A
ll'inizio si era sentito un po' in colpa. Le indagini su Greed erano ancora in alto mare, Astrea era scomparsa e anche se aveva la certezza che Caspar si stesse prendendo cura di lei e di sua figlia, qualcosa gli diceva che era sbagliato. Era sbagliato uscire con Argo in quel periodo, prendersi del tempo proprio in quel momento. I problemi facevano capolino ad ogni porta e la situazione non era delle migliori, nè al mafi, nè tra i defensores. La questione che doveva essere risolta alla svelta, prima che creasse problemi seri, era la faida tra Turner e Jeremiah. Il capo del mafi era un uomo tutto d'un pezzo, lo si capiva anche solo dal modo in cui si muoveva, o guardava le persone, come se non le vedesse. C'era sempre la sensazione che le attraversasse, attratto da qualcosa di molto più importante che lo spingeva anche a modi risoluti. Veniva scontato pensare che fosse perchè avesse per la mente un qualche caso particolarmente difficile. Ogni sua scelta determinava la salvezza di molti maghi, vite umane, per le quali Daniel non poteva essere che grato. Sulle sue spalle gravava il peso di responsabilità enormi. Eppure quelle stesse responsabilità sembravano averlo indurito nel suo ruolo. Non vedeva più le persone come tali, almeno a lavoro. Si era costruito come una roccaforte contro cui Jeremiah continuava a scontrarsi, deciso per qualche ragione ad abbatterla. Il loro, però, non era uno scontro ad armi pari. Turner era un superiore e se anche apparteneva ad un dipartimento diverso Jay doveva riuscire a tenere a posto la sua testa calda. Era una consapevolezza che accettava a malincuore, sapeva che non sarebbe stato facile spiegarglielo e sopratutto farglielo capire. Poi c'era Will, qualcosa in lui non andava, percepiva provenire dalla sua aura una sensazione strana che strideva con l'indole riflessiva e per certi versi controllata di quando era ragazzo. Si trattava di un'agitazione di fondo che cercava senza successo di dominare. Se non fosse riuscito ad aiutarli a riequilibrare il loro chi quando avessero incontrato di nuovo Greed non avrebbero vinto. Dovevano risanare i rapporti che il tempo aveva logorato e in qualche maniera riuscire a collarboare con Turner ed il resto del mafi. Greed e la sua cricca non erano un nemico che potevano affrontare da soli, non quando erano solamente in tre. Una stretta al cuore lo prendeva ogni volta che quel pensiero attraversava la sua mente. Per quanto non pensarci fosse l'unica soluzione per mantenere la calma doveva prendere una decisione. Sostituire i vecchi membri voleva dire chiudere definitivamente un capito ancora troppo importante della sua vita, non sarebbe stato facile. Eppure si era costretto a considerare quella possibilità. Sapeva già a chi avrebbe chiesto di unirsi ai defensores. Trevor era la prima scelta. Aveva completato gli studi sotto la sua guida e prima ancora li aveva iniziati sotto quella di Edward. Era stato un ragazzo maturo e sincero, crescendo era diventato un uomo buono che già metteva le sue capacità al servizio del bene lavorando per il mafi. Aileen era la seconda scelta. Lei avrebbe iniziato la specializzazione di lì a poco. L'idea di metterla in pericolo lo tormentava di notte quando sognava di perderla improvvisamente esattamente com'era stato per suo padre. Però quel posto apparteneva a lei com'era appartenuto ad Edward. Era una sorta di tacito lascito, che portava scritto il suo nome a chiare lettere. L'avrebbe istruita durante la specializzazione assicurandosi che fosse pronta non appena sarebbe arrivato il momento. Poi c'era una nuova possibile recluta. L'aveva vista una sola volta, eppure era bastato perchè comprendesse le sue innate capacità. Lei era come Caspar. Portava dentro di sè una luce intensa di cui era completamente inconsapevole. Si trattava di Jillian Lagrange. Lei probabilmente non aveva idea di chi fossero i defensores, ma un giorno avrebbe cominciato a parlargliene e forse avrebbe preso l'incauta folle idea di affiancarli nella loro missione. Astrea sarebbe tornata, un giorno o l'altro. Fosse anche solo per merito di Adam, che avrebbe smosso mari e monti pur di ritrovarla. Gli aveva letto quella determinazione nello sguardo gelido, come nel suo modo di fare più razionale e pragamatico del solito. Il che per Adam voleva dire raggiungere il livello di distacco di un computer, un robot dalle fattezze umane. Decisamente non gli faceva bene. Lui ovviamente non se ne rendeva conto e la sua stolida tenacia nel preservare i suoi modi controllati faceva vacillare persino Daniel, che a tratti si domandava se non si sbagliasse. Forse era possibile avere quel grado di dominio di se stesso e poter comunque essere una persona emotivamente sana. Al mafi vedere il modo in cui lui e James interagivano senza nemmeno rivolgersi la parola lo aveva annichilito. Si rimpoverava ancora il fatto di non aver ancora provato a stringere un rapporto con lui. Si rimproverava anche di essere scappato con la coda tra le gambe di fronte la possibilità di avere contatti con la sua famiglia biologica. In verità era arrivato a vergognarsi di come erano andate le cose. Se ne vergognava più di quanto non si vergognasse della reazione che aveva avuto nel rivedere Caspar dopo anni. Se nel secondo caso forse aveva delle minime scusanti, con Adam non si concedeva nemmeno quel lusso.
Nascosti tra tutti quei problemi ce n'erano altri ancora, più vecchi, sedimentati dentro la sua anima come licheni aggrappati ad una statua secolare. Quando ci ripensava si sentiva vecchio. Aveva quarant'anni. Se ne rese conto guardando il tramonto dal porto di Staten Island, mentre sistemava le ultime cime. Era davvero invecchiato. Il suo tempo era trascorso silenziosamente, come la luce di quel giorno ormai al crepuscolo. Nonostante la sua vita si fosse fermata quando Caspar era scomparso, il suo corpo era invecchiato e la sua anima aveva accumulato quasi il doppio dei suoi anni in sofferenza. Chissà se Caspar quel giorno sentiva il peso dei suoi quarant'anni. Si scoprì malinconico. Forse era il momento della giornata, al tramonto scopriva spesso di vedere le cose in modo diverso. Sui pensieri si gettava un'ombra, che era il presagio del buio della notte, quando le sue paure potevano animarsi nei sogni e farsi più cupe e spaventose. Oppure era quel giorno. Un giorno che come tanti altri Greed gli stava strappando dalle mani. Stringendo l'ultima cima, si rese conto di sapere esattamente cosa avrebbe fatto di lì a poco. Altrettanto chiaramente capì che non sarebbe riuscito ad impedirselo, si sarebbe presentato all'indirizzo che ormai aveva imparato a memoria e avrebbe bussato alla porta. Si sarebbe presentato, avrebbe stretto la sua mano, si sarebbe fatto accomapgniare fino al divanetto dove chissà quante altre persone fortunate si erano sedute. Loro avevano avuto del tempo con lui. Avevano potuto parlargli ed essere ascoltate. Un privilegio che a Daniel sembrò inestimabile. Si sentì quasi ferito da un senso d'ingiustizia, che sovvenne insieme al desiderio inalienabile che aveva semplicemente di guardarlo. Era una possibilità che ancora lo scuoteva fin dentro l'anima e di cui si era privato solo per il suo bene. Nessnuo torna mai dal mondo dei morti, eppure il suo Caspar ci era riuscto, lo aveva fatto, era resuscitato inspiegabilmente ed era seduto in quel momento,
quel giorno, difronte ad un estraneo zittendo se stesso per riuscire a concentrarsi su di lui. Tornò ancora quella sensazione di disagio, il desiderio di prendersi qualcosa anche se non avrebbe dovuto. Si sentiva come un bambino pronto a rubare un biscotto dalla credenza prima di cena. Fu una sensazione febbrile. Si voltò improvvisamente di nuovo pieno di energia per guardare Argo e assicurarsi che fosse tutto in ordine. La osservò a lungo, anche più del necessario. Aveva passato una giornata perfettamente pigra e nonostante ciò enormemente stancante. Aveva veleggiato per buona parte della costa di Staten Island per raggiungere una zona di pesca. Lui e Trevor avevano pescato due belle trote che avevano cucinato e accomapgnato col vino che il suo ex studente aveva portato. Non era abituato a bere, eppure aveva alzato comunque il gomito, spinto da una spensieratezza che non era stato disposto a contraddire. Il sapore del vino bianco non gli era mai sembrato più buono. E alla fine prima del tramonto erano tornati indietro. Si era concesso persino un bagno prima di partire. Il sole per tutto il tempo lo aveva accompagnato sciogliendo la sofferenza come nodi di gelo. Sentiva la presenza di Pelor più forte che mai, permeava la luce come la carezza affabile di un padre. Con un salto piuttosto incauto passò dalla poppa di Argo alla banchina di cemento senza l'uso della passerella. Fu un tentativo vertiginoso che fortunatamente non si concluse con un secondo bagno e che per qualche ragione lo fece sentire euforico. Il vino doveva ancora solleticargli la mente per renderlo così ridicolmente felice anche in un momento come quello. Mentre camminava ad una luce sempre più fioca verso la macchina, si rese conto di quanto fosse bollente, irradiava calore. Doveva essere stato tutto il sole di quel giorno. Si osservò allo specchietto dell'auto una volta che l'ebbe raggiunta. In effetti era rosso in viso e sulle braccia, lì dove la polo bainca aveva lasciato scoperta la pelle. Abbassò la testa solo per avere la conferma che i bermuda blu notte avevano fatto lo stesso lavoro. Rise di se stesso per quel modo ridicolo in cui si era abbronzato, chiedendosi quanto tempo ci sarebbe voluto per rimediare. Salì sull'auto e partì con i finiestrini anteriori abbassati e il gomito sinistro poggiato per metà di fuori. Il vento s'incanalava nell'abitacolo dell'auto, sollevando mulinelli che gli scompigliarono i capelli. Il sole, grazie anche ai cristalli di sale ancora intrisi, aveva finito per schiarire alcune ciocche, che all'ombra del macusa sarebbero tornate prontamente nere. Ogni volta che passava del tempo fuori in barca finiva in quel modo, come se intrappolasse dentro di sè dei raggi del sole. Quella strana euforia forse era dovuta allo spicchio di sole che era riuscito a rubare, oppure alla sua meta. Il fatto che si fosse concesso con tanta facilità un capriccio come quello rendeva la corsa dell'auto eccitante come una fuga fuori orario. In quel momento stava scappando dalla casa dei genitori dalla finestra per andare sotto al balcone del ragazzo che amava. Quel pensiero alleggerì un po' il peso degli anni che si sentiva addosso. Stava andando da
lui. Stava andando da Caspar. Se lo ripetè un po' incredulo e un po' impaziente. Ogni volta che pensava il suo nome l'eccitazione cresceva e così anche la fretta, che lo spingeva a premere sull'acceleratore più di quanto avrebbe fatto altrimenti. Era il tipo di guidatore che non supera mai i limiti stradali, preferendo mantenere la destra che irritare uno dei poliziotti No-Mag. Con un incantesimo psichico avrebbe potuto congedarli in pochi secondi, ma la tentazione non lo aveva mai sfiorato, anche quelle poche volte che lo avevano fermato per controllo di routine. Mostrava i documenti, sorrideva con garbo e poi ripartiva. Gli piaceva seguire le regole di quel mondo di cui si sentiva solamente un ospite. Caspar invece con il suo lavoro ci si era insinuato come se fosse un luogo sicuro. Edward Callahan. Avrebbe dovuto pensare anche lui ad un cognome per il suo personaggio fittizio. David... Clark... Campbell... Carter... Cooper. David Cooper. Sembrava abbastanza anonimo, un professore di letteratura inglese di un liceo. Uno di quelli che indossano una giacca di tweed e camice a quadri. Con sorpresa si rese conto di essere arrivato. Aveva divagato con la mente tanto di quel tempo che aveva pericolosamente smesso di prestare attenzione alla strada. Si ammonì di essere più presente durante il ritorno, nonostante sapesse con certezza che i ricordi dell'ora passata con Caspar gli sarebbero apparsi davanti senza controllo. Il tempo che impiegò a parcheggiare fu intollerabile. Di solito era molto più paziente, invece quella sera non ne voleva sapere di tardarsi ulteriormente, non aveva intenzione di dare a Caspar nessuna scusante plausibile per rimandarlo a casa senza concedergli un'ora di visita. Chiuse la portiera dell'auto e si premurò di bloccare le serrature. Era pronto. D'improvviso immaginò un auto investirlo mentre attraversava la strada per raggiungere il citofono dall'altro lato. Il terrore che una cosa del genere potesse impedirgli di arrivare lo spinse a prestare un'attenzione quasi eccessiva alla strada prima di attraversare. Altro tempo inutile. Cercò di calmarsi, prendere un profondo respiro davanti al cancello. Riuscì ad entrare nel momento esatto in cui una donna usciva. Ne approfittò anche per chiederle dove potesse trovare il dottor Callahan. Pronunciarlo ad alta voce quasi gli fece venire da ridere. Ringraziò la sconosciuta, che gli lanciò un'occhiata incuriosita, in effetti non doveva essere passato per sano di mente. Fortuna che Caspar era psichiatra, così la copertura non saltava. Quando si trovò di fronte la porta si fermò di colpo. Il cuore in petto batteva come un tamburo da guerra, lo incitava ad avanzare con prepotenza, lo sentiva rimbombare fragorosamente persino nelle orecchie. Il petto si alzava e si abbassava rapido e vistoso. Respirò profondamente. Soppresse l'aura. Respirò ancora. Alla fine il sorriso impetuoso che gli aveva illuminaso il viso fino a quel momento si addolcì in una linea sottile, obliqua. I capelli erano scompigliati dal vento e addosso aveva ancora l'odore di mare, sole e sudore, ma non ci badò nemmeno per un attimo. Allungò quasi tremante la mano fino al capanello, vi esercitò una pressione leggerissima. Il trillo violento quasi lo fece trasalire, ma si costrinse a rimanere fermo, composto. David era un uomo mite, un po' trasandato, che facilmente passava inosservato. Voleva essere come lui. Sperava che Caspar avrebbe capito e non facesse storie, che reggesse il gioco. Non appena avesse visto la porta aprirsi e il dottor Callahan emergere avrebbe allargato un po' il suo sorriso, fingendo un'aria distaccata, ma gentile.
"Salve dottor Callahan, sono David C...ooper, David Cooper, e sono qui per una visita".