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    Celebra una vittoria, ghostie ghostie, e in qualche modo là dentro lo sanno tutti, anche quelli che non la conoscono. Che non sono tanti, ormai, visto che è un habitué.
    «Carica bene, mi raccomando». Solleva il bicchiere verso il barista e poi glielo offre perché lo riempia di whiskey sopra un singolo cubetto di ghiaccio che va sempre più a sciogliersi, lei con gli avambracci sopra il bancone e un ghigno gongolante sulle labbra, le punte arricciate della chioma scura che carezzano il mogano mentre scandaglia la folla che a tratti la applaude, a tratti la studia o la ignora.
    Non l'aveva visto, Ira, almeno non inizialmente. L'inquadra quando lo sente parlare, e Sabine, dentro di lei, ne riconosce la voce, e ora quel ghigno è un sorriso meno compiaciuto e più dolce. Arriccia il naso, ringrazia con un cenno del capo e si riprende il bicchiere, e poi scivola giù dallo sgabello e si avvicina a lui con qualche passetto ben calibrato negli anfibi usurati.
    «Di che sfida si tratta?», domanda, la testa inclinata su un lato. Prende un sorso del whiskey.
    «E soprattutto, cosa vinco? Stasera mi gira bene». E non si direbbe, dal punto di vista di chi non sa cosa faccia - qualche taglio sugli avambracci e un avvolgente strato di polvere sulla pelle ben visibile a chi le stia piuttosto vicino. Per lei una medaglia al valore.
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.
  2. .
    polly
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    Le piace guardare la cugina sorridere, e infatti per qualche istante mangia in silenzio, o prende un sorso della bibita, il cibo in bilico sulle gambe e il bicchierone tra le mani guantate che in quella posizione appare più grande di lei. Annuisce piano, un accenno di fierezza nell'essere considerata grande, probabilmente. Si aggiusta il cappuccio sui capelli legati, appoggia una spalla all'interno della portiera per darsi un po' più spazio di movimento. «A volte penso che mi tornerebbe utile sapermi trasformare come un metamorfo, sprecherei molta meno energia», scherza, più o meno, le sopracciglia arcuate, una smorfietta ad arricciarle le labbra. La guarda con gli occhi grandi, che sembrano farsi ancora più grandi a quella proposta. «Certo che me la sento». Non sarà una sorpresa, per Sadie, nemmeno quel tono elettrizzato che scivola sulle parole anche se ha la bocca piena. «Niente cazzate», promette, con tutta la serietà del caso. «Non sono nemmeno incazzata per me. Sono incazzata... per voi. Per gli altri». Fa spallucce. Questa volta, nella voce non c'è alcun astio, solo un'ammissione sincera che viene fuori spontanea, senza mezzi termini e senza scudo alcuno. «Io penso che la colpa delle cose sia della natura delle persone. Un cacciatore fa il cacciatore. Una creatura fa la creatura. È il nostro posto. E quello è il loro».
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  3. .
    polly
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    hill
    Quello sbuffo di risata che le lascia le labbra è amaro, non pare trovare alcun conforto nella rassicurazione di Sadie, ma alza le spalle senza controbattere oltre. Una smorfia contrita le attraversa il volto brevemente, e finché le mani della cugina sono sulle sue spalle non si permette di muoversi, protetta in quel contatto il più a lungo possibile. «È quello il punto. Non siamo neanche su internet. Tu ti ricordi l'ultima volta che qualcuno di noi ha parlato per canali diversi dalla voce? O da un telefono a gettoni?», e se il linguaggio del corpo, le mani guantate che s'infilano nella tasca anteriore della felpa pesante che indossa, la testa appena inclinata in avanti, lo sguardo assottigliato, suggerisce una fase di stallo, di riflessione, di pausa, ciò non vale per la voce, dietro la quale è malcelato il pressare di quella rabbia fredda che non va via neanche quando smette di ringhiare. «Magari qualcuno ci segue».
    Inclina la testa da un lato, tira fuori una mano per calarsi il cappuccio sui capelli raccolti alla bell'e meglio, le dimensioni esagerate che finiscono per coprirle buona parte degli occhi dall'esterno, e va ad aprire la portiera del passeggero e a mettersi a sedere, dopo aver acciuffato la busta, rannicchiandosi sul sedile e, con un sorriso poco caratteristico che le illumina anche lo sguardo, fa per cercare le patatine, allungando la scatola a Sadie. «Vuoi? E grazie. Mi hanno dato una delle loro ciambelle al MAFI, è vero che ci campano gli sbirri», e stavolta ride, e mentre mastica indaga gli interni dell'auto con gli occhi, lasciandosi andare a un fischio sommesso. «Molto figa la macchina, mi sento viziata». Annuisce pure, e prende un sorso dalla bibita, e arriccia il naso nel pensare e ricordare. «Mi sono sembrati più interessati alle bestie», confessa, «pareva non gli fregasse più di tanto di noi. Quelli che ho incontrato sembravano abbastanza schierati. Dalla nostra parte». E a giudicare dall'aria furba la cosa la compiace parecchio.
    «Quelli» i terroristi «non sono approssimativi come sembrano. Strada nascosta, baraccone senza punti di riferimento, passamontagna... devo seguirne qualcuno, magari riconoscerei la voce, la postura... qualcosa» ... «ma non da sola e non adesso, lo so».
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  4. .
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    È ancora sulla soglia che, dal basso della sua statura, porge una mano allo sbirro che ha addosso quella manciata di suoi possedimenti. Aspetta che sia lui stesso ad appenderle la borsa di cuoio al braccio e posarle il portatabacco in mano, sputando un «grazie» affatto sentito allo scoccare di un sopracciglio irritato per aria. Dopodiché si volta senza guardarlo di nuovo, tirando fuori una sigaretta pronta dal contenitore di stoffa e un accendino appresso. Si premura di accendersela ancora dentro al commissariato, prima di aprire la porta, prendendo due o tre boccate di fila come stesse respirando per la prima volta, ignorando con forza il prurito alle mani offese sotto ai guanti mozzi.
    La destra sta ancora a sospingere la porta di vetri spessi e opachi quando gli occhi registrano la figura di Sadie a qualche passo, sotto ai gradini, e un mezzo sorriso sentito le scava una guancia, quasi le chiude un occhio, il nasino lentigginoso arricciato sotto quello sbuffo di sole che ora non vedeva da qualche giorno. Fa giusto un altro paio di tiri e poi schiaffa la carcassa della sigaretta contro il marciapiede, affrettandosi a fare lei quei passi che la separano dalla cugina, e appoggiandosi a lei e lasciandosi abbracciare, ancorandole le braccia esili intorno alla vita di rimando e appoggiando una guancia contro la sua spalla, respirando a pieni polmoni il suo odore di casa, di sicurezza. Non si permette di rompere il momento, lasciandosi semplicemente abbracciare. Proteggere, in qualche modo. Aspetta che sia Sadie a fare il primo passo, per guardarla negli occhi quando lo fa. «Sto bene, Sade», la rassicura. «Perlopiù qualche insulto. Qualche graffietto qua e là, sono già passati. Sono più incazzata che altro, mi hanno fatto perdere un sacco di tempo e hanno sbattuto la mia faccia ovunque» è l'ultima frase che viene fuori come un ringhio rabbioso e impaziente di rimettersi all'opera. Per la rivalsa, e per recuperare il tempo perduto, e per un fortissimo senso di vergogna per essere stata presa in quel modo. «Gli sbirri sono dei coglioni», e ormai non si premura nemmeno di abbassare la voce, che la sentano pure, «ma non mi hanno toccata». Abbozza un altro sorriso, grata della sua preoccupazione, pure se preferirebbe vedere soltanto il sollievo sul suo volto. «Continuo ad arrovellarmi su cosa potevo fare di diverso. Per non farmi beccare, dico. Sono attenta, ma mi avranno vista da qualche parte, o con qualcuno, per sapere come mi chiamo, chi sono... mi sembra che questi stronzi siano dappertutto».
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    Vuoi sposarmi?
    Con Efrem (che ha vinto!) e Oliver, che ha perso.

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    Marlo
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    «Ciao! Ciao!», non sai se strillando così cerchi di convincere più gente possibile a giocare, o semplicemente conosci tutti. I tuoi amici direbbero che sia più la seconda, ma non si sa mai.
    Ogni tanto accarezzi i peluche che, hai deciso spontaneamente, regalerai soltanto a qualche bambino a fine serata, aspettando qualche giocatore potenziale, e quando se ne presenta uno - che ne porta con sé un altro! - il sorrisone si allarga, e saltelli sul posto come scoccata su una molla.
    Avrai la sua età, forse sei anche più grande tu, ma l'appellativo non ti dà particolarmente fastidio. Lo inviti a giocare con un cenno della testolina colorata, mostrandogli le dita di entrambe le mani che tieni incrociate. Lo stesso varrà per quell'altro, che non saluta nemmeno. E finisci per fare il labbruccio ad Oliver, ma con una giravolta ti avvicini al banco dello stand, e di conseguenza a loro.
    «Mi sa che resti celibe... a meno che tu non voglia provare di nuovo!», acchiappi anche un paio di anelli da porgere al ragazzo. «Alloooooora?».
    Offri poi un sorriso al biondino, gli occhietti che sfavillano e un altro bel saltello. «Tu, invece, sei il marito ideale! Bravissimo! Quattro su cinque!».
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    Edited by holtzmänn; - 5/1/2023, 13:15
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    È... magico.
    Non Putnam Valley in sé, non Emeraude Foulger in sé. È un po' il connubio di una cosa e dell'altra, l'aggiunta dell'atmosfera che nella mia mente si colora spettrale. Nella realtà tutto è quasi immacolato, le poche decorazioni, gli oggetti, i mobili.
    «Come stanno?», le chiedo, le nocche sfiorano lo schienale del divano della sala, perché è un posto vissuto, e la vita, secondo me, va toccata. L'ho sempre pensata così. Toccare le cose per me è fondamentale perché devo starci attenta - qualche fibra usurata dei guanti mi s'impiglia pure negli anelli, e mi dà una scusa per guardarmi le mani mentre cammino e mentre la ascolto. Devo stare attenta perché qualunque cosa potrebbe irritarmi la pelle, e allora molto spesso ne sono stata alla larga, ma non si può affrontare la vita stando alla larga dalle cose.
    Mi volto piano, come se a guardarla potesse scomparire, mentre ancora mi rigiro gli anelli tra le dita, e il labbro inferiore tra i denti. «Venti», rispondo. Devo sembrarle una bambina. Non riesco a fare a meno di pormi questo problema ogni volta che incontro qualcuno di nuovo. Non lo sono, so che non lo sono, eppure l'idea di sembrarlo mi infastidisce. «Ventuno a Maggio», e mancano ancora sei mesi, ma è un vizio infantile che non mi sono mai tolta, quello di specificare che prima o poi arriverà il mio compleanno.
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    17
    Marlo Irene


    McDonnell

    Certo che la senti. La senti sempre, e solitamente rideresti ai suoi soprannomi sempre più strampalati, al suo fare così allegro. Ti apposteresti dietro a qualcosa per sbucare fuori e far finta di poterla spaventare, come se non sapessi che ovunque tu sia riuscirebbe sempre a trovarti.
    Non arrivi nemmeno a voltarti. Semplicemente ti sciogli nel suo abbraccio, e singhiozzi più forte. Non riesci proprio a smettere di piangere.
    Alzi piano piano la testa, guardi il suo volto corrucciato dalla preoccupazione dietro a un velo fitto di lacrime. «Ciao...». Forzi pure un sorrisino, e ora sfreghi i palmi delle mani contro gli occhi nel tentativo di vederci un po' meglio. Il risultato non è granché, però ci provi. Ci provi sempre, non ti piace stare male, o far vedere che anche tu puoi stare male. Sarebbe così bello andare avanti tranquilla, essere come sei tutti i giorni.
    Sospiri, e quel sospiro tremola come la fiammella di una candela sul davanzale di una finestra in pieno inverno.
    «Cosa...», mandi giù il groppo che ti attanaglia la gola, a fatica, «cosa dicevi della festa?».
    In realtà sai più che bene che Rory non farà finta di niente, e che proverà a consolarti finché non starai davvero nuovamente bene. Almeno un pochino vuoi provarci a dissimulare, a respirare, per ossigenare il corpicino che vacilla.
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    Marlo Irene


    McDonnell

    Hai paura, piccina. Hai tanta, tanta paura, il cuore ti batte all'impazzata in petto, come se potesse squarciarti la pelle e venir fuori da solo. Ci premi le mani sopra - magari, ti suggerisce la tua convinzione infantile, se c'è davvero pericolo puoi trattenerlo. Oggi gli altri sono per conto loro, forse fanno le prove, una volta tanto hai deciso di non disturbarli. E loro non disturbano te, perché sanno che giorno è - una cortesia eppure una condanna, davvero non vuoi stare sola, ti tremano le braccia, e le gambe, ti appallottoli su te stessa nella terra umida in mezzo alle tende. Con tutto questo movimento il ciondolo ti batte sullo sterno, solo così ti ricordi che c'è, e con gli occhi bassi te lo rigiri tra le dita. Vorresti tanto che qualcuno ti accarezzasse la schiena e ti stringesse in un abbraccio, e ti dicesse che va bene, va bene se la prendi, se stavolta non ti va che faccia male, se non vuoi trasformarti e andartene in giro. Non vuoi farti medicare, e che bruci, e sentire le ossa che si contorcono e si allungano senza poterci fare niente. Potresti togliere il tappo alla pozione e prenderla. Sono secoli che non lo fai, ormai, te la porti sempre dietro, la regali a qualche clandestino che ne ha bisogno quando ti capita, e se non c'è nessuno la versi giù in un tombino per strada, così da avere la scusa per prenderla di nuovo al MACUSA, un posto che puzza di razzismo, gli impiegati che ti toccano e ti additano e ti studiano come si fa con i mostri - che alla fine è proprio questo quello che sei secondo i doppiopetti e le gonne a tubino che lavorano là dentro, non importa che agli occhi dei più tu possa risultare solo una bambina, col tuo visetto pulito e il terrore nelle pupille tutte le volte che ti avventuri per quei corridoi sterili, che ti sembra sempre puzzino di polvere da sparo e cuoio scadente.
    Ti accartocci sempre più su te stessa come se potessi abbracciarti da sola, ti premi le mani contro gli occhi, che tieni stretti, strettissimi, finché la luce non filtra più attraverso le palpebre, e senti il petto smuoversi, un singhiozzo, poi un altro, finché non cominci a piangere in silenzio, perché nessuno ti senta e venga a cercarti qui fuori.
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    Faccio una smorfia che non è proprio un sorriso. No, stanarne uno non sarebbe molto prudente. «Si muovono in branco, molti di loro sono lupi», una constatazione, lasciata lì come per caso. I lupi non sono i più pericolosi, ma sono sicuramente quelli che danno più rogne - ne uccidi uno e ne spuntano dieci pronti a vendicarlo, non sei mai sicuro di esserteli tolti tutti dalle palle.
    Mi piacerebbe potere agire subito, ma ha ragione: dobbiamo avere informazioni certe. E ci dobbiamo organizzare, formare una rete di resistenza.
    «Dovremmo includere qualcun altro e cominciare a mettere su un paio di account di supporto, così nel frattempo possiamo elaborare un piano vero», non mi costa ammettere che abbiamo a malapena la bozza di un piano. L'unica cosa chiarissima è che dobbiamo risolvere questa faccenda, ma per ora siamo solo due.
    «Ci vuole un fronte unito. E... per quanto mi costi dirlo, perché di posti Sacri ne abbiamo due in croce, dobbiamo tenere sott'occhio i quartieri generali, magari fare le ronde, pure se ci armiamo fino ai denti», sbuffo appena, mi passo le mani fra i capelli, scuoto la testa. «Dobbiamo stare sull'attenti più del solito», ed è una cosa che odiamo tutti, senza troppi giri di parole. Solo in quella manciata di luoghi potevamo stare in famiglia, al riparo, compresi, e adesso nemmeno questo. Adesso dobbiamo stare attenti a girare per strada.
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    Lo so più che bene che mi sta ascoltando - soprattutto, che sta ascoltando le pause, come fa sempre. Mi conosce meglio di quanto spererei, e la cosa un po' mi spaventa, mi sento stringermi nelle spalle sotto il suo sguardo, non perché abbia qualcosa da nasconderle - più o meno -, ma perché, per quanto bene le voglia, credo sia inevitabile che mi metta un po' in soggezione. Ma non perché sia il capo, solo perché per certi versi è come se fosse mia madre, e in realtà non so proprio bene come ci si comporti con i propri genitori. Non me lo ricordo. Quindi bevo un po', la osservo anche io di sottecchi da sopra la bottiglia, e anche a me viene da sorriderle in cambio, da annuire leggermente con la testa. Mi capisce. La capisco. È strano.
    «Ma no», tento di rassicurarla. In realtà proprio io ho fatto ben poco negli anni che non fosse legato alla caccia. Mi sono fatta qualche amico in giro, vado e vengo da questo o quell'altro posto, ma non penso ci sia nulla da raccontare, o di degno di un racconto dettagliato. Quasi mi strozzo alla sua menzione, a dire il vero, una risatina nervosa mi esce da sola dal naso, e questo mi fa ridere solo di più, e per un secondo di cuore, con gli occhi chiusi, la mano che va a sincerarsi che non stia spruzzando birra da tutti i pori.
    «Per favore!». Stavolta è bello, è bello sentirsi come una figlia di famiglia normale, quella che i parenti mettono in imbarazzo con le domande sui fidanzatini. E infatti non smetto ancora di sorriderle, guardandola dal basso divertita. «Nessuno di speciale all'orizzonte. Per ora», cerco di ondeggiare le sopracciglia, anche se non ci sono mai riuscita. «Però ti aggiornerò, vedo che ci tieni».
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    oh my god, that's such a shame
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    Mi mette l'ansia l'idea di essere (probabilmente) l'unica persona che conosco che non è mai stata qui. E adesso ci sono, e smuovo la ghiaia con la punta della scarpa alla fine del vialetto per un po' invece di camminare. Ho sentito parlare di Emeraude. Ovviamente. E ho sentito parlare di Putnam Valley, ho letto un po' di roba, fatto le mie ricerche, ma vederla dal vivo è tutt'altra cosa, è un po' come incontrare un mentore che non ho (ancora) mai avuto. È una sensazione strana, lo devo ammettere, infatti mi trascino, quasi, la schiena un po' curva, le mani nelle tasche del giubbotto, quasi non mi sentissi all'altezza. Voglio imparare, e... a dirla tutta voglio solo parlare, parlare con lei e confrontarmi su qualcosa che non ho totalmente deciso. Ho bisogno di una direzione, penso che se avessi una madre direbbe così.
    Sento la porta aprirsi che sono ancora un po' distante, allora raddrizzo la postura - non deve vedere che sono insicura, è un passo falso che non mi voglio permettere. Tolgo pure le mani dalle tasche, raddrizzando le dita mozze dei guanti che si sono arrotolate. Le sorrido di rimando, una volta che, finalmente, la vedo. Mi viene spontaneo, non lo ostento. Mi avvicino con più convinzione, fino a trovarmi sulla soglia, e sentire il mio nome con la sua voce quasi mi coglie alla sprovvista, devo farle una smorfia piuttosto ridicola.
    «Polly», la correggo, e avanzo una mano. «Grazie», mi appresto ad aggiungerlo, e intendo perché mi ha accolta, perché sta ritagliando del tempo per me. Ci tengo che sappia che non lo do per scontato.
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    Tutte le idee che avrei da proporgli mi sembrano stronzate di proporzioni bibliche. Non perché non ce la farei, ma alla fine, nonostante la fiducia, nonostante la storia che tutti abbiamo insieme, perché dovrebbero affidarmi roba del genere? Sono una dei piccoli. Forse è un mio complesso, non lo so. Potrei proporlo. Mi farò avanti senza dubbio, che dicano di no, ci andrei lo stesso. Però ci vuole un piano, e un piano non posso elaborarlo da sola, ho bisogno di loro. Ho bisogno dei miei amici, e di Sadie. Ma è tornata da così poco, di sicuro ne saprà anche più di me, per com'è fatta, ma metterla in mezzo a questo casino? Sicuramente preferirei prendere tempo.
    Faccio un tiro, poi un altro, di nuovo sistemo le idee nella testa, come sempre, gli occhi verso il basso, lo sguardo effettivamente dentro ai miei pensieri.
    «Forse ho lo scheletro di un'idea», lo annuncio con una certa prudenza. Alla fine sono brava con lo stealth, questo nel giro lo sanno tutti, anche quelli che non mi conoscono in prima persona. «Come hai detto tu, beccarne uno... l'hai vista quella mappa, no? Com'è che la chiamano, la mappa del razzismo?», mi fa quasi ridere. Non è razzismo se la tua razza fa a pezzi la gente, cazzo. È sopravvivenza. Molto spesso è lavoro, niente di personale. La citazione l'accompagno con uno sbuffo. «Ci sarebbe da fare amicizia con uno di quelli. Operano su internet, e allora menzioniamo il loro cazzo di hashtag. Uno o qualcuno di noi. Ci facciamo vedere come alleati, chiaramente in incognito perché di sicuro sanno chi siamo», e per fortuna almeno dell'incognito me ne intendo, qua potrei fare un bel danno, una volta tanto per bene. «Ci infiltriamo, ci facciamo amicizia, per me funziona? Sono disperati nel cercare supporto».
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    «Tu dici?». In realtà dico anche io. Sembrano organizzati e decisi a rendere la nostra vita un inferno. Dopotutto, perché non dovrebbero? È quello che facciamo noi con loro tutti i giorni. Alcuni più di altri.
    Eppure.
    Non posso dire di avere paura. Sono preoccupata. Forse più per la mia famiglia e i miei amici che per me stessa, ma non è una vera e propria paura. Me la sono sempre cavata, alla fine. Però, e glielo dico, «Mi sembrano organizzati». E la cosa non mi fa impazzire. Tutt'altro. «E coordinati, fin troppo per i miei gusti», bevo, e storco il naso, e adesso mi preme davvero la voglia di una sigaretta, indi per cui infilo una mano in tasca e prendo il tabacco, mi metto un filtro tra le labbra, prendo una cartina dal pacchetto. Traffico un attimo per perdere tempo. Non è che non sappia cosa dire, avrei fin troppa roba da dire, ma non ho ancora organizzato coerentemente le idee, e mi piace avere un pensiero logico in mente prima di condividerlo. Lo condivido dopo avere acceso la sigaretta, e fatto un paio di tiri.
    «Secondo me», offro, con una calma ostentata, la mano libera avvinghiata al bordo del bancone, «Ci dobbiamo organizzare anche noi. E magari... infiltrare. Avranno un mezzo di comunicazione. Intercettiamolo», come se fosse facile. So che non lo è, ma se non li intercettiamo prima del tempo siamo davvero nella merda fino al collo. «Hai sentito qualcun altro che abbia mezza idea?».
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    Non è che non voglia credergli, ma sono... scettica. Caiden Crain che non ha una storia da raccontare? Come no. Glielo faccio capire con una smorfia del viso, ma non lo presso oltre. È più che normale che non venga a raccontarmi gli affari suoi, specialmente adesso. Abbiamo roba più pressante di cui occuparci.
    Prendo il bicchiere con tutte e due le mani quando arriva, tenendo l'accendino che mi ha restituito tra l'anulare e il mignolo della sinistra, e prendo un sorso guardandolo da sopra la rima. Mi viene un po' da ridere, c'è un che di surreale.
    «Ti scoccia, eh?», gli chiedo, una domanda retorica. A me New York non dispiace, c'è sempre qualcosa da fare, anche se è un po' dispersiva. E piena di smog. E di psicopatici. Preferisco sicuramente la vita al River Ranch, però qua trovo più lavoro. Shadow non potrebbe rischiare di farsi vedere da quelle parti.
    «Non ti piace New York?». Bevo, e mentre rifletto su cosa potrei raccontargli, o inventarmi di sana pianta, mordicchio l'interno di una guancia, uno di quei vizi fastidiosi che non mi sono mai tolta da quand'ero piccola. Arriccio il naso, alzo le spalle, e ora il bicchiere lo poso per una manciata di minuti.
    «Mah, cerco di inventarmi qualcosa da fare, ma niente di che», opto per una delle cose più vere e più vaghe. Nell'attesa che qualche creatura decida di pedinarmi e sventrarmi per strada, sottinteso.
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    Seduta al bancone, i piedi nemmeno mi toccano terra, l'ironia della sorte che ancora una volta mi prende apertamente per il culo. A vent'anni non cresco più, però passare per la bambina di turno mi ha rotto un po' il cazzo. Se non fosse che qua mi conoscono non mi darebbero nemmeno da bere - ma l'ho spuntata pure stavolta, e mentre aspetto mando giù l'ultimo sorso di birra. Che situazione di merda.
    Non mi accendo un'altra sigaretta solo per vergogna, e perché sto finendo il tabacco, la busta di plastica assottigliata fin troppo sotto la mia mano nella tasca del giubbotto me lo ricorda, come se mi insultasse pure lei. Quando vedo Den avvicinarsi mi tiro su di scatto e scendo dallo sgabello, dopotutto non lo vedo da una vita. Non è cambiato più di tanto, almeno fuori. Chissà se pensa lo stesso di me. Gli sorrido di sbieco, lo studio, come se solo guardandolo potessi leggergli nel pensiero, quando quello coi poteri qua dentro è lui. Io non sono niente di speciale, ormai mi sono arresa, dopo vent'anni ad arrovellarmi su cosa potessi imparare e tirare fuori e cosa no. Non c'era proprio niente da tirare fuori. Fortuna che almeno me la cavo con le armi, perché quei cosi là ci conoscono tutti, sarei fottuta appena messo piede fuori.
    Alzo le sopracciglia, risucchio un po' le guance in una sorta di risata. «Lo sai che l'erba cattiva non muore mai», gli faccio, la mano ancora in tasca, e ora lo guardo dal basso, gli passo l'accendino che avevo nell'altra tasca.
    Con la testa indico il bicchiere vuoto sul bancone, «faccio volentieri il bis», e un due con la mano per ordinare per entrambi mentre mi avvicino di nuovo a dove mi ero messa, roteo gli occhi, ma tanto per. È uno a posto, il suo modo di fare non mi dà fastidio.
    «Allora, ¿qué pasa? Ne avrai di roba da raccontare».
    i'll wear my badge
    a vinyl sticker with big block letters
    adhering to my chest
    that tells your new friends
    i am a visitor here, i am not permanent
    shadow
    20, hill fam
    loser !
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