The convergence of the chances

Sin'Lar/Eså | 31 Gennaio 2024

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    Sognava ancora le Dune e le immense lune che le solcavano nella notte. Sognava la Diyat Meheel, il suo cortile interno così come il terrazzo da cui, la sera, Saida Zayira mi aveva raccontato per la prima volta di Shiraji e della sua riconquista dei suoi ricordi. Non avrei mai smesso di farli, così come in sogno sapevano arrivarmi gli squarci di futuri non ancora realizzati, anche i sogni del passato avrebbero iniziato ad essere una costante che partiva da Al Sura e tornava indietro fra tutte le tappe della mia esistenza, ancora ed ancora. Non avevo ancora trovato una risposta a quel quesito che mi aveva arrovellato la mente, quello da cui tutto era partito. Un filo che si era stretto ad un nome dall’inizio alla fine, e che mi sembrava parte di un disegno di cui ancora non intravedevo tutti i contorni. Quanto valeva la libertà? Tebaj, la proprietà di sé stessi. Adesso i segni di Ath erano due, e due i mondi a cui avevo dovuto dire addio per sempre. Rintracciare lo Schema non era facile, come non era facile rintracciare mai nulla di preciso del coacervo del cosmo, eppure ero legato a quella promessa come a tutto il resto. Non avrei potuto uccidere Missing rendendolo martire delle sue idee, glorificazione dei suoi intenti. Privo di senso quel gesto non avrebbe trattenuto nulla, se non sangue sparso al vento. Ero ormai immerso in quel percorso, senza alcuna via d’uscita. Privato del titolo di A’aq, senza nessun luogo a cui far ritorno, non ero altro che Dėlïshk, ancora una volta nomade senza nessuna via di ritorno. La luce di Adlaj e Sehlul non avrebbe più brillato per me, ogni mio sentiero era calato nell’ombra. Ma non riuscivo a pentirmene, e forse era questa l’onta più immane che portavo ora racchiusa nel mio nome. Non mi ero spezzato, non ancora; l’orgoglio me lo aveva impedito, e avrebbe continuato a farlo. Il bisogno di rinnegare Ath, di sfuggire alle sue grinfie una volta e per tutte, era semplicemente troppo grande perché accadesse. Eppure, ora che non avevo più quei doveri che avevo seguito ciecamente per così tanti anni, non avevo smesso di interessarmi ancora a tutto quello che stesse accadendo lì. Non avevo accantonato la Sottilità solo per quello che era accaduto in quella stessa nebbia, né avevo dimenticato ogni allarme che aveva fatto girare il mio capo a destra e a manca alla ricerca di segni e indizi che avrebbero presagito qualcosa di inarrestabile. Vagavo per questo in quel mondo come facevo anche fuori, ancora insaziabile di qualcosa che forse non avrei potuto afferrare mai, o che semplicemente alla fine mi sarebbe costata così tanto da lasciare comunque spazi vuoti come buchi neri nella mia anima. Delle volte, però, sentivo l’urgenza di fermarmi. Come un impulso che richiamava antichi discorsi che non avrei più potuto cambiare, gli stessi su cui avevo ancora rimuginato sulle sabbie del Sarsham l’ultima volta che ci ero stato, lasciando che i corpi scivolassero fra le sue dune e pregando Al Sahi di portare a sé tutte quelle anime. Avevo bisogno di fermarmi, di guardare lo scorrere delle cose e riconoscere la mia stessa presenza in qualcosa di fisico, tangibile, qualcosa dentro cui poter essere spinto ora che non avevo più nulla a supportare la mia esistenza. Non un titolo che potesse spigare, prima ancora della mia voce, cos’è che fossi. I miei piedi mi avevano portato, quel giorno, fra il verde di Central Park, uno dei pochi posti che ricercavo quando il grigio del cemento diveniva per me troppo opprimente. Non era come i boschi di Yean Edhil, con i tronchi enormi ed antichi e quell’umidità lieve che pregnava ogni cosa, né conservava quei silenzi carichi di fruscii simili al mormorio del mondo. Ma era qualcosa, e qualcosa a cui potessi aggrapparmi per qualche istante ignorando il lontano rumore di una città che pareva sempre muoversi troppo rapidamente, per non fermarsi a respirare mai. Non avevo portato la mia pipa con me, avevo smesso di usarla insieme a tutte le erbe da quando Al Sura aveva dato il suo ultimo respiro. Era intollerabile, per me, portare ancora oggetti di ciò che avevo lasciato perire, ma ne sentivo la pungente mancanza come la sentivo di tutto ciò a cui mi ero inesorabilmente abituato. Mi ero seduto ad occhi chiusi, le mani, guantate come sempre da quando la pioggia le aveva segnate per sempre, infilate nelle tasche. Delle volte, come quella, chiudevo gli occhi e provavo a concentrarmi intensamente sull’odore dell’erba, del terriccio bagnato, e fingere di essere altrove, in un altro tempo, come mischiato ad una visione irraggiungibile. Eppure ripetutamente mi ritrovavo sempre in quel punto, incapace di allungare le dita sulle luci del mio passato. Quel giorno non era stato diverso, non in quel senso, eppure in quei secondi di silenzio qualcosa lo avevo sentito. Aveva attirato la mia attenzione, forse perché attento lo ero sempre in quel modo che mi spingeva a continuare a credere che tutto, sempre, nascondesse qualcosa da imparare. Mi ero girato mentre già mi alzavo, gli occhi che si erano fermati sulla figura di un uomo che sembrava afflitto. Per quanti mondi avessi visto, per quanti popoli incontrati, alcuni linguaggi erano sempre universali. Come quello. Non ero mai stato disinteressato, nonostante tutto, al contrario mi avevano spesso detto come la mia natura fosse più vicina al troppo curiosa che non. «Sta bene?» mi ero avvicinato senza toccarlo, anche se avevo sfilato le mani dalle tasche. «Ha bisogno di aiuto?»
     
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    La smetterà mai di chiamarmi? Non riesco a farlo smettere, un richiamo continuo verso una meta che non conosco. Ci sono giorni in cui non smette un attimo, bagliori di emozioni che mi attraversano come fossero miei, così repentini che non riesco a gestirli. Vivo come riesco, di stenti, mentre cerco di imparare una lingua che non sento mia. Ma devo, perché se parlo quella con cui mi sento a mio agio, dicono che non esiste; e se non esiste, rischio di finire ancora in quel luogo. Legato, mani e piedi, con gente che dice che non esiste quello che vedo, che sento, che percepisco. Allora sto zitto, e ogni tanto tace anche la voce nella mia testa. Sin'Lar, mi chiama così. Qui però sono John. John che deve prendere delle medicine, John che non sa come procurarsele perché non ha soldi, ed è già tanto se riesce a spiccicare due parole e farsi capire. Per ora sono sopravvissuto giravogando qua e là, mi hanno indirizzato verso gente disposta ad aiutare chi come me non ha nulla, per nulla in cambio. Mi guardano attenti però, come se si aspettassero un mio scatto da un momento all'altro. Sin'Lar, dove sei? Smettila*. Mi volto, per non essere visto parlare da solo. Lo so che se mi vedono farlo mi chiedono delle pastiglie, se le sto prendendo. E la risposta è no, mi stordiscono, ed io no voglio sentirmi così. E poi mi fanno venire fame, sempre, ed io non ho soldi per poter mangiare tanto. Sono sporco, vorrei lavarmi come si deve, ma devo aspettare che arrivi l'orario per poter entrare in dormitorio, fino ad allora sono solo, con lei. Rispondimi. Un pugno sulla testa. Smettila*. Se anche ti rispondo, tu non mi senti, e continui. Non cessi mai di parlarmi, ma è come se io fossi muto, non riesco a raggiungerti. Ed eccola, la frustrazione che mi pervade, ma che so non essere mia. Un altro pugno in testa. Basta, basta, basta*. A volte non riesco nemmeno a dormire. Sono stanco. Talmente stanco che non mi sono accorto del ragazzino che m fissa, e mi parla. Non ho sentito che ha detto, e così rispondo, gli chiedo di ripetere*, nella lingua che sento nella testa, e così spalanco gli occhi, spaventato. Non è la lingua che devo parlare ad alta voce, perché non esiste, me lo hanno detto, e se parlo una lingua che non esiste la gente si spaventa. S-Scusa. Io bene. Parla poco tua lingua. Io no male te. Alzo le mani come a dimostrarlo, le mani con ancora le bende di quando ero in ospedale, i polsi con i segni delle contenzioni che mi trattenevano.


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    Tutto ciò che ha * è nella sua lingua nativa, quella di Mirach
     
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    Mi colpì subito quel suono, quell’incastro fonetico che non ha niente a che non aveva niente a che fare con ciò che avevo sentito in quel mondo. Non ero mai stato un linguista, ma avevo la propensione a comprendere le differenze dei suoni proprio perché tanto avevo viaggiato, e di così tanti ne avevo sentiti. Erano particolari, unici, ovunque andassi. C’erano casi in cui due lingue di mondi diversi si assomigliavano, e così era per me stato facile imparare l’Arabo quando aveva così tanto in comune con la lingua di Al Sura – avevano, in comune, il Caos Elementale, qualcosa che forse aveva plagiato inesorabilmente entrambe le lingue –, ma erano rari. Le lingue erano evoluzioni come tutto il resto, storie nascoste che solo chi ne conosceva la profonda ed intrinseca legge poteva comprendere. Non avevo mai sentito quella lingua, non un suono che potesse ricondurre a quelli che di quel mondo invece conoscevo. Era come una porta su qualcosa di diverso, un sospiro distante che pure mi sembrava di poter quasi afferrare, se solo avessi allungato appena di più la mano. Non avevo sviluppato il terrore del viaggiare, non era di quello che si trattava seppur ogni volta che ero andato via, dopo Al Sura, avesse avuto sempre e solo lo stesso scopo preciso, senza mai allungarsi in altri punti; avevo tuttavia il terrore di trovare qualcosa. Che fosse il senso del dovere verso un lutto di cui mi sentivo artefice, o la sottile paura che ciò che era accaduto potesse ripetersi ancora una volta, non ne ero del tutto certo. Eppure in quel momento, in quel parco, era come se ancora una volta una mano invisibile mi avesse spinto ad aprire gli occhi e guardare tutti quei sentieri in ombra che avevo così ostinatamente cercato di ignorare. Mi lasciai stupire, come tanti anni prima Saida Zayirah mi aveva detto, e per quanto la voce dei suoi ricordi fosse un dolore impronunciabile, lasciai che mi investisse. «Siate stupiti, e siate consapevoli nel vostro stupore. Ogni cosa è diversa, e niente sarà mai davvero prevedibile solo perché avete, in voi, la convinzione di una somiglianza pregressa. Imparate da ciò che vedete, ascoltate e sentite nel presente, e mentre lo fate, siate lì, e siate qui, dimenticate tutto ciò che credete di sapere, poiché l’uomo, per natura, non è ripetibile». Non avrei dimenticato l’odio, ma potevo pur sempre ricordare cosa fosse la gentilezza. Cosa il bisogno, e cosa quella sensazione che si nutre quando si ottiene un punto che nel caos diventi fermo. Non avevo davvero modo di sapere se quell’uomo e quella lingua a me talmente estranea fossero davvero un indizio a cui avrei dovuto aggrapparmi, eppure ero stato un ragazzo curioso, sempre disposto a credere all’incredibile. Alla casualità del cosmo che ha sempre passi che nell’essenza del caos, hanno pure una direzione. Lo guardai per qualche istante, i segni che sui suoi polsi sembravano essere esclamazioni che non avevo modo di comprendere. Alla fine gli sorrisi appena. «Va bene» iniziai lentamente, scandendo per bene ogni lettera e ogni spazio fra le parole perché potesse capire cos’è che stavo dicendo. «Neanche io male te» scandii anche quello, con gesti delle mani che speravo potessero aiutare quella comunicazione frammentaria che si stagliava fra di noi. Non era insormontabile, lo sapevo, e forse avrei trovato un’idioma che potesse meglio adattarsi al suo. «Voglio aiutare» una cosa che a quel punto della mia vita, sapeva quasi come estranea. Avevo aiutato solo me stesso, ed ero ancora deciso a farlo, eppure in un intramezzo, forse, avrei potuto ritrovare qualcosa che avevo perso, come era successo con Lira su quelle stesse Dune da cui oramai mi sentivo ripudiato. Non avevo mosso le mani verso di lui, riconoscevo in quella sua dichiarazione di non violenza e nel gesto delle sue mani lo spirito di qualcuno che doveva essere un guerriero, e sapevo rispondere a quello. Quindi, avevo anche io alzato le mie mani, che seppur guantate mostravano palmi aperti nella sua direzione, il gesto universale dell’essere innocui. Non avevo armi con me, ma se le avessi avute le avrei pigiate ai suoi piedi, ma quello era un mondo diverso. Un mondo in cui alcune cose stonavano, lo facevano sempre. Invece, rimasi calmo di fronte a lui. «Eså» mi indicai, lentamente, finendo a premermi infine la mano contro il petto e lasciandola lì, mentre abbassavo ancora lentamente l’altra. «Hai fame? Sete?» alla ben in meglio cercai di mimare il gesto di mangiare e quello di bere, pensavo che potesse essere utile per lui associare quei fonemi ad azioni, imparare così delle parole che lo avrebbero aiutato qualsiasi cosa fosse successa.
     
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    Il ragazzo imita il mio gesto, in un riflesso che serve a farmi capire che non ha cattive intenzioni. Molti qui aiutano senza chiedere nulla in cambio, ma la maggior parte nemmeno ti guarda, sfila lungo la strada pretendendo che la tua esistenza non sia un loro problema, quando è reale che la società abbia creato esattamente le condizioni perché la sopravvivenza sia di stenti, e non degna di venir vissuta. Usa parole che ricordo, so di conoscerle e nei gesti comprendo il significato. Punta se stesso ed usa un termine che non conosco, comprendo che mi vuole dire il suo nome. Io che un nome nemmeno lo ricordo, a parte quello che continuo a sentire nella mia testa. Ma non è quello vero, così mi hanno detto. Loro usano chiamarmi John e metto le mani sul petto mentre lo dico, ad indicarmi. Quel ragazzo è mingherlino, e mentre mi concentro su di lui la voce si fa sottofondo, mentre mi narra di un luogo che non ho mai visto, ma che quasi posso vedere tanta è la perizia con cui lo sta descrivendo. Un luogo con sedie, tavolini, un profumo dolce, che istintivamente mmi fa brontolare la stomaco. Fame, lo ripeto, come se ci fosse bisogno di confermarlo ancora dopo il rumore che il mio stomaco ha emesso.No soldi. Lo dico subito, una volta mi è già capitato di prendere del cibo ma non poterlo pagare, ed il prezzo sono state delle bastonate sulla schiena che ancora si possono contare attraverso i lividi rimasti. Imparo in fretta, ma non abbastanza da potermela cavare meglio di un barbone qualunque. Sento nostalgia, disarmante e potente, mi confonde, mentre una lacrima solca il mio viso, in risposta ad un'emozione che fino a poco prima non percepivo, e che ora mi pervade. Me la asciugo veloce, usando le bende attorno alle mani, confuso dal cambio repentino con cui svanisce tutto. E' estenuante stare dietro a questi cambiamenti, e in genere le persone, nell'incomprensione, fuggono spaventate. Guardo il mio interlocutore, ignaro di cosa dirà. Se ne andrà, fingendo che non sia in fondo un suo problema?


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    Avevo visto così tante cose nella mia vita, a quel punto, eppure ancora non avevo del tutto forse perso la capacità di meravigliarmi. Un pezzo lo avevo perso a Neorosis, di più ancora quando Calien non ne aveva fatto ritorno se non come un corpo senza più nulla da dare; un po’ ne avevo perso quando avevo guardato quelle dune, le mie dune, deperite senza vita, senza una voce od un coro che si alzasse fra le distese che avevano cantato e cantato e raccontato ogni possibile storia come solo Al Sura sapeva fare. Iniziava ad essermi sempre più chiaro il concetto dell’essere perseguitati dal passato, una maledizione che mi sembrava essermi stata cucita addosso da quella donna a Peler, ormai anni prima, e che pareva ora mi seguisse come fosse la mia stessa ombra. Eppure, Cailen mi aveva sempre detto che dovevo ricordare palmo contro palmo. Mi ero chiesto spesso, in quei tempi, quali sarebbero potute essere le sue parole. Erano passati mesi, anni, eppure quel bruciore era rimasto uguale, così come lo era rimasto nei suoi occhi dopo Yean Edhil. Cosa mi avrebbe detto, allora? Riuscivo a sentire il suono delle sue parole, eppure il senso mi sfuggiva, come doveva sfuggire a quell’uomo di fronte a me, messo in un mondo di suoni cacofonici da cui acciuffare sensi per non esserne sommerso. John, mi sembrò quasi un nome stonato per lui, per quelle sillabe che avevo colto così distanti da quei suoni che invece componevano quel nome. All’epoca forse non me ne rendevo a pieno conto, o non con quell’insistenza massacrante che avrei scoperto poi, ma avevo bisogno di trovare, che quella ricerca che mandavo avanti da quando ero solo un bambino, d Idur e forse ancora da prima, quando con mia madre e mio padre saltavamo di mondo in mondo perché nessuno di noi ne aveva uno da poter chiamare casa, finisse. Avevo bisogno di avere un punto che dicesse che ero arrivato e forse, lì, avrei potuto cercar quello che di me sentivo di aver perso. Forse alla fine era stato questo a farmi avvicinare a quell’uomo che esattamente come me, sembrava smarrito in una città che troppo facilmente fagocitava i silenzi fino a cancellarli. Un Ulisse che vagava in acque incerte fatte di asfalto e cemento. Forse, alla fine, si trattava di qualcosa di così semplice dopo aver affrontato cose che in molti avrebbero detto essere semplicemente impossibili. Fame era qualcosa che avrei potuto risolvere, di più ancora comprendere. I soldi non erano mai stati un problema, per me, e forse era stata la consapevolezza di essere nato Principe di un mondo ormai morto a farmi crescere senza tenerne conto, o forse erano state le catene di Idur e quel nulla che mi era stato dato lì, mai abbastanza per placare le strette dello stomaco o l'arsure della gola. «Io li ho» continuavo ad usare i gesti, un metodo che mi sembrava assai più appropriato di ogni frase complessa che avessi mai utilizzato. Era anche quello un linguaggio, ed anche quello per questo terribilmente importante. In quel momento ancora di più, quando le nostre voci non avrebbero potuto essere comprese uno dall’altro. «Tu non preoccuparti» scandivo tutto, pezzo per pezzo, continuando con quella flemma lenta perché potesse comprendere la connessione fra le singole lettere. «Vieni, uso i soldi io» annuii per accertarmi che avesse capito prima di iniziare a muovermi, voltandomi perché fosse incitato a seguirmi. Conoscevo bene i ristoranti, i luoghi in cui mangiare, e avevo compreso come in quella città vi fosse una moltitudine complessa di culture e luoghi talmente diversi uno dall’altro da essere una cacofonia che manteneva la sua armonia. C’era un Indiano non lontano a cui ero stato spesso, e che gradivo per via di quei sapori speziati e più forti che mi avevano ricordato, seppur alla lontana, ciò che avevo mangiato su Al Sura. «Da dove vieni?» era stata un po’ più difficile da mimare, ma mi ci ero impegnato. Era importante anche che ci conoscessimo, almeno fino al punto in cui si sarebbe potuto fidare di seguirmi in una città di cui non comprendeva neanche la lingua. E volevo saperlo. Volevo sapere da dov’è che venisse, quale fosse la storia di un uomo che sembrava non aver niente, non conoscere la lingua, e che pure si era ritrovato a Central Park, in mezzo a tutti gli altri.
     
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    Lo devo seguire? La fiducia è una questione assai complessa, forse troppo perché ora io possa davvero carpirne il reale significato. Al momento so solo che le poche occasioni avute per dimostrarla mi hanno fatto finire dove sono, in mezzo ad un parco, i vestiti consumati e una scarpa con la suola rotta, le bende attorno alle mani e i lividi sulla schiena. Eppure il mio stomaco risponde in chiaro modo a quell'invito, e alla fine penso che è talmente gracile che per quanto io sia messo male, forse la meglio potrei anche averla contro questo ragazzino. I suoi occhi però mi richiamo più una nostalgia e una tristezza profonda, che un celato doppio fine. Mi alzo, lentamente e non del tutto convinto, guardo le sue mani, i suoi passi, alla ricerca di segni di pericolo, pronto a correre (ammesso che la scarpa senza suola me lo permetta). Incespico, incapace i camminare senza provare dolore qua e là, rimango un po' curvo, stanco persino a muovere pochi passi. L'idea di un pasto come si deve è troppo allettante perché io vi rinunci, ed ora lei sembra aver taciuto i pensieri. Chissà se è curiosa come me del ragazzo, e sta in attesa di capire chi sia e cosa voglia. Mi parla, poche parole ben scandite, comprendendo la mia difficoltà nell'uso di una lingua che dovrebbe tuttavia appartenermi; eppure sono i suoni nella mia testa ad essermi più affini, li comprendo molto meglio. No, John, non esistono quei suoni, non ci pensare. Concentrati. Cibo, ecco, concentrati su questo. Alla domanda successiva, alzo le spalle. Non è che non voglia dirglielo, da dove vengo, ma non lo so. Io no so. Indico la mia testa. Funziona male. La memoria, ma forse è un gesto un po' troppo generico, ad intendere che non funziona tutta, la testa. Così in fondo mi hanno detto. John nome che mi hanno dato. Dottori. Indico con l'indice, la direzione è quella dell'ospedale da cui sono stato dimesso.


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    La memoria. Non lo capii subito, ma poi sì. Lo afferrai d quell’insieme, fra parole e gesti, che mi colpirono alla stessa maniera, eppure opposta, di come mi avevano colpito quei suoni. La memoria. Qualcosa di incredibilmente prezioso, qualcosa che valutavo più di tanto altro perché era la sola a restare anche quando devastazione e distruzione portavano tutto via con sé. Solo la memoria di Yean Edhil sarebbe rimasta, solo la memoria di Al Sura avrebbe continuato a farla vivere così com’era stata; non una calca di sabbia e rovine, ma qualcosa di vivo e cocente come solo il sole sul Sarsham avrebbe potuto essere. Solo la memoria di Calien l’avrebbe resa eterna fra quegli stessi cieli: Caleem. Quando qualcosa smette di esistere, è la memoria a farlo perdurare. Quando siamo smarriti, è la memoria a inserirci sulle vie del ritorno. La memoria, tutto ciò che avevo che forse avrei avuto mai, quella prima di Idur, quella dopo Idur, e quella di Idur stessa. Quella di me. I nomi avrei potuto dimenticarli; forse un giorno non avrei ricordato le lettere e le sillabe che li componevano, tutti quelli che mi erano stati affibbiati, eppure sapevo che, sempre, ne avrei ricordato il senso. Era la memoria la mia consolazione più grande, nella memoria che potevo incontrare mio padre, mia sorella, Calien, Urjec, Saida Zayira ed Elmar Asad. Lo guardai per qualche istante, immobilizzandomi all’improvviso nel mio incedere per premere gli occhi su di lui. Mi sembrò terribile qualcosa di simile, non ricordare era per me peggio che morire. La morte, in fondo, non mi spaventava; avrei affrontato l’eterno ritorno e se Al Sahi voleva, sarei salito fino al suo firmamento per guidare le strade vuote di un mondo che non conservava altro di sé, se non quella stessa memoria incisa in tutto ciò che il Sarsham non avrebbe reclamato ancora una volta. Ma la dimenticanza sarebbe stato qualcosa di terribile. Tutti quei mondi che non esistevano più se non lì, fra i ricordi, avrebbero infine per davvero esalato quell’ultimo, disperato, fiato. Mi sentii pervaso da una sensazione che risalì dallo stomaco alla gola, ma mi lasciò forse un sorriso ancora più sincero sulle labbra. Era un’anima vagante ancor più di quanto avessi potuto pensare, all’inizio, scorgendolo, e per qualche motivo quella piccola, enorme, informazione, aveva fatto sì che la mia decisione di aiutarlo scavasse ancora più a fondo, andando a germogliare negli spazi della mia anima. Non avrei potuto essere come Saida Zayirah o Elmar Asad, ma avrei potuto fare quello, e non avrebbe ripagato nessuno, ma non era mai stato quello il punto. Gli equilibri erano in quel momento imperscrutabili per me, troppo trascinato nella direttiva delle mie vie buie dipanate di fronte a me, eppure quello mi era incredibilmente chiaro. Lo avevano chiamato John, come avevano chiamato me Threlasan, Minylath, come avevo chiamato me stesso Dėlïshk, eppure era qualcosa di completamente diverso. John non rappresentava niente di lui, non era stato scelto per qualcosa che gli appartenesse. «Mi dispiace» mi dispiaceva davvero, in un modo profondo. Era forse stata sempre la più grande controversia della mia vita: ero assolutamente consapevole di quanto morte, miseria e distruzione fossero fondamentali, eppure me ne sentivo colpito ogni volta, incapace di fingere che non m’importasse. Elmar Asad mi aveva detto che questo era ciò che significava essere umani, ma anche consapevoli di quei moti necessari. Gli estremi erano parti necessarie ad ogni esistenza, e senza uno o l’altro nulla avrebbe potuto esistere. Ignorarli, mi aveva detto, non avrebbe fatto di me qualcuno di più adatto a quel ruolo che avevo sognato di ricoprire, esattamente come aveva fatto lui. «La memoria» specificai poi, imitando di nuovo il suo gesto, come se fosse importante che almeno ricordasse il nome di ciò che aveva perso, un paradosso quasi intrinseco. Ripresi a camminare, sempre attento che mi venisse dietro, attento a non muoversi bruscamente, attento a mantenere la mia andatura pacata seppur rapida; volevo in fondo arrivare quanto prima possibile perché mangiasse. Il ristorante non era lontano, qualche altro attimo, una volta fuori dal parco, e si presentò di fronte a noi. «Per quanto riguarda... la memoria» iniziai ancora, mentre entravamo e interrompendomi per chiedere un tavolo per due, lasciando che ci conducessero ad uno libero. «Forse posso aiutarti a ricordare qualcosa» continuavo a parlare lentamente e a cercare di usare i gesti, anche se diventava più difficile man mano che i concetti si facevano più astratti. «A farla funzionare bene» aggiunsi allora. Non ne ero sicuro, era un forse, ma poteva pur in fondo essere qualcosa. Non avevo idea di quali fossero questi dottori, ma poteva tranquillamente essere che non avessero le doti che alcuni, in quella Dimensione, avevano. Esattamente come le avevo io.


    Edited by usul; - 5/5/2024, 11:29
     
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    John Doe
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    Non so cosa pensi di me questo Esa, non so che intenzioni abbia, ma so che ho fame, troppa, lo stomaco inizia a stringersi e contorcersi e fa male. Sono resistente, so di esserlo, il mio corpo deve essere stato abituato perché vedo la mia resistenza, diversa da quella degli altri che come vivono per strada, ma anche io ho un limite, un pu to di rottura. Mentre lo seguo, ancora una volta la sento, stavolta mi descrive un insieme di pagine, lo chiama libro, sembra vecchio e consumato, mi parla di questo pianeta, della sua posizione nella galassia, come se non ne facesse parte. Mi parla come se non ne facessi parte nemmeno io, ed è così che mi sento, distante, lontano, in un luogo che non mi appartiene, senza ricordi, senza nemmeno più sapere come si parla. Senza un passato. Che futuro può costruire un uomo su queste basi? Nessuno, ed infatti proseguo le giornate semplicemente sopravvivendo, senza alcun progetto in mente se non quello di privare a mettere insieme quei pochi pezzi che ho.
    Quando mi hanno trovato era disorientato, vestito in modo strano e ferito. Hanno parlato con parole che non comprendo, concetti troppo complessi perché li afferrassi e ancora oggi non so cosa mi sia capitato. Ho dei fogli sgualciti in tasca, lascito dell'ospedale per spiegare quel poco che anche loro hanno evinto, eco di semplici congetture. Sento le sue parole, le ho già sentite, suonano sincere e per un attimo capisco dalla sua espressione che no, non ha cattive intenzioni. Forse mi sono imbattuto in un'anima gentile e nulla di più, e tanto mi basta. Me-mo-ria. Scandisco sillaba per sillaba perché possa rimanere impressa nella mia mente, cogliendo al volo la possibilità di farmi insegnare. In questo periodo quel poco che ho imparato è stato frutto di esperienze di sopravvivenza per lo più, ed il mio vocabolario è rimasto limitato senza una guida a direzionarmi. Lo seguo fino al ristorante, quasi incredulo che mi ci abbia portato davvero. Si crea una ruga sulla fronte quando lo ascolto, frutto dello sforzo per provare a capire ciò che mi sta dicendo. È complesso e astratto, più difficile da mimare. Provo a spiegarlo, perche non sono sicuro di aver inteso. Tu aggiusta?


    Sheet Mirach voice fact Just another long day

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    Tutto ciò che ha * è nella sua lingua nativa, quella di Mirach
     
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    dėlïshk - DIMENSIONAL TRAVELER - HALF-GENASI - CĘRILLIĀN - 24 y.o.
    He was warrior and mystic, ogre and saint, the fox and the innocent, chivalrous, ruthless, less than a god, more than a man
    Gli avevo annuito quando aveva scandito quella parola. Me-mo-ria. Uno dei pilastri della mia vita, scandito così nitidamente da apparire quasi come un colpo, un pungo che non avrei potuto evitare neanche se ci avessi provato con tutto me stesso. Era importante, e allo stesso tempo era un macigno. Una forza di gravità a sé stante che mi trascinava in tutti quei punti, irripetibili, e che pure avrei potuto scrutare ancora ed ancora, come una malattia incurabile. Mi rendevo conto di quanto fossimo posizionati sui poli opposti dell’esistenza, sui poli opposti di quella stessa memoria che in modo diversi, contrastanti, ci rendeva egualmente schiavi. Non v’era mai scampo. Ovunque andassimo, chiunque fossimo, saremmo sempre stati schiavi di ciò che ricordavamo o di ciò che, invece, si era perso nei meandri del tempo. Lo guardai per qualche secondo. Non ero certo di poter aggiustare, di poter allungare le mani e ritrovare fra quei buchi dei pezzi che avrebbero potuto diventare, poi, un puzzle completo che di lui avrebbe restituito un’immagine più completa, meno spezzata. Ma lo sarebbe stata? Io conservavo tutti i miei ricordi, uno ad uno, eppure non sapevo dirmi meno sperso, rotto, di lui. Anche la memoria aveva il suo peso, così come la sua assenza, eppure non potevo essere il cieco giudice di quell’uomo. Non lo sarei stato di nessuno. L’uomo all’ingresso attirò la nostra attenzione e con un cenno, feci intendere a John che avremmo dovuto seguirlo per arrivare al nostro tavolo. Era una domanda così semplice la sua, scarna di ogni parola complessa che inevitabilmente, ne avrebbe compromesso la sincera e semplice intenzione. Ero sempre stato legato alle parole, ai discorsi, a quei concetti complessi da estendere lettera dopo lettera e frase dopo frase, ancora ed ancora, come se da solo e con la mia voce avessi dovuto riscrivere il Sarsham dall’inizio alla fine, e tenere pure conto dei suoi mutevoli confini. Eppure quella volta il mio vocabolario era limitato, tranciato di ogni complessità non poteva che esprimere, nel suo essere basilare, il cuore stesso di ogni pensiero. Non v’era spazio per altro in quella comunicazione stentata che doveva far conto di differenze invalicabili, ed in qualche modo la mia mente che era sempre stata aggredita da quegli stessi concetti di nebbia e polvere, doveva riadattarsi a qualcosa che, semplicemente, avrei potuto spiegare con un gesto. Mi sedetti, indicando per lui la sedia posta dall’altro lato del piccolo tavolo, prendendo un respiro mentre ancora ero consapevole di quella sua domanda sospesa che mi sembrava talmente carica, gravida, da scuotermi dentro le ossa. «Posso... » corrugai appena la fronte. Provare, tentare. Erano concetti astratti che non avrei saputo come mimare, come premere a fondo perché comprendesse quanto quella stessa promessa fosse non quella di una riuscita, ma di un tentativo. Era tutto ciò che potevo offrirgli, l’unica certezza che conservavo era quella che avrei semplicemente tentato tutto il possibile. Lo guardai ancora, lasciando andare un respiro con le sopracciglia ancora corrugate e ancora in cerca di una parola che avrei potuto spiegare perché ne comprendesse il profondo senso, e potesse afferrarlo. «Provare, sai cos’è?» glielo chiesi guardandolo, quasi dimenticandomi del tutto lo scopo primario, e molto più istintivo, per cui eravamo lì. Sapevo che quello era uno di quei ristoranti che usava delle immagini, delle volte, su alcuni piatti, ma non c’era modo di sapere cosa gli sarebbe potuto piacere, o per lui di comprendere tutto ciò che si trovava di fronte. Rinunciai a quel compito per il momento, decidendo di concentrarmi invece su quel punto spinoso finché il cameriere non fosse venuto da noi. «Io non sono sicuro di aggiustare» con lentezza, e ancora con il sussidio delle mani per quanto possibile, cercavo di iniziare anche a creare delle frasi più continuative. Forse era troppo, non ne ero sicuro. «Voglio provare» ancora quella parola. Mi resi conto di quanto fosse esattamente così: astratto. Il tentativo non aveva qualcosa di concreto con cui rappresentarlo, era una volontà. Era labile come il soffio del vento, come un sospiro nella notte. Un sogno ad occhi aperti. Quando si avvicinò il cameriere gli elencai una serie di piatti da portare al tavolo, insieme a due bottiglie d’acqua, una naturale ed una frizzante. «Sai cos’è una promessa?» una seconda domanda che per me era piena di valore, di un senso che sapeva di sabbia, di sole e di due lune, di notti lunghe e stelle infinite, di qualcosa che egualmente a tutto il resto, non avrei saputo come spiegare.


    Questo è quello che ha ordinato:
    Samosa
    Aloo Tikki
    Poori Chole
    Idli Sambhar
    Shai Paneer
    Paneer Tikka Masala
    Dal Tadka
    Aloo Gobi
    Bhindi Masala
    Banigan Bhartha
    Pollo Harayali
    Pollo Tandoori
    Pollo al Curry
    Capra Vindaloo
    Kashmiri Naan
     
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