Where Do You Think You’re Going?

Morgan/Edie | Harlem | Upper Manhattan | 1 Maggio | Contenuti sensibili

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    Mi sento un po’ stupido adesso.
    Avevo dato per scontato molte cose che invece, non lo erano per niente. Come sentire rimandi a vecchi punti incrostati di ruggine premere qua e la, capace comunque di non farmene ammalare ma cosciente della loro esistenza.
    Eppure un’immagine per un secondo si sovrappone.
    Meno di un secondo.
    Meno di un millisecondo.
    Un flash infinitesimale che si suicida in sé stesso.
    Arrivano e se ne vanno, gli strascichi di quella cosa strana, di una decisione, di un mettere tutto via e non tornarci mai più. A quel me che era connotato da notti come queste anche troppo spesso, rispetto a quanto potessi e a quanto mi fosse permesso.
    Non avrei fatto tutto questo con un’altra persona anche per questo.
    Nessun altro sarebbe stato capace di farla funzionare così.
    Di far tornare un residuo solo per prenderlo e tirarlo via.
    Sembra stupido, mi ci sento anche, ma una domanda come questa, una sola sillaba, può mettere a tacere un mondo intero di sensazioni. Sensazioni che hanno rovinato una cosa che non importa quanto fosse sbagliata e quanto, magari proprio per questo, mi facesse stare bene. Era comunque una cosa che mi faceva stare bene.
    Alla fine, mi sono detto, avrei dovuto smettere comunque.
    E non ho smesso, ho solo sostituito.
    Ed è tutto rimasto lì.
    Stupido.
    Debole.
    Vergognoso.
    Imbarazzante.
    Non me ne frega un cazzo adesso. Decido che nessuna di queste parole ha un significato, sono solo lettere ammucchiate una accanto all’altra, legate da un filo ingarbugliato che non porta da nessuna parte.
    Quello che ha significato invece, è lei.
    Lei e il fatto che mi voglia.
    Lei e le sue mani.
    Lei e i suoi capelli che scivolano e chiudono le tende intorno a noi.
    Lei e il viso che non vedo così vicino al mio.
    Lei e la sua pelle su pelle.
    Il suo calore, il ritmo del sangue nelle sue vene che è assurdo, ma giuro di sentire come battiti nelle mie orecchie.
    Risalgo sulle sue gambe, i fianchi dove le dita stringono e si incastrano per un attimo di più, la schiena, su tra i capelli diventano due prese solide che non tirano ma premono solo un po’. Contro di me, per incastrare un doppio movimento nel suo, strusciando pelle contro pelle, labbra su labbra.
    Annuisco in più cenni ravvicinati e rapidi, come se questa risposta dovesse esplodere in qualcosa, trattenuta per troppo tempo. Ma alla fine, quando la pronuncia, è solo un sussurro su di lei. «Sì.»

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    Annuisco contro il suo viso, ancora intrecciata a tutto quello che è. In un modo che mi sembra vada a stringersi sempre di più, anche se non mi sembra la parola giusta. Stringere, è qualcosa che quando diventa troppo, può far male, adesso invece non lo fa per niente. Non c’è spazio per cose del genere, non c’è spazio per nulla che non sia solo essenza che vive e viaggia su binari che sono presenti, e lo sono solo per noi. Come se il mondo non esistesse, e avesse deciso di non farlo per un po’. Spazzato via da un solo gesto, una mano contro una mano, eclissato per fare spazio invece a tutto questo; questo che è così tanto, da aver bisogno di ogni centimetro disponibile, e anche di più. Lo penso spesso, qualcosa di simile, ma adesso è tutto diverso. Tutto di più, tutto più a fondo, leggero anche quando così in profondità, ci sono metri e metri di terra a ricoprire tutte quelle cose che di solito, restano nascoste. Anche quando fremono per venire fuori, e lo fanno, ma non posso toccarle. Adesso invece sì. Anche se non saprei spiegarlo, ma per una volta, non mi sembra ci sia bisogno di spiegare niente, ancora meno del solito. C’è solo un , che mi fa lasciare un respiro contro la sua pelle, mi fa scivolare di nuovo in basso le mani, a ritrovare i contorni del suo volto, gli avvallamenti sotto gli zigomi in cui annegare i pollici, per seguirli e segnarli come strade che portano nell’unico posto in cui voglio essere, ora è sempre. Che è ovunque, con lui. In qualsiasi luogo. Anche questo, alla fine, è stato seguirlo e fidarmi di dov’è che mi avrebbe portata, ed è solo la conferma di qualcosa che neanche mi serviva, non me ne servono mai davvero con lui. Lo seguirei ovunque, davvero. Lo farei in ogni istante, in ogni cosa, se non fosse che ci sono sempre altre cose a cui pensare, c’è lui a cui pensare. Ma adesso, pensare a lui è questo. Un crescere di tutto, un premere e sentire quanto preme, un incontrarsi al di là del mondo, e riscriverlo secondo le nostre leggi. Abbiamo il cosmo sotto i piedi, sopra la testa, tutto intorno. E si muove, cambia, si manifesta in ogni nostro gesto, non ha niente di nient’altro. Premo le labbra contro le sue, e penso che voglio essere piena solo di lui. È un contatto che mi fa sentire esattamente così, spinta ad afferrare qualcosa che non scappa, non corre via. È qui. È tutto qui. Muovo le labbra, le sposto di lato, fino all’angolo della mascella e poi lungo quella linea. Con lentezza, lasciandomi il tempo di sentire davvero, e a fondo, ogni più piccola cosa. Ogni più piccola vibrazione che lo costituisce, ogni più piccolo poro, tutto. Vorrei tutto, di lui, e tutto insieme, adesso, sentirlo fra le mani e non lasciarlo colare, ma trattenerlo lì. «Ti amo» anche questa, è una sensazione fisica. È fisico, lo può toccare, come lo tocco io, quanto lo amo. Scivola via, rigonfio, quando diventa una concezione così grande, da non poterla stringere dentro le ossa. Lo fa mentre mi muovo lungo il collo con le labbra, seguendo ogni vena, il moto dell’aria che sale e scende dalle labbra ai polmoni, ancora ed ancora. La mano segue lo stesso tragitto dall’altro lato, si arrampica giù dai nervi, oltre la clavicola, la punta delle dita ferme alla fine, lì dove c’è il rumore del suo battito a premere come un tamburo. Questa, è la cosa più preziosa che esiste. Anche questa consapevolezza mi avvolge, lo fa mentre con le labbra, arrivo al punto in cui quell’organo lo tiene qui, ancora ed ancora. Persistente. E per qualche secondo, per un’eternità e un battito di ciglia, mi ci soffermo, su questo ritmo. Quello che sostiene tutto. Ogni cosa. Nessuna esclusa. Le mani scivolano sulla cinta, senza soffermarsi sulla sensazione fredda della fibbia che non riesce a sovrastare tutto il resto, quello che invece, è l’unica realtà a cui affidarmi, da cui farmi avvolgere. Con le labbra contro gli avvallamenti delle sue costole, e penso che questo è importante. Questo è quello che esiste di importante. Ogni piccola parte di lui, tutte quelle grandi. Quelle sopra, in superficie, quelle giù, in basso, nascoste sotto le vene e fra di loro. Questo, è quello che è importante. Lui. Senza inizio e senza fine. Il bottone che scivola dall’asola è solo un pensiero confuso, marginale in tutto il resto. Se ne sta lì solo a scandire un tempo remoto, diverso dal moto lento del volto, le labbra che premono per un attimo infinito, sulla parte molla appena sotto le ossa. Diventa lo stesso suono cadenzato, solo quando si muovono per far scivolare via tutto le une, e continuare a sentirlo l’altra, in una direzione che scende e scivola, preme fino a muovere un ritmo che segue quello che è rimasto incastrato nella testa; come il suono di un’orchestra che continua ad esistere senza spegnersi.
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    La seguo con le mani nella discesa senza lasciarla, le dita ancora strette tra i suoi capelli con quell’attenzione sottile a non far male.
    Non rispondo che la amo anche io, certe volte mi sembra quasi sbagliato farlo. Certe volte mi sembra che il punto sia che lei mi ama e non che la amo anche io. Che sia importante, a volte alterne, che una sottolineatura sia sotto le sue parole per me, non sulle mie per lei. Un’accettazione.
    Importante proprio perché per me è così difficile farlo, e so quanto sia pesante questo per lei. Un silenzio che costruisce distanze.
    Un impulso di risposta stringe la presa, un mugugno scivola fuori dalle labbra. «Cazzo.»
    In qualche modo anche sorpreso da quello che sta succedendo.
    Non so da dove venisse quell’aspettativa strana, concentrata su tutt’altro punto.
    Chiudo gli occhi per un po’.
    Sono sorpreso dal fatto che per una volta, quello che sento con tutti i sensi, in tutte le direzioni, dentro e fuori, è abbastanza. Una fame inappagabile che invece viene soddisfatta. E penso sia perché questo è il più alto gradino che un essere umano può raggiungere, l’unico modo in cui siamo capaci di ricevere tutto. Tutto davvero, il mondo e gli altri.
    Piego un braccio usandolo come perno per tenermi mezzo sollevato con la schiena e poterla guardare adesso.
    In lontananza sento la musica dal mio cellulare che ha continuato ad andare dall’altra stanza, abbandonato non ricordo dove. L’acqua che continua a scendere nel lavello. Tutto insieme diventa un sottofondo in secondo piano rispetto a lei, una cornice che non può essere diversa. È una strana certezza, ma c’è.
    Può essere solo così.
    Le lascio i capelli per scendere al volto e tirarla su verso di me, con una spinta del corpo che la porta di nuovo sotto a premere la schiena contro il materasso. L’avambraccio accanto alla testa, la mano verso il lato del viso che lo sfiora da lontano. L’altra invece ci si blocca per qualche secondo, sotto le dita il sangue pulsa nel collo, il pollice segna il contorno delle sue labbra spostandosi al mento quando le mie ci arrivano contro, più giù.
    Con quella vado più giù, il collo, seguo le curve e in quelle più morbide mi ci soffermo anche se di passaggio, il fianco dove stringo per un momento e ancora più giù, fino a cercare uno spazio sotto tessuti che restano ancora e rispondere con una cadenza specchiata alla sua.
    E la bacio intanto, poggio la fronte contro la sua, ascolto come cambia il ritmo del suo respiro, che suono fa la sua voce. Ancora vicino per riuscire a coglierne ogni sfumatura. Vorrei solo avere più mani per toccarla ovunque nello stesso momento, arrivare ovunque soprattutto adesso, non lasciare neanche uno spazio che non sia fatto di me e lei.
    Questa è l’unica cosa che continua a non bastarmi. Ciò che io do a lei, non è mai abbastanza, dovrebbe avere di più. Sempre di più. Di più di più di più di più.
    Sposto di poco la mano vicina al volto per arrivare a poggiarlo lì, afferrandola con le dita poco sotto la linea della mascella e il pollice dall’altro lato del mento. Così posso sentire il suo corpo che respira, il sangue che scorre, il battito del suo cuore, come vive sotto di me, tra le mie mani. La posso guardare, lei semplicemente, i suoi occhi, ogni dettaglio sfocato del volto. Posso guardare come risponde a me.

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    Mi viene sempre naturale, seguirlo. Adesso solo di più. Di più quando stiamo esplorando un mondo insieme, quando stiamo navigando in lui e me, uno dentro l’altro, e siamo qui a spalancare le orecchie per sentire il tremito di ogni gesto. Di più quando ogni punto, mi sembra raggiungibile con lui. Lo so dal modo in cui, quando mi sento di nuovo premere sotto di lui, ogni respiro che prendo lo prendo a pieni polmoni, perché anche quello è lui. Lui è qui, ed è così reale, così denso, da poterlo tracciare anche senza muovermi, poterne sentire la presenza incombente e strabordante, colare e raggrumarsi contro la pelle come se fosse un’essenza che ha bisogno di essere vissuta. E lo faccio, in quell’unico modo giusto e che esiste per farlo, un pezzo rovente di pelle alla volta, ascoltando il suono di ogni suo dito, di ogni sua cosa, dalle più grandi alle più piccole. Questo è tutto quello che voglio, un assoluto che adesso occupa ogni spazio, e non ne lascia per nient’altro. Premo le dita contro il polso, lo ascolto poi scivolare, diventare un braccio, una spalla su cui risalire quando per un secondo, gli occhi si stringono e mi aggrappo lì, con solo la sensazione che non vuole farmi risalire, ma scendere ancora più giù. Ovunque, con lui. È un moto che si arrampica ovunque, si aggruma nei respiri che spingono uno dopo l’altro, per arrivare contro di lui. È più di tutto quello che conosco, che ho conosciuto, ed è come se in ogni secondo crescesse e crescesse, senza smettere mai. Ho la sensazione che la pelle si stia fondendo, ma senza far male, lo fa per mischiarsi di più alla sua, e perdere ogni concezione per averne invece una sola, unica, concentrata in ogni punto in cui c’è, e in tutti quelli che invece si muovono per cercarlo. Le mani, quasi alla rinfusa, che si spingono una sotto il braccio, allungandosi contro il fianco, tornando indietro, con le dita che sfiorano la schiena e cercano punti in cui premere a fondo, mentre l’altra dalla spalla, scende lungo la scapola adagiandosi sul modo in cui ogni muscolo si muove, si contrae e rilascia. In questo momento, nei grumi d’aria fra me e lui, nella sensazione dispersa e concentrata delle sua dita sul volto, penso davvero che questo sia tutto. Che sia ogni cosa, che sia l’unica realtà esistente, e che al di là di questo non ci sia niente. Niente da guardare, da ascoltare. Niente da respirare, quando respiro lui, e c’è solo questo. Anche se ci fosse dell’altro, non me ne importerebbe. Troppo poco, troppo piccolo, insignificante, rispetto a tutto questo. Le gambe si piegano, si muovono per cercarlo, anche loro, in contatti che sono pressioni che si allungano, casuali, alla rinfusa, solo per trovare punti che cambiano, che sono ancora scoperti, ancora punti brulicanti nella testa, e che annaspano insieme ai respiri. Lo faccio anche nel piegarne una così da sentire il piede contro il materasso, il ginocchio che si preme contro il fianco, e si muove insieme a tutto il resto per seguirlo, scivolare su e giù nello stesso punto, lo stesso modo, lo stesso fulcro. Lo cerco con gli occhi, anche quando è tutto sfocato, perché anche così, so di poterlo riconoscere. Lo riconoscerei sempre, anche senza niente, neanche un sussurro, a tradire la sua presenza. Penso che lo saprei, lo saprei sempre che è lì, che è lui. «Morgan» anche questo, è solo per sentire quel sapore fra le labbra, farlo adesso che tutto, ogni cosa, sa di lui. Muovo la mano di nuovo sul fianco, lasciandola scivolare piano in un percorso che preme, e lo fa sempre un po’ di più, ancora ed ancora. «Puoi fare tutto quello che vuoi con me» si rompe fra un respiro e l’altro, e resta lì, con gli occhi che ancora restano sul suo volto, anche se grondanti, pieni. Muovo la mano più in basso, fino a premere la stessa cadenza contro di lui, una spinta del volto che per un attimo, cerca un contatto appena accennato di labbra contro le sue, per prendere un respiro, solo uno. «Sei tu, sei tutto quello che voglio»
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    No, mi dico, è meglio di no.
    È meglio che io non possa fare tutto quello che voglio.
    Lei non lo sa, ma c’è qualcosa di sbagliato che prende spazio di fronte a questa affermazione. Qualcosa che adesso so da cosa viene nutrito, e perché diventa sempre più forte. È lì che attecchisce, una radice che ho inaridito con il tempo perché lo sapevo, che era nata in una casa sporca, decadente, rovinata.
    Però lei dice che va bene.
    So che le va bene davvero.
    Ma io non so se voglio portarla così giù.
    O meglio, sì, so che voglio. Voglio sapere cosa si prova a scendere laggiù con lei, in un modo che non è così distruttivo come lo è stato mesi fa. Voglio sapere che effetto fa, adesso, sentirlo tanto amplificato. Voglio sapere se lo posso esorcizzare almeno un po’, adesso. Voglio sapere se lei è in grado di fare anche questo, farmelo sentire senza costruirmi uno specchio di riflessi spaventosi davanti agli occhi.
    Non è niente di che, mi dico.
    Cedere di un solo gradino verso il basso.
    E l’ho pensato anche tre secondi fa, so di averlo pensato come l’ho fatto spesso quando c’erano le mie mani lì, e ascoltavo, e mi chiedevo come sarebbe stato avere solo un po’ di più di quello che tenevo tra le dita. Solo un po’. Un attimo. Un secondo.
    Senza andare oltre.
    Perché oltre, in quel modo, sarebbe davvero rischioso.
    È solo curiosità verso una sensazione nuova, mi dico, solo curiosità. Solo voglia di sapere, di scoprire. Bisogno di stringere, di avere, di possedere fino in fondo. Di permettermi qualcosa che mi tolgo da non so neanche più quanto tempo. Di rubare qualcosa di altri e di nasconderlo sotto una brandina, custodendolo, perché è diventato mio e io, di come mie, ne ho poche.
    È la necessità più cruda che ho.
    Sfiorare la purezza di un concetto.
    Solo sfiorare.
    Solo una piccola concessione.
    Per un attimo mi chiedo realmente se Edie non abbia sentito la voce di qualche mio pensiero. Se abbia risposto alla mia mente, direttamente, dandomi un permesso.
    Poi tante domande si spengono.
    Tornano al buio così com’è buio tutto il resto, e la mia mano scende di più sul suo collo, e io guardo lei e non me lo chiedo più se posso o non posso. Mi sento diverso, ma non lo sono, mi lascio andare e basta. E stringo.
    Poco.
    Controllato.
    In fondo lo so fare davvero, per esperienza. In modo che sia solo un accenno, che la mia forza sia infinitesimale, che non faccia male davvero, né che si avvicini neanche da lontano ad un troppo.
    E non mi fermo con l’altra mano.
    E la guardo, attento alla reazione. Anche la più piccola, una sola luce diversa negli occhi, mi fermerei. La guardo anche se da vicino, con le labbra ad una distanza che le fa solo sfiorare tra loro. Non voglio spostarmi, il punto è questo. Non tanto l’azione, ma la sua reazione. Lei comunque. Ovviamente lei.

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    Non sapevo dov’è che saremmo finiti, ma è sempre la stessa storia. Sempre, ripetuta mille volte, cresciuta di poco in poco insieme ad ogni giorno, tutti quelli passati dalla prima volta che l’ho visto fino ad oggi. Andrei ovunque, con lui. Anche questo è come infilare una mano, dentro di lui, e arrivare a toccare qualcosa. Mi lascia la stessa sensazione, mi concentra completamente in un punto, in qualcosa di nuovo, per sentire com’è, qual è la consistenza che prende e che si alza. Il modo un po’ più lento in cui passa l’aria, quello in cui si dischiudono appena di più le labbra; il momento in cui, per un attimo, tutto si ferma. Solo per un secondo. Uno e basta. Prima di ricominciare, farlo con un punto in più, uno che ho sfiorato, e come una corda ha preso a vibrare ed irradiarsi tutto intorno. Muovo la mano dalla spalla, la trascino finché non la lascio, e la premo contro il polso, senza spingere, senza tirare, ma rendendola solo lì. Ascolto il modo in cui i tendini si tirano proprio lì, e quasi posso contarli sotto i polpastrelli. Morgan è qualcosa che va toccato, e va toccato a due mani, senza avere il pensiero di illusioni che ne rovinerebbero l’immagine, lo farebbero arretrare, confondersi, perdersi. Va toccato con due mani, mani che sanno verso cosa ci si sta allungando. Lo so, verso cosa mi allungo ogni giorno, e cosa sfioro, e cosa adesso esiste in ogni più piccola molecole che amplifica, diventa una cassa di risonanza che serve a questo. A toccare, e farlo con due mani, tutto. A scivolare, farlo in un modo che scambia pezzi, lo fa solo perché ora, in questo momento, possono essere sentiti, ascoltati, percepiti come tocchi che si accumulano sulla pelle, e la risvegliano. È il modo di farglielo sentire così, in un posto in cui l’unico modo è una sensazione che combacia con un’altra, quella mano contro il polso diventa solo la spinta che serve a mandarla contro di lui, insieme ad un respiro, un altro, e un altro ancora. Adesso può sentirlo, e so che lo sente nell’unico modo che conta: quello che è reale, non può nascondersi o cambiarsi, perché appena nato, è già sulle sue gambe per andare fuori, altrove, fino a lui. L’altra mano, prende a seguire un ritmo che si velocizza, mentre con le gambe premo una stretta che adesso, ha solo bisogno di sentirlo ancora di più, più vicino. Premuto contro di me, in contrasto con tutto il resto. Ogni centimetro e millimetro, perché non esista niente di scoperto, niente che non abbia il suo odore, niente che non sia ricoperto e ricolmo di lui. Non gli lascio il polso, ma inizio a muovere il pollice al centro, come se potessi disegnare le sue vene senza guardarle, e sentire da lì in sangue che si muove, arriva ovunque, lo rende vivo e vivido sotto la pelle. È lui, semplicemente. In ogni direzione, in ogni dimensione e forma. E posso sentirlo, e sentirlo davvero, come un tamburo che batte sotto terra, contro cui premere l’orecchio per ascoltare. E io voglio farlo, sempre, in ogni momento. Ancora ed ancora. Muovo lentamente la mano lungo il braccio, la faccio risalire fino alla spalla e dietro, sulla nuca, fra i capelli, in una stretta che diventa una presa che si allenta piano tanto quanto è nata. Si scosta solo quando la premo sull’altra, sua, per scostarla quando anche la mia si ferma, si allontana, lasciando lo spazio perché una pressione di gambe arrivi a far combaciare tutto in qualche istante che resta immobile. Mi fa solo ascoltare la completa sensazione del contatto, prima che ci sia di nuovo il corpo a muoversi contro di lui, le mani a cercarlo in punti che si affollano sotto le dita, fra la schiena, nei capelli, le braccia, qualsiasi cosa. Tutto. Senza tralasciare niente, neanche il più piccolo spazio, la più piccola molecola. Il più piccolo tratto che per me, è sempre enorme. Perché è lui, è suo, gli appartiene. E non c’è niente che non toccherei, che non prenderei, che non arriverei a toccare con le mani per stringerlo. Niente, mai.
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    Era una scommessa con me stesso. Brutale se fosse stata persa, mi avrebbe tolto qualcosa di piccolo, piccolo solo perché l’ho appallottolato e premuto in sé così tanto da ridurlo a un punto. Una possibilità che non volevo esistesse, ma che, possedendola adesso, spegne molte altre luci. Gli occhi si abituano al buio e non c’è più bisogno di un aiuto per vederci attraverso.
    Una di quelle cose che non dovevo volere, ma che in fondo volevo.
    Come tante altre.
    Come è stata anche lei.
    Ha un qualche senso intrinseco.
    Toccare la morte è sempre stato facile, mi ci sono trovato immerso sin dal primo momento della mia vita. Ma toccare la vita è complicato. Non so neanche come si faccia. Ho tentato di farlo, l’ho cercata nel suo contrario, ma alla fine questo è l’unico modo che ha avuto senso.
    Stringerla tra le dita così forte da rinchiuderla lì, per un attimo solo, e non portarla via. Non prendermela. Solo ascoltare il suo flusso concentrato in un unico frammento e poi lasciarla andare di nuovo. È un sentire che è fatto di fasi, e hanno tutte un senso soltanto se collegate insieme. Stringere, mantenere la stretta e lasciare andare. Se ne togli solo una, finisci dal lato opposto.
    Quel lato opposto lo conosco troppo bene ormai.
    È diventato noioso, a tratti altalenanti.
    Con una strana certezza che non so da dove venga, forse dai suoi occhi, so che lei capisce.
    Quindi è okay.
    Quindi so che nell’assecondare i suoi movimenti, spostare la mano al suo volto, scostarle velocemente ciò che le resta addosso per andarle incontro più in profondità, con quella frenesia improvvisa che si è cibata di un concetto premuto fisicamente tra le mani, va bene.
    Un mugugno sulle sue labbra prima di poggiarci le mie, premerle, scendere. Cerco una sua mano alla cieca, la trovo, la tiro in alto contro il materasso intrecciando le dita in una stretta che anche lì, vorrebbe fondersi con la pelle e mischiare il sangue dentro le vene.
    Fronte contro fronte, il respiro si regola sui movimenti del corpo, la guardo ma la sto guardando con ogni centimetro dei muscoli. Liquefatto dentro di lei, ovunque, in tutti gli angoli.

    Say you're there when I feel helpless. If that's true, why don't you help me? It's my fault, I know I'm selfish. Stand alone, my soul is jealous. It wants love, but I reject it. Trade my joy for my protection.

     
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