Where Do You Think You’re Going?

Morgan/Edie | Harlem | Upper Manhattan | 1 Maggio | Contenuti sensibili

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    Lo seguo, sentendo prima il modo in cui ogni suo muscolo si contrae prima di un gesto che il gesto in sé. Come se fosse una sorta di sinfonia, qualcosa che risuona in basso, si preme ovunque, e mi fa solo tenere l’istinto di seguirla, per vedere dov’è che va. Dov’è che va tutto, dov’è che va lui. È l’amplificarsi di una sensazione che conosco, ma che si muove in un modo diverso. Come con l’acqua, ha una connotazione che sa di fisico contro le dita, anche quando non lo è. Mi fa sentire come se la stessi accogliendo davvero, la stessi stringendo davvero. Mi da una sensazione che si alza, si alza, si alza, come una realizzazione, come essere finalmente nel punto giusto. Ho la certezza fisica, assoluta, totale e completa che , lui lo capisce. Ho la certezza fisica, assoluta, totale e completa, che , io lo capisco. Perché la sento, e sono sicura che la senta anche lui. Siamo nello stesso mondo, ed è un mondo che non chiude, ma apre. Un mondo che espone, si espone. Mi fa sentire bene, sì lo capisco. Mi fa sentire bene di più, quando lo guardo, e lo guardo, e lo guardo. E penso più di tante altre volte, che è la cosa più bella che io abbia mai visto. Persona, essere vivente, qualsiasi sfumatura esista di una sola parola. Faccio salire le mani sulla parte alta delle braccia, sulle spalle. Tocco, tasto, ascolto il modo in cui i muscoli si muovono, e ascolto il modo in cui tutto ha il suo esistere reale, concreto, proprio qui, a portata di mano. Immenso, penso questo. In un modo che non mi schiaccia, come mi schiacciano di solito concezioni simili. Al contrario, mi prende per mano, e mi fa vedere quanto non ci sia niente di cui avere paura. E per un secondo, il primo, sento solo questo. Un’abbandono totale, che nasce e cresce in un contatto che ho vissuto mille volte, con lui, ma che adesso quelle mille volte le prende, e le spinge qui tutte insieme, una dopo l’altra, le supera, ci va sotto, e entra nel centro di tutto. Posso prendere tutto quello che è, sul palmo delle mani? Penso che quasi posso. Mi sento davvero come se così, con questo, stessimo toccando qualcosa insieme. Qualcosa che è fatto a metà di me e lui. E nel toccarlo, è come se potessimo sentirlo insieme, contemporaneamente, nello stesso modo. Sfumato anche quello fra me e lui. Riempie tutti gli spazi lasciati vuoti, appesi, asciutti negli angoli, e li colma di qualcosa che sembra fatto apposta, perfetto per essere lì. Come se fossi così tanto dentro, a fondo, da avere solo linee che si sfumano con le altre, tutte le sue. Mi fa aggrappare a lui, cercare un altro punto, con le dita, per prendere qualcosa come se fosse un sapore, una piccola, minuscola traccia mancante che si colma con ogni gesto. Quello delle dita alla base del collo, quelle che invece si premono dietro la nuca. In ogni sua consistenza, ogni suo punto, per averli tutti premuti, tutti radunati, tutti che si muovono in ogni centimetro di concezione per essere una totalità completa. Posso prendere tutto quello che è, sul palmo delle mani. È un pensiero liquido, resta per qualche secondo anche quando arriva aria, ma aria che trascina ancora il suo sapore, il suo odore, la sua concezione. Come se l’avesse conquistata, e anche nella distanza restasse lì, a continuare a scivolare, ad esulare dai suoi pori per muoversi ancora ed ancora. C’è ancora la sua pelle contro la mia, c’è ancora quella sensazione di contatto che affonda, e fa affondare tutto. Uno dentro l’altro. E ora, proprio adesso, lo posso capire un senza confini che ha una consistenza. Non è un’idea. È una certezza. Una contro cui annuisco, nello spazio della sua pelle, il suo volto. Una che porta una mano su, lungo il collo, alla base della mascella, appena oltre, fra i punti in cui c’è la ruvidità di peli contro cui mi soffermo. Un altro pezzo di lui. Un altro pezzo che sta qui, a rendere solo più grande, ovvio, sensibile quello che sta dicendo. Come se tutto, lo stesse scrivendo pezzo per pezzo contro le dita. E lo rendesse semplicemente quello che è. Anche quando si allontana, e cerco di tenere la testa dritta, anche se un po’ balla. Avanti ed indietro, con occhi che guardano forme disperse, ma che si disegnano lo stesso in un modo fermo contro gli occhi. «Non sono triste» scuoto la testa, in un modo che la fa molleggiare da un lato all’altro, nelle sue mani. Come se un po’, stesse galleggiando da qualche parte, ma anche così dentro tutto, da essere al centro di un punto enorme che sento come sento tutto il resto. «Sono felice che tutto questo sia succedendo adesso, sono felice di sentirti in qualsiasi modo» suona in un modo che adesso, non mi fa pensare sia difficile da capire. Quando sentire diventa una parola così specifica, così tattile, così concreta, così tutto, da darmi quel tipo di certezza che non lascia dubbi. Anche questo mi piace, quella concezione che rende le lettere fisiche, quella che ho sempre cercato ma che era impossibile, fino ad adesso. Anche le sue lettere lo sono, fisiche. Hanno sensazioni contro la pelle, le posso ascoltare così, una ad una, disegnare una sensazione dopo l’altra, aprire strade che sono sempre state chiuse. «Non voglio dire che mi rende felice che ti senti così a volte, no, voglio dire che sono felice ora. Sono felice che ti sento, capito?» faccio scivolare la mano di nuovo giù, verso il collo e più in basso, contro il petto. Anche se c’è della stoffa, e penso che vorrei non ci fosse adesso. Premere sulla sua pelle, e sentirla così vivida, da sentire tutto quello che racchiude. «Mi sembra come se stessimo toccando la stessa cosa, e come se stessimo vivendo nella stessa cosa, capisci? E questo è bello, e va bene, più che bene. E mi rende felice, e se non sei triste, io non sono triste. Ma intendo davvero, non per dire, intendo proprio sul serio. È tutto perfetto ora, e tu sei bellissimo» mi prendo una pausa, una che serve solo a sentire di nuovo la mia stessa lingua, e che perde la mano un po’ più a fondo nei suoi capelli. «E voglio dire davvero, nel senso che io ti amo, ma davvero, e davvero tanto, non lo so se capisci quanto, e mi piace farlo, e non mi rende triste quello che dici. Sono contenta che lo dici, perché te lo meriti che qualcuno lo ascolti, capisci?»
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    Lo so quanto, solo che a volte non ci credo. A volte me lo dimentico. A volte penso che non è vero. Perché sono le uniche spiegazioni che, in quei momenti, hanno senso per me. Reali. Vere. Non sono illusioni del cazzo di cui mi piace circondarmi per vivere un po’ meglio.
    Adesso però è così fisico che non può essere nient’altro che una certezza. Una che arriva dal passato e si allunga fino a un indefinito futuro.
    Nonostante tutto ho pensato che non l’avrei lasciata mai, mai, mai, mai. Ho pensato che lei avrebbe potuto farlo. Ci sono state parentesi spaventose dove mi è sembrato certo, che stesse per succedere, che sarebbe successo di lì a poco. Eppure ora mi sembra una stronzata. Insensato. Come i miei tentativi di distruggerci quando quella paura diventa una gabbia stretta sulla pelle, aderente ad ogni angolo del corpo, chiusa intorno al collo, e pur di scacciarla farei qualsiasi cosa.
    Sono tutte cose che so bene, anche se c’è silenzio di solito.
    Vorrei spiegarle molte più cose che in questo momento mi sembrano semplici da dire. Ma non voglio concentrare niente su di me, lo faccio già troppo.
    Preferisco che queste realtà vengano e vadano senza soffermarmici troppo e invece ascoltando il resto, ascoltare lei. La sua voce. Le sue mani su di me, trascinano scie che pulsano sulla pelle anche dove che sono scivolate via e sono già altrove. Sembra che arrivino ancora più sotto, dentro i muscoli, sotto, dentro gli organi, li stringano senza fare male e ci trovino uno spazio per riempire tutto quello che normalmente è vuoto. La sua voce è una guida, per i suoi tocchi, per me. E i suoi occhi sono così neri, invasi dalle pupille dilatate, che mi sembrano due finestre enormi sulla notte, una accogliente, calda.
    «Sì» annuisco e le lascio il volto, ma andando indietro, perdendo le dita tra i ricci. Credo di star sorridendo perché me lo sento addosso come una sensazione precisa. «Ti amo anche io», questa. La sensazione che la amo.
    Vorrei anche descriverle quanto la amo, ma è impossibile anche in questo stato.
    È impossibile sempre, descrivere quanto la amo.
    Ma, in fondo, non penso comunque di meritarmi che qualcuno mi ascolti. Non cambia mai la sensazione di essere nel giusto quando dico queste cose, che sia l’unica verità che è vera davvero, nemmeno adesso è diverso. Non penso di meritarmi niente.
    Non lo dico così, ma esce qualcosa di simile.
    «Ma lo so che a volte ti rendo triste, non adesso intendo in generale. Sono pazzo lo so, è per questo che lo faccio. Cioè devo esserlo per forza per cercare di rovinare le cose con te perché chi cazzo cercherebbe di rovinare una cosa così bella? Un pazzo.» Il sorriso diventa incerto, quasi intimidito dalle stesse parole.
    Poi ne esce una risata bassa, rinchiusa dietro le labbra, mugugnata. «Per fortuna quello che si dice in MD resta nell’MD.»

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    Per un secondo, mi perdo nel moto delle sue mani. Mi perdo a percepire quanto mi fanno sentire avvolta, come se avessero una forma che si espande, si espande, e arriva ovunque. Mi sembra davvero di essere finita dentro un posto fisico, uno che ha una consistenza, uno che ha una forma che si fa sentire contro la pelle, ed è fatto solo di questo. Prendo un respiro, muovendo solo un po’ la testa per assecondare quei suoi movimenti, con la punta delle sue parole che diventa musica sciolta nelle orecchie. E ha note basse, che galleggiano in mezzo a tutto, e si poggiano una alla volta in punti contro cui poter vibrare e trovare echi che le fanno diffondere una ad una. Lo guardo con le dita che si spostano sul suo volto, e con i polpastrelli disegnano ogni contorno, ogni osso; da quello sporgente dello zigomo, quello dritto della tempia, il suono ruvido dei peli delle sopracciglia, la linea del naso fino alla punta. Adesso, riesco a sentire ogni più piccola stilla di qualcosa che si muove, fra me e lui, e si scrive così. Si scrive in ogni modo possibile, ed è così denso, da essere solo reale. Liberatorio, in un modo che diventa viscerale, e trattiene tutto lì, dove si può solo sentire, e farlo così a fondo, da averne una certezza che supera tutto il resto. Senza arrancare, mi porta a stringere tutti quei punti che ho sempre sentito al di sotto, come fiumi nascosti dentro cui adesso scivolare lasciando che ci sia solo la corrente a trasportare ogni cosa. Mi riempie, mi riempie di lui. In un modo che mi tiene sempre premuta in una concezione che si modella per seguire le sue forme, le mie, e non far altro che illuminare ogni tratto e dire è questo. Sento addosso il senso di quanto sia davvero perfetto essere qui, adesso. Sento addosso il senso di quanto sia meraviglioso essere così, essere in due, essere con lui. Il senso di quanto sia tutto semplicemente quello che è, in un modo che non si spiega, ma che sento, e sento così tanto, da farmi quasi venire addosso la sensazione di una completezza che non arranca, non inciampa, ma si muove ed esiste ed è tutto quello che è di più importante possa esserci al mondo. Continuo a muovere la mano sul volto, trattenendo gli occhi lì, mentre l’altra si perde a giocare nel rivolo del colletto della maglietta, lasciando andare un respiro che sulle labbra, è un soffio che è solo tutto quello che si muove da me a lui, e lo sento arrivare, come tutto quello che si muove da lui a me, e lo sento arrivare. «È okay baby. Anche io ti rendo triste a volte, e ti faccio impazzire, e so anche quanto ci provi a far andare bene le cose, a farmi stare bene e ci riesci. Voglio davvero che tu lo sappia questo, che ci riesci dico. Perché è una cosa bella, bellissima quando ti impegni tanto per qualcosa, e ci arrivi» mi muovo, lo faccio per farmi più vicina, trascinando lentamente la mano in basso, lungo il collo, per fermarla nel punto molle fra le clavicole, con la testa che si gira per premersi contro il petto e strusciarsi lì, seguendo una strada ad occhi chiusi. «E lo sai che non sono brava in certe cose, però mi rendi davvero felice, e non rovini niente. E lo so che non te ne rendi conto, però è vero, e vorrei davvero che tu lo vedessi quante cose buone e belle fai per noi, per me. E lo sai quanto sono contenta anche solo del fatto che esisti, Morgan? Un sacco, ma davvero un sacco. A volte mi sembra come se tu mi sia mancato sempre, prima di conoscerti, ha senso?» mi allontano appena con la faccia, muovendola così da premere la fronte contro di lui, per poi alzarla e guardarlo, premere le mani al lato del suo volto in un modo che continua a muoverle, a sentire, tratto dopo tratto, ogni più piccola cosa.
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    È la manifestazione fisica del “nostro spazio”. Visivo. Concreto. C’è nero intorno a noi, e anche se so che non c’è è come se lo vedessi. Pulsante. Vivente. Avvolgente e non opprimente. Protettivo. Non è un nero che fa paura ma uno che conforta e dice tranquillo, non farò uscire niente da qui. Nessuna parola. Nessun pensiero. Nessuna realizzazione. Assorbe, difende, tiene al sicuro e non uccide niente, non tortura, non dilania, non strappa via ciò che al di là, appena di qualche passo, nulla di ciò può esistere come esiste qua.
    Non sento più lo scrosciare dell’acqua. Le macchine fuori, le ruote sull’asfalto, gli spifferi attraverso le finestre, tutto quello che volevo fare prima e che vorrò fare dopo.
    Solo lei.
    Lei che implode, esplode e si espande in tutto questo nostro spazio, enorme e piccolissimo allo stesso tempo.
    Capisco anche questo, questo e quello che dice. Capisco anche quello a cui non riesco a credere, riuscirci, fare cose belle, anche se le faccio so che non bastano mai. È una realtà. Perché dall’altra parte faccio cose terribili.
    Esagero, in ogni cosa che faccio. Esagero nelle grandi azioni, che siano brutte, che siano belle, un tentativo di riequilibrare almeno, di tornare in pari dopo che ho distrutto tutto e tento di aggiustarlo. Voglio dire, ho causato l’Apocalisse e l’ho sventata, più o meno, se non è il punto più alto di ciò che faccio quotidianamente non so proprio che cos’altro possa essere.
    Però mi piace ascoltarla mentre mi dice queste cose.
    Mi piace guardarla, perché la sua pelle si illumina di luce che viene da sotto, come una lampada da cui escono tutti quei raggi che prima le ho di guardare. Lo fa anche lei. Raggi che sono parole, parole che sono raggi. Anche questi vivi, pulsanti, reali, concreti.
    «Ha senso,» anche se è scontato voglio dirglielo, perché la penso come lei. È una cosa bella, bellissima, quando ti impegni tanto e alla fine ci riesci. E lei si impegna per questo, e voglio che sappia che ci è riuscita. «Tutto quello che dici ha senso, sempre.»
    Anche lei mi mancava prima di conoscerla.
    Per questo dico che ha senso.
    Piego la schiena verso di lei per raggiungere le sue labbra e premerci contro le mie, un attimo che non si allunga di troppo. Mentre con le mani torno indietro al suo volto, a destra a e a sinistra per tracciare movimenti leggeri sui suoi contorni.
    Apro la bocca per parlare ma cambio idea, la lascio andare per chinarmi e prenderla dalle gambe, sollevarla, lasciarla andare seduta sul bancone accanto al frigo. Una distanza calcolata che non le faccia sbattere la testa dietro, contro i mobili pensili. «Ecco ora va meglio.»
    Mi accosto al bordo, tra le sue gambe, tornando con le mani al suo volto, ma anche qui prendo uno spazio che mi serve per guardarla davvero. Uno spazio non troppo lungo, non troppo ristretto.
    «Tu sei l’unica mia occasione che ho voluto cogliere.» Non va del tutto bene come descrizione, ma mi accontento, è comunque più di quanto sia mai stato capace di dire. Domani forse me ne pentirò, ma non importa, sapevo che sarebbe successo.
    Ad un certo punto arriva il momento della confessione.
    «Non m’importa se era una cosa programmata per l’Apocalisse se era destino o altre stronzate come quelle. Anche se mi sono incazzato quando è venuto fuori, perché era importante per me che fosse stata una scelta.» So che intorno a noi c’è quel nero che è abbastanza forte da poter dire queste cose, adesso, e non sentirmi soverchiato dalle sensazioni che risalgono dal Calvario. Forse è l’unico momento in cui posso dirla, questa cosa.
    Cerco di parlare più lentamente, di non masticare le parole nella mascella stretta che le taglia e le fa correre sdrucciolando sulla lingua. «È stata l’unica vera scelta che ho fatto in tutta la mia vita, morire per te. Ognuno di quei trent’anni e quello che ho fatto laggiù e cosa ha tirato fuori da me. Davvero ne è valsa la pena, non volevo perdere la mia unica occasione.» Perché non so come è accaduto, come è successo, forse semplicemente ero pronto, quando l’ho vista l’ho saputo, senza definizioni ma con un sentore chiaro e preciso, che lei era la mia occasione.
    Dovevo prenderla o non ne avrei avuto altre.
    Allora ho fatto di tutto per non perderla.
    Di tutto davvero.
    Abbasso gli occhi, in un sospeso di silenzio che cerca di acchiappare il punto disperso. Ci rinuncio molto in fretta, li alzo di nuovo. «E mi sono perso nel discorso ma il punto era che anche se è stato un dio a farci conoscere per far finire il mondo, ho scelto ognuno dei giorni successivi insieme, dopo l’inferno e dopo averlo rinchiuso a fanculo.»
    Una pausa.
    Sento sfuggire all’esterno una verità pesante, ma che adesso non lo è così tanto. «Quando sono scappato, o ci ho provato, era solo perché avevo paura di stare bene.»
    Dopo questa, ho decisamente parlato troppo.
    Non me ne pento però corre e arriva altro per spezzare la serietà. Un punto che serve a me per respirare. «Ora prova a dirmi che c’è mai stato un altro uomo che ti ha fatto una dichiarazione d’amore così bella intendendo tutte queste cose letteralmente.»

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    È come avere pensieri materiali, che arrivano già cresciuti perché sono sempre stati qui, da una parte o l’altra, e adesso si stanno solo togliendo di dosso un velo pesante. Un velo che a guardarlo, ora, sembra qualcosa di stupido, ed è anche difficile capire come invece fino a qualche ora fa, sembrava essere una cosa così necessaria. Al contrario, adesso tutto quello che esiste, è l’impulso a sfilarsi ancora altro di dosso, a restare solo nuda e sincera contro tutto, per accoglierlo nel modo migliore. Sentirlo nel modo migliore. Senza nessuno strato che possa filtrarlo, farlo arrivare solo un po’, solo a metà, mai del tutto. Al contrario, voglio solo essere esattamente questo: un punto snudato e senza niente, nessuna barriera, a mettersi fra me e il mondo. Me e lui. E anche questo, ogni ha senso, ha un sapore che non fa che accrescere questa sensazione, e tutte le altre. Quella, sopra tutte, che mi fa davvero sentire come se ora, proprio adesso, ci fosse una comunicazione fra noi che va oltre tutto; comprende ogni cosa, va oltre le parole, oltre occhi annebbiati, per comprendere ogni senso, e ogni più piccola traccia, e renderlo chiaro, reale. Lo penso anche quando i pensieri fanno un salto contro le sue labbra, ed è ancora per un attimo come riprendere a mischiare, in un modo che non annichilisce. Non mi fa sentire piccola, mi fa sentire enorme. Mi va vedere lui immenso, gigantesco, un punto così stabile, un punto così fisso, da restare lì e non muoversi mai. Seguo il pensiero del mio corpo, quello che ancora cerca, quando una gamba si muove e poi anche l’altra, per cingerlo in un modo che anche se molle, resta lì a cercare la pelle fra la sensazione densa della cinta, e quella più leggera del tessuto della maglietta. Un punto che ha un valore importante adesso, quasi sacro, e ho bisogno di trovarlo, inspiegabilmente, ma anche in un modo così ovvio, che non chiede spiegazioni, non ne ha bisogno. Arrotolo un po’ la maglietta fra le dita, la assaggio mentre la scosto quanto basta a creare quella striscia, e mettere una pressione che va avanti come se fossero passi infiniti verso un punto che è raggiungibile, ma anche sempre più alto, in un modo che non è frustrante ma al contrario, è come se semplicemente desse sempre di più. Un po’ di più di lui, ancora ed ancora. Nessuno, no, nessuno mi ha mai fatto una dichiarazione così. Lo penso davvero, distintamente, con un suono che è quello di un respiro che cresce contro le labbra, leggero, alto, spinge in su la testa, le labbra, anche quando scuoto un po’ il capo in un diniego che è una conferma. «Mai, mai, mai nessuno» lo mastico un po’, con le labbra che a stento si aprono, e lasciano invece le parole a frusciare una dietro l’altra, ma con quel suono, quel respiro, ancora attaccato ad ognuna di esse. Penso a come quelle cose, quelle che ha detto, non pesino più adesso. E non lo faranno mai più, non in quel modo. Anche questa è una di quelle cose che mi fa sentire come se stessi continuando a spingere sempre più su, fino a toccarlo davvero il cielo con un dito. Ma è una cosa che nn m’interessa, quando posso toccare lui, e sentire il suo respiro, il suo calore, il suono della sua voce che continua ad essere come una carezza nel fondo dello sterno, e da lì muove ogni cosa. «Ma anche se ci fosse mai stato, non importerebbe perché non è che me ne fregherebbe come mi frega di quello che dici tu» porto un po’ indietro la testa, stringendo per un secondo le labbra, cercando solo un modo di modulare le parole, renderle più lente. Perché voglio davvero che le senta, una ad una. Prenderle e metterle lì, di fronte a lui, così che possa assaggiarle così come assaggio le sue, e le sento, e le percepisco come percepisco le sue mani e tutto il resto. «Sei il grande e grandioso amore della mia vita, baby, lo sai? E questo vuol dire che tutto quello che dici e che fai, per me è millemila e di più spanne sopra quello che dicono o fanno tutti gli altri, e io non voglio proprio nessun altro» prendo una delle sue mani, la sposto quanto basta ad avere il suo palmo contro il volto e strusciarlo lì, contro la sua pelle, lentamente e senza un senso logico che non sia semplicemente quello di quella stessa sensazione che continua, ancora ed ancora. Ci stringe in un punto che non sa di nient’altro, ed è un punto che mi piace. Un punto che mi fa sentire esattamente concentrata qui, completamente, dove dovrei essere. «Voglio davvero tenerti per sempre, e stare con te per sempre, e se anche oggi, o domani, mi dicessero che posso scegliere, io sceglierei te lo stesso, e lo so davvero che è così. E voglio continuare sempre a cercare di renderti felice, lo voglio davvero. Sto parlando troppo?»
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    Sono il meglio e il peggio, per lei.
    Penso questo.
    Forse il problema è che voglio anche esserlo, il punto più alto, il punto più estremo, nel bene e nel male. Normalmente mi concentrerei solo da un lato ma adesso so che anche quello più basso, nascosto, che respira nel buio, anche lui vuole essere il suo meglio. Un meglio che può essere solo il peggio.
    Ha un senso dicotomico molto reale nella mia anima.
    Ho l’energia nel Calvario che cresce dentro e un legame indissolubile con Aaos.
    Ironicamente rispecchia me, me al di là di tutta quella storia che improvvisamente, non mi sembra così tanto passata.
    Edie sbriciola questo pensiero tra le sue dita, inseguo i suoi tocchi e mi ci concentro così facilmente da cancellare una verità opprimente che era cresciuta in un secondo, invasiva e spaventosa.
    Mi conosco anche in questo comunque, so che effetto fanno certe cose per me quando ho questa droga nel corpo. So che la mia testa può implodere, so che può sentirsi seppellita, più rapida di quanto non accada normalmente. So che basta uno sguardo e tutto il mondo con la sua bellezza mi aggredisce e mi fa sentire un minuscolo granello disperso in miliardi di cose che non riesco a toccare.
    So che tutta quella bellezza più diventare deforme, tragica, corrotta.
    So che cosa nasce, dietro ai miei occhi, appena li chiudo. E ad un certo punto anche quando li tengo aperti e mi para davanti uno spettacolo grottesco che mi insegue, davanti, si getta dentro di me per azzannarmi in qualsiasi forma orribile possa inventare la mia fantasia.
    Non è così male, è solo che devo sforzarmi un po’ a seguire il flusso.
    Lasciarmi trasportare senza paura.
    Lo faccio adesso, stringendo le palpebre nel buio e seguendo quello che dice lei, la sua pelle, il suo volto contro la mia mano. Le ciglia che la solleticano, la punta del naso, le labbra con una trama diversa da quella della pelle. «No», esce un mormorio spirato. «Non è mai troppo, voglio sentire sempre tutto quello che pensi. E mi rendi molto felice ed è molto importante che tu lo sappia.»
    Mi lascio trasportare e come lo faccio, lei se ne va.
    Sento di nuovo l’acqua scorrere nel lavello.
    Apro gli occhi e il mondo mi assalta di nuovo con tutta la sua miriade di cose. Il legno del mobile, le gambe di Edie intorno ai miei fianchi, ci poggio la mano libera e salgo e scendo. Mi giro, mi guardo intorno costringendomi ad una calma che si frantuma contro il frigo accanto quando ci arrivo con gli occhi.
    «Però ci siamo di nuovo incartati e mi è appena venuto in mente che devi sentire questo.» Mi sporgo da un lato per aprire il freezer. L’aria fredda scorre sulla mano come se avesse una sua corporeità quando ce la infilo dentro per staccare un pezzo di ghiaccio incrostato sulle pareti. Allungo il palmo che lo contiene verso Edie, si scioglie nel calore della mia pelle, una goccia per volta, le sento tutte.

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    In qualche modo, è strano sentire una cosa del genere. Strano in un modo bello, che per un secondo, prende molti rintocchi che so essere esistiti nella mia testa, per tenerli a bada. Ho sempre avuto questa concezione, con me stessa, quella che mi ripeteva di quanto fosse stancante sentirmi parlare, e parlare di me, e parlare di quello che comprende me. E tutte quelle cose lì. Stancante, asfissiante. Anche se non so perché ho questo pensiero, è uno di quelli che cerco di tenere zitti nella mia testa, senza neanche chiedermi da dov’è che venga. Non lo faccio mai, perché ho sempre la sensazione che a farlo, ci finirei sommersa e non ne risalirei più. Ma adesso è diverso, lo è in quel modo che nel sentire come sento, mi riesce a dire che in questo piccolo, enorme spazio, è davvero così. Che va bene, e non è difficile crederlo quando esiste la sensazione preponderante che dice che tutto va bene. Che c’è davvero qualcosa di perfetto ovunque. Intorno a noi, ma anche in tutto il mondo. Un senso che esiste, anche se nascosto, ma è lì, anche quando ad occhi chiusi non c’è una porta spalancata a mostrarlo. Una comunione superiore, per quanto sia irraggiungibile. Non è difficile cambiare ritmo, e in un punto della mia testa, nasce la concezione che anche questo, in qualche modo, mi sembra qualcosa che appartenga a lui. Di prendere a due mani un pezzo mancante, di cui c’è stata una concezione, ma che adesso invece mi cresce intorno, fa parte di me, ci mette poco ad attecchire e farmi semplicemente scivolare da una cosa all’altra. Senza un balzo. Senza un salto che chiede fatica. Scivolare, appunto, dolcemente e come se fosse la cosa più normale del mondo, quella più giusta da fare. E lo è per forza quando tutti i sensi, tutto il mondo, si tendono da un punto all’altro in quelle che sono transizioni, ma anche un cambio che porta alla luce qualcosa di del tutto nuovo. Dalla sensazione della mano di Morgan premuta contro la faccia, quella della mia ancora incagliata nei lembi della sua maglietta, a quella di un gesto che come un guizzo, cattura l’attenzione e brilla, come una scia che va seguita e lo faccio. Una cometa che illumina punti come se fossero centri dell’attenzione. Penso anche, che tutto questo, è come essere parte di un cosmo che non conosce linee, non conosce angoli. Ha solo curve, spazi morbidi in cui anche il duro, il ruvido, hanno una consistenza così bella, da sembrare solo anche loro parte di quegli stessi moti aggraziati che sono lì solo per essere colti. Né più né meno. Incartati è una parola che ha un senso incredibilmente giusto, anche questo. Come se fosse una spinta, quella che nasce da lì, si conclude nel movimento. Il modo in cui la luce si riflette sulla porta del freezer quando lo apre, quello che tira fuori e diventa un punto illuminato nella testa. Ci allungo una mano, premendoci i polpastrelli per primi, come se dovessi sentirlo in modi diversi e lo sapessi per istinto, che è così che si deve fare. Sento le escrescenze gelide arrampicare brividi lungo il polso, le vene, i nervi, come frazioni che si muovono e lo fanno sinuose, in un modo che non sa di scarica, quanto di un fluido che circola placido nel sangue. Ci premo un po’ di più la mano contro, quando la sensazione cambia e quel freddo diventa diverso per l’umido, il bagnato, ed è completamente diverso, anche se non lo è, una conseguenza che preme contro la cute e la lascia estasiata. «È incredibile» annuisco nel dirlo, in un modo che mi lascia convinta che sia una sorta di realtà superiore, quanto è incredibile tutto. «Lo sai cosa voglio sentire? Il morbido, Morgan. Il morbido, io devo trovare il morbido» anche mentre continuo a tenere le dita a premere contro il pezzo di ghiaccio, e gli occhi tornano al suo volto. «Oddio, no baby, aspetta» lo dico premendo piano la mano contro il suo fianco. «La borsa, devo andare alla borsa» lo dico indicando il punto orientativo in cui l’ho lasciata, vicino al letto. Riesco solo a pensare a quello che c’è dentro, e che non so che sensazione da, ma voglio saperlo adesso.
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    Fluisce via sempre più rapidamente per lasciare il letto vuoto d’acqua e permettermi di girare verso un’altra strada. Una che stringe le dita intorno al pezzo di ghiaccio e lo discioglie più rapidamente dentro il calore della pelle. Fino a diventare acqua. Acqua che cola, scende lungo il polso, il braccio. Pulisco le mani sui jeans indietreggiando, lasciando lo spazio a Edie di scendere dal bancone e muoversi.
    La seguo con gli occhi, ma la mia attenzione è già altrove. «Cosa c’è nella borsa?» chiedo senza davvero ascoltare la risposta, distratto.
    Distratto da quello che voglio fare da non so quanto tempo e continuo a dimenticarmelo.
    La sento rovente contro il fianco, la 1911.
    Sollevo la canotta e la tiro via dalla fondina. La prima cosa che faccio, ancora prima di guardarla, è premere il pulsante di espulsione del caricatore che mi cade nell’altra mano posta sotto il calcio. Lo poggio sul tavolo.
    «È scarica tranquilla» dico, senza guardare Edie. Poi scarrello per assicurarmi che non ci sia niente in canna. So che non c’è, non uso mai il colpo in canna, ma vorrei evitare di spararci addosso per sbaglio. Per quanto la mia memoria muscolare sia impeccabile anche così, non mi fido abbastanza di me stesso.
    Ora, finalmente, la guardo.
    Lucida, brillante anche lei come la pelle di Edie, riflette una luce che viene dall’interno. Coperta di intarsi, il legno più liscio sul manico e ruvida in tutti i suoi disegni sulla canna. Me la rigiro tra le mani. Destra, sinistra.
    Tiro indietro la sedia del tavolino e mi ci lascio cadere sopra, poggiando la pistola sul tavolo. A contrasto con il nero sembra quasi surreale, lontana dalla realtà. «Cazzo, un capolavoro.» Annuisco a me stesso.
    Armo il cane, è già in sicura. Inizio a schiacciare il bottone per ruotare la chiave e lascio andare piano la molla che risale dal bottone. Gli ingranaggi che si muovono tra le mani sono la cosa più bella dell’universo, questo, mi fa sentire davvero di fluttuare nel cosmo come ha detto prima Edie. Forse. Credo l’abbia detto. La precisione con cui si muovono solo come devono, senza errori, e mani che li accompagnano, senza errori, tutto perfetto, nitido, chiaro, sicuro. Tolgo la sicura per arretrare il carrello e schiaccio e sfilo la leva. Rimuovo la canna, poggio il resto accanto, la molla, il bash fatto uscire. Tutti sistemati uno accanto all’altro. Ogni pezzo in ordine.
    E ho finito troppo in fretta.

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    Anche scendere è come scivolare, probabilmente perché è quello che faccio. Con le mani che per qualche secondo, si fermano sul ripiano e lo sentono contro la dita, ci strusciano perdendo il ricordo di quale fosse lo scopo del movimento. Avanti ed indietro, finché non torna nella testa e allora spingono per farmi, appunto, scivolare giù, fino a sentire di nuovo il freddo del pavimento contro i piedi. Mi muovo direttamente verso quel punto, anche se non sono del tutto sicura di dove abbia lasciato cadere la borsa, ma la cerco con gli occhi fino a ritrovarla in una massa scura contro il pavimento. «Vestiti» lo cantileno, come una canzone per bambini che mi lascia forse anche troppo emozionata, ma non m’importa di esserlo, o di nasconderlo. Mi lascio solo cadere a terra, sentendo di nuovo il pavimento che lambisce la pelle e mi lascia quella stessa sensazione che a riscoprirla, adesso, è come se fosse nuova, ancora diversa, ancora di più. Infilo le mani nella borsa, fra consistenze diverse che arrivano tutte insieme nella pelle e mi stringono gli occhi, con la necessità di sentirle una ad una in un mischiarsi che si fa confuso, ma anche talmente nitido in ogni suo punto, da creare un controsenso reale, un paradosso che esiste sui fili dell’epidermide. La rivolto, tirando fuori ogni cosa per assaporarla qualche secondo contro la pelle, prima di arrivare a quello che la testa me l’ha accesa in un pensiero univo, univoco, che ha spinto tutto fino a qui. Tiro fuori la felpa, lasciandomi cadere indietro con la schiena, di nuovo a terra, le mani che si perdono nei peli del tessuto, e lo spingono contro gli stralci di pelle lasciati liberi dal vestito. Mi ci attorciglio contro, la attorciglio contro di me, in un muoversi che anche se lento, non si arresta, e mi lascia ad occhi chiusi ad affondare letteralmente, e completamente, in una sensazione. Penso solo quanto sia bello, quanto sia meraviglioso. Genuinamente. In un modo che quasi, esplode, e lo fa finché non ho la schiena che torna dritta, perpendicolare al pavimento anche quando mi alzo un po’ premendo sulle gambe, abbastanza da alzare i lembi del vestito e poterlo sfilare in un gesto che per quanto rapido, si sofferma su ogni più piccola sensazione che anche una cosa del genere sa darmi. Premo ancora la felpa contro la pelle, qualche istante appena prima di farla passare dalla testa, per infilarla e stringermi da sola in un’abbraccio che me la porta contro, in uno strusciare continuo. «No, tu non hai idea» lo soffio appena, un mormorio che scivola dalle labbra, mi fa trattenere il fiato un secondo, prima di girarmi verso la stanza, cercando la figura di Morgan finché non la trovo. Anche se aspetto qualche altro secondo prima di muovermi, senza alzarmi, verso di lui. Un po’ gattonando, un po’ quasi strisciando, senza curarmi troppo di niente che non sia il sentire di ogni gesto, di come taglia l’aria e ci passa attraverso, di come si preme e si poggia poco alla volta e tutto insieme. Mi alzo solo quando sono vicina alla sedia, alla sua gamba su cui premo una mano per tirarmi su, guardarlo con un sorriso per un secondo intimandogli per un secondo di chiudere gli occhi. «Baby fidati, ne vale la pena» anche questo è solo un mugugno incastrato fra le labbra, la mascella che quasi mi sembra non si apra davvero abbastanza per permettermi di formulare parole. Ma sono sempre convinta che possa capire ogni cosa, quasi magicamente. Aspetto che gli occhi li chiuda, prima di nascondere la mano oltre l’orlo della manica, così da lasciare solo il tessuto presente quando alla fine, la allungo piano contro il suo zigomo, discendendo con lentezza sull’incavo della guancia, muovendomi poi casualmente da lì al naso. «Non è la cosa più bella che sia mai esistita al mondo?» penso di sì. Penso che lo sia. Il modo in cui è soffice, anche da dentro, e in cui solletica la pelle. Lo è, in un modo che supera ogni possibile concezione.
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    Mi chiedo se è davvero il caso di accontentarmi e di rimontarla.
    Con tutti quegli ingranaggi che tornano ai loro posti e funzionano, semplicemente funzionano, rispondono senza complicazioni. Eseguono un comando e basta.
    Vorrei farlo, ma forse non è il caso di avere una pistola montata e funzionante su un tavolo.
    Un tocco sulla gamba mi fa voltare verso Edie che non so quando si è avvicinata. Ma le sorrido, anche se non c’è niente di diretto a cui rispondere con un sorriso mi viene automatico. Chiudo gli occhi come mi dice, non ci penso, lo faccio e basta anche questo.
    Non so cosa sia, ma è bellissimo.
    Qualcosa di pieno, duro da qualche parte ma che si muove vellutato sulla mia faccia. Un tessuto composto di piccole cose morbide che accarezzano la pelle. «Tʲas’dok-fspoʐhu» lo mastico tra i denti stretti. Ci muovo contro la faccia. Mi giro meglio sulla sedia, alzando le mani alla cieca per trovare qualsiasi cosa ci sia dall’altra parte del nero e ne trovo altro da stringere tra le dita, premuto sotto le mani per arrivare alla forma su cui è modellato, una che potrei riconoscere a prescindere anche se non sapessi che è Edie. «’Aijulk’smostaɥol-tkudʲnʲe.»
    Apro gli occhi, mi allontano per mettere lei a fuoco. Le mani scendono scoprendo il confine tra la felpa e la pelle delle sue gambe.
    Scendono ancora e mi piego un poco per seguirle fino a sopra le ginocchia. Risalgono sotto la felpa fino a trovare un altro cambio di tessuto ai fianchi. Alzo la testa per guardarla, «Ma ti sei cambiata» e io non ho visto.
    Questo è triste.
    Poi però ripenso al fatto che si è cambiata.
    La mia mente vira in tutt’altra direzione, un testacoda molto rapido.
    Mi lascio scivolare giù dalla sedia, con le ginocchia a terra, come se mi stessi sciogliendo sul pavimento. Senza lasciare lei neanche per un secondo, ma continuando a salire e scendere, so che è impossibile ma mi sembra di poter scoprire parti nuove ogni volta che lo faccio.
    Raggiungo quei percorsi già battuti mille volte con il volto, le labbra, respiri lenti come lo è il moto in cui mi muovo, controllato anche se vorrei arrivare a tutto subito. Verso l’alto davanti, deviando sul lato interno per arrivare a premere le labbra sulla stoffa, mentre dietro i palmi la superano, ci si infilano sotto e stringono su carne più morbida.

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    Mi sorprende sempre il modo in cui la sua voce riesce a cambiare senza farlo. Cambia il suono, il modo musicale che ha di uscire, scivolare fuori, e lasciare punti sospesi che anche se non capisco, hanno qualcosa che guida ogni pensiero e lo lasciano ad attorcigliarcisi contro. Come piante rampicanti che corrono sopra i muri dei palazzi, li avvolgono. L’ho avuta spesso, la sensazione di essere letteralmente avvolta dalla sua voce, come se avesse un potere che riesce a far cedere tutto, ogni cosa, sotto il suo rintocco. Adesso è così, ma di più, come se potesse portarmi da qualche altra parte, qualcuna che è fatta solo di questo, e di quel suono che ho imparato a conoscere, una cadenza che sospinge tutto in un punto più alto. Mi fa sorridere, mi fa premere dentro il petto qualcosa che come un tamburo, vorrebbe solo seguire quello stesso ritmo e ascoltarlo ancora ed ancora, sentendolo nel modo più puro che esiste e si allontana dal senso intrinseco di ogni suono. Una sensazione scevra di tutto. E il mondo cambia di nuovo colore, si sposta appena più in là, in uno spazio che si circoscrive di nuovo in una stretta che seguo abbassando appena la testa, nell’annuire appena a quello che dice quando sono in grado di capirlo. Una mano lo segue, arriva in un punto casuale sopra il suo orecchio, fra ciocche di cui credo non sarei mai capace di stancarmi. Mi fanno pensare al suo odore, e quasi lo sento ballare sulla punta della lingua, in un modo che fa diventare tutto nebuloso, ma anche nitido nei punti che si accendono uno dopo l’altro, lì dove esiste lui. Anche questo è ascoltare. Farlo in un altro modo ancora, uno che è un flusso, un moto che ha un calore intrinseco in ogni punto. Muovo entrambe le mani perché si perdano fra i capelli, in gesti che vanno e basta, senza domande, e un modo di vibrare che dentro, inizia a percuotersi lentamente. «Mi piace il suono che fa la tua voce» è un pensiero che arriva senza un collegamento apparente, ma che si muove invece avanti ed indietro a riprendere pezzi sparsi che si agitano tutto intorno, e non sentono la necessità di avere un senso che vede i secondi avanzare uno dietro l’altro. Si mischiano, invece, insieme a tutto il resto, in una matassa che si fa densa, e ha solo il suo senso. «In Idarian dico» lo mastico fra le labbra, poco più di un fruscio, con un respiro che va in un modo diverso e posso sentirlo, fisicamente, fuoriuscire tiepido dal petto. Allungo le mani, chinandomi per riuscirci, scivolare oltre la nuca, tenderle fino a trovare la linea della canottiera contro le dita. Penso al modo in cui si muovono le sue scapole, al modo in cui sono ricurve, piegate nel premere un gesto delle braccia. Al modo in cui le ossa sporgono in un punto invece che l’altro, e lasciano spazi più morbidi fra le giunture. Alla sua pelle, alla mia, fuse in più punti saldati uno contro l’altro, come se fossero consistenze quasi liquide, ma che hanno ancora quel tipo di densità che permette di sentirle in modi diversi, a seconda di come si contraggono una contro l’altra. Al respiro caldo che lascia tracce contro i pori, alla sensazione appena umida delle labbra. Il concetto della sua pelle, diventa come un bisogno che senza spiegazioni, si arrampica semplicemente nei vertici della mia mente, e resta lì, supremo, a far fremere le mani anche quando torno più dritta, piegando solo un po’ la testa di lato per poggiarmela contro la spalla. «Morgan» me lo lascio contro le labbra, come se anche questo avesse una sensazione tutta sua che rintocca con il resto. «Voglio sentirti ovunque»
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    Lo prendo come il permesso a qualcosa che ho chiesto in silenzio.
    Qualcosa che mi fa alzare e nel mentre, spostare le mani più in basso dietro le sue gambe per sollevarla con me. Me la stringo contro con un braccio intorno alla schiena, l’altro la regge in passi che vanno a tentoni sul pavimento.
    Do un’occhiata veloce per trovare il letto. Lo raggiungo nella camminata incerta, ondeggiante in alcuni punti, distratta. Distratto da lei, che raggiungo col volto. Distratto dalle pressioni di labbra, più profonde, più in basso.
    Sussurro tra una pausa e l’altra, spezzando la frase su di lei un paio di volte. «sj’Drukì’smokt’Ṣhoxi-rechoōi’a’dhaulk.» Ed è tanto, nel dualismo volubile che è il rapporto con il mio nome. Mi piace quando lo pronuncia lei. Mi piace quando lei lo dice. Mi piace sulla sua lingua.
    Non importa che non capisca.
    Le parole sono sempre state secondarie.
    Ed è stato questo il punto, perché per me non lo sono state mai. Anzi, sono state difficili, insopportabili, barriere, isolamento. Ma non insieme a lei, persino quando hanno minacciato di distruggerci davvero.
    Alla fine però, siamo qui.
    Scontro con il bordo del letto e le gambe, mi ci piego sopra per poggiare lei più delicatamente che posso.
    Con il braccio sotto di lei l’afferro per spostarla più in alto sul materasso, lo sfilo piegandolo accanto al suo volto tenendomi in equilibrio lì. L’altro le corre sulla gamba, oltre il fianco, in alto trascinandosi dietro parte del tessuto su cui non mi soffermo adesso.
    Le dita tra i capelli della mano vicina, ci giocano casualmente, stringendoli, sfiorandoli. Le sue labbra premute contro le mie. La pelle sotto il palmo, le ossa sotto la sua, una vertebra alla volta le potrei contare. Tutti i suoi movimenti, uno dopo l’altro, piccoli, minuscoli, riverberano come onde sonore. I suoi respiri, e come il petto li segna, rintoccandoli uno dopo l’altro, su di me, sotto di me.
    Ogni cosa si prende un pezzo di me, completo e suddiviso al tempo stesso per poterlo vivere contemporaneamente, in un modo così totale da, di nuovo, farmi dimenticare ciò che c’è intorno a noi. Anche me stesso.
    Soprattutto me stesso.

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    Anche questo è un suono che va giù, a fondo, in un posto che lo amplifica e lo accorda insieme a tutto il resto. Alla sensazione delle mani premute in un punto e l’altro, le sue, quella del muoversi e premere di labbra che scavano tracce sulla pelle e lì lasciano segni che per quanto possano cambiare, di tocco in tocco, restano sempre gli stessi. Il mondo si scioglie e ricompone in questo, questo e basta. Nel modo in cui le mani si muovono, le mie, e cercano lembi di pelle che parlino di lui, all’attaccatura del collo, la strada lungo le spalle, scivolando sotto la linea stretta del tessuto che le stringe. Non sento nient’altro, mi sembra in realtà che non ci sia nient’altro che vada sentito, ascoltato, adesso. Perde di senso, come un’onda sfocata che non ha pretese di colori né niente, ma solo di essere la delimitazione che invece, disegna la presenza costante di quello che è fatto di pelle e respiri. E di tutto quello che c’è sotto. Sento in ogni secondo, crescere il senso enorme di quanto lo amo, in un modo che si affolla sulle dita anche quando restano lente, senza fretta, anche quando premono contro di lui, lo cercano come se potessero trovare sempre altro, sempre di più, e lo fanno. Mi sento così tanto me stessa, ma allo stesso tempo, mi sento così immersa in lui, da sentire tutto con un senso che ha due tratti, ma che sono anche lo stesso. Non mi perdo in quello che di morbido arriva dietro la schiena, ma invece su tutti i punti morbidi che sono i suoi. Insieme a quelli più duri, ogni spigolo ed angolo delle sue ossa, la densità calda della sua esistenza, il fruscio dei suoi respiri e le scie di ogni pensiero che si alzano per convogliare lì, in tutti quei punti che portano sulla lingua solo il suo sapore, e nient’altro. Adesso, ho davvero la sensazione che il mondo inizi e finisca qui, senza nessun altra estensione che si allunga appena più in là, priva di senso, quando ne esiste uno enorme a premersi contro ogni senso per aprirlo e riempirlo ancora ed ancora. Una mano, si muove lungo il fianco, in basso, fino alla linea della canotta che diventa un confine da superare per sentire tutto quello che esiste sotto, ed è fatto di una necessità concreta che si materializza contro i polpastrelli; quelli che si arrampicano uno ad uno su di lui, lentamente, come se ci fosse così tanto in ogni più piccolo tratto, da richiedere tutto il tempo del mondo per essere ascoltato tutto, dall’inizio alla fine. L’altra si perde sullo scalino della clavicola, su e giù, prima di andare oltre, lungo la schiena, scendendo per il pettorale, il costato, prima di muoversi lungo la spina dorsale come se potessi affondare in ogni avvallamento fra le vertebre e perdermi lì, senza nessuna paura. Non ne so avere nessuna, adesso. C’è qualcosa di diverso, invece, un senso che nell’aprire tutto, ogni pezzo di me, non fa altro che spingere in quel modo in cui forse ho sempre fatto, ma che ora è concreto. Quello che mette tutto fra le sue mani, senza nessuna eccezione. Supero anche con questa la linea della canotta solo per risalire di nuovo, trovare altra pelle contro cui premere il palmo, muovendolo alla cieca per trovare tutti i punti che ancora non sono qui, a contatto con me. Tutti, nessuno escluso. Ed è la stessa cosa che cerco quando la gamba si muove, lo fa piegandosi per trovare lo spazio fra la cinta e il tessuto rialzato della maglietta, per premere lì allo stesso modo, senza niente se non il bisogno di farlo. E qualcosa mi sembra che esploda, da qualche parte, dentro, e apra argini che si spalancano e lasciano risalire tutto, ogni cosa, solo per perderlo dentro quella stessa miscela che lascia bordi sempre meno definiti. Fra me e lui.
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    Lascio il costato per premere la mano sulla gamba e premermela di più contro, carezze che scendono e salgono. Il peso del corpo pende da un lato per due strattoni disordinati con cui spingo le scarpe dal tallone e le sfilo, prima una e poi l’altra. I tonfi offuscati che fanno cadendo a terra mi arrivano lontani.
    Tutte informazioni poco importanti.
    Torno dritto inginocchiandomi sul materasso. Tiro via la canottiera afferrandola da un punto centrale dietro la schiena e già sto tornando su di lei per prendere i lembi inferiori della felpa e sollevarla, più lentamente, sfilandogliela dall’alto.
    Un secondo per guardarla così.
    Dall’alto.
    Un secondo che è abbastanza perché adesso anche i millesimi possono diventare infiniti secoli.
    Ed è bello, con semplicità, perché non ho nessun pensiero a inseguirmi nel cervello che parli di me. Nessuno. Qualche vibrazione lontana che posso lasciare inascoltata, ma a parte questo niente.
    Nessuna noiosa moina sul volermi dimenticare di me stesso, perché l’ho già fatto.
    Mi sento un niente in confronto a tutto il resto. Lei, i suoi enormi occhi scuri, le linee che la disegnano, ogni pezzo del suo corpo che amo, amo e basta, e poi amo sentire, toccare, ascoltare addosso al mio. Mi sembra quasi un crimine adesso pensare che di solito voglio, ho necessità, ho bisogno che sia solo mia. Sono disperato per la certezza di sapere, vedere, leggere intorno a noi che sia solo mia. Un crimine egoista e disgustoso.
    È troppo bella per dover privare il mondo di lei.
    Ed è qui che quella vibrazione lontana lamenta una contorta sindrome dell’impostore.
    Ma non la ascolto.
    Voglio solo sapere di lei, non di me.
    Voglio che sia tutto perfetto per lei.
    Adesso, sempre.
    Mi abbasso di nuovo e creo uno spazio sopra il suo volto, abbastanza largo da poter mettere a fuoco i suoi occhi per quanto reso impossibile dalla visuale vibrante, tremolante, che mi restituisce scatti ovattati di realtà. Voglio guardarla negli occhi e guardare i suoi occhi soprattutto, capire se c’è qualcosa di sepolto e non detto, capire anche dietro una risposta verbalizzata.
    «Sei sicura di volerlo?» Sposto il braccio destro per poter poggiare la mano sulla sua guancia, segnare un percorso sullo zigomo con il pollice ma concentrandomi comunque solo lì. Negli occhi. «Sto rovinando il momento lo so ma ho bisogno di sapere che sei sicura al 100%.»
    Un punto, nella mia mente, si contrae.
    Sembra stupido quello che ho detto ma è importante. Io devo esserne certo e lei ugualmente, perché quando le cose vengono confuse e ovattate da un filtro artificiale come questo, tutto può diventare brutto in un secondo.
    E abbiamo già una cosa altrettanto terribile alle nostre spalle. Davanti, certe volte; in ogni direzione, altre. Ovunque quando pesa di più e diventa una cappa pesante che mi sento addosso, costringere i muscoli e bloccarli nella colpa.
    Non voglio che ci sia altro.
    Nemmeno che ci si avvicini da lontano.

    Say you're there when I feel helpless. If that's true, why don't you help me? It's my fault, I know I'm selfish. Stand alone, my soul is jealous. It wants love, but I reject it. Trade my joy for my protection.

     
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    Lo seguo quando si muove, allungando le braccia quel tanto che basta a non perdere un contatto che resta costante, immobile contro tutto. Una vibrazione che non si estingue, ma si prolunga ancora ed ancora. Lo stesso premere di mani che torna più presente quando si avvicina, ma fa sentire come onde che si allungano su una spiaggia, senza mai lasciarla davvero e aspettando solo quella spinta più forte che permetterà loro di andare più in là ancora più oltre. Prendere ogni singolo granello nella spuma. Le scosto solo per un attimo che nel buio di qualche secondo mentre la stoffa sale e arriva alla testa, acuisce tutto il resto; ogi fruscio che diventa la sensazione di un brivido che corre, si arrampica lungo la pelle lì dove c’è aria e appena più in là, nei bordi, la sento scaldarsi per la sua presenza. Non so se sono io ad essermi allungata oltre i miei confini, se è lui ad essersi spinto oltre, ma lo sento anche lì, nei punti di distanza che parlando ancora di lui. Irrimediabilmente, totalmente e completamente. Anche i suoi occhi sono dita, posso sentirli contro ogni punto, millimetro, una presenza che nel poggiarsi, lascia un respiro sulle labbra, e mi sembra di esisterci dentro. Che non ci sia altro al mondo, che i suoi occhi. Torno con le mani su di lui solo dopo, quando c’è di nuovo un movimento, quando c’è un’altra vicinanza ancora che fa ricominciare tutto, e allo stesso tempo lo manda avanti. Che stringe, sempre di più, ogni concezione in un punto che esiste a metà fra me e lui. Prego, come se avesse palpiti tutti suoi, che si rialzano uno dopo l’altro in ogni secondo che aumenta la concezione persistente della sua esistenza. Lo guardo qualche istante, prima che ci sia un moto piccolo, minuscolo, ma anche enorme che mi spinge con il volto appena più vicino. Disegno i suoi confini con le labbra, poco alla volta, dallo zigomo alla mascella, il contorno della sua bocca. Li trascino da qualche parte, mi ci spingo dentro, in una definizione indefinita che lascia i respiri a tirarsi su uno dietro l’altro, strabordanti di tutto. Non c’è cosa che io voglia di più, adesso. È un pensiero cosciente, è fatto di così tante cose da essere solo una presenza totale che avvolge, ha intenzioni, ha consapevolezze, ha certezze impresse ovunque come punti saldi che si accendono uno dopo l’altro, e restano sospesi in ogni ricerca di dita che continua a muoversi contro di lui. Voglio vivere lui, così. In un modo che me lo fa sentire fin dentro le ossa e oltre, uno che mi da il peso, e la forma esatta, di ogni più piccola cosa, come se fosse messo sotto una lente che è fatta solo di quello che si può recepire, e si espande. Lascio un contatto di labbra premute contro le sue, prima di creare di nuovo uno spazio che asciugo inspirando ogni centimetro del suo odore per trascinarlo con me, e non perderne neanche una più piccola sfumatura. «Molto, molto sicura» respiro nei suoi occhi contro i miei, con una mano che si muove lenta contro la barba, in circonferenze che si allungano dal mento al lato. «Voglio questo, voglio te, più di qualsiasi altra cosa al mondo Morgan, sempre» anche questo scivola, lo fa carico di quella che può essere solo una realtà che esiste, e si concentra nello spazio, tutto, per rimbombare come sottofondo di ogni respiro. Muovo un braccio, lo faccio per renderlo un perno su cui premere quando nel premere le labbra contro le sue, ancora, lo spingo un po’, assaporando ogni sospiro, per farlo finire a premere la schiena contro il materasso e poterlo circondare con le gambe, una da un lato e una dall’altro. Le premo un po’ di più lì dove sento la sua pelle contro la mia, mentre le mani si muovono ai lati del volto, lungo il collo, la linea delle spalle, giù e al centro, di nuovo, fino ad essere una linea lungo lo stomaco. Le lascio risalire nel moto che mi porta a chinarmi verso di lui, combaciare contro di lui quando si allungano oltre la sua testa e si piegano perché le mani possano essere fra i suoi capelli. «Tu?» è un respiro che si muove fra le labbra, accennato nel contatto che trascina il mio volto contro il suo.
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