Cosmic Dancer

Den/Liz | 20 Marzo

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    Più che vederla muoversi, la sento. Anche se la vista traballa, si focalizza per un secondo sui suoi confini, le linee che diventano più nette, marcate contro le macchie di colore in cui si dissolve il mondo. Una grana densa che vira verso il nero. C’è la sua silhouette stagliata contro tutto, anche se resta nella visione periferica come un punto che si materializza, e lì resta. Non so come, e non so perché. Ma posso farlo. Anche se non posso, devo farlo. Ci ripenso, a quello che credevo sarebbe successo, quando il patto di Morgan non era ancora arrivato a sgocciolare su tutto, e quando ancora la mia anima era mia, anche se già scappava via. Avevo detto, che non avrei voluto andare oltre quel quattro luglio, e adesso, mi chiedo se almeno dopo, dopo ci sarà qualcosa di diverso. Un permesso, di qualsiasi tipo. Penso di no. Le cose non possono tornare com’erano, non possono migliorare, non possono andare in nessun modo che non sia quel buco scuro che guardo, e dentro cui so che devo lanciarmi. E la sento, più che vederla. Lì, sempre lì, nella periferica di tutto. Non so neanche più davvero cos’è che c’è nella mia testa, oltre quella sensazione pressante che continua a schiacciare, e schiacciare, e cerca di appiattire, disperatamente, mentre tutto schizza via, e come schegge trova un modo di infilarsi da qualche parte. Ma tutto questo non importa, e non ha mai importato. Avrei dovuto solo imparare ad essere più di così, più in un modo diverso, quello che hanno cercato di insegnarmi così tanto, da renderlo le mie ossa. Ma non ci sono mai riuscito del tutto. Prendo un respiro senza suono, continuando a guardare un punto indefinito, del tutto casuale. Non importa dov’è che guardo, perché ovunque ci sono solo pezzi irraggiungibili, e io non penso di aver mai avuto scelta. Di non aver mai avuto neanche una possibilità, è solo che volevo credere di averla. Adesso mi sembra peggio, averla avuta quella convinzione. Mi sembra peggio, perché ci ho creduto, anche se traballando, ci ho creduto che sarei arrivato da qualche parte. Che almeno, non lo so. Qualcosa avrei potuto tenerla. Ma non credo davvero fosse un’opzione reale, solo una di quelle cazzate che mi racconto, e che a volte diventano abbastanza reali da fiondarmici dentro per scappare da una cosa o l’altra. Ma poi quello da cui corro, lo trova sempre un modo di raggiungermi. Posso solo dire, non adesso. Non in questo momento, non ora che devo prendere ogni cosa e spingerla di lato, perché c’è sempre qualcosa da fare. Qualcosa che va fatta. Qualcosa che non posso ignorare. «Sto bene» lo mastico contro il filtro, prima di tirar giù un altro tiro, trascinandolo in gola pezzo per pezzo. Sto bene è una cosa che ho bisogno di dire. Di materializzare, rendere una concretezza da poter toccare. Ferro fra le dita. Freddo allo stesso modo. Penso, non importa niente. Penso, non conta. Non conterà. Non sarà rilevante. Non importeranno le intenzioni, i dubbi, questo o quell‘altro. Non importerà nessuno dei miei pensieri. Quelli che ho fatto fino ad ora, quelli che sto facendo adesso, quelli che farò domani. Sarà tutto irrilevante, resterà solo sangue, sporco. Resterà solo l’errore, di nuovo. Lo sbaglio. La macchia incancellabile. Non importerà che ci ho provato, importerà che non ci sono riuscito. «La cosa importante, è che finisca» penso di dirlo a me, più che a lei. Penso di dirlo anche solo per trascinarmi via da un punto troppo duro. Uno che no, non può esistere. Non può. Per troppi motivi. Perché devo poter guardare mio fratello, e lasciare tutto questo talmente lontano, da non farglielo neanche odorare. Perché ho bisogno che sia lontano, abbastanza da non sentirlo io, e lasciare che mi prenda. Non ancora. Spingo altro fumo nei polmoni, raschiando un respiro che gratta contro la gola. «Iniziamo adesso?» lo spingo fuori insieme al fumo, restando ancora a guardare quel miasma di colori che perdono poco a poco di senso. Lo fa un po’ tutto. Non c’è niente che abbia senso, perché alla fine, non c’è mai stata davvero nessuna speranza. Avevo già perso.


    Edited by usul; - 1/5/2022, 14:51
     
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    ue parole girovagano tra i pensieri. Quelle due parole. Ho perso il conto da quanto tempo aspettano di essere pronunciate ad alta voce, esistere concretamente per lui, con una definizione che ci piova addosso con la delicatezza di nevischio. Pensavo che sarebbero state per oggi, ma non credo di voler conquistare un suo spazio, piccolo ed enorme come questo, per metterci dentro una dichiarazione che sa dell’unico risvolto dolorosamente bello in tutta questa storia. Non credo che saranno per oggi. Forse neanche per domani, forse mai. Anche se puntellano contro le pareti del cranio, reclamano spazio per librarsi in aria, scalano la gola per fuoriuscire dalle labbra e premono con tutta la loro forza nell’aria, nell’ossigeno. Ho bisogno che lo sappia. Un bisogno egoista che scema di fronte ai suoi. Mi affogo nella necessità di esistere per lui, invece, più che per me stessa. Solo per qualche minuto, qualche ora e niente più, dopo aver fatto l’esatto contrario e prima di continuare in quel precedente reo. Non so quale sia la cosa migliore per lui adesso, se restare spettatrice della sua negazione oppure premere per sbloccare una diga e guardarlo fluire finalmente libero, contenerlo, scavare il letto di un fiume protetto dove possa esplodere tutta la forza di un diniego durato anni. Non lo so davvero, ma non ho paura di sbagliare. Ho avuto paura molto raramente con lui, e sono state solo prime volte in cui incontravo faccia a faccia una versione di me che mi avrebbe complicato le cose. Dopo quelle prime volte, però, è diventata una danza di coraggio, quello che si alza per godersi qualcosa di meritato e al tempo stesso, nel torto, indebito. Mi meritavo di amare ed essere amata, così come mi merito una liberazione; non mi merito lui per quello che gli ho fatto, sono coesistente contraddittorie, ma dopotutto che cosa siamo noi se non creature illogiche. Mi sollevo in parte, sulle ginocchia, il busto dritto nell’avvicinarmi abbastanza da poterlo abbracciare, cingergli la testa con le braccia e portarmela contro il petto. «Puoi stare bene da domani, se vuoi.» Lo avvolgo con le braccia, lo stringo senza premere troppo e lasciandogli spazio di guardare, respirare l’esterno, oppure di spingersi più verso di me e trovare uno spazio in cui possa fingere che quel sto bene non l’abbia ancora detto.


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    Mi sembra sbagliato, tutto questo. Mi è sempre sembrato sbagliato quando c’era un momento tanto grande, lasciarlo respirare e vivere. Senza contenerlo, senza mettergli briglie, guinzagli, catene. Lascialo lì e basta. Farlo espandere, accettarlo, lasciargli prendere uno spazio che fosse anche solo fatto di qualche secondo. Qualche momento appena. Sbagliato. C’erano sempre altre cose da fare, altri modi di essere, altro questo, altro quello, altro, altro e basta. Sempre. Di spazio, doveva esserci solo per cose che erano concrete, che sono concrete. Solo per quello che si deve fare, e quello che si deve sopportare. Le cose, si dovevano divorare a pezzi grandi, velocemente, e digerirle ancor prima di aver finito di masticare. Anche adesso è così, perché cose come questa, sono sbagliate. Non vanno bene. Pretendono quello che non può essere preteso, e creano punti deboli. Troppo deboli. Troppo facili da colpire. Punti che spesso, si colpiscono da soli, e poi colpiscono tutto il resto. I polmoni, la cassa toracica, lo stomaco, le gambe fino a renderle poltiglie che non hanno la forza di tenersi in piedi, e allora si stendono, e restano a fissare pareti così nere, da sembrare inesistenti. Mi lascio muovere di una movenza piccolissima. Una movenza che i miei muscoli, cercano di assecondare, e di respingere tutto insieme. Una parte che vuole solo crollare, e una che invece cerca di scappare da quel punto, perché sa quanto può essere profondo. Come sabbie mobili che ci mettono troppo poco a inglobare tutto. Sento quasi mille voci, adesso, superare la sua e dire solo andiamo. Alzati da quel letto, muoviti, andiamo. C’è sempre qualcosa da fare, e non c’è il tempo per farla domani. Andiamo. E lo so che non è mai stata cattiveria, ma necessità. Tutte le necessità di una vita in cui ci siamo trovati incastrati. Io e mio fratello, nostro padre prima di noi, senza mai poter far davvero altro che andare. Sempre e comunque. Non è mai andato bene, questo, e lo so. È una certezza che credo, sia cresciuta con me, insieme a tutte le volte in cui guardandomi intorno, era facile rendermi conto che non fossi abbastanza. Bravo, resistente, coraggioso. Abbastanza qualsiasi cosa. Abbastanza dritto, liscio, senza bozzi, bitorzoli, pezzi troppo consumati. Mi chiedo, se per lei importerà che ci ho provato. Non ha senso, eppure me lo chiedo. Non ha senso, perché è un punto che non ne ha mai avuto. Però me lo chiedo lo stesso, come se per un attimo, mi sembrasse importante dire che c’è stato, c’è stato per davvero. Anche se non avrei mai potuto riuscirci del tutto. E mentre penso e penso e penso, e non penso per niente, giro la testa. Lo faccio per premere qualcosa di più scuro contro gli occhi, lei contro gli occhi, come se mi dovessi nascondere e dovessi farlo con un impellenza che trema, e non sa davvero neanche lei, come fare a muoversi. Perché questo p sbagliato, lo so. Sento la sigaretta sfilare via dalle mani, non me ne importa. Si spegnerà da sola, restando solo un punto indistinto di qualcosa che non dovrebbe esistere. E lo so che non dovrebbe, e so anche quanto ci provo. Ma penso che in fondo, anche per questo, non ci sia davvero mai stata nessuna possibilità. C’è sempre qualcosa appollaiato sulla mia spalla, e mi guarda, mi sussurra, mi segue passo dopo passo pronto a trovarne uno che più cedevole, diventi il punto perfetto da colpire per far crollare tutto. Stringo le mani contro punti indistinti del suo vestito, facendole aggrappare dietro la sua schiena per soffocare un respiro a labbra strette. Vorrei dirle che vorrei che domani non esistesse. Che tutto, adesso, smetta di esistere. Che tutto, adesso, si dimentichi che ci sono sempre altre cose, che ci sono io, che c’è qualsiasi cosa. Non lo dico.
     
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    o stringo più forte, per dirgli che non lo lascio andare via se non vuole farlo. E che non dev’essere nient’altro che sé stesso, con tutti i suoi paradigmi e antinomie. O anche qualcosa di totalmente diverso, un modo in cui non si sente libero di vivere. Lo sapevo che i Cacciatori crescono distrutti, ma non l’ho mai vista in questo modo se non quando ho cominciato a conoscere meglio lui. E ho capito che non crescono, in realtà, non maturano, non vivono il tempo di ogni cosa. Sono bambini, restano bambini, e così vengono spediti a morire ogni giorno confidando nell’istinto di sopravvivenza e un addestramento violento per renderli giovani condannati a morte in attesa della loro sorte. Loro non imparano a vivere, non diventano adulti adatti a una società comune. Loro imparano soltanto a sopravvivere, a difendersi, a uccidere; vengono forgiati come delle armi, non amati e allevati come giovani uomini. E questo, è quello che succede quando getti un innocente nella tana del leone e gli dici che deve vincere. È crudele. È semplicemente crudele quello che gli hanno fatto, e so di essere un’ipocrita a pensarlo, accetto anche questo. Una mano si infila tra i suoi capelli, dentro e fuori per lasciare carezze lente fra la testa e la nuca. L’altra si muove per cingerlo meglio con il braccio e occludere la sua vista dell’esterno, chiuderlo dentro un abbraccio che lo porti via dalla sua vita. Inchinandomi solo un po’ su di lui poggio la guancia lateralmente sulla sommità del suo capo. Anche se dovesse essere solo questa manciata di minuti e basta, per tutto il resto della nostra esistenza, penso che sarà importante. Anche se dovesse essere riscritto, per quanto possano valere i nostri ricordi, il presente è immodificabile. E il presente è questo, non una visione posticipata, non una proiezione dal passato, non il significato del futuro di cui viene intriso ogni gesto tra chi sa e non sa. È questo. Soltanto questo.


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    Va bene così, anche se non lo fa. Penso, infondo tutto questo, è proprio come andare a morire. Lo so, ci sono passato. Lo so di più, quando ho cercato di interpretare me stesso per tutto quel tempo, senza riuscirci. Penso, tutto questo passerà. Non avrà più appigli, non avrà più senso. Penso, non è giusto aggrapparmi così a lei adesso. Penso, ma penso rumore. Vorrei andare a casa, solo che è un concetto così astratto, da non essere un posto. Prendo un respiro, e per un secondo, uno solo, ascolto solo il fatto che non ci sia niente. Nessun rumore. Nessun graffio. Nessun boato che percuote tutto. Penso a quanto sia strano, che il mondo sia così immobile, impassibile, che corra ancora ed ancora nei suoi ritmi, senza girarsi a guardare quello che succede. Neanche questo importa. Penso, che adesso siamo in un posto minuscolo, che non esiste neanche questo. Verrà divorato, anche questo, e io non so cosa ci sarà nella mia testa. Non ne ho idea. Un’eco, forse neanche quella. Ma non importa, anche se c’è un punto che corre dietro i miei occhi, e va giù. Non posso andare lì, non posso andare da nessuna parte. Né troppo avanti, né troppo indietro. In bilico, sempre in bilico fra mille cose, in quegli spazi in cui so che i passi sono più sicuri. Anche se sento le crepe allungarsi, sotto. Ma anche questo non importerà più, anche questo passerà. Andrò oltre, ancora, supererò con una falcata tutto. Me lo strapperò dalla testa, e resterà solo quello. Non posso andare lì, lo so. È un posto in cui ci si arena, si resta incagliati. Si accumula acqua che rende tutto pesante, troppo pesante, perché possa ancora galleggiare. Non posso andare da nessuna parte. Non so cosa ne sarà di me, dopo. Spero niente. Spero che poi, decidano che sono troppo usurato, troppo consumato, per poter servire ancora a qualcosa. A qualsiasi cosa. Qualsiasi tirare, qualsiasi spingere. Penso, se non posso essere quello che ho sempre cercato di essere, allora non voglio essere proprio niente. Anche se ormai il mio cognome l’ho preso e l’ho calpestato, l’ho buttato fra i rifiuti, e quando l’ho ripreso ci ho provato a ripulirlo, almeno un po’. Ma non posso esserlo, quello. L’importante è che finisca. Anche adesso, proprio ora. Vorrei dirle che mi dispiace, perché non dovrei fare così, adesso. Non dovrei, quando parliamo di qualcosa di cosa grande, più di me, più di qualsiasi cosa che mi riguardi, che è stupido. Tutto questo. Lo so. Invece, prendo un respiro, mi spingo per un attimo di più contro di lei, e mi sento sbilanciato in quel bilico. Come se bastasse un fiato, uno solo, a farmi cadere giù, a picco. «Scusa» lo trascino un po’ sulla bocca, senza muovermi davvero. Non ancora, se non nello scuotere appena la testa contro di lei. Ci sto provando, ancora, a fare non so neanche cosa. A stringere la testa dentro un pensiero, uno e basta. Uno che è esterno, è fuori da tutto questo. Uno che è piatto, senza sapore. Sta zitto, e sa solo come muoversi. Senza niente in mezzo. Ci metto un po’, a muovere davvero la testa. Non di molto, quel tanto che mi basta a guardarla un po’ in tralice. Non dovrei fare questo, lo so. «Ce la faccio, non devi preoccuparti per me»
     
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    o fantasticato poche volte su come sarebbe andata se lui non avesse avuto un punto insuperabile che primo, sul podio delle sue priorità. Mi sarei fidata abbastanza, allora, da fargli risalire la mia scala delle priorità. Magari sarebbe stato reciproco. E alla fine non saremo stati qui, a porgere una schiena da pugnalare di nuovo. Non ci sarebbero state tante bugie, ma un andare spalla contro la spalle contro una realtà schiacciante che volevamo soverchiare. Ci ho fantasticato poche volte, perché non è questa la nostra storia. È falsa e resta ciò che è, una fantasia, ha avuto poco spazio quando c’era quella vera, nonostante a tratti fosse terribile ne aveva di altri meravigliosi, perfetti nella loro crudezza. Mi sono circondata di storie per noia, perché aspiravo a una realtà dalla mia, tentavo di evadere e cercavo libertà altrove, dove non ero costretta da alcuna catena. Ma ha smesso di avere senso farlo nel momento in cui mi sono accorta che avevo trovato una liberazione migliore, una momentanea, non concreta come quella che cercavo ma diversa. Era un riscatto. Anche se è andata così, continuo a ripeterlo e ripeterlo, mi si rigira nella testa ogni volta che lo guardo, lo tocco, lo ascolto. Adesso che schiudo un po’ la stretta su di lui per lasciarlo muovere, piego la testa per guardarlo, trovo i suoi occhi e mi ripeto che ne è valsa la pena. Che lo dica un boia, forse, è insolente, irrispettoso nei confronti dell'esecuzione ottemperata, non m’importa. Di fronte a delle scuse, lo è ancora di più. Ma penso che Caiden è capace di scusarsi anche sul fondo della sua sopravvivenza, in bilico verso il sacrificio ultimo, e questo pensiero mi stringe il cuore e basta. Mi siedo sulle mie stesse gambe per tornare alla sua altezza e di nuovo gli prendo il volto tra i palmi delle mani. «Non sono preoccupata, so che ce la fai.» Non è una mera rassicurazione, l’ho sempre saputo. Ho sempre saputo che Caiden ce l’avrebbe fatta sempre, a qualsiasi costo. Non perché è un Cacciatore. Ma perché è un eroe. Un eroe acheo, che ne condivide ogni singolo valore. Ne condivide le fragilità, gli sbagli, la mortalità, gli errori, i fallimenti. E gli eroi piangono, gli eroi soffrono, spuntano sangue, lacrimano sudore, vincono e poi muoiono nella loro disfatta. Ma ce la fanno. “Stanno bene”, quando combattono contro divinità e le sconfiggono. E lui lo è, invisibile a tutti coloro a cui salverà la vita, senza brama di fama ma solo di fare la cosa giusta. Non so come si possa non amare un uomo come lui. «Ma voglio essere qui per te, e con te.» Seguo la linea dei suoi zigomi con le dita, carezze mosse in automatico a cui non lascio che uno sguardo di sfuggita quando questo è tanto incastrato nei suoi occhi. Mi spingo su di lui per sfiorare le sue labbra con le mie in una pressione che è un lambire appena accennato. «Vuoi andare a letto?»


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    Un po’, socchiudo gli occhi. Anche quando c’è di nuovo spazio fra di noi. Qualche secondo in cui li tengo così, prima di riaprirli e roteare appena la testa, di poco, per spingere lo sguardo verso il letto. Penso che sarebbe strano dire adesso, quanto in realtà in certi momenti mi spaventi. Più di tante altre cose, più di tutto. Assume una forma come di mani che sono pronte a stringere, a far sprofondare in un buco nascosto ogni cosa, e inglobarla come uno stomaco che non conosce fine. Sospeso, in un materiale denso che non ha forma, e non lascia passare niente. Lascio dondolare la testa di nuovo più dritta, piegandola appena verso il basso con un respiro che scivola come uno sbuffo dal naso. Sarebbe strano, dirle che c’è quella cosa, nella mia testa, che ha sempre paura che arrivi quel momento, e alla fine una volta premuto contro un materasso, una qualsiasi superficie, ci sia solo un’ammasso di muscoli che non reagiscono più a niente. Penso a quello che ha detto. Penso a quello, invece che a quel buco nella mia testa. Mi ci focalizzo, come se annaspando in mezzo a del petrolio, vedessi da lontano qualcosa che non lo so. Forse è una banchina, un porto, e anche se non lo fosse, almeno è una direzione verso cui spingermi. Qui per me, con me. Penso, questa è una cosa importante. Penso, anche, che in fondo, si è trattato di questo. Penso, è così che mi sono sentito, anche nei momenti peggiori. Alla fine, posso dire che la solitudine, sia una di quelle cose che mi terrorizza, probabilmente perché mi costringe a stare con me stesso, a non avere nessun rumore, nessun suono, che mi tiri fuori da quelli che ci sono sempre nella mia testa. E ho bisogno di masticare qualcosa che sia diverso da me. Prendo una delle sue mani fra le mie, quasi distrattamente, tenendola lì e basta. Penso, è un po’ quello che avrei voluto fare io per lei, con lei. Solo che io non penso di essere capace, di non esserlo stato davvero. Ed è quello che intendevo, quando le ho detto che non posso chiederle niente. Neanche questo. Di aspettare qui, con me, che ci sia un respiro diverso fra i miei pensieri. Detesto tutto questo, non sapere neanche dove girarmi e come. Detesto sentire qualcosa che affonda, e affonda, e affonda ancora nello sterno. Detesto pensare a me, in mezzo a tutto questo. A quello che avrei voluto, a quello che cercavo di ottenere, a tutti i punti in cui cercavo di andare, quando alla fine, alla fine è una cosa che dovrebbe venire dopo tutto il resto. «Non lo so» non riesco a capirlo se voglio andare lì, e lasciarmi solo sommergere, così tanto da scivolare via, o se invece no. Se invece voglio tenermi sui miei piedi, dritto, come una sorta di imposizione. Alzo di nuovo lo sguardo su di lei, scuotendo appena la testa mentre cerco di dare una smorfia che sia un sorriso contro le labbra, di quelli che invece, alla fine diventano solo uno sbuffo che mi storce male la faccia per un secondo. «Magari fra un po’» prendo un respiro, lo faccio entrare dalle narici, nel sentire quanto è pesante. E quanto lo è tutto. «Prima ho bisogno che passi» un po’, è uno sforzo. Anche se è difficile da spiegarlo. Uno sforzo che mi preme in gola, sulla faccia, facendola accartocciare appena. «Cinque minuti»
     
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    N
    on so che cosa sia ciò che vuole passi, non so com’è fatto, non so che aspetto ha, non ne potrò mai avere idea perché da come ne parla, sembra una catastrofe che può vedere solo lui. Che guarda negli occhi poggiandoli sul letto e spaventato se ne ritrae. Non so che cosa sia e non ho la pretesa di impararlo, di conoscerlo, non ne ho nemmeno il tempo ma non importa. Non mi serve delinearne i bordi per sapere che è una cosa di cui ha paura, non mi serve per portarlo via, lontano, per ricordargli che non è necessario scappare, può anche soltanto girargli le spalle e ignorarlo, depotenziandola esattamente come si fa con gli dei quando vengono dimenticati. So che, qualsiasi cosa sia, vive nella sua mente, e come tutti i demoni della nostra psiche, le nostre divinità crudeli, possiamo combatterli proprio così. Alla stesso modo. Dimenticandoli. Mi alzo lentamente senza lasciare la mano che ha preso la mia, scostando l’altra dal suo volto per allungargliela in un invito ad alzarsi anche lui. «Okay», annuisco con un accenno di sorriso, una pennellata di colore, «Vieni.» Non ho bisogno di spiegargli il perché, non importa, non servono parole. Non sarebbero neanche adatte per descrivere una mano che si allunga verso di lui e in sé è intrica di innumerevoli concetti. Non ho parole per comprendere che cosa abbia infestato il nido nel suo cranio, e non ne ho per dirgli che qualsiasi cosa sia, si può fare qualcos’altro oltre ad aspettare che se ne vada. Può andarsene lui. Inizio a camminare precedendolo fuori dalla stanza, lasciandogli una mano mentre con l’altra lo trascino dietro di me. I nostri sono passi felpati nel buio squarciato dai neon sempre accesi. Illuminano ogni stanza di luci diverse, nell’open space si fondono tra la cucina, il salotto, la luce lattea della luna che arriva da fuori attraverso finestroni che percorrono tutta la parete. Non c’è bisogno di correre per allontanarsi, non c’è bisogno di ansimare fino a vomitare sangue per scappare, bastano passi e una direzione diversa. Apro la porta finestra verso il giardino ritagliato tra il muro coi mattoni a vista del palazzo accanto e il resto del mio appartamento, sul secondo piano è nascosto da muri di foglie e alberi, fa di questo spazio verde un minuscolo paradiso pensile. Gli mollo la mano solo quando siamo appena oltre la soglia e la brezza fredda della notte accarezza il volto di entrambi. Il brusio di Manhattan è il nostro sottofondo. Mi volto a guardarlo con ancora quel tratto di sorriso sulle labbra, attendo qualche secondo prima di parlare e di chiedere, «Meglio?»


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    La seguo. Onestamente, in questo momento, penso che seguirei qualsiasi cosa, ma so anche che è diverso. Non la seguo con quel senso che preme e martella nella testa, e mi dice che tanto è tutto inutile. Che tutto quello che devo fare, è aspettare finché non ci sarà di nuovo qualcosa a traviare il sangue, a traviare tutto, traviare me, e cancellare con forza certe cose dalla mia testa. Perché sì, ho pensato anche a questo. Arreso, immagino, al fatto che non c’è modo di evitarlo, ho pensato che almeno, avrebbe avuto quel punto positivo a cui aggrapparmi. Un vigliacco, sì. Ma non è così che seguo lei. Liz la seguo con quella punta un po’ stupida, un po’ incredula, che crede che comunque, da qualche parte mi porterà davvero. Non solo una stazione di passaggio, grigia ed incupita, lasciata lì a prendere polvere in una pioggia di pensieri spenti. No. Da qualche parte davvero. Al di là di tutto. La seguo con quella punta incosciente che non so se definire speranza, ma che ha bisogno di credere che da qualche parte, ancora, può esserci qualcosa. Ancora, prima di arrivare di nuovo così in là, da essere talmente fuori da me, da guardarmi da fuori. É che guardo a domani, e mi sembra tutto così incerto, che credo di volere invece un punto pi stabile. Anche se per poco. Sono sempre stato, alla fine, uno da cose stabili. In un modo paradossale, forse. O forse per niente, perché è un po’ un giusto contrasto a tutto quello che mi ha sempre circondato. Mi guardo intorno, quando siamo fuori. Penso, queste sono cose che vorrei restassero. Parlo di questo posto, sì, questa città, certo. Ma parlo anche di altro, di qualcosa di diverso, che si respira fra me e lei. Vorrei che queste, che queste fossero le cose che restano. Al posto dei segni, quelli più duri, e dei tentativi che finiscono sempre per essere solo buchi nell’acqua, vicoli ciechi che costringono sempre a tornare indietro, passo per passo e poi tutto insieme. Come un salto infinito. «In realtà... sì» non penso che sia per il giardino, per l’aria diversa. Non penso che sia perché mi sono mosso, scostato da un punto che è come un’ombra, sempre attaccata ai miei piedi. Non mi molla mai per davvero, fa solo finta per un po’. Non penso che sia per nessuna di queste cose, penso che sia semplicemente perché nonostante tutto, c’è quella cosa che me la fa guardare, e mi fa credere tutte quelle cose assurde, impossibili, ma che sono anche reali, concrete. È perché non sono lì, da solo, ad azzannarmi la testa, e cercare fra i brandelli cosa distruggere, sputare, cosa trattenere perché entri in circolo, e non mi faccia affondare. Ha molto più senso nella mia testa, quando c’è stato quello che c’è stato nella mia vita, e anche solo nel modo in cui fra una cosa e l’altra, ho cercato di stringerla dentro certe cose, e in un certo modo. Ma mi è servito sempre e solo, a realizzare quanto fossi lontano da quelle cose, e quel modo. Opposto, quasi. Inadatto. Mi premo una mano sulla faccia, a metà fra la stanchezza residua nelle ossa, e quel senso che nel prendere un respiro, fa un passo indietro da tutto. Mi fa sentire ridicolo, in mezzo a tutto questo. Anche se è solo un’eco lontana, per adesso. Come l’anticipazione di qualcosa che ancora non preme così tanto. Lascio cadere la mano con un gesto che la fa arrivare mollemente lungo il fianco. «Lo sai che non sei tenuta a star dietro alle mie crisi umorali da ragazzina, vero?» cerco di buttarla, come sempre, su qualche sorta di battuta. Di cazzata. Solo che sono di quelle volte in cui vorrei mi uscisse un po’ meglio, un po’ meno esausto. Un po’ meno palesemente vero. Come se fosse terra che è stata smossa, e rivela pezzi di quello che stava coprendo.
     
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    i domando quanto davvero non si renda conto che in realtà, cedimenti come questo per me sono soltanto un segno di vicinanza. Un segno di qualcosa che non solo è andato a segno, ma che ha aggiunto un passo di avvicinamento, verso di me, verso un punto in comune diviso anche quando minuscolo e soffocante. So che pensa di essere fastidioso, un peso, so che pensa di essere un bersaglio di scherno. So che non capisce quanto la comunione di questo tipo possa essere importante, per tutti, ma anche per me in questo caso. So che mi vede non chiedere aiuto e non dipendere da nessuno, neanche da lui, so che neanche immagina come in realtà io abbia programmato tutto proprio perché non volevo appoggiarmi a nessuno. E so che probabilmente, proprio di fronte a questo mio modo di comportarmi, si esaltino quei suoi istanti di cedevolezza diventando enormi torti nei miei confronti. Mi chiedo quanto, però, quanto non capisca che invece da un certo punto di vista io li aneli. Non è solo riprova sociale, quella che ne vedere l’altro cedere allora ti spinge a considerare che forse, farlo anche tu, è giusto. È che io lo voglio sostenere anche lì, oltre al senso di colpa che cambia parole e le dipende come in un “per lo meno lì”, voglio solo essere con lui anche quando prende una strada più brutta, per mostrargli come possa cambiare l’illuminazione soltanto guardando attraverso un filtro diverso oppure ancora tenergli la mano al buio. Non è niente di speciale. È solo amore. L’egoismo di amare e non di dare, quello che ci rende umani, anche quando non lo siamo più. Piegando la testa su un lato sbuffo un sorriso che arriccia le labbra. «Sì, lo so», gli cammino incontro consumando piano quei pochi passi che ho messo tra noi per lasciargli lo spazio di respirare. «Che ci vuoi fare, sono una fan di Caiden Crain, potrei stargli accanto in miliardi di queste sue crisi umorali da ragazzina.» Allungo le braccia verso di lui, sfiorandogli prima le spalle con le dita e poi spingendole oltre a pendere da metà avambraccio dietro la sua schiena. «Anche se non le chiamerei così.»


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    Edited by hime. - 2/5/2022, 13:40
     
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    Ci sono tutta una serie di cose, in cui so di non essere bravo. E sembra assurdo dirlo, quando di solito, sono quel tipo di persona che difficilmente accetta ed ammette di non essere capace, anche da solo, con me, in questo buco nero che ho al posto della testa. Però lo so, e in fondo ci trovo anche un senso logico. Uno che alla fine, nasce dal fatto che da bambino, non sono mai stato in mezzo agli altri. Che crescendo, ancora, cercassi di contare più le distanze, che quelle che venivano meno. Penso di essermene davvero accorto quando sono uscito da quel piccolo mondo in cui ho vissuto da sempre, in quei tre anni del cazzo in cui ho semplicemente visto, toccato, quanto fossi fuori posto in tutto. Solo che sono fuori posto anche da dove vengo. In un modo complesso, difficile da spiegare. Queste, sono cose in cui non sono bravo. Lo so, e lo so più per quel moto che nel guardarla, mi fa pensare invece quanto lei debba avere pazienza, per una cosa o l’altra, per un motivo o l’altro. Per tutti quei momenti che sono così, per tutti i momenti che sono fatti in un altro modo, ma in cui comunque pendo vertiginosamente verso un basso inabissato. Lascio andare un respiro, lo faccio muovendo le mani lentamente, premendogliele sui fianchi quando si fa vicina. Penso, non so neanche come prendere una cosa del genere. Penso, posso contare sulla punta delle dita le volte in cui mi sono sforzato davvero di dire qualcosa. Sono state tutte con mio fratello, e so che quello è diverso. Perché arrivano dei momenti, lì, in cui mi sembra tutto talmente in bilico, in cui mi sento di dovere così tanto, ancora ed ancora, che non posso far altro che tranciare ogni confine, e cercare di spingere tutto fuori. Il problema è che io non sono capace, il problema è che quando poi certe cose arrivano fuori, arrivano ovunque, diventano troppo. E quando sono troppo, non so come gestirle, allora le spingo via, le spingo giù, le spingo ovunque. Penso, dovremmo parlare di altro. Dovremmo esser qui a pensare a cosa fare, contare i giorni, i tempi, le mosse. Impilarle tutte una dietro l’altra, così che diventino un sentiero da seguire, e che ci porti lì dove si deve arrivare. Oltre tutto. E invece, non è quello che stiamo facendo. Per questo dico, che sono fuori posto anche da dove vengo. Ancor prima del sangue, del morire e tornare. Ancor prima di tutto. Penso, questo è un posto di mezzo. Letteralmente. Come piantato fra mille realtà, mille mondi. Penso, non mi ha mai chiesto di essere in un modo. Non lo ha mai preteso. Neanche a questo sono abituato, neanche questo lo so fare davvero. Sopratutto, adesso. Dopo tutto. Dopo aver cercato per troppo di essere me, al punto da sentire, spesso, di quanto non avesse più senso quel concetto. Senza sapere, poi, da dove ripescarlo. «E come le chiameresti» non so se è davvero una domanda, o se è qualcosa che invece, cerca ancora di scivolare via, con dietro la testa il formicolio della sensazione di essere braccato. Ma a quella, a quella so di potermi abituare. Siamo braccati da così tanto, che credo di aver dimenticato come sia non sentirsi così.
     
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    vanzo ancora per accostarmi al suo petto con il corpo, le braccia scivolano di più oltre il trapezio e i polsi si incrociano dietro sospesi nel vuoto. Piego la testa all’indietro di quei due centimetri che mi bastano a guardarlo meglio in una differenza di altezza che non preme quasi mai così insistente. Sapevo che me l’avrebbe chiesto e stavo per rispondergli prima di sentirlo, anche se alla fine non l’ho fatto. Prendo il labbro inferiore tra i denti in un moto che morde un nuovo, più arricciato, sorriso. Credevo di saperlo prevedere solo in quel modo che necessita di analisi, quello freddo, pragmatico, quello che arriva da uno studio e non si immerge ma guarda da lontano. Invece adesso so di non averlo indovinato in seguito a un ragionamento. Lo sapevo e basta. Lo aspettavo, come aspettavo qualcosa che si sa arriverà. È molto più dolce. Sa del conforto di un posto sicuro in cui rifugiarsi, un posto conosciuto, uno che non nasconde alcun tranello. Una volta aver smesso di pensare alle bugie e i raggiri, è straordinariamente facile cadere negli schemi morbidi di noi. Non c’è niente di appuntito o affilato, ha smesso di esserci e non so come sia potuto accadere, ma è proprio questo il punto. Per essere vere, questo genere di cose, autentiche, non devono avere alcuna spiegazione razionale. «Défaillance?» Conservo un tono che pur basso, in questo sussurro, ha dell’ironia. Userei un’altra parola ma non voglio andare a puntare il dito su qualcosa che ovviamente lo fa sentire in difetto. Direi che è una debolezza ovvia, un cedimento necessario, perché tutti hanno momenti in cui si scende e per quanto possa farlo, per quanto si possa andare in basso, è sempre quello il posto in cui ci incontriamo quando siamo sul fondo. L’abisso è uguale per tutti e va bene, è accettabile. È necessario per poter risalire, dopo. «Per essere lusinghiera.» Passando il peso da una gamba all’altra inizio un dondolio a destra e poi a sinistra, come se fosse una danza appena accennata. «O picchi di dovuta umanità, magari.» Ed è paradossale che la validazione arrivi da un’entità demoniaca che, per definizione, l’umanità l’ha dimenticata nel profondo buco in cui è rinata. O morta, a seconda dei punti di vista.


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    Paradossalmente, me lo sono anche chiesto, negli ultimi tempi, anni, cosa significa davvero umanità. Nessun discorso filosofico, niente di simile, quanto più un concetto base che proprio così, semplice, potesse essere tanto lampante da portarmi ad essere di nuovo capace di mettere una linea in mezzo alle cose. Dividerle, un po’ di qua, un po’ di là. Con niente fermo nel mezzo. Le cose facili, penso si trattasse di questo, e di troppe cose che nella mia testa, si aggiungevano una all’altra. So che quella linea me la sono portato dietro man mano che io mi ci sono allontanato, e anche adesso guardandomi indietro, non sono così sicuro di esserci tornato davvero. Lì dove avrei dovuto stare sempre. Sono questi i motivi per cui dico sempre che pensare al passato è qualcosa che non si dovrebbe fare, che io non dovrei fare. Ma sono anche il primo a cascarci ogni volta, perché è lì che ci sono quelle cose facili. Tutto lo era, in un modo che non mi sembrava, lì per lì, ma che adesso è ovvio. Non c’era questa montagna di bugie, quella che anche una volta buttata giù, ci ha messo poco a ricrearsi. Un secondo solo. Non c’erano tante cose, non c’erano neanche tanti doveri. Era più facie, anche quello. Prima, ero convinto che crescendo sarei migliorato. Adesso penso che posso solo peggiorare. E non mi sfugge davvero quel dovuto in quello che dice, ma ha sempre un suono storto contro la mia pelle. Non so davvero cos’è che mi è dovuto, penso banalmente niente. Voglio dire, ho davvero messo mio fratello di fronte a molte cose, a tutte, senza pensarci un secondo. E quando anche ci ho pensato, è servito solo ad essere più consapevole nel decidere di mandare comunque tutto a puttane. Paradossalmente, anche lui. Esattamente come oggi. Un po’, l’ho accettato. Qualche secondo, qualche minuto. L’ho accettato perché non c’è niente da fare, e le cose sono così. Se fossi un bambino, potrei piantare i piedi a terra e dire no, e neanche. Neanche da bambino penso che lo avrei fatto, non davvero. Stringo appena le labbra, lo faccio inspirando dal naso, muovendo un po’ la testa per avvicinarla alla sua. Se fossero solo dei picchi, forse andrebbe anche bene. Non del tutto, mai del tutto, ma sarebbe un po’ più accettabile. Il problema è che con me, è una costanza. Anche quando non c’è, c’è sempre. C’è nella sua assenza, e nella consapevolezza che da qualche parte, continua a respirare. C’è nel semplice fatto che sono stanco. C’è nel prendere un momento, un respiro, e tastare il terreno prima di muoversi. Forse, alla fine, il mio accettare è solo questo. Essere così stanco, che a questo punto mi va bene una qualsiasi resa, quando so che anche correre e cercare di andare da qualche parte, provarci, probabilmente non porterebbe a niente. Non cancellerebbe niente. Non cambierebbe niente. Quello che ho fatto, non si può dimenticare. Non penso che va bene così, non davvero, ma in un certo modo, sì. Lo penso. Come devo aver pensato qualcosa di simile quando troppo tempo fa, ho lasciato mio fratello nel Bunker, e sono andato via. Non va bene, non va mai bene. Non sto bene, non sto mai bene. Ma va così. Non ho mai trovato un reale senso nel lamentarsi di cose che tanto, non possono essere cambiate. Sono successe, è andata così, o stanno succedendo ed andrà così. Non penso di essere più o meno fortunato di qualcun altro, perché quello che dirò sempre, è che sono state scelte mie. Anche questo, è una scelta mia. Anche stare qui fuori, a stringere appena gli occhi contro di lei, lasciare un secondo di silenzio fra di noi, anche questa è una mia scelta. Penso, poteva essere peggio. Potevo essere solo. E non è una consolazione, è solo una consapevolezza che scivola via dalle narici, vibrando appena. «Da quando sei una lusinghiera questo, invece, ho sempre saputo farlo. Sparare cazzate anche nei momenti peggiori, probabilmente perché di quelli, ce ne sono stati così tanti che si doveva imparare in qualche modo a superarli. Scosto di nuovo la testa, non so se posso dire di star sorridendo davvero, ma è che sono stanco anche di sentirmi così. Questo, lo sono sempre stato. «È un po’ preoccupante»
     
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    ento il mio volto piegarsi, stringersi e rilassarsi nell’inizio di una risata che però resta immobilizzata in un’onda sulle labbra. Lo sto facendo molto, sorridere, sogghignare, le guance indolenzite ne lamentano una quantità esagerata considerato ciò da cui ci siamo appena allontanati. Ma penso che invece, proprio per questo, sia importante che almeno uno dei due lo faccia. Non è un guardare in faccia il mostro, chiunque esso sia e qualunque forma abbia, e sorridergli. È guardare in faccia l’altro, invece, e sorridergli. Perché siamo nascosti in un giardino, in un minuscolo angolo di una città immensa, in un punto infinitesimale del tempo e anche se le nostre battaglie sono bibliche, noi restiamo due persone, più o meno, che si concedono delle défaillance. Era questo il senso, è questo, ho archiviato l’Apocalisse dopo aver fatto quello che dovevo. Adesso sono semplicemente chi volevo essere con lui, senza impegni con me stessa da rispettare. E sorrido. Perché lui mi fa sorridere, perché noi mi fa sorridere. Anche se è triste e terribile quello che dev’essersi stabilito nel suo cervello o forse persino nella sua identità, tanto radicato da aver assunto forme precise anche all’esterno. Sono una ferma sostenitrice del potere della superficialità, non quella vera, non quella che fa decadere l’importanza delle cose e non quella usata come sistema difensivo esagerato come ha sempre fatto mia sorella. Solo quella che permette di trovare un secondo per potere respirare tra una corsa e l’altra. E penso che anche per lui sia lo stesso, per battute che pure se escono a malapena riescono a trovare voce e un ruolo sul palcoscenico. «Beh…» arretro una mano per toccare il suo volto, la guancia, l’angolo delle labbra con il pollice. «Alcune cose ti cambiano.» Ha un retrogusto serio, anche se è pronunciato nell’eco della sua battuta. Fa le veci di una realtà che specchiata, più profonda, avrebbe usato altre parole. Quelle che per oggi, ancora, non hanno ricevuto il permesso di sopravvivere e lasciarsi ascoltare. «Alcune persone.» Aggiungo, rettifico, è uguale. Lo guardo e ci penso se invece, forse, potrebbe avere un qualche senso lasciarle vivere anche così. Se forse, persino, potrebbe averne di più. Se forse, potrebbero aiutarlo, accompagnarlo ancora più lontano e coprire vecchie ferite con un cerotto di dolcezza momentanea. Lo guardo, con i tratti che si rilassano e il sorriso che gradualmente si riduce a una linea più sottile. Attesa. Comprensione in sospeso.


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    Questa, è per forza una di quelle cose universalmente vere. Da qualsiasi punto la si guardi, da qualsiasi parte si viva, ci si muova. Credo che sia anche una di quelle cose, che da bambino non volevo. Non mi sono mai piaciuti davvero troppo, certi cambiamenti. Quasi tutti. Ognuno di quelli che non era un’abitudine, di quelle che anche nello spostarci di posto in posto, avevano un fattore unico a spingerle di stato in stato. Non mi piacevano gli altri cambiamenti, quelli che venivano da fuori. Non mi piacevano gli altri bambini, le altre persone, non mi piaceva il pensiero di espandere un mondo che da che sono nato, avevo sempre visto stretto in un solo punto. Un po’, questa cosa è cambiata, ma poi neanche tanto. Non davvero. Lo so dal momento che so che sono davvero poche le persone che ci sono davvero, non per me in quel senso che le mette a starmi dietro. No. Per me, nel senso che nel guardarle, le sento dentro uno spazio preciso. Sono sempre le stesse, o quasi. Sono sempre state le stesse, da che io ricordi, e per tutte, all’inizio c’è stata una resistenza che è stata scritta nelle mie ossa. Anche con lei è stato così, un girarsi intorno che probabilmente, era più ovvio per lei che per me. Io certe cose, le nego fino alla morte. È più facile, e lei è arrivata quando di cose facili, ne avevo un bisogno disperato. Atroce. E invece, invece alla fine certe cose, vanno e basta, anche se uno prova ad imbrigliarle, e ti cambiano. Io penso di essere cambiato molto, avanti ed indietro sugli stessi punti, come onde contro una linea che si spingono da un lato e dall’altro. Sì, ma anche poi in un modo che invece, va sempre dritto ed è diverso, una cosa a parte. Una che non nasce da quanto posso incasinare tutto quello che mi riguarda, tutto me, con una cosa o l’altra, ma invece c’entra con tutto il resto. Con quello che inevitabilmente, trova un posto fra le ossa e da lì, si ferma per farle cambiare. Smussarne alcune, allungarne altre, creare legamenti nuovi. Lo so che lei, è proprio una di queste cose. Penso a quanto facilmente, anche questa sarebbe stata una di quelle cose, da prendere e spingere lontano, ma penso anche che quello sia un punto lontano, premuto dall’altro lato del mondo. Muovo una mano un po’ più dietro, al centro della schiena, con solo l’accenno ad uno scuotere la testa che resta leggero. Una delle poche cose leggere in mezzo a tante, troppe, che non lo sono affatto. C’è dell’assurdo, in tutto questo, ma del resto immagino lo si possa dire di ogni cosa. Per forza, quando in mezzo alla merda, c’è una cosa che invece è tutto il contrario, e quando in mezzo alle cose più belle, si trova invece quella stonata. In un modo o nell’altro. Spingo il volto un po’ contro il suo, quanto basta a premere le labbra contro le sue, in un contatto che resta qualche secondo prima di trovare di nuovo lo stesso spazio, stretto, fra ma e lei. Non sono bravo in queste cose, penso di averlo detto più e più volte. Ancora di meno, quando servono certe parole, quelle che sulla mia lingua hanno sempre un po’ capitolato, un po’ arrancato. Un po’ faticato. «Se non ti conoscessi, direi che stai cercando di fare la romantica» lo sbuffo, un soffio appena, che lascia solo l’incedere di un sorriso, ma che in realtà è una di quelle cose che non è davvero una battuta. Penso, questa è una di quelle cose che mi avrebbe facilmente terrorizzato. Solo qualche anno fa. Un po’ anche adesso, ma in un modo diverso. Uno di quelli che sa di qualcosa che non fa arretrare, ma invece spinge un po’ più vicino.
     
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