Per arrivare ad Azkaban, aveva preso una carrozza guidata da thestral.
Le onde contro i finestrini gli avevano ricordato con precisione millimetrica quando faceva la stessa cosa, ma con una carrozza che recava lo stemma dei Rowle. Gli avevano inculcato che andava fatto con orgoglio. Che una famiglia di purosangue delle Sacre 28,
doveva fare così.
Per la prima volta dopo ventidue anni, rifaceva quella stessa strada con il proposito di andare a trovare la stessa persona. Aveva 85 anni e quasi tutti li aveva passati rinchiuso lì dentro. Già da piccolo Quincy si chiedeva se fosse stato matto già prima di entrare lì. Ora non però non sapeva che aspettarsi.
Scese dalla carrozza, anonima, e andò diretto all'ingresso per effettuare tutti i controlli. Depositò il suo catalizzatore legalmente registrato, firmò per quel deposito temporaneo, si sistemò i polsini della camicia perfettamente inamidata che uscivano dalla giacca, si scosse per un solo colpo di tosse nell'attesa. Quando gli fecero strada per vedere Esaias, camminò limpido fino al punto di vedere suo zio, e solo allora si bloccò. In quel tratto di strada, nel modo elegante di richiedere una stanza privata per parlare con suo zio, era stato purosangue fin nel midollo. Doveva esserlo, o suo zio non lo avrebbe neanche guardato in faccia. Già così, fece una smorfia simile a un grugnito stanco, e cominciò a guardare altrove. Dal modo arcigno con cui teneva la bocca, Quincy capì che non dovevano essergli rimasti molti denti.
«E così hai una famiglia, dopo vent'anni»E dal modo in cui continuava a guardare altrove proprio quando gli parlava, capì che non voleva nemmeno farlo vedere, quel muso che scoperto aveva solo gengiva e poco più.
«Da trentatré anni che ne so io, ma ti ringrazio per lo sconto, zio» sfoggiò anche lui il suo orgoglio, coperto di ironia. Non parve divertirlo.
«Allora saprai che non parliamo tra noi, il ragazzino ha dovuto ripulirsi la coscienza». Quincy annuì, estrasse anche l'orologio dal taschino per vedere l'orario, e batté due rapidi colpi sul pulsante che ne regolava i minuti.
«Qualcuno doveva farlo, per tutti quanti, s'intende» osservò la lancetta dei minuti, immobile. Poi all'improvviso vibrò sulla tacca del 10 e alle sue spalle il pulsante rosso, si spense.
«La verità, zio, è che so che avete solo perso una guerra, e tu non mi dirai niente di quello che voglio sapere perché abbiamo creduto tutti nelle stesse cose, solo che alcuni sono qui dentro» rimase sorpreso anche Esaias dal cambiamento del tono, guardando il nipote gli arrivò anche il suo di sguardo, estremamente convinto, forse solo un po' più spento.
«So che morta la vostra battaglia non sono morti i vostri valori» appena più irritato, Quincy prese dalla tasca interna della giacca la bacchetta di Sextus. Proprio in corrispondenza del ricamo in corda spessa della giacca che al tatto copriva il rilievo della bacchetta.
«Quindi che capirai se lo farò in questo modo. Imperio».
La sensazione di potere tipica di quella maledizione si diffuse subito. Delle tre, a suo parere la più pericolosa per chi la scaglia. Tanti maghi li aveva visti piegati da questa sensazione, ormai assuefatti al modo in cui poteva far sentire. E questo li aveva cambiati. Resi più impazienti, più caotici. L'esempio più limpido di come le arti oscure conducessero alla follia.
Ma lui voleva solo quello per cui era venuto. Cominciò a ordinare, a domandare, per avere il ricordo di quel giorno, tutto per intero. Tutto visto dalla prospettiva di uno che non era entrato nel castello, aveva solo mandato avanti gli altri. A uccidere ragazzini tutto fatto in modo del tutto casuale, per averne uno. Uno che Quincy per altro aveva visto nei corridoi, ancora e ancora, e non era così speciale. Solo che l'ossessione, rende ciechi.
Quando ebbe finito di estrarre il ricordo e chiuderlo nell'anello squadrato che aveva al medio, sigillato allo scatto del suo compartimento, si occupò dell'ultimo ordine. Che suo zio lo aggredisse. Fece scattare due volte il meccanismo dell'orologio, e iniziò a chiedere l'arrivo delle guardie.