Wild At Heart

Edie/Vivianne | 12 Marzo

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    Non credo di averne voglia.

    Nemmeno di pensarci.
    Ma poi alla fine, tanto, è tutto inutile. È stupido, sono stata stupida a pensare che potesse andare bene ancora, che tanto avremmo avuto fortuna sempre in fondo. È stato stupido tutto. Pensare che il mondo fosse alla fine una sorta di giardino costruito dove le cose se sono giuste allora vedrai, Vivianne, un modo per funzionare lo troveranno, avrai sempre fortuna perché per una volta ti sei sentita al posto giusto e hai pensato che la cosa sarebbe andata bene sempre. È una stronzata, Vivianne, è una grandissima puttanata. Però non è giusto che lo scoprissi così che al mondo non gliene frega niente delle cose giuste e sbagliate. Non è giusto e basta.
    Non è giusto e basta. Non è giusto che debba essere finita così, che la conclusione sia stata la stessa: che finisco per non saperla la verità. Che mi sono sforzata fino ad ora per averla sempre, e… e adesso è tutto inutile.
    La verità è che io qui non ci voglio stare. Che non me ne frega niente. Che avrebbe dovuto essere un momento quantomeno bello, credo, e invece adesso tutto è un inferno. Non me ne frega proprio niente, è solo una violenza che faccio a me stessa, oppure no, oppure è solo inerzia perché tanto non ho idea di dove sto andando. Potrei finire facilmente a casa mia nel mio letto come in un tombino, tanto non farebbe alcuna differenza. Perché non me ne importa un cazzo. Ma mi importa ancora abbastanza per riuscire a sentire distintamente ciò che provo in questo momento, tutta la stanchezza, tutta la delusione, tutto il male. Per risentire tutti quei "Ci vediamo a casa? Ci vediamo a casa", e adesso a casa non c'è più un cazzo.
    Mi continua a risuonare nel cervello. «Trovato il corpo», «Staten Island». Adesso lo odio quel posto, che sprofondi nella baia e mi tiri fuori Lucian dove l'ho lasciato. Mi continua a risuonare nel cervello, non so come fare, non so proprio come fare.
    Mi tengo stretta tra i denti la sigaretta, seduta qui fuori su una panchina, con le labbra naturalmente deformate e dai pensieri che mi fanno salire il pianto e la rabbia agli occhi. Probabilmente non dovrei perché il posto non è l'ideale. Ma alla fine penso che in fondo non me ne frega un cazzo. No, non penso questo e basta, penso che voglio concedermi di non fregarmene un cazzo. È diverso, è una scelta.
    Non ho voglia e basta.
     
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    A quanto pare, sono una stacanovista. Non che sia una grande novità, ho sempre avuto la tendenza a lavorare, tenermi impegnata, fare questo e quello senza pensarci poi troppo. Starmene con le mani in mano, è sempre stato qualcosa di difficile per me. Non è più perché ci sono pensieri da cui scappare, sensazioni da cui correre via; credo che alla fine, sia rimasta solo l’abitudine. Attaccata alla pelle, come un prurito che si acquieta solo quando non ho da starmene seduta da qualche parte senza fare niente. Anche se sono stanca, ma è una stanchezza piena, una stanchezza che parla di muscoli che si sono mossi per ore ed ore, impegnati di volta in volta in qualcosa di nuovo. È una stanchezza positiva, anche se scende fin dentro le ossa e un po’ me lo fa desiderare un materasso morbido in cui lasciarmi andare per una dormita che sia appagante. Scivolo fuori dalla sala, per quei cinque minuti di grazia in cui mi è concesso prendere un caffè, andare fuori per una sigaretta. Non mi piace, però, stare lontano da casa. Lontano dai bambini. A quanto pare, sono proprio quel tipo di donna. Quella che sta sempre lì, con il chiodo fisso, a chiedersi una cosa o l’altra. Non che mi dispiaccia, ad essere onesta. Sono preoccupazioni buone, anche queste. Ho la sigaretta in bocca, il caffè in mano, mentre l’altra cerca nella felpa l’accendino con cui dare fuoco alla punta. Non so da quant’è che non me ne fumano una, anche se dopo nove mesi uno penserebbe che poi diventa più facile, ma è una cazzata. Ci vuole sempre molto poco a riprendere vizi come questo, come quello di bere un po’ di più. Anche queste sono abitudini, anche queste sono rimase nonostante tutto. Gli occhi corrono un po’ intorno, mentre mi muovo scostandomi dalla porta d’ingresso per scostarmi dal via vai continuo che regna qui. Staccare, almeno un po’. Vivianne se ne sta su una delle panchine, non mi sembra in gran forma, ma ad essere del tutto onesti, non è strano qui dentro. È ovvio, è un ospedale, e di cose ne succedono in continuazione. È una storia un po’ strana, credo, quella della nostra conoscenza. Immagino che si possa definire così essersi ritrovate in un supermercato durante quella che aveva l’aria di essere una vera e propria fine del Mondo. «Hey» mi accosto, restandole di fronte qualche secondo prima di scivolare seduta nello spazio vicino a lei, la testa che si reclina appena all’indietro per muovere un po’ i muscoli intorpiditi del collo e la schiena. «Pausa?» prendo un sorso dal caffè, allungando appena le gambe oltre la panchina, per sentire i muscoli tirarsi e stiracchiarsi, contratti da troppe ore passate in piedi.
    ex-maledictus ▪ animagus ▪ double deuce owner & waitress ▪ 31 y.o. ▪ new york accent
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    Non sono di grande utilità qui. No, potrebbero benissimo fare a meno di me, come potrei farne a meno io. La mia presenza non cambia molto adesso che sono tra i nuovi arrivati. Sì, potrei farne a meno anche io. È che non ho altro da poter fare.
    A Sunset Park da sola non mi ci fanno stare, probabilmente perché hanno paura che mi ammazzi o cosa, solo perché credo di aver detto, tra le tante cose deleterie, che volevo morire. Ma non è quello, non ci crede nessuno, nemmeno io. Da sola mamma e papà non mi ci fanno stare perché mi dimentico di mangiare, perché non ho voglia di farlo, perché lascio le porte aperte, perché mi trascino da una stanza all'altra, perché faccio le cose senza cognizione di causa, perché mi scordo di tutto. A Sunset Park non mi ci fanno stare perché sanno che sono una cazzo di masochista, e perché sanno perfettamente che è lì che adesso me ne starei di più, a non fare niente. Perché non voglio fare niente, perché non ho voglia di fare niente, non ho voglia di sentire niente. Non riesco a tollerare niente, veramente più niente. Non sopporto le voci, non sopporto le distrazioni, non sopporto la televisione accesa, non sopporto la voce della mamma, non sopporto i silenzi di papà, non sopporto il silenzio, non sopporto il caldo, non sopporto il freddo. Voglio solo stare da sola, anche se stare da sola fa male, anche se ci sono ancora le cose di Lucian a Sunset e a me non riesce nemmeno guardarle. Perché spero se le venga a riprendere, perché spero mi risponda a quel maledetto messaggio, perché spero sia solamente un po' stronzo da non rispondermi o da non controllare nemmeno. E poi la bolla si rompe e allora Lucian è morto. E basta.
    E allora voglio stare a Sunset Park perché sta città fa schifo, questa realtà è una merda, e io sono la versione di me stessa più orrenda.
    Perché Canarsie non era alla fine una sorta di tempio del dolore per papà? E allora perché non posso averci il mio? Perché cazzo non posso almeno decidere questo? Perché non so dove cazzo altro stare. Perché non so ancora nemmeno dove è che l'hanno messo. Perché alla fine non so nemmeno se voglio saperlo, perché non mi va di sentire più male di così, perché forse fa più male che rimanere chiusa in bagno tutto il giorno a farmi torturare dal silenzio.
    Una voce mi fa sobbalzare sulla panchina, stringere la sigaretta più forte con i denti. Fa quasi male al cuore, al petto sicuramente: ho avuto una specie di piccolo spasmo. Mi sembra essere fatta di cartapesta. No, nemmeno di vetro, ameno quello, per quanto fragile, una certa consistenza dura la conserva. A me sembra di essere malata, tirata con i fili come fossi un manichino da tenere in piedi.
    L'avevo già rivista Edie qui al Sacred Heart, e considerando la nostra prima conoscenza, non avrei potuto trovarla altrove. Ma anche quella volta mi sembra così lontana. Mi sembra di non essere la stessa persona. Adesso sono forse solo la larva di quella Vivianne che andava a cercare Lucian dentro la nebbia.
    Mi fa rabbia.
    Sono sopravvissuta a quello, a delle merde di alien annidati dentro i fegati, siamo spravvissuti a così tanto, cazzo...
    «Mh, sì.» è tutto ciò che le rispondo, tirando appena su di naso e prendendo un tiro profondo dalla sigaretta. Se la guardo in faccia probabilmente mi metto a piangere.
     
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