Sometimes words have two meanings.

Tristan & Dulcinea.

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  1. _Wednesday_
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    Dulcinea Angelique Verhoeven Beelzebub has a devil put aside for me

    Rumori e ombre bianche s’addensavano intorno a lei in un turbinio di movimenti affannati, quasi angoscianti, perdendosi come fumo diafano in frantumi oltre la sua visuale, Dulcinea percepisce a malapena le membra del proprio corpo, immobilizzate da molteplici stringhe di cuoio e una camicia di forza fin troppo grande per una bambina. Vuole aprire gli occhi ma non osa darsi un così terribile spettacolo, li tiene socchiusi e le iridi adombrate dalle palpebre violacee restituiscono un fantasma vacuo, informe di una realtà fin troppo conosciuta. Medici, infermiere, diavoli candidi, mostri…ma chi siano o cosa stiano per fare non ha particolare importanza. Sente lo sfrigolio incessante di apparecchi metallici vicino alla sua testa, un concerto infernale perché Dulcinea lo sa, l’ha sempre saputo di essere dannata, “povera sventurata”, ma non piange, non ancora, le lacrime rapprendono fra l’azzurro ceruleo e le ciglia bionde come sottili aghi di luce mutando in acido, quanti sogni bruciati dal rancore ancora prima di divenire nuvole, dimenticando di abbeverare le guance calde, rosee di un’innocenza sconosciuta perfino a Cristo, quella di una bambina, una voce e un’altra ancora, una ragnatela di suoni grotteschi, un nido di vipere intrecciate con sangue e veleno…poi il dolore nitido dell’ago sotto la pelle, il sapore delle pastiglie che incontra la gola in un urlo strappato, l’odore nauseante dei farmaci è il sipario del buio più assoluto…


    Un torbido groviglio di lenzuola giaceva ammassato ai piedi della francese la quale si mise a sedere velocemente sbattendo le palpebre, assicurandosi che anche i più piccoli avanzi di incubo si sciogliessero contro la sottile velatura che appannava lo sguardo. Sogni del genere infestavano quasi tutte le sue notti fin da quanto riuscisse a ricordare, i ricordi così sfocati e inafferrabili di giorno divenivano luminescenti al chiudersi degli occhi, e tutto il dolore prima accartocciato come la lettera di un amante disperato poi gettato in un angolo inaccessibile della mente improvvisamente si rivelava per quello che era, una ferita mal suturata dalla quale ancora sgorgavano fiotti di sangue, ma non poteva dirsi routine.
    A certe cose non ci si può abituare.
    Istintivamente le dita scivolarono sul ripiano rigido del comodino abbandonandosi ad una ricerca svogliata del proprio smartphone, Dulcinea poggiò lo schermo luminoso sulle gambe intorpidite dal brusco risveglio e in parte dall’esercizio fisico del pomeriggio, era rimasta in palestra fino alle nove di sera ragion per cui, come aveva immerso la testa fra tre cuscini “requisiti” a due distratte donne delle pulizie si era addormentata. Strabuzzò gli occhi davanti alla luce artificiale emanata dal vetro, ci vollero ben cinque secondi prima che la bocca carnosa di Dulcinea si distorcesse in una smorfia disperata mentre la testa assorta in ridondanti dondolii si abbattesse simile ad una meteora dorata sul materasso. Tre minuti a mezzanotte. La peculiarità più fastidiosa di quegli incubi era che essi prosciugavano letteralmente ogni traccia di sonno lasciando il corpo a macerare nella notte, in balia dei propri pensieri, ma la francese non era certo il tipo paziente e sognatore che attende nell’agonia del buio la morbidezza delle braccia di Morfeo, decisamente no. Quasi colta da un’improvvisa scarica elettrica balzò giù dal letto emettendo un gemito nel momento in cui il tallone incontrò quello che con ogni probabilità doveva essere il gancio di un appendiabiti, assottigliò le iridi cerulee fiondandole sul pavimento nel punto preciso ove aveva percepito dolore dando il via ad una serie di movimenti nonchè imprecazioni che mai nessuno avrebbe accostato ad una signorina diplomata all’accademia di Beauxbatons. La soddisfazione s’impresse fra le sopracciglia disegnando due archi delicati quando la sagoma altrettanto nera di un abito emerse dalla penombra, le screziature argentee faticavano a coglierne i dettagli ma poco importava, il vestito per lei non aveva mai avuto la priorità assoluta; percepì parecchia pelle rimanere nuda malgrado la stoffa, lasciando scoperte le spalle, la miriade di tatuaggi che marchiavano l’incarnato d’oro e le gambe prontamente avvolte in un paio di parigine in stile retrò traslucide pescate nel cassetto lasciato perennemente aperto. I piedi calzarono tacchi nero corvino mentre gli aghi della spazzola domavano il crine biondo lasciando le ciocche ricadere sulle spalle come stelle bruciate, odiava pettinarsi troppo i capelli, al contrario di molte amava la naturalezza con la quale si arricciavano nelle giornate uggiose o si scompigliavano sul capo per una folata di vento, vi era un nonsoché di indomito, incalcolabile come il cadere delle foglie in autunno o il battito impetuoso della pioggia contro il vetro.

    ***



    Lo smog era una venere grigia senza forma ,vestita d’aria con dita di fumo avvinghiandosi possessiva rumori incessanti, come l’edera gentile inanellava le betulle nel parco urbano: la sirena della polizia, un colpo di clacson, voci screziate prive di volto morenti ,scottate dalla luce artificiale affissa sui grattacieli, la ragazza storse il naso davanti all’arazzo di odori graffianti della città, acri e ardenti permeavano fin sotto l’incarnato gelido, profumato di vento notturno e tabacco aromatico, la suola troppo alta sferzava il cemento, fiera come uno sparo perso nel vento, i tacchi a spillo veloci nel tentativo calpestare i pensieri amari. Dulcinea camminava da più di un’ora ormai verso una meta ancora imprecisata, ma più le gambe la sospingevano in avanti, più la brezza notturna arruffata dall’odore d’acqua piovana le intimavano di non fermarsi e ben presto la francese abbandonò l’idea di riuscire a riaddormentarsi per quella sera. Un rombo nel cielo convinse la bionda ad affrettare il passo, nuvole in ferro battuto e chiodi s’addensavano sopra i grattacieli divorando fameliche le stelle, la ragazza si passò le dita sulle labbra improvvisamente colta da una voglia irrefrenabile di fumo, fiondò l’intero braccio nella borsa riuscendo ad estrarre l’agognata sigaretta, la quale fu subito incastrata fra le labbra aride, cercò quindi l’accendino nelle tasche ,avanzando imperterrita nonostante non stesse degnando di uno sguardo la strada, imprecò sottovoce per la quantità di cianfrusaglie contenute in esse: svariati foglietti macchiati d’alcool contenenti numeri illeggibili, le chiavi di zia Léa, il suo telefono, pastelli a cera, rossetto senza cappuccio, una carta poker recante il jolly, un cappellino da baseball rosso, bianco e blu degli Yankees, soffocò a stento una risata stringendola forte fra denti, scosse la testa cospargendo le spalle di ciocche arricciate, ancora incredula dal ritrovamento<< Mio dio e questo? Come c’è finit… >> Non terminò la frase perché un uomo enorme le prese contro facendole cadere la borsa il cui contenuto rovinò sul cemento. Dulcinea quasi perse l’equilibrio a causa dell’urto, un lieve rossore fiorì colorito sulle gote mentre la rabbia le fece serrare involontariamente la mascella riducendo la bocca ad una sottile cicatrice rosa, si chinò radunando tutte le sue cose aiutata dal un cameriere del locale lì accanto che aveva visto l’accaduto << Grazie >> disse dedicandogli un sorriso sincero più freddo di quanto avrebbe voluto, era troppo arrabbiata, la rabbia scottava nelle vene dando fuoco al sangue, si girò di scatto guardando feroce l’uomo già in fondo alla strada << Ehi! Razza di stronzo!>> sbottò rivolgendosi alla grossa figura vestita in jeans e t-shirt azzurra picchiettata da svariate macchie, mal conteneva una pancia che avrebbe fatto invidia a una donna incinta. L’uomo voltatosi le rivolse un’espressione di puro scherno, continuò a camminare come se nulla fosse; il blu negli occhi di Dulcinea brillò mentre il sottile velo che spaziava fra pensieri e azioni si rompeva come cristallo, << Ah è così eh?!>> sussurrò portandosi una mano alla scarpa sinistra, poi senza esitare ulteriormente, prese la mira e la lanciò con forza. L’arma improvvisata colpì in pieno la schiena sudaticcia dell’uomo, il quale dopo diverse imprecazioni si toccò la colonna vertebrale dolorante. Una risata tutta zucchero e divertimento si perse fra i rumori del traffico cittadino, Dulcinea piegata in due dalla soddisfazione sentiva le lacrime imperlarle come rugiada le folte ciglia affilate di trucco nero, la vendetta le carezzava dolce la gola spegnendo il nervosismo di poco prima; con avanzi di risate crepitanti sulla lingua Dulcinea cominciò a correre per la via di New York, scalza, con la borsa in una mano e la scarpa superstite nell’altra inseguita dalla vittima del suo tacco a spillo, la pioggia fredda iniziò a cadere, la ragazza sentiva il proprio corpo vivo, pulsante di battiti ed emozioni dissonati, pelle incandescente a contatto con i sottili dardi d’argento scagliati contro cemento e asfalto, i vestiti appesantiti dall’acqua i capelli gocciolanti profumati di nuvole, sorrise quando gli occhi incontrarono il giallo canarino di un taxi fermo, ebbe appena il tempo di constatare che fosse libero prima di catapultarsi all’interno del veicolo, chiudere la portiera e intimare al guidatore di partire. Scorse dal finestrino sporco e leggermente appannato il suo inseguitore, anch’egli fradicio urlare qualcosa ma lei si limitò a sorridergli soddisfatta agitando la mano prima che l’auto si perdesse nel traffico. << Dove?>> chiese la roca voce del tassista dal sedile anteriore, Dulcinea abbandonò la schiena contro la pelle del sedile impregnata dall’odore di fumo stantio e polvere prima di << Houston Street >> rispondere sedendosi a gambe incrociate per evitare che i piedi sfiorassero il tappetino lurido del veicolo, controllò che per lo meno il contenuto della borsa fosse asciutto soffocando parole ben poco raffinate nello scoprire il suo pacchetto di sigarette simile ad un acquario per i pesci << Ha una sigaretta?>>domandò staccando la mano dal sedile per riassestarsi qualche ciocca dietro le orecchie. L’uomo non rispose alla sua domanda continuando imperterrito nella guida, la strada scivolava veloce sotto le ruote dell’auto mentre Dulcinea con qualche semplice incantesimo soffocato tentava per lo meno di asciugarsi i capelli, il tassista non avrebbe detto nulla, probabilmente aveva visto cose più strane lui di lei in centro a New York.
    Houston Street era il classico quarterie periferico di una grande metropoli, disseminato da locali aperti fino a tarda ora il cui odore di erba e fumo stantio cosparge perfino l’atrio della sala, con una sola scarpa in mano la francese entrò nel primo adocchiato, essendo scalza meno strada percorreva più i suoi anticorpi l’avrebbero ringraziata i giorni seguenti; lo sguardo azzurro si posò distratto prima sui divanetti in pelle accarezzati dalle flebili luci a neon successivamente sulle grandi bottiglie in ordine poggiate sopra lo scaffale del bar. Dulcinea liberò un sospiro flebile dalle labbra rosee curvate appena verso l’alto, i pochi occhi presenti puntati come frecce su dei, pronti a scoccare i commenti più feroci sul corpo troppo esposto, i tatuaggi, le parigine, i capelli… ma ad ogni occhiata la bionda rispondeva con un con un movimento secco del capo e un’espressione beffarda, non perché si considerasse intoccabile, tutt’altro era più umana di quanto non volesse ammettere, ma nell’anima aveva così tante cicatrici che un segno in più o uno in meno non avrebbero fatto alcuna differenza, come l’universo infinito, dolore aggiunto al dolore avrebbe fatto sempre e comunque dolore. Si sedette sul primo sgabello libero facendo dondolare i piedi in maniera quasi infantile prima di scaraventare la borsa e la scarpa superstite sopra il ripiano del bancone << Un bicchiere di assenzio nero >> esordì con un sorrisetto smagliante passando le dita sul tacco superstite, sperando così di invogliare il barista ad ingranare la marcia, strategia efficace poiché pochi istanti dopo il liquore scorreva a piccoli sorsi nella gola della ragazza. Il calore aumento di colpo e Dulcinea fece ondeggiare la testa all’indietro percependo il sangue affluire contro la pelle, per nulla al mondo avrebbe distolto l’attenzione dalla propria bevanda ma una voce maschile la convinse per lo meno a posare le iridi color cielo spezzato sulla figura seduta accanto a lei << Lo sai che l’ultima persona che mi ha chiamata così è finita con la bandiera del giappone su per … non è possibile! >> sentì le parole ricadere verso il basso e rimanere intrappolate in una gabbia di respiri, non sembrava possibile, se qualcuno glielo avesse raccontato sarebbe scoppiata a ridere; la bocca di Dulcinea piegò in un’espressione di pura sorpresa, indecisa su cosa soffermarsi: i tratti assottigliati dall’incedere del tempo, la fanciullezza che aveva abbandonato lo sguardo color mare, fragoroso e scostante come lo ricordava, simile ad un fiume in piena la francese osservò le spalle ampie del ragazzo, il petto fasciato dalla stoffa candida per poi ritornare ai suoi occhi, anch’essi ricolmi d’incredulità. Le sembrava di essere stata scaraventata contro il passato, di nuovo, perché di nuovo inciampava in una persona che aveva fatto parte della sua vita e che mai avrebbe pensato di rivedere << Quasi quattro anni … Tristan >> rispose piano sentendo le parole accavallarsi l’una all’altra, ma non avrebbe saputo dire se per colpa dell’assenzio o del viso del giovane Ivashkov puntato su di lei. Inarcò il sopracciglio sinistro dischiudendo la bocca con fare divertito per poi lanciare una rapida occhiata alla propria scarpa ancora sul tavolo << Ho avuto un piccolo incidente per strada …>> ammise passandosi la lingua sulle labbra ancora calde di liquore, lo sguardo in equilibro sul bordo in cristallo del bicchiere già mezzo vuoto, sapeva perfettamente che non era il tipo di risposta che si aspettava, lui voleva sapere perché si trovasse a New York quando l’ultima volta che si erano visti, era stato fra i confini francesi, Tristan sapeva quanto la bionda amasse il suo paese al punto tale da non essere disposta ad abbandonarlo, se non per un’ottima ragione. Ma questo Dulcinea non poteva rivelarglielo, non ancora perlomeno.
    Senza pensarci afferrò il piccolo accendino riposto nella tasca interna della borsa e come la piccola fiammella prese vita l’avvicinò alla sigaretta del ragazzo << Tu invece? Sei qui per lavoro? >> azzardò evitando palesare davanti al barman in che cosa consistesse la professione di Tristan. Sarebbe stato singolare se, ancora una volta, fosse stata la droga a farli incrociare, o meglio scontrare. Perché entrambi sembravano attirarsi addosso le situazioni pericolose come due calamite, entrambi bravano il rischio solo per sentire il vuoto affievolirsi, stupidi, ingenui, masochisti… Dulcinea non avrebbe saputo trovare un appellativo corretto per descrivere lei e Tristan, perché loro erano imperfezione , il punto nero sul foglio candido, la destra e la sinistra di Lucifero, nell’imperfezione non c’è nulla che vada come dovrebbe.

     
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