A
quanto pareva l’esito del test prevedeva una risposta degna d’uno psichiatra da parte del docente, parole che arrivarono inaspettatamente e anche malvolute.
«Credo che lei stia vivendo una mancanza di introspezione, signor Hynes», Shaw mantenne le iridi piantate in quelle altrui, tenendo solido quel contatto visivo che per nulla al mondo avrebbe interrotto per primo e che, da parte sua, non mostrava né un minimo d’interesse né quella lieve collera provata poco prima; aveva imparato da parecchi anni ormai che esporsi non portava mai nulla di buono: spogliarsi della propria armatura donava all’altro strumenti di vantaggio rendendo semplicemente deboli. Lui ormai applicava questa teoria inconfutabile a qualsiasi situazione, compresa quella che stava vivendo.
Non rispose alla prima frase, restò fermo al suo posto con quella faccia che a prenderla a schiaffi si avrebbero avuto le proprie soddisfazioni, e mentre lui continuava a tacere e a studiare, l’insegnante si avvicinava proseguendo il suo discorso.
«Se vuole recuperare il rapporto con il suo subconscio dovrà analizzare se stesso più a fondo di quanto forse abbia il coraggio di fare»Le labbra di Shaw si schiusero all’improvviso per lasciar uscire la tipica sbuffata di chi pare non credere alle proprie orecchie.
« Coraggio? », ripeté con un sopracciglio leggermente inarcato ad accentuare quello che poteva essere definito quasi scherno, il capo appena più vicino alla spalla destra. Nonostante quella faccia tosta, sotto sotto sapeva bene quanto l’insegnante avesse ragione, solo che ad ammetterlo non ci sarebbe arrivato mai. Quindi fanculo alle buone maniere, alla buona volontà e a tutto ciò che potesse essere definito “buono” dal
buonsenso comune.
«Ognuno ha le sue ombre, non è facendo finta di non vederle che riuscirà a dissiparle»“Touché, Callaway”, avrebbe dovuto pensare il ragazzo, invece piegò maggiormente i lati di quella bocca verso il basso incamerando aria nei polmoni prima di rilasciarla in una specie di sbuffo lento, diventando per qualche secondo l’emblema dello scetticismo.
« Prospettive. », considerò dopo aver incrociato le braccia al petto.
La fortuna fu dalla sua parte e anche quella conversazione abbastanza inutile ebbe fine. Shaw seguì i movimenti dell’insegnante per qualche secondo, dopodiché tornò a guardare un punto fisso in fondo all’aula e lì lo tenne finché Callaway non riprese a parlare.
Inizialmente pensò che avrebbe impiegato meglio il suo tempo restando a letto, quella mattina, o al massimo avrebbe potuto iniziare a capire in quale direzione voltarsi per trovare chiunque spacciasse in quella scuola. Perché era ovvio che ci fosse qualcuno: quale college era privo di gentaglia della sua specie infiltrata per riempirsi le tasche a discapito di studenti? Nessuno. Dunque era arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e riprendersi la vita da dove l’aveva interrotta, anche se questa era stata spostata dall’altra parte dell’Oceano. Quindi, quando sentì il docente blaterare circa funghi allucinogeni - perché tutta la premessa l’aveva ignorata di default - la sua attenzione tornò piuttosto viva. Gli spuntò pure una specie di sorriso a metà, deliziosamente incredulo per quanto potesse esserci qualcosa di seriamente “delizioso” in quella faccia facilmente detestabile, e fu automatico abbassare lo sguardo su quella teiera contenente le sostanze di suo interesse. Si era già fatto di funghi allucinogeni, anche se non rientravano nella
top three delle sue droghe preferite, ma questi dovevano per forza avere qualcosa di particolare considerando il luogo in cui si trovava. C’era qualcosa di
normale in quel college? Addirittura gli insegnanti si mettevano a drogare gli studenti… Quasi quasi iniziava a piacergli. Peccato solo per tutte quelle parole di troppo che Shaw, di nuovo, non ascoltò: in quel momento era quasi come un ragazzino al quale erano stati restituiti i giocattoli dopo un’ingiusta punizione.
Si riempì la tazza con quell’infuso di sostanze psichedeliche e se lo portò sotto al naso, quasi volesse accertarsi che si trattasse seriamente di funghetti allucinogeni e non di qualche miscuglio mortale, e solo dopo essersi accertato che qualche studente prima di lui non fosse morto portò il bordo del contenitore alle labbra e lo scolò tutto d’un sorso. Il liquido faceva schifo, nonostante avesse ingerito di peggio, quindi strizzò gli occhi di riflesso con una smorfia che la diceva lunga su quanto poco gli piacesse quella
roba. La tazza finì di nuovo sul tavolo e la mano alla gola, ma quando riaprì gli occhi non trovò ciò che aveva lasciato: l’aula, l’insegnante e tutte quelle teste che aveva davanti agli occhi fino a pochi secondi prima avevano ceduto il posto alla luce.
« Cazzo! », imprecò serrando di nuovo gli occhi di riflesso con una mano che, rapida, aveva raggiunto il viso per schermarlo.
C’era una luce accecante, il tipico bianco del sole di mezzogiorno diffuso tutt’intorno da una coltre di nubi chiarissime. Elevato all’infinitesima, però.
Tirò giù un Santo dal Paradiso, un altro corse appresso al primo poco dopo, mentre il terzo si salvò solo perché, andando a tentoni, tra un francesismo e l’altro Shaw era riuscito a trovare la maniglia della porta di legno. L’aprì con forza, mano fissa contro gli occhi, e subito addossò la schiena alla parete di pietra che era liscia, fredda e stranamente umida sotto i vestiti leggeri che indossava. Si prese qualche secondo per adattarsi almeno alla poca luce che, dalla porta accostata, entrava quasi di violenza all’interno di quello spazio sul quale ora iniziava ad avere una visuale quanto meno accettabile, per quanto fosse parziale: era una stanza piccola, circolare e apparentemente senza finestre, il cui unico accesso sembrava essere quel rettangolo di legno. La vista era ancora debole, però a restarsene lì a fare la
mezza sega per un po’ di luce non se ne parlava, dunque iniziò a muovere qualche passo di nuovo verso l’esterno, stavolta con le palpebre aperte quanto bastava per poter scorgere qualcosa di utile; fu una fatica immensa tenerli aperti per più di dieci secondi e abituarsi a quel chiarore, ma quando lo sforzo fu ripagato Shaw riuscì a raggiungere la balaustra che lo separava dal vuoto. Era in cima al
Monument to the Great Fire of London, noto maggiormente come
The Monument e basta. A differenza del solito non c’era alcuna protezione a cupola, e pian piano che iniziava a mettere a fuoco non mancò di notare un particolare al quale avrebbe dovuto prestare attenzione da subito: Londra non si muoveva, c’era un silenzio opprimente a far compagnia a quella che sembrava una città fantasma.
In cima a quella torre era il Re del Niente.
Tastò le tasche in un gesto spontaneo volto a trovare il solito pacchetto di sigarette fin quando, dopo averle ispezionate anche più del dovuto, gli fu chiaro di non avere niente con sé che non fossero i vestiti che aveva addosso. Un pugno chiuso andò a battere verticalmente sul bordo al quale era appoggiato - il banco in classe subì lo stesso trattamento - in un gesto di frustrazione che poi lo portò a lasciarsi quella cieca e inutile altezza alle spalle.
Stavolta lasciò la porta spalancata, e di nuovo fra le pareti del monumento si affacciò direttamente verso il centro dell’
infinita scalinata che, ormai sapeva, lo stava aspettando. Era già stato in quel posto, ormai più di dieci anni prima, durante una gita scolastica nella Capitale britannica: in quell'occasione a detta sua non era successo proprio un bel niente. Non riusciva a capacitarsi, dunque, del perché si trovasse in quel luogo o del perché dovesse farsi esattamente
trecentoundici scalini per raggiungere la terra. La cima di quella torre era il posto ideale, una volta raggiunta, per sentirsi quasi un dio traballante sui piedi ma gonfio d’orgoglio dentro, ma scendere era tutt'altra storia. Era un po' come farsi il cosiddetto
"mazzotanto": impegnarsi duramente per raggiungere dei risultati per doverli poi abbandonare senza nessun motivo valido, controvoglia e anche faticando. Scalare una montagna parecchio alta e scendere di nuovo a valle senza neanche farsi un Bombardino. Solo che Shaw, in quella situazione, non aveva faticato affatto a raggiungere la parte più alta della torre: la sua fatica stava tutta nel dover andare verso il basso. Quanto poteva essere frustrante doversi spolmonare per ritornare allo stesso livello di tutte le persone comuni? A questa domanda rispose mandando un qualcuno non ben definito a fanculo - parola che il professore avrebbe sentito indubbiamente - senza nessun mezzo termine inutile a tracciarne il sentiero, e a quel punto iniziò il suo percorso. In fin dei conti scendere delle scale non era la fine del mondo, anche se proprio non riusciva a capacitarsi del perché dovesse fare una cosa così inutile: in questione erano state messe parti di lui che non conosceva, o meglio non riconosceva, e il suo livello di narcisismo non gli stava permettendo di riallacciare quella specifica esperienza ad un'allegoria, quasi, del suo essere. Continuava a muovere un piede dopo l'altro, gradino dopo gradino, accompagnato dal suono di un'imprecazione borbottata pronta a scandire i secondi ogni dieci; più scendeva, più gli sembrava di essere lontano dalla fine, con quegli scalini che da trecentoundici stavano diventando quattrocento... Quattrocentotrentatré... Quattrocentoquarantatré-cinquantatré-sessantatré...
Era fastidioso, frustrante, irritante a livelli inconcepibili, tant'è che per la rabbia quasi rischiò di oltrepassare una porta che, però, non poteva essere lì in nessun modo possibile. Non c'era nessuna porta lungo quella chiocciola infinita, non era possibile che ci fosse una stanza, neanche uno sgabuzzino considerando la circonferenza ridicolmente piccola di quella torre, ma a quanto pareva si trovava davanti ad una scelta: pazientare, comprendere e sudare come chiunque per raggiungere una fine che non sapeva quando sarebbe arrivata o aprire la porta e scoprire cosa nascondesse al suo interno. Entrambe le opzioni erano
roba da pazzi, dato che quelle scale continuavano a moltiplicarsi e quella porta non aveva motivo di esistere... Ma la pazienza di scendere era finita.
Indietreggiò, abbassò la maniglia e restò immobile.
Quanti anni erano passati? Sei? Sette? O magari otto, se non si contava quella visita inutile che sua madre gli aveva fatto il terzo mese di Ashfield solo per dirgli che Wood non avrebbe pagato l'avvocato. Ne era passato del tempo, e ancora di più ne era trascorso da quando lei aveva smesso di trattarlo come se lui non potesse comprendere lo squallore nel quale lo faceva sguazzare da anni, terminato e sostituito solo perché quel figlio di puttana aveva deciso di andare a vivere a casa loro. Ed era proprio lì che si trovava, fra le mura scrostate e macchiate di quella topaia che per anni aveva tentato di chiamare "casa", e sdraiata sulla solita poltrona consumata dal tempo c'era sua madre.
Ogni volta che Shaw pensava a Libby, in mente aveva sempre la stessa immagine: quella di una prostituta svestita e provocante come solo una prostituta di bell'aspetto riusciva ad essere, il cui ambiente di provenienza era però tradito dalla posa d'alcolizzata fatta e finita. E lui così la rivide, con una bottiglia vuota a terra e un bicchiere mezzo pieno in mano.
Lei però non stava guardando lui.
« Finalmente, Shaw... Portami qualcosa da bere. »Aveva gli occhi truccati di azzurro e sbavati di nero chiusi, come se vederlo cresciuto non andasse bene. Perché in fin dei conti quella era una situazione già vissuta, un copione scritto e già recitato fino alla nausea, ma a riviverlo c'era una consapevolezza diversa. Una persona diversa, rinata sui propri pezzi rotti e incollati per forza. Attaccati male.
Shaw non si mosse, non disse una parola, limitandosi per qualche secondo iniziale a dare giusto uno sguardo alle proprie spalle: la porta per la torre, come aveva immaginato, non c'era più.
« Bimbo, Cristo santissimo, portami quel cazzo di gin. Per favore. », lo incalzò roca Libby, con quel "per favore" che avrebbe fatto ridere e piangere in contemporanea chiunque se infilato in quel contesto. Ma lui non stava né ridendo né piangendo, semplicemente non riusciva a dire una parola. Non aveva mai più pensato a sua madre, se non in risposta a degli stimoli esterni e inaspettati che evitava il più possibile, e sicuramente non avrebbe mai immaginato che, di nuovo di fronte a lei dopo parecchi anni, avrebbe provato ancora una volta quel senso di stasi sia fisica che mentale, la stessa che aveva iniziato a sentire intorno agli otto anni. Forse era la lunga lontananza, o magari il fatto che senza di lei si era costruito un mondo entro il quale niente l'aveva e l'avrebbe mai scalfito; o forse era la voglia di restituire il favore e riprendersi ciò che gli era stato tolto da bambino, ma neanche lui sarebbe arrivato a tanto. Il solo pensiero, ora che l'aveva davanti, gli fece salire un conato di vomito, e nello stesso istante Elizabeth Hynes si alzò barcollando e sbuffando dal divano per avvicinarglisi apparentemente alla cieca, ma evidentemente certa di dove avrebbe trovato il figlio.
« Perché non mi soddisfi? Faccio sempre il massimo per te, non fare l'ingrato del cazzo adesso ché io 'sto giorno libero me lo voglio godere. », gli puntò un dito contro e fece per prendergli il viso in una mano, ma a quel punto Shaw si spostò di qualche passo verso il corridoio che portava alla sua vecchia stanza. Aveva la mandibola serrata e il respiro più rapido e rumoroso; non sapeva definire certe emozioni, non voleva nemmeno rivivere la merda che si era miracolosamente lasciato alle spalle anni prima, perché al passato non c'era rimedio se non quello di voltare pagina e riscriversi il futuro partendo da zero. Non sarebbe servito a niente, perché quella rabbia che provava nei confronti dell'ambiente dal quale proveniva, nei confronti di sua madre nello specifico, non l'avrebbe certamente migliorato. Se c'era una cosa che lo spaventava, piuttosto, era il pensiero che qualcuno potesse scoprire.
Mentre Libby avanzava, lui continuò ad indietreggiare, passandosi una mano sulla bocca come a volersi levare di dosso il sapore dell'amaro, delle parole che non riuscivano ad uscire o come a voler trovare una scusa che giustificasse la sua improvvisa non-violenza.
Solo arrivato nella sua vecchia stanza notò quella luce con la coda dell'occhio: non troppo accesa, neanche troppo flebile, doveva essere il biglietto di ritorno per uscirsene da tutto ciò che stava vivendo. Non ci pensò due volte a tentare, ad infilarsi nella sua vecchia stanza per cercare di aggrapparsi a quel bagliore che pareva quasi respirare, lanciando un ultimo sguardo alla sua madre cieca.
« Stavamo bene da soli io e te. », fu l'ultima cosa che sentì uscire da quella bocca così simile alla sua.
Perché in fin dei conti, volente o nolente e per quanto sbagliato e ingiusto potesse essere, quel rapporto malsano lo aveva reso speciale nei confronti di chi l'aveva messo al mondo, e a questo pensiero da piccolo ci si era aggrappato con tutto se stesso.
Era un'eco, e con quell'eco probabilmente sarebbe tornato, in un modo o nell'altro, alla realtà.