La voce di Isobelle arrivò attutita dallo scrosciare della fontana. Il rumore dell’acqua non riuscì a nascondere il suo tono duro. La palla gelida ebbe un pericoloso battito, un gemito di odio che risalì il petto. L’aveva aspettata. Aveva deciso di rifiutare l’evidenza: lei che torna all’alba dopo essere stata con un tizio che si è scopata e che lo aveva minacciato di scoparsela di nuovo se gli fossero girate. Era rimasto zitto, deciso a non farle pesare le sue scelte, deciso a rispettare la sua libertà, nonostante lo ferisse, nonostante lo avesse lasciato solo dopo una notte tremenda. Era colpa sua. Lui aveva fatto la stronzata spinto da una gelosia furiosa, una gelosia che aveva deciso di zittire tirando fuori un autocontrollo che non credeva di avere. Le aveva preparato un bagno. D’improvviso si sentì ridicolo. D’improvviso l’autocontrollo che stava mantenendo per preservarla sembrò solo un modo per renderle le cose più facili. Si sentì preso in giro. Voleva che se ne andasse? A testa bassa magari, continuando a non fare domande? Pronto ad essere usato, buttato via e sostituito a suo piacimento? La palla gelida s’incrinò. Una crepa superficiale, una crepa che gli permise di assaporare uno spasimo eccitante di libertà. Non era uno zerbino. Tutte le sue attenzioni non erano obbligate. Allungò con calma una mano per spegnere la fontana. Tirò via il tappo per far scolare via l’acqua. Voleva continuare a tenersi addosso il suo odore? Bene. Che facesse pure. Si alzò poggiando le mani sulle ginocchia, si voltò incrociando le braccia davanti il petto per poi poggiare una spalla sullo stipite della porta del bagno. «Quando sono tornato… che ora poteva essere: l’una? le due?... mentre ti aspettavo sapendo che eri da quello lì, Noah» disse il suo nome gonfiandolo di sarcasmo, come se fosse un nome importante, importante tanto da giustificare la solitudine di quella notte «Ho pensato a quello che volevo dirti. Non era semplice, perché tutto poteva portarti ad odiare di più Ardan, mia madre, il circolo e quello che sono diventato, quello che sono adesso. Quindi dovevo scegliere bene le parole e quello che potevo dirti. Se avessi saputo che non saresti tornata, che avresti passato la notte con Noah, mi sarei risparmiato tanti arrovellamenti, anzi mi sarei risparmiato proprio di venire, così potevi fare i tuoi sporchi comodi senza doverti sentire in obbligo di tornare. Magari ti sei rivestita anche di fretta perché non ti eri resa conto che si fosse fatta l’alba, sbaglio? Guarda come sono premuroso anche ora, anche se mi stai cacciando da casa mia. Ti avrei detto “fai con calma” se lo avessi saputo, perché tanto non sarei tornato nemmeno io». Istintivamente si mise a ridere, una risata isterica, furiosa. Passò una mano davanti la bocca stringendo le labbra tra le dita, quando l’allontanò tornò a parlare. «Ma visto che ormai sei qui e io come un cazzone ti ho aspettata, sai che ti dico? Parliamo. Mi ero preparato un bel discorso, sai? Ma ora voglio dirti come stanno davvero le cose nel Manor. Ogni notte io torno da mia madre per fare lezione, lei anima la mia ombra e le dice di uccidermi. Passo buona parte del tempo a cercare di non farmi accoppare da beh me stesso, chiedendomi se la mia morte per mano della mia ombra potrebbe essere considerata suicidio, tanto per fare ironia, tanto per ridere. Però, poi, stringo i denti e tengo duro perché voglio tornare a casa da te. Di solito ci riesco, poi capitano certe notti strane. Notti come quella in cui Ezra, quello che ti sei scopata, ricordi? Beh si quello, mi ha ucciso, così, per divertimento. Mi ha fatto anche il favore di ricordarmi che avete fatto sesso mentre morivo, giusto per rendermi più facile il trapasso. Poi sfortunatamente qualcuno ha pensato bene di riportarmi indietro. A pensarci ora ti avrei fatto un bel favore a rimanere morto, così potevi andare a farti consolare da Noah, ma andiamo avanti. Ogni mattina quando mi sveglio e vengo da te trovo le scie di sangue dei cadaveri che Alaska si porta in camera. Ah e non dimentichiamo che la prima notte che ho passato lì un gruppo di loro, tra cui c’era sempre Ezra, hanno inseguito per il manor una ragazza babbana. La sentivo gridare mentre loro ridevano. Non so cosa ci hanno fatto alla fine, forse l’hanno violentata, o forse l’hanno semplicemente uccisa, o entrambe le cose. Non ne ho idea. E sai io cosa continuavo a pensare quella notte? Che potevi essere tu. Tu con quella dannata bocca larga, tu che non sai stare zitta e non sai stare al tuo posto. Ogni volta che venivi al manor morivo di paura perché temevo che incontrassi uno di loro. Così siamo venuti a vivere qui. Mia madre, mia madre, la donna che ho desiderato conoscere per tutta la vita, mi ha detto che era una pessima idea. Lei non voleva che venissi a vivere con te. Forse ha davvero paura, ma forse è gelosa, o semplicemente non le piace che frequenti una maga bianca. Quindi passo il tempo chiedendomi se un bel giorno non si sveglierà e deciderà di liberarsi di te per farmi tornare al Manor. Magari potrebbe farlo passare per un incidente, spingerti giù per le scale, o farlo fare alla tua ombra. Così muoio di paura anche qui a casa nostra. Mi dico che se fossi un uomo migliore mi farei odiare, così mi rimarresti lontana. Però io ti amo e ho bisogno di te per credere che la felicità esista e quindi ti tengo stretta cercando di non metterti troppo in pericolo, cercando di tenerti lontana dal mio mondo per non rischiare che qualcun altro, qualcuno con meno sale in zucca di Ardan, ti prenda in antipatia. Invece poi scopro che passi la notte con Noah come se niente fosse. Forse perché ti disturba che non ti coinvolga nella mia vita, o forse perché a me non ci tieni abbastanza. Beh dovevo capirlo dal fatto che non mi hai mai detto “ti amo”. Come un idiota mi sono detto che tu lo dimostri con i gesti, non sei il tipo che lo dice apertamente». Scosse la testa sciogliendo la stretta delle braccia. «Allora vediamo un po’ i tuoi gesti, eh Isy? Che cosa ne pensi?» Nik fece un passo in avanti, a cui ne seguirono altri per sancire ogni punto della lista «Dopo la notte dell’attentato alla scuola vengo a cercarti per spiegarti ogni cosa, finisce che ci abbracciamo, ti prometto che non ti abbandonerò mai. Vado a cercare Ardan, che ha appena dovuto fare a fette il cadavere di suo padre ed è da solo chissà dove. Quando lo trovo ci nascondiamo per un po’, giusto un paio di settimane, aspettiamo che si calmino le acque perché farsi vedere in giro è troppo pericoloso. E tu che fai? Pensi bene che io me ne sia scappato via, perché giustamente io ho fatto la stessa stronzata dieci anni fa. Quindi ti sembra giusto scoparti un mio amico per ripicca. Ma io mi dico “era convinta l’avessi abbandonata, non mi sono fatto sentire, sono scomparso e lei ha ragione a non fidarsi di me”. Quindi tutto perdonato. Dopo di che facciamo l’amore a Natale e tu non mi permetti di scostarmi quando vengo, quindi io penso che finalmente hai deciso di mettere su famiglia con me. Penso che mi ami tanto da rinunciare alla tua liberta. Quindi credo di essere l’uomo più fortunato del mondo e quando mi chiedi di abbandonare mia madre, ripeto: la donna che ho sperato di incontrare tutta la vita, e Ardan, il ragazzo per cui ho sacrificato la mia libertà, sono ben felice di farmi odiare da entrambi per stare con te. Sono innamorato, l’amore è molto più importante di qualsiasi altra cosa per me. Poi la gelosia mi fa fare un’altra stronzata, Noah è troppo perfetto, è il buono della storia, quello con cui hai già fatto sesso e con cui vai all’università. Noah rappresenta tutto quello che potresti avere e che io non sono: un tizio senza complicazioni, che non ha una madre che potrebbe ucciderti e non è ricercato dal macusa. Lo odio… sono invidioso, lo ammetto, lui è fottutamente perfetto e se fossi un uomo migliore questa notte, vedendo che non tornavi, me ne sarei andato e ti avrei lasciato con il pensiero di averti abbandonata di nuovo. Tanto per te è facile pensarlo, molto facile, appena io potrei fare un errore tu mi precedi e ti scopi qualcuno, meglio ancora se è uno che conosco così posso immaginarti per bene. Perché in fin dei conti è meglio ferirmi piuttosto che darmi una cazzo di possibilità. Giusto?». L’ultima frase quasi la gridò, incapace di trattenere la rabbia che filtrava ad ondate violente dalle crepe del suo autocontrollo. Ormai le era vicinissimo, ad un passo dal suo viso. «Però, sfortunatamente nel tuo piano perfetto di vendetta personale, c’è un piccolissimo dettaglio che non funziona: io torno sempre» ringhiò afferrandole le guance con una mano. Lasciò scivolare il suo mento rotondo nell’incavo tra pollice e indice. Affondò le dita nelle sue guance e la costrinse a guardarlo negli occhi. «Anche se non riesco a guardarti in faccia, perché sai quello che vedo? Vuoi saperlo? Vuoi entrare nella mia testa?» latrò digrignando i denti. Il suo viso non era quello che si trovava davanti, ma la smorfia di piacere mentre Noah le entra dentro. Sentiva i suoi gemiti, gli stessi che aveva ascoltato lui stesso con l’orecchio schiacciato contro le sue labbra quando era lui a starle sopra. La vedeva mentre Noah le baciava il seno, le toccava le gambe e passava le dita tra le sue cosce. La vedeva prenderglielo in bocca e poi osservarlo soddisfatta e compiaciuta venirle sul viso o sul resto del corpo, o magari dentro di lei mentre gli stringeva i fianchi con le gambe. E poi la vedeva accarezzarlo, baciarlo, guardarlo. Quelle immagini lo tormentavano, erano pungoli insopportabili sul fondo del suo cuore che non riusciva ad articolare a parole. Pensieri strazianti gli dicevano che lui non era niente e non meritava niente. Non meritava di essere amato, non meritava di essere consolato. Voci meschine che sussurravano nella sua testa dalla mattina alla sera e che ostinatamente si costringeva a sopprimere, nonostante Ardan continuasse ad odiarlo, nonostante Isobelle continuasse ad allontanarsi, nonostante sua madre continuasse ad ignorarlo come fosse solo un fantasma, qualcuno che l’aveva costretta ad uccidere suo marito tanto tempo prima. Nessuno poteva amarlo e Isobelle d’improvviso era la prova vivente di quella delusione cocente, di quella decisione cosmica per cui lui non meritava di avere una famiglia, né tantomeno essere felice. Strinse ancora più forte la presa sul suo viso, per sopprimere il dolore e la rabbia in quella che era tutta l’intimità che ormai riusciva ad avere con lei. Era solo violenza. Pura brutalità che gli ribolliva nelle vene. Era il sangue nero, lo sapeva, il suo schifosissimo sangue corrotto. In un altro momento avrebbe allentato la presa sul suo collo, le avrebbe permesso di respirare, si sarebbe allontanato e sarebbe scappato via disgustato dal fatto di averla anche solo sfiorata. Invece in quell’istante Isobelle non era nient’altro che il dolore che continuava ad infliggergli e contro cui era sempre stato impotente, incapace di sapere come reagire, cosa dirle per non ferirla, per non farla allontanare. Aveva sempre rispettato la sua libertà, anche quella mattina lo aveva fatto, a discapito del rispetto verso se stesso. Strinse ancora di più la presa, ormai il controllo era lontano anni luce, la palla di ghiaccio nel suo stomaco bruciava come un incendio. E alla fine urlò. Più di un urlo voleva essere un ruggito, voleva essere l’uluato del lupo davanti la luna, il suo grido di solitudine e di rabbia, era il baratro vuoto che non si era mai concesso di provare…