Cosmic Dancer

Den/Liz | 20 Marzo

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    Eliza Graham


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    giusto dirlo adesso, perché lo amo anche così. Non serve spiegargli che qualsiasi cosa possa succedere, un tradimento o un momento di debolezza, una crisi quando al di là delle finestre si avvicina una bufera millenaristica, queste parole vivranno comunque. Per me, per lo meno, perché è in me che nascono ed è da me che si dipanano. È un sussurro che ha bisogno di espandersi, ma è anche, adesso, un altro modo per dirgli che no, non sono tenuta a fare niente. Banalmente però sono qui e non voglio lasciarlo da solo in uno spazio che può cannibalizzarlo. Non voglio proteggerlo, non voglio fargli da scudo, non voglio entrare nelle sue battaglie, non voglio invadere neanche un centimetro dei suoi spazi; voglio solo prenderlo per mano per ricordargli che nonostante tutto, quelle fessure in cui ci siamo nascosti a volte sono sempre lì pronte ad accoglierci. Quella fenditura specifica tra un mondo e l’altro, dove tutto è colorato di gradazioni e non colori pieni. Dove le tregue esistono, dove possiamo chiederci cosa pensiamo, dove possiamo non chiedercelo e indovinarlo, dove possiamo raccontarci storie e raccogliere antichità passare per donarcele uno all’altra, facendoci scoprire chi siamo stati e che cosa ci ha fatto diventare cosa siamo ora. Nel bene e nel male, in una scissura che non conosce bianchi o neri ma solo spettri cromatici infiniti. È giusto dirlo adesso per tutto questo, anche se soltanto qualche minuto fa ho pensato sarebbe stato un errore, sarebbe stato come prendere d’assalto il suo dolore. Adesso siamo in un giardino a tenerci per mano, ancora, da quella stanza fino a qui come a ripetere quel percorso più e più volte contemporaneamente ed essendo anche già usciti alla frescura della primavera del nord. È giusto dirlo adesso per questo. E credo che l’abbia capito. Non proprio dove voglio arrivare, ma che voglio arrivare a qualcosa sì. Che ho un messaggio lasciato in sospeso per lui. Per questo lo dico adesso, ma con un precedente di silenzio che si imputa di colpevolezza ancora prima di esserlo. Ho detto che non ho paura di sbagliare con Caiden, ed è vero, non è questo che mi porta ad abbassare lo sguardo sulle sue labbra, seguire i movimenti distratti delle dita che gli carezzano la pelle. È passato molto tempo da quando l’ho detto a qualcuno, alcuni ho smesso di amarli con il tempo e ho conservato sentimenti evoluti, più saggi. Altri sono diventati sicurezze solide, castelli costruiti nel cuore. Ma è passato del tempo, decenni, secoli, e dichiarazioni del genere non le ho mai fatte sulle soglie di un addio. Questo lo è, però. Uno dei tanti, quello che temo di più. Sollevo gli occhi. Lo butto fuori in un respiro solo, «Ti amo.»


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    Penso che stia rimuginando qualcosa. Ma a dirla tutta, ho ormai la certezza che stia sempre rimuginando qualcosa. È quel tipo di cosa che ho pensato spesso, in forme diverse, su di lei. Sul fatto che ci fosse sempre un modo di filare per le cose, nella sua testa, che scivolano un po’ non viste, un po’ probabilmente solo come il peso di un’abitudine. Un’abitudine di secoli. C’è sempre qualcosa, in un modo che è diverso da quello che persiste nella mia, di testa, ma che poi ci trova punti in comune quando si tratta di fissarsi su qualcosa che sa di pratico, che sa di tutto quello che deve essere fatto e va fatto, sempre e comunque. Nonostante tutto. Nonostante tante cose che in contrasto, sono quelle cose che si vorrebbero, ma vengono scartate perché c’è un asfissiarsi di tutto che pretende sempre più attenzione, di giorno in giorno. L’Apocalisse, i Banditori, questo, quello, capricci di chi in alto, guarda qui e non si cura di niente e nessuno. Penso che a maggior ragione, considerando questo, sia importante invece mettere dei momenti diversi, come un disco che si ferma e cambia musica. Che lo sia perché in mezzo a tutto questo, è davvero facile dimenticarsi che ci sono altre cose, oltre quelle. Che ci sono altre cose, oltre tutto quello che enorme, pesa con un’altra cosa da fare ancora. Penso di essere capace di pensarlo, anche se solo un po’, solo perché c’è lei dall’altro lato. Non sarei così capace di pensarlo in un momento diverso, fatto in un altro modo. Con troppe recriminazioni che partono da me per me, e si fermano da tutte le parti a fissarmi e in silenzio, chiedermi quand’è che voglio muovermi. E penso che sia importante anche per lei, perché io magari non sono capace di prendere e far uscire tutte le cose che esistono nella mia testa, di sezionarle per mettere ordine, ma non vuol dire che non mi interessino quelle che parlano di lei. Al contrario. Come quella volta in cui, un po’ della sua storia si è srotolata sulla sua lingua, e sono stato lì ad ascoltarla, e vedere fra quelle crepe che erano già profonde, e non riuscivano più a farmela vedere in quel modo in cui avrei visto tutto, fino a quando l’ho conosciuta. Era il modo che conoscevo, quello che mi era stato insegnato. È come tutte le volte in cui, guardandola, vorrei poter fare qualcosa per lei. Qualcosa di più. Qualcosa di reale. Qualcosa di concreto. Quando l’unica cosa che sono riuscito a fare, è metterla in una situazione in cui ci sono sempre rischi concreti a mascherarsi dietro ogni volto. Piego solo un po’ la testa, un millimetro di lato, per guardarla anche in qualche secondo di silenzio, e ci resto, in quella posizione, per qualche secondo che viene dopo. Dopo la sua voce. No, non me lo aspettavo. Non questo, non adesso, non così. Non mai. Un pensiero che è andato da qualche parte, ma come un’eco che ribalza e rimbalza ancora, senza muoversi da nessuna parte davvero. Sono cose che probabilmente, non mi so aspettare mai. In mezzo a tutto il resto, in mezzo a tutti i modi che ci sono per i miei pensieri di incunearsi, e settarsi su qualcosa che va dritto per la sua strada ricurva, come aghi contro il cervello. Sento le sopracciglia muoversi, farlo appena, in un modo impercettibile che per un attimo me le stringe al centro della fronte. Uno solo, prima che si muovano ancora senza decidersi davvero. Forse è che non mi decido io in un punto o un altro. Irrigidisco per un attimo i muscoli, le dita contro di lei, prima di una scarica che torna a far rilassare tutto. Anche se in quella maniera contorta che ha tutto di esistere, nella mia testa. Se potessi davvero spiegarlo, lo farei, ma richiederebbe troppe parole che si tirano fuori a fatica, e troppe che dovrei andare a pescare lì dove vengono trattenute, perché sono come alluvioni pronte ad uscire fuori. Come tutto quello che ho pensato, di me e di lei, quando ho sfiorato l’idea che tutto quello che stava succedendo, avremmo potuto superarlo. Che forse, ci sarebbe stato qualcosa dopo. Adesso anche questo è un pensiero bloccato, che aiuta altri ad incagliarsi come reti fra gli scogli, senza più nessuna mano che sappia tirarle su come si deve, senza stracciarle tutte. Filo per filo. Mi rendo conto che forse ho trattenuto anche un respiro, insieme a tutto il resto, quando me lo trovo a capitolare fra le labbra con una pressione che mi fa sentire, a parte tutto, un idiota. Anche questa è un po’ una sensazione che conosco, che fa a cazzotti con quelle che fino a qualche minuto fa, si espandevano inesorabili. «Non credo sia il momento giusto per dire che quindi avevo ragione a dire che cercavi di fare la romantica» lo sbilancio in una smorfia che apre un po’ l’angolo destro delle labbra, come un sorriso mancato, incerto. Confuso, come la matassa di cose che ci sono in questo momento. Onestamente, mi aspettavo esattamente questo, da me. Dire la cosa più stupida che avrei potuto mai dire. E forse, presa quella, andare anche di rilancio. Ed infatti. Apro la bocca, di nuovo, ma penso in un momento di possibile lucidità, che forse è il caso di richiuderla. Non sono bravo, appunto. Di meno ancora, con quello che non mi aspetto, e arriva all’improvviso. «Scusa, non volevo uscirmene davvero con la cagata del secolo» anche prima di questo, avrei dovuto pensarci quei due secondi in più. Penso sia corretto dire che ho il cervello che è andato in panne, da qualche parte, come ruote immerse in centimetri di fango, che continuano a girare a vuoto. «È solo che... lo sai» e sono abbastanza convinto, che lo sappia davvero. Che tutto questo, è perché c’è qualcosa che s’incaglia nella mia testa. A ripetizione.


    Edited by usul; - 3/5/2022, 20:19
     
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    on l’ho detto per sentirmi dire anche io. Nemmeno me lo aspettavo, oltre a non pretenderlo. In fondo questo genere di cose non si dicono per ottenere una risposta, si dicono e basta, perché meritano spazio nel silenzio, perché vogliono essere condivise, vogliono comunicare qualcosa di importante. Lo è, al di là di essere ricambiata o meno, so che lo è anche per lui. In un’altra situazione, senza complicazioni nascoste, sarebbero stato rischioso. Caiden mi sembra essere uno di quelli che scappano, a volte, in determinate circostanze. Ma non mi sarebbe importato neanche di questo, o meglio, certo che sì, ma sarei stata capace di accettarlo perché era giusto così. Era giusto che sapesse. È giusto che sappia. Da un certo momento in poi ho smesso di volere una comunicazione obliqua, piena di veleni e penombre. Di alcove in cui si nascondevano segreti. Almeno quando si tratta di noi vorrei conservare questo desiderio e metterlo in pratica. Almeno quando si tratta solo di dire la verità, disconnessa e tagliata via dal contesto, è pura e semplice sincerità. Per questo non c’è delusione, neanche una briciola, da nessuna parte, celata o evidente. «Sì», lo so, e avevo intuito che ci sarebbe stata una reazione come questa. Va bene così. Non ho mai preteso da Caiden niente che fosse diverso da ciò che è, chi è. Non voglio farlo, né ora né per il tempo che ci rimane. Lo so, dice lui, ed è proprio questo che voglio. Saperlo, senza bisogno di obbligarlo a parlare quando non ce la fa, quando non vuole, quando è tutto “incasinato” la dentro da non riuscire a gestire fili logici come riesce a fare per tante altre cose invece. Lo so, ed è questo il punto, il motivo per cui alla fine gliel’ho detto ora e non ho aspettato a un’improbabile nuova occasione che forse non ci sarebbe stata proprio. Mi allungo in alto verso il suo volto, «Tranquillo», gli soffio sulle labbra prima di baciarlo socchiudendo gli occhi e chiudendoli poi del tutto. La mano sulla sua guancia si sposta dietro la testa tra i suoi capelli mentre l’altra scivola indietro premendo sulla sua pelle, la spalla, si ferma lì e si blocca in una presa che non demanda e richiede niente, se non questo.


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    Non sono mai stato uno da grandi gesti, o grandi parole. Al contrario, penso generalmente, di aver cercato di imparare per tutta la mia vita, ad essere proprio l’opposto. Inutile dire quale fosse il riferimento primo, anche se era solo una visione un po’ del cazzo, perché a distanza di anni, posso dire che in fondo io mio padre non lo conoscevo. Non sono mai stato davvero tante cose, e se mi ci concentrassi un po’ di più, penso che sia più facile, per me, riconoscermi in quelle. In quello che non sono, nelle mancanze, piuttosto che nel resto. In quello che forse, di me, persiste. Probabilmente, è quello che succede a furia di cercare di fare una cosa, o di farne mille, si finisce a pensare proprio in questo modo, e riconoscersi proprio in questo modo. Quindi è facile dire che non ne sono capace. Di quel facile che spesso, mi ha aiutato a muovere i piedi e continuare su una strada diversa. Alla fine, posso dire di sapere com’è che mi sento, per lei, da un bel po’. Non in maniera così ovvia all’inizio, non in una che aveva già una definizione appesa sulla testa, ma era un momento particolare quello. Era un momento in cui, cercavo di spingere il pensiero di lei il più lontano possibile, di rovesciarlo nella testa, anche se c’era la consapevolezza di non essere stato capace di ucciderla a corrodere ogni sforzo. Sembra una cosa stupida, ma in realtà non lo è. Anche se non è stato metterla al di sopra di mio fratello, è la cosa più vicina che ci si sia mai spinta, e questo di per sé, è una cosa che la dice lunga. Lo sapevo che era questo. Ma sono fatto come sono fatto, e penso ancora che quella cosa che le ho detto, quella volta, sia vera. Che porto problemi, più che altro. Ma per quanto abbia provato a grattare via le cose, lei e tante altre, penso anche di essere uno che alla fine non ci riesce mai. Nel bene e nel male. Non so dire quando ho usato le parole giuste, da solo nella mia testa. Forse mai. Perché c’era sempre il pensiero di tante cose ad affollarsi ogni volta che ci pensavo un po’ di più. Pensavo a cosa sarebbe successo, a quanto fosse una cosa possibile. Poi, ho anche deciso di fregarmene, e di prendere qualcosa e dirmi semplicemente, che va bene così. Adesso, mi sembrano pensieri ancora più assurdi quelli che mi erano saltati in testa, considerando che quella cosa che cercavo di essere, di tornare ad essere, è andata a fanculo. Probabilmente in un modo abbastanza definitivo. Perché anche io riesco ad essere ipocrita fino ad un certo punto, e forse siamo oltre. Ma il punto, il punto è che adesso mi sento un cretino. Non è una sensazione che mi piace, ma l’ho detto, sono cose, queste, che ho sempre fatto in un certo modo, uno diverso. A dirla tutta, neanche io so davvero il perché di molti miei istinti, non è che mi ci sono interrogato poi troppo. Al contrario, penso di aver preferito per lo più non sapere, sopratutto quando si trattava di me. Muovo le mani, lo faccio premendole di più contro di lei, finché non sono avambracci quelli dietro la sua schiena, in una stretta che in un altro momento, direi essere quasi patetica. Ma sono in un punto particolare della mia testa, adesso. Mi allontano con le labbra dopo qualche secondo, uno strusciare lento che le lascia a contatto con la sua pelle, ma appena più in là, per trovare uno spazio che diventa un respiro un po’ tremulo. In mezzo a tutto quello che sta succedendo, nella sua vita, nella mia, mi sembra davvero assurdo che siano questi i problemi che si fa la mia testa. Assurdo, ma anche un pattern che alla fine, un po’ conosco. Circa. Finisco a premere il naso di fianco al suo, muovendo gli occhi anche se così vicini, posso dire che non ci vedo un cazzo. E non la lascio, anzi. Trattengo la presa. Anche quando una mano, invece, si sposta per raggiungere il lato del suo volto. Stringo per un secondo le labbra, la sensazione della lingua contro i denti chiusi, al mascella contratta. «Io... anche» anche questa è uscita male, malissimo. Mi fa stringere gli occhi, uno sbuffo quasi divertito che arriva contro le labbra, e cerca di far scivolare le spalle più morbidamente sul loro asse. Mi pianterei una mano in faccia, solo che non voglio muovermi. Abbasso solo un po’ il volto, senza davvero allontanarmi da lei, e stringendo appena gli occhi. «Ti amo» con difficoltà, come penso mi sia successo sempre quando devo dire una cosa di un certo tipo, che è anche vera.


    Edited by usul; - 3/5/2022, 20:18
     
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    È
    una sensazione che una fisicità tutta sua, questa. Come cadere nel vuoto, fiato trattenuto senza rendersene conto finché non lo si fa e allora si lascia andare tremulo contro la pelle di qualcun altro. Attraverso un sorriso che, da prima timido, poi sboccia nella realizzazione. Un’ondata di acqua tiepida in gola, nei polmoni, li riempie e li coccola affogandoli dall’interno. È questo per me. Per un noi che non ci sarà mai, che non ha alcuna possibilità e che finirà presto. Poi c’è l’altra parte, quella che lo guarda, lo guarda amarmi e sa che sarebbe stato meglio di no, per lui. Speravo di no, in quest’ambito di consapevolezze. Speravo che restasse il silenzio. Speravo che non arrivassero parole di ricambio. Speravo che questo esistesse soltanto da una parte, che fosse unilaterale. Speravo di non averlo condannato al tradimento da parte di qualcuno che ama. Perché posso già vederlo quanto sarà peggio. Posso vederlo a rimuginare su questo singolo istante e pentirsi di quello che mi ha detto oggi, come di tutti gli altri prima dal momento in cui l’ha capito a quello in cui è uscito fuori dalla sua bocca per diventare più reale. Stringo le labbra una sull’altra, prendo un respiro dalle narici e lo prendo contro di lui, strusciando il volto sul suo con gli occhi che di nuovo si socchiudono e frenano qualsiasi spinta arrivi dal punto più basso di me. Trattengo invece il sorriso, lo lascio dilagare nel tono con cui sussurro su di lui, «Guarda un po’ chi fa il romantico ora.» Sa di ironia e non le permetto di essere amara. Mi impongo, invece, di trascinare via il dopo. Di lasciarlo a mio Calvario personale quando per me e lui non ci sarà più alcuna speranza di riconciliazione e magari, vorrà soltanto uccidermi. Oppure nemmeno quello. L’ho già visto arrabbiato, l’ho anche visto perdonarmi e mi è sembrata una di quelle cose irripetibili, come tante di lui. Non penso nemmeno di meritarmela un’altra chance. Tutto il mio amore inizia e finisce qui, e tutto il suo amore inizia e finisce qui, ed è bellissimo comunque. Stringo le dita tra i suoi capelli, anche quelle dell’altra mano che si è mossa dalla spalla alla nuca e poco più in alto. Mi stringo contro di lui. Vorrei chiedergli di non lasciarmi, solo per adesso, anche se dovesse essere una bugia. Ma ho la voce incastrata in quel punto più basso e la lascio lì, non la risveglio, immersa nei suoi crimini, perché li porterebbe in superficie e non c’è spazio per quelli adesso. Non è il momento di piangere, ma quello di godersi gli ultimi ansiti di una meraviglia destinata a decadere. Avrebbe il diritto di sapere anche questo, ma c’è sempre un limite che non posso valicare e questo, però, non credo che ci renda a metà, non rende me a metà, non rende noi a metà. Ci rende solo imprigionati nell’utopia di un sogno. Trascino il volto sul suo fino alle labbra, premendo con le mie e schiudendole per cercare di più di lui, di più e di più ancora. E conservarlo, come ho sempre fatto con tutto nella mia vita, soprattutto memorie dolci-amare come queste.


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    Mi viene da sorridere, e lo faccio. Con uno sbuffo contro le sue labbra. È un po’ di cose come questa che parlo, quando dico che è importante essere capaci di non lasciare che tutto quello che è pesante, se ne stia sempre lì a spingere. A premere. Di cose come questa, che hanno il suono di uno scherzo, uno di quelli che per me, ha solo il sentore di una volontà diversa. Che sia un tentativo maldestro, o uno ben fatto, conta poco. «Sta zitta» ha lo stesso suono, in un secondo che mi serve ad allontanarmi appena, scuotendo appena la testa. Un po’, credo che abbia un sentore quasi irreale. Lo hanno sempre, cose del genere. Sopratutto nel contrasto con tutto il resto. Ed è per questo che lo bilanciano, anche quando la merda è così tanta, che neanche sembra ci sia spazio per altro. Invece c’è. Un po’ come una pretesa, un po’ come una lotta, un po’ forse solo per necessità. Per avere degli spazi salvi, punti in cui non si può essere divorati del tutto. Per me, almeno, è così. Penso lo sia sempre stato. Un istinto che è arrivato quando è arrivato tutto il resto, e dovevo decidere come affrontarlo. Anche se è la cosa più difficile del mono, e guardando me e lei, è facile vederla esattamente così: difficile. Per tutta una serie di motivi, per tutta una serie di cose che sono successe prima. Per tutto quello, anche, che ci sta intorno. Il suo mondo, il mio. Eppure, ancora, credo che questo sia uno che invece se ne sta in mezzo. Uno spazio in cui va bene se non sto bene oggi, o se invece voglio fare una cosa e allora la faccio. Va bene se sono un’idiota nel modo che ho di esserlo, o se invece voglio prendermi la testa tra le mani, e restare fermo in un punto a sentire quanto grande sa diventare tutto. Mi pento di molte cose che ho fatto, di molte che non ho fatto, ma di questo no. Anche quando c’era un senso di colpa trapiantato con forza nella mia testa, e che si trascinava ancora ed ancora, senza mai essere abbastanza da mettere un freno reale, una qualche sorta di limite più concreto da non superare. Probabilmente, è solo che ad un certo punto, ho deciso che era troppo tutto quello che succedeva, troppo tutto quello che facevo, che avevo fatto, che dovevo fare, e avevo bisogno invece di uno spazio. Esattamente uno come questo. Ma anche questo non importa, delle volte, non ho davvero voglia di analizzare tutti i perché, e avere una situazione così certa, nella mia testa, da conoscerne ogni dettaglio. Cose come questa, invece, non voglio proprio che siano in quel modo lì, perché ho bisogno invece che siano il completo opposto, e che nascano e vivano solo nel suono dei respiri. Come quelli che premo contro le sue labbra, prima di spingerci di nuovo le mie. Senza pensare, senza chiedere, senza interrogarsi su tutte quelle cose che sono cresciute per tutta la mia vita contro le mie spalle, e che so di poter piegare, quando sono con lei. Senza dimenticarle, ma guardando oltre. «Credo che ora sia il momento di andare a letto» anche questa, è una cosa stupida. Penso ormai ci sia abituata, e penso che in fondo lo sappia che ha proprio quel sapore lì. Un tentativo, anche quando penso di poter dire che i miei, sono quasi tutti un po’ maldestri. Non importa neanche questo, in fondo posso dire che ho sempre sentito di poter essere più stupido con lei, più sincero, più me anche quando è un me che non mi piace, e che vorrei non esistesse.
     
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    S
    ono stupidamente contenta di essere riuscita a portarlo davvero lontano da quel momento, quello che sarebbe dovuto passare, contro cui l’ho visto tanto disarmato da prendere subito in considerazione una ritirata strategica. Ecco cos’era. Se gliela vendessi così forse sarebbe anche più disposto ad accettarla. Una sorta di “fare i romantici”, per non dire che abbiamo appena dichiarato un amore vietato e sbagliato. Lo sarebbe anche per me, se non avessi idee di rivalsa differenti. Lo sarebbe se fossi solo un Banditore che ha incontrato un Cacciatore e se n’è innamorata. Lo sarebbe se fossi un Banditore che non tradisce tutti per il suo tornaconto personale. Lo sarebbe se avessi una missione per un padre che non riconosco tale. Lo sarebbe già soltanto per la mia natura e la sua. Lo sarebbe perché io vivrò per sempre e lui no. Accetterei di vederlo deperire e morire, di vedere i suoi figli invecchiare e morire, di vedere tutta la sua discendenza appassire sotto la pioggia del tempo. Lo accetterei, se esistesse la possibilità. Annuisco. «Mh-mh,» mugugno a labbra serrate una sull’altra, quello superiore che rinchiude l’altro al di sotto. «Credo anche io.» Sfioro la sua nuca, la base del collo e lì si separano i palmi per scendere da un lato e dall’altro fino a poggiarsi aperti contro il petto, spingendolo piano all’indietro, quel tanto che basta a invitare un passo indietreggiante. E un altro, a cui rispondo con uno mio verso di lui, verso la porta da cui siamo usciti prima che è a pochi metri. Mi fulmina la brama di chiedergli di credere a tutto questo anche quando non sarà più credibile, e sarà tutto una bugia, anche ciò che non lo è stato. Stringo le dita sulla stoffa della sua canotta con un altro passo, ignorando l’ombra che mi sento scartavetrarmi il volto. Sarebbe strano, scoprirebbe troppe carte, dirglielo adesso. Ma vorrei farlo. Vorrei implorarlo di credere almeno a questo, perché in mezzo a tanti segreti non è mai stato falso quello che nel corso dei giorni, dei mesi, ho cominciato a sviluppare per lui. Come mi sono sentita, come mi ha fatto sentire. Come mi fa sentire adesso, stupidamente felice, in un paradosso intrinseco alla mia natura. Gli sorrido e basta, però.


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