di farla fuggire via...e allora inspirò quell'odore, e allora trattenne tra le narici le volute di vento e la piccola pressione del proprio petto, del proprio cuore che placidamente, come gli zoccoli di un cavallo in riva al fiume, s'infrangevano sulla limpidezza della fronte di Isobelle.
    Aveva preso esempio da uno dei propri spiriti. Ringraziò mentalmente Noruei, le sussurrò appena che sì, gli era stata d'aiuto più di quanto pensasse.
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