[Magia Bianca] Lezione Magia Bianca II - seconda lezione primo anno

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    tumblr_nxgcm4dAEj1ru0j5io3_250Winter D. Merriwether
    And I’ll find comfort in my pain - eraser

    Le parole del professor Callaway le vorticavano in testa, mentre le pareti dell’aula di Magia Bianca sfumavano nel labirinto degli specchi.
    Ormai aveva imparato come funzionavano le cose, perciò non era nervosa – dall’ultima lezione a cui aveva partecipato, si sentiva stranamente più sicura. Era riuscita a salvare suo padre e a respingere Daniel – non era riuscita a ferirlo, sì, eppure ne aveva l’intenzione. Se Callaway non l’avesse riportata alla realtà, forse l’avrebbe fatto.
    Quel pensiero l’aveva tormentata per intere settimane. L’avrebbe fatto davvero?
    Ne sarebbe stata capace? Lei, che non aveva mai avuto la forza di reagire a una qualsiasi offesa, ad ogni occhiata malevola, a tutti i sussurri che impregnavano i corridoi di Hogwarts?
    Era davvero quel tipo di persona?
    Ma, soprattutto, Daniel lo meritava davvero?
    Una parte di lei era fermamente convinta della validità di tale gesto – era la sua vendetta, il suo riscatto, quello che senza saperlo aveva agognato per anni. Quella Winter voleva che Daniel pagasse per quello che le aveva fatto – era quasi pronta a cercarlo, trovarlo, e dargli quello che gli spettava. Tuttavia, l’altra versione di Winter, innocente, pura, gesticolava nella sua testa freneticamente nel tentativo di distrarla e di placare quell’istinto che la teneva sveglia la notte.
    Aveva deciso di trovare un compromesso tra le due: si era regalata un pomeriggio di libertà, ed aveva deciso di accorciare la chioma indomabile che non veniva ormai toccata da tempo immemore – un gesto futile, forse insignificante, ma che le donava una certa sicurezza, la convinzione di avere la situazione ancora sotto controllo.
    Si trattava di un atto simbolico – aveva tagliato una parte di sé che non le apparteneva più, quei riccioli che Daniel toccava nei suoi incubi. Ora, si diceva, non l’avrebbe più potuto fare. Aveva reciso parte di quel cordone ombelicale che la legava stretta a lui, e non la lasciava più respirare.
    E si sentiva bene. Per la prima volta dopo anni, era quasi sicura di non sentirsi soffocare.

    ***

    Nella sua spiegazione, Callaway aveva parlato di violenza e di pietà.
    Winter aveva sobbalzato a quelle parole, aveva alzato gli occhi di scatto, come a controllare che non fossero dirette a lei.
    Il confronto con se stessa era proprio quello che ci voleva – doveva riacquistare il pieno controllo delle sue inclinazioni, ritrovare la vecchia Winter che aveva lasciato nel labirinto, ed imparare a convivere con lei, scendere a patti con le sue paure e le sue debolezze, abbracciarle, provare pietà per loro, e lasciare che l’attraversassero da parte a parte, per plasmare una persona nuova, una di cui tutti potessero essere fieri.
    Per questo motivo, era contenta di aver preso parte alla lezione – inoltre, sentiva il bisogno impellente di esternare quei quesiti sulla natura per lei oscura che l’aveva spinta a cambiare e, forse, avrebbe trovato il coraggio di farlo una volta terminata.
    Il porto di Brighton si manifestò intorno a lei esattamente come l’ultima volta – il legno che scricchiolava sotto ai piedi, il vento che ululava e la faceva rabbrividire, la salsedine che si attaccava alle labbra.
    Il mare, però, era più irrequieto rispetto a quando lo aveva lasciato – le acque scure e dense si riversavano con violenza contro agli scogli, si innalzavano gloriose in tutta la loro potenza e poi si gettavano eroicamente verso morte certa, come gli eroi delle fiabe antiche.
    Winter osservò quello spettacolo in silenzio, con una certa riverenza, finché non venne distratta dalla luce del suo cristallo che richiamava la sua attenzione – come era già successo, il lampo bianco si tramutò nel suo animale guida: il cerbiatto stava ritto sulle esili zampe di fronte a lei, saltellava irrequieto avanti e indietro.
    «Andiamo, d’accordo», Winnie acconsentì, sorridendo dolcemente.
    Il cerbiatto la condusse solo alcuni metri più in là. Winter avvertì qualcosa di appiccicoso bagnarle le scarpe – guardò in basso, stranita, e fu in quel momento che si rese conto: sangue.
    Il liquido rosso macchiava il legno e la tela delle calzature leggere che portava, formava una pozza tutt’intorno a lei. Era ovunque.
    Winter sollevò lo sguardo, gli occhi sgranati, le labbra contratte in una smorfia nauseata – l’odore del mare era stato rimpiazzato da quello ferroso del sangue, che le pungeva le narici e le faceva girare la testa.
    Quando i suoi occhi si posarono sulla figura che si trovava davanti a lei, quasi non la riconobbe.
    Era seduta a terra, le ginocchia nude rannicchiate al petto, strette forte da un paio di braccia esili. La sua pelle era traslucida, quasi invisibile, come incorporea – sembrava che non fosse veramente lì, che fosse solo una brutta illusione ottica, eppure Winter poteva sentire chiaramente i flebili lamenti che le uscivano dalla bocca, una nenia che conosceva fin troppo bene.
    Cantava una ninna nanna.
    Al suono di quella melodia, Winter fu catapultata anni indietro nel tempo – una culla candida, delle coperte che portavano il suo nome ricamato in corsivo azzurro, una carezza piena di tutto l’amore che una madre può umanamente contenere nel suo cuore per la figlia appena nata. Era la voce di Cassandra – era sua madre, che le cantava prima di dormire.
    Winter aveva completamente rimosso il ricordo – era troppo piccola per rammentare momenti così lontani, troppo piccola anche solo per rendersi conto di ciò che succedeva attorno a lei. Eppure, il suono dolce e rilassante della canzone era vivido nelle sue orecchie, come se lo stesse ascoltando per la prima volta. Sapeva che era la ninna nanna che Cassandra le cantava prima di dormire.
    I suoi occhi si riempirono automaticamente di lacrime – Winter le ricacciò indietro con prepotenza, determinata a non lasciarsi sopraffare al primo tentativo.
    Continuò ad esaminare la figura rannicchiata ai suoi piedi – portava un vestito di flanella color corallo su cui Winter non aveva alcun bisogno di delucidazioni: era il vestito che portava quella notte, quello con le spalline sottili che aveva scelto apposta per far piacere a Daniel.
    Rabbrividì. In realtà, della stoffa leggera non rimanevano altro che stracci – il vestito era strappato in più punti: un lungo spacco risaliva lungo la gamba sinistra, ed uno squarcio era aperto sul corpetto, lasciando veramente poco all’immaginazione.
    Scoprì senza fatica da dove proveniva il sangue – la gonna del vestito ne era impregnata completamente, e Winter poteva facilmente scorgere rivoli cremisi che scorrevano lungo le cosce del suo alter ego.
    La riproduzione minuziosa di se stessa la fece inorridire – portò le mani alla bocca, tentando di bloccare il conato che le risaliva lungo la gola. Deglutì a fatica.
    La ragazza alzò finalmente il viso verso di lei – aveva un occhio circondato da una macchia bluastra, ed un labbro tumefatto.
    Per via della sua pelle quasi immateriale, le vene sulle sue braccia erano perfettamente visibili ad occhio nudo. Winter si accorse con sgomento che si attorcigliavano per formare un nome: Noah.
    Il suo riflesso si accorse di come Winter fissava incessantemente quel nome, ed interruppe d’improvviso la nenia, per puntare gli occhi sul nome del ragazzo. Lo guardò per una frazione di secondo, poi alzò di nuovo il mento per cercare i suoi occhi. l’emozione che tradivano era di completa e totale sofferenza – si sentiva tradita, abbandonata a se stessa, sola nel suo dolore. «Lui non c’era», Winter ricordò, «ma…».
    Tuttavia, il doppione non sembrava tradito da Noah – era lei che guardava con occhi pieni di risentimento e rabbia, era lei che incolpava, scaricandole addosso un macigno che pesava tonnellate.
    Winter scosse lentamente il capo.
    No, non era vero.
    «Ora… ora l’ho ritrovato», le rivelò, «ha promesso che non se ne andrà di nuovo», e sorrise, forte di quella promessa – si fidava di lui, forse perfino più di quanto si fidasse di se stessa.
    Mentre il suo doppione tornava a cantare la ninna nanna, come se Winter non avesse proferito parola, ebbe l’occasione di notare un altro inquietante particolare che deturpava la sua figura – un altro nome appariva sull’altro braccio: Daniel. Sembrava impresso sulla sua pelle, come un marchio a fuoco – come un animale. Era di sua proprietà.
    A quella scoperta, Winter non riuscì a contenersi – cadde sulle ginocchia, si abbassò al suo livello, e protese le braccia verso la figura indifesa, come per avvolgerla in un abbraccio, «Non è così», la voce era ferma, sicura, «non è assolutamente così», ripeté, «sei libera, non ti farà più del male. Te lo assicuro.»
    Ma il suo riflesso non sembrava ascoltarla – era sua.

    made by zachary



    Spiego anche io:

    - la pelle traslucida e invisibile: è simbolo della trasparenza di Winter, della sua natura a volersi nascondere e a scappare dagli altri e da se stessa, è la se stessa che non reagisce, che teme gli altri, perciò tenta in ogni modo di nascondersi; è simbolo dell'invisibilità che l'ha caratterizzata per anni.

    - la ninna nanna di Cassandra: la morte di Cassandra è stata un duro colpo per Winnie, così come per tutta la sua famiglia: Winter e i suoi fratelli hanno perso una madre, Peter ha perso una moglie, e la sua assenza ha trasformato il nucleo familiare completamente, ha spinto Peter ad essere assente, e Winter e i fratelli ad andare in America.

    - il nome di Noah: un altro durissimo colpo per Winter è stata la dipartita di Noah, che era il suo unico confidente e la persona a cui era legata di più; era anche, però, quello a cui faceva riferimento per tutto, quello che era convinta l'avrebbe sempre protetta e salvata quando fosse stata in pericolo.

    - il nome di Daniel: Daniel si è inserito nella mente di Winter fino quasi a riempire il vuoto lasciato dall'assenza di Noah, e poi l'ha violentata per una scommessa, una bravata da ragazzini, quindi il trauma è sia fisico ma anche e soprattutto emotivo: ha giocato con le sue paure e con la sua fragilissima fiducia, ed allo stesso tempo si è insinuato talmente tanto nella vita e nell'animo di Winter da riuscire a convincerla di essere sua, e di non avere possibilità di sfuggirgli.

    - il risentimento:
    questo è visibile nello sguardo del doppio, è la rabbia che prova verso se stessa per non essere riuscita a salvarsi da Daniel, a trattenere Noah, e a salvare Cassandra.


    Spero sia tutto chiaro <3
     
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    Noah

    Eeee anche Noah ha capito subito subito chi si trova davanti. Insomma il suo odio per se stesso. Divertiti anche tu a farti ragionare! :D

    Skill sbloccata
    Nome: Scudo di luce
    Requisiti: 26 seconda lezione magia bianca
    Descrizione: la luce circostante viene conglomerata in uno scudo di diametro pari a 60 centimetri in grado di parare proiettili di sangue, o armi di sangue. Una volta colpito si infrange
    Durata: un'azione, può essere usato una sola volta
    Movimento: piegare l'avambraccio davanti a sé


    «Almeno siamo d'accordo su qualcosa» la voce dell'AntiNoah è un ringhio gutturale e irriverente, eppure in quel'irriverenza puoi percepire la violenza del suo odio.
    AntiNoah butta a terra la pappetta informe che ormai è il suo cuore. Scatta in avanti con violenza per avventarsi su di te e sferrarti un gancio con il suo braccio di ferro (insomma non ci va per il sottile) diretto all'altezza della tua bocca. Subito dopo tenta un gancio alla bocca dello stomaco, per finire con un'artigliata alla guancia sinistra.


    Fianna

    «Hai paura di te stessa? Io sono te, sono ciò che stai facendo a te stessa. Mi stai torturando. Ma adesso basta. Adesso sentirai tutto ciò che ti rifiuti di sentire»

    l'AntiFianna pone le mani nel simbolo del serpente estrapola tutto il dolore che sta provando e te lo scaglia contro, di modo che tu possa finalmente percepire ciò che ti rifiuti di provare.

    Skill empatica di ibridazione sbloccata:
    Violenza empatica: utilizzando la runa emozionale sei in grado di far sentire tutti le tue emozioni negative all'avversario, che ha un malus di -4 al tiro del dado sull'azione immediatamente successiva.
     
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    Winter

    Eee si inizia, mostri pietà, brava ragazza, Daniel non si aspettava niente di diverso dalla piccola dolce Winnie

    Nome: Scudo di luce
    Requisiti: 26 seconda lezione magia bianca
    Descrizione: la luce circostante viene conglomerata in uno scudo di diametro pari a 60 centimetri in grado di parare proiettili di sangue, o armi di sangue. Una volta colpito si infrange
    Durata: un'azione, può essere usato una sola volta
    Movimento: piegare l'avambraccio davanti a sé


    L'AntiWinter ti scaccia con malagrazia, affonda le unghie nella pelle delle tue braccia per allontanarle da sè. «Non è vero. Non hai capito niente, nessuno potrebbe mai amarmi così, ha significato tutto, tutto per me. Non capisco come tu possa dire queste cose su di lui, sei una persona orribile». Affonda ancora di più le unghie nelle tue braccia vuole graffiarti fino a far uscire il sangue.
     
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    Tristan Ivashkov ( sheet ) - 23 - half megaeros - Σ Θ Η - voice
    « I WEAR THIS CROWN OF THORNS UPON MY LIAR’S CHAIR. FULL OF BROKEN THOUGHTS, I CANNOT REPAIR BENEATH THE STAINS OF TIME. »
    Era tutto differente, come se le condizioni in cui navigava il suo panorama interiore andassero a braccetto con quelle in cui si ritrovava lui stesso. Quell'ambiente non era dotato di una vita propria, mutava solo e soltanto in relazione a ciò che compiva il suo legittimo proprietario, ma nonostante quella consapevolezza, Tristan non poteva non percepire un senso di disagio aggrapparsi al suo animo come fosse un punto stabile, una sorta di territorio da colonizzare. Era una sensazione che lo pervadeva ogni volta che si addentrava tra le fronde ed il verde di un posto isolato, una solitudine non tanto malinconica quanto disarmante, il presentimento di essere osservato da migliaia di occhi che, a prima vista, sembravano non esserci. I Tedeschi erano soliti definirla waldeinsamkeit, un ideale ascetico, che avrebbe dovuto portarlo a distaccarsi completamente dal mondo, con il conseguente perseguimento di una perfezione interiore che, si sapeva, non avrebbe mai raggiunto. La sua mente era sempre stata come una malattia mortale, un groviglio di sentimenti tenuti assieme all'interno di una scatola sepolta sotto metri e metri di finto amore per se stesso e modi più o meno educati che erano stati inculcati nella sua mente a suon di calci e pugni. Non era mai stato avvezzo ad aprirsi, l'unica volta che lo aveva fatto era stato mandato dritto dritto da uno strizzacervelli, e ancor meno era stato avvezzo ad accettare sguardi di compassione da parte degli altri. Li detestava. Detestava quel finto buonismo, quell'improvviso interesse nei suoi confronti, quella spasmodica ricerca di informazioni apparentemente portata avanti per un'opera di bene, ma in realtà stimolata dal vizio di non riuscirsi a fare i cazzi propri - e lui detestava altamente chiunque osasse andare oltre la propria individualità ed interessarsi in una maniera quasi spasmodica a quella degli altri, magari pretendendo anche che questi ultimi sorridessero teneramente e si lasciassero psicanalizzare senz'alcun problema. Non era così che funzionava. Non con lui, perlomeno. Ci volevano certamente molte più cose, rispetto a delle insulse paroline dolci e degli sguardi docili, e il suo doppio parve capirlo fin dal primo istante. Non che si fosse mai ritrovato a pensare il contrario, Callaway era stato chiarissimo nel dire che la sua copia non si sarebbe fatto alcuno scrupolo ad ucciderlo, ma notare con i propri occhi che la situazione fosse esattamente come se l'era aspettata, gli fece sfuggire un ghigno neutrale. Avrebbe dovuto palesare la sua soddisfazione, ma fu solo un rumore muto, breve, che si dissolse immediatamente nella nebbia che lo circondava e che gli impediva di capire fino in fondo in che condizioni si ritrovasse quel posto.
    «Ad occhio e croce direi che tu, invece, sei un morto che cammina.»
    Quindi possedeva anche il suo medesimo senso dell'umorismo? Interessante, davvero. Se soltanto avesse avuto un pacchetto di sigarette tra le mani e non fosse stato così... nudo sentimentalmente, sarebbe stato perfetto. Ma forse era proprio questo il problema: l'automa che aveva di fronte, l'artificio che lo osservava con la sua medesima aria di sufficienza, non era lui nel vero e proprio senso della parola, ma lo spirito che animava il suo corpo, quell'essenza primordiale che lo portava ad agire in un determinato modo e che solitamente non si palesava in una maniera fin troppo evidente né a lui né tantomeno agli altri.
    «Touché.» Fu costretto ad ammetterlo, a prendersi quella stoccata che tuttavia gli strappò un sorriso sghembo, uno di quelli che era solito rivolgere a chiunque si ritrovasse di fronte. Era davvero raro che non riuscisse a ribattere, ma farlo persino con se stesso gli sembrava una cosa impossibile. Tristan contro Tristan. Uno scontro titanico, non c'era nient'altro da aggiungere.
    Vide il doppio sollevare appena le mani con un gesto rapido, e, subito dopo, la terra cominciò a tremare, segno che fosse stata chiamata in causa da un frammento di se stesso. Le radici degli alberi frammentarono il terreno e cercarono di afferrarlo, probabilmente quel bastardo voleva bloccarlo, ma lui decise di ovviare a quel problema usufruendo della manipolazione della densità, di modo da rendere quegli stralci di legno liquidi, e, dunque, completamente innocui. Subito dopo, notò il suo Anti lanciarsi contro di lui, probabilmente aveva deciso di passare ufficialmente alle maniere forti, e la cosa non lo stupì più di tanto. Provò a schivare i due attacchi, due pugni - gli ennesimi - che avrebbero dovuto infrangersi contro il suo volto, procurargli un dolore senza eguali, come se la prospettiva di fargli del male incrementasse il piacere del suo doppio. Sadico. Eppure, anche innocuo: se avesse voluto ucciderlo davvero, quei due pugnetti di certo non sarebbero bastati. Una volta tentato di evitare i due colpi, il ragazzo decise di ricorrere all'incantesimo di palmo di luce. «Collustro.» Pronunciò, a denti stretti. Voleva accecarlo, fargli provare un dolore oculare che lo costringesse, almeno per un momento, a fermarsi. «Cosa vorresti fare? Uccidermi? Sappiamo entrambi che non è la risposta giusta.» Osservò il suo Anti per qualche istante, lo sguardo che vagò dall'alto verso il basso, prima che un ghigno gli sfuggisse dalle labbra, presagio di una consapevolezza che lo aveva colto come un fulmine a ciel sereno. «Non potresti neppure farlo, a dire il vero: se morissi io, moriresti anche tu. E allora cosa ti rimarrebbe tra le mani? Nulla, come al solito.» Gli occhi verde-azzurro scrutarono l'ambiente circostante con ben poco interesse, e poi si spostarono ancora una volta sul suo doppio. Alzò il mento ed assottigliò lo sguardo, per poi passarsi rapidamente la lingua tra le labbra, attendendo con trepidazione una risposta.
    the heart is deceitful above all things,


    EDIT: aggiungo le descrizioni delle skills che ho usato (scusami ma prima mi era sfuggito çç). <3

    Nome: Manipolazione della densità
    Requisiti: 28 a Trasfigurazione 1
    Descrizioni: le possibilità di utilizzo di questo incanto sono molteplici, cambiando la densità e quindi la sua massa. Rendere solido un oggetto liquido o viceversa, soltanto parti oppure interamente, ovviamente farlo su un'intero corpo sarà molto più difficile. Grazie a questo si può manipolare anche la galleggiabilità, agendo indirettamente sulla Spinta di Archimede, e si può anche manipolare il peso, rendendolo impossibile da maneggiare o al contrario tanto leggero da maneggiarlo al meglio, per esempio ancora si potrebbe rendere un proeittile tanto pesante e duro da sfondare un'intera parete, o rendere talmente pesanti se stessi da diventare impossibili da smuovere fisicamente.
    Movimento: imporre le mani su ciò che si vuole manipolare
    Azioni: 1 azione
    Durata: 4 turni

    Nome: Palmo di luce
    Requisiti: 22 seconda lezione magia bianca
    Descrizione: Viene concentrata una scarica di luce che acceca gli avversari (numero di azioni durante le quali il mago avversario ha perso la vista pari al tiro del d4)
    Formula: collustro
    Movimento: pronunciare la formula a palmo sollevato verso il bersaglio


    Edited by hypérion - 23/3/2017, 18:09
     
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    Chierica Applicata - 22 anni - Lycan
    Non ebbe tempo di riflettere troppo. Il suo riflesso la stava attaccando e Lara non voleva rispondere, non ancora. Avere pietà di se stessi, dal suo punto di vista, non contemplava violenza. Per evitare l'attacco, la giovane scozzese si affidò al suo elemento, effettuando un salto cercando di sfruttare la sua posizione più elevata sperando il dislivello e la sua abilità fossero sufficienti. A quel punto avrebbe usato la levitazione per portarsi in alto, fuori portata, per poter parlare. Certamente doveva convincere la sua controparte a non combattere, ma come? Le accuse del doppio le arrivarono alla mente forti, vivide, come uno schiaffo in piena faccia.
    Tutto quello che le era successo era perché era debole. Quanta verità in così poche parole.
    Tu cosa avresti fatto al posto mio? Avresti combattuto? Di fronte ad un mostro del genere, non saresti scappata, come ho fatto io?
    Ricordava quella notte, ignara di quello che sarebbe successo, aveva deciso di prendere la strada più breve per tornare alla sua casetta sugli alberi, sede della confraternita degli atleti, dopo una notte di festa. Era passata per una parte ignota ai più del Bosco che circondava il perimetro del college, luogo che un licantropo aveva scelto per la trasformazione mensile. Licantropo che scoprì essere Noah, un amico di vecchia data conosciuto ai tempi di Hogwarts. Il destino a volte giocava in maniera crudele, creando legami dal puro dolore. Non aveva nemmeno provato a battersi, l'unico istinto era stato quello di scappare, nient'altro. La verità era che non era riuscita a fare nemmeno quello, la cicatrice del morso che svettava sul collo ne era la testimonianza. Si chiese se avesse potuto fare altro, ma nessuna risposta arrivò dal suo cervello. Come il suo riflesso, anche lei era arrabbiata per ciò che il destino le aveva riservato.
    Non ho scelto io di diventare così. Nessuno lo sceglierebbe. Ma ormai siamo quello che siamo; il mio obiettivo è dimostrare che nonostante tutto, non sono un mostro. E' per questo che sono rimasta alle lezioni di Callaway, per avere una possibilità. Non negarmela proprio tu.
    Era uno strano fatto quello di dover convincere se stessa di una cosa che razionalmente riusciva a capire, ma che emotivamente sentiva distante. Sapeva benissimo che era la verità quello che aveva detto, eppure sembrava falso una volta detto ad alta voce. Come poteva redimersi, fare buone azioni e non sembrare un mosto, se nel suo DNA lei lo era effettivamente? Questi dubbi non li aveva esternati nemmeno a Sam, era sicura che l'amica le avrebbe detto che in realtà non lo era, che era una persona buona... un sacco di parole, sapeva che la Jensen le pensava davvero. La sua opinione era tra quelle che più contavano al mondo per la scozzese, tuttavia non poteva che domandarsi quanto di parte, soggettive, potessero essere le sue parole. Il tempo probabilmente avrebbe detto se lei era davvero debole, o un mostro. Il tempo però ora non lo aveva, il riflesso era lì davanti a lei ora.
    Per avere più informazioni possibili, decise infine di eseguire una diagnosi dell'aura. Forse così avrebbe capito più cose.
    Lara Lilnoir [ sheet ] í‚ Alcuni legami superano vincono su tutto
    [ code by psiche ]


    Skill usate:
    -Acrobata d'aria [Passiva]
    Requisiti: 28
    Il mago ha un bonus di +2 a qualsiasi azione fisica che implichi un salto.

    -Levitazione
    Requisiti: 30L
    Il mago può mantenersi ad un'altezza di due metri. Incantesimi non elementali hanno un malus di -2, incantesimi d'aria un bonus di +4. L'incantesimo può essere mantenuto spendendo un'azione per massimo tre turni.

    -Diagnosi aura, non ti metto la descrizione, penso tu sappia come funziona XD
     
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    Felicity Daisy Johnson
    ecoempatica - mezza fata della terra - 22 anni - ingenua
    « if i wanted, i could destroy everything. but i'm a good girl »

    Le braccia erano inermi lungo il corpo, come se qualcosa le togliesse la forza o l'energia per riuscire a commettere anche il più piccolo movimento, mentre il collo incassato tra le spalle era un evidente tentativo di sparire, trovandosi da tutt'altra parte ma non di certo lì, ad affrontare un suo macabro riflesso. Eppure qualcosa la tratteneva da scappare, un turbamento che le nasceva dal suo più profondo essere. Un'improvvisa e tagliente raffica di vento mosse i capelli della ragazza, lasciando che lunghi ciuffi biondi le si posizionassero davanti al volto e lì restassero, visto che i muscoli di Fee non fecero neanche il più breve movimento per spostarli, impegnata ad osservare la sua copia. Il busto era spostato in avanti, i muscoli tesi ed i pugni serrati in un gesto che lasciava poco spazio anche al più piccolo dubbio nel capire l'emozione che l'attraversava. L'unico sopracciglio presente nel viso era abbassato, formando delle profonde rughe verticali sulla fronte. Fee poteva vedere i denti serrati lasciati scoperti dalle labbra sollevate in un ghigno di puro rancore, deformato dalle cicatrici della bruciatura. Tutto in lei sembrava voler urlare quanta rabbia stesse provando, ma era lo sguardo forse quello che riusciva a caratterizzarla di più. Quegli occhi trasparenti che conosceva così bene erano fissi su di lei, incastonati nelle tese palpebre che riusciva ad aprire solo parzialmente. C'era qualcosa in quello sguardo che la mente di Fee percepiva non solo come segnale di pericolo, no, nel profondo era come se stesse urlando una muta richiesta di aiuto. Un'aiuto che non avrebbe di certo chiesto o voluto, ma che la mezza fata voleva donarle senza nessun dubbio. Voleva comprendere, aiutare, prendersi cura di lei. Sapeva che prima iniziava a parlarle e meglio sarebbe stato, ma non appena aprì le labbra per dirle qualcosa, capì che non era quello l'esatto momento. La situazione di pericolo venne percepita prima dal suo corpo che dalla mente, in confusione e totalmente smarrita, ritrovandosi a reagire d'istinto liberando le ali sotto pelle, che formarono due buchi nella maglietta, per permetterle di tentare una schivata aerea all'indietro. Piegò le ginocchia staccandosi dal terreno e facendo un paio di metri al ritroso, provando a portarsi fuori area dal possibile pericolo e mettendosi davanti a Diana, per essere sicura di poterla proteggere se l'altra avesse tentato di attaccare anche lei. « Per favore calma » mormorò, portando i palmi delle mani davanti al corpo per tentare di farle capire che non voleva combattere « cosa... cosa avrei fatto ai nostri genitori? Vorrei capire. Posso sentire la rabbia e la disperazione che scorre furiosa in te. E' come se ti togliesse il fiato vero? » parlava con la solita dolcezza che la contraddistingueva. Non le importava che il suo riflesso smettesse di odiarla, non era quello il suo scopo, voleva solo aiutarla. Ogni volta che percepiva il dolore in un'altra creatura era come se il suo corpo si spegnesse, provando quella sensazione di angoscia e smarrimento che tanto odiava. Doveva aiutare, sempre. Era un dovere che fluiva nella sua mente fin da piccola. « So bene cosa significhi essere disperate » la rabbia era un'emozione che raramente nasceva in lei, ma la disperazione invece la conosceva molto bene, avendo perso entrambi i suoi amati genitori « e capisco che tu possa pensare di non avere scelta. Ti senti sopraffatta da tutte quelle orrende e crudeli emozioni negative, lo so. Ma usare la violenza non cambierà niente » un improvviso nodo in gola le impediva di parlare chiaramente, ma serrò la mascella e andò avanti, completando il suo discorso « Quindi ti prego, parliamo e confrontiamoci. Ma senza arrivare a tanto » Il battito cardiaco era accelerato per via della situazione e i brividi di freddo le scorrevano lungo il corpo, mentre annusando l'aria intorno a lei capì che la pioggia era davvero imminente. Aspettando in silenzio una sua risposta, tentò di calmarsi e ritrovare la concentrazione necessaria per tentare una diagnosi dell'aura e avere così informazioni sul riflesso. Era la sua copia e forse era uguale a lei, ma Fee non aveva niente da perdere, così provò.
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    //Non so come AntiSam reagirà, quindi prima di tentare la Pranoterapia aspetto l’esito.
    Le frasi s c r i t t e c o s ì sono i ricordi sconnessi di ciò che Chaos le ha detto, anche se lei ovviamente non sa da dove provengano. Analogamente, quelle in nero sono i pensieri che Sam ha avuto in sede dell'incontro e di cui non ha memoria.



    Samantha Jensen O’Connor
    23 Y.O.| I year | ΨΒZ | Neutral Good | Parabatai | Chaos seed | voice | ϟ
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    apeva chi fosse quello spirito, l’aveva immaginato fin dal primo istante, i segni tanto invisibili quanto indelebili che aveva sul corpo ne erano una palese manifestazione. Ma sapeva anche che dare per scontata un’informazione come quella le sarebbe costato molto caro, e non aveva intenzione di fare passi falsi. Persino l’aura del riflesso era fragile ed impalpabile come cartapesta, e la natura insegnava che una creatura ferita era una creatura pericolosa. Aveva deciso di riaffrontare gli specchi – «c o m e f a i a s a p e r l o s e n o n t i g u a r d i n e a n c h e a l l o s p e c c h i o?» - con l’intento di liberarsi della palla di piombo che la stava trascinando sul fondo degli abissi, ma le parole del doppio l’avevano presa in contropiede e ringraziò di aver optato per l’approccio diplomatico, o avrebbe rischiato di affrontarla con le argomentazioni sbagliate. Il macigno che avvertiva nel petto non si era affatto sgretolato, anzi, le premeva soffocante contro i polmoni. Voleva parlare, spiegare, aiutarla, ma si impose di trattenersi finché l’altra sé non avesse espresso le proprie ragioni.
    «Mi vedi? Vedi come sono ridotta?»
    Sì, certo che ti vedo, avrebbe voluto risponderle, ma non poteva sopportare oltre che parte della sua anima che versasse in quello stato, che avrebbe potuto tramutarsi in cenere da un momento all’altro. No, lei doveva essere quella forte, chiudere una volta e per sempre la finestra da cui penetravano gli spifferi che minacciavano di spegnere la sua flebile fiammella.
    «Sam... » la chiamò, ma prima che potesse aggiungere altro, lo spettro portò un palmo in avanti e venne trascinata verso il basso in una spaccatura che le arrivava fino alla vita, costringendola ad un improvviso cambio di prospettiva. Doveva aspettarselo, eppure l’aveva lasciata fare. Se aveva bisogno di sfogarsi le avrebbe concesso di liberare tutta la propria furia, purché non minasse esageratamente alla propria salvezza. Ma non poteva fornirle un maggiore campo da azione, Callaway era stato cristallino: se fossero stati colpiti duramente, ne sarebbe conseguita un’intensa sofferenza e non avrebbe permesso che anche Lara ne risentisse. Ricordava quando la propria runa aveva sanguinato copiosamente, la prima notte in cui la sua parabatai si era trasformata in lupo, e non aveva dubbi che, qualunque fosse la circostanza in cui lei stessa si era procurata quelle innumerevoli cicatrici, la Lilnoir si fosse preoccupata a morte. Doveva spuntare quell’intimo scontro per conto proprio, senza intromissioni, senza coinvolgere altri.
    «Sam, ascoltami le gridò, dura ed infervorata, mentre la gemella si preparava a seppellirla viva. Doveva riguadagnare terreno, stare più in alto di lei, anche solo di poco, o non l’avrebbe mai ascoltata. C’era poco tempo per pensare, e ancora meno per agire. Rapidamente, congiunse le mani di fronte al proprio addome, con i pollici rivolti verso l’alto, le falangi esterne piegate ed in contatto, ed intrecciò tra loro indice, medio ed anulare, facendo in modo da unire anche i mignoli, tracciando una perpendicolare virtuale che li univa al terreno.
    «Down reid!» pronunciò distintamente, tentando di depotenziare l’incantesimo elementale che l’altra sé le stava per scagliare addosso. Se ci fosse riuscita avrebbe rallentato la frana, guadagnando del tempo per puntellarsi con le braccia sul bordo della fossa ed issarsi allo stesso livello della propria avversaria; in caso contrario, tirarsi fuori dalla buca sarebbe stato leggermente più difficoltoso a causa della valanga di terriccio e piastrelle che le sarebbe piovuta addosso.
    Una volta uscita, mantenendosi a circa quattro metri di distanza dallo spettro, avrebbe chiuso con uno scatto la mano destra a pugno e posizionato la sinistra sul dorso dell’altro, con lo scopo di Potenziare la propria aura, azione quasi necessaria se voleva avere qualche possibilità di riuscire nel suo scopo finale: curarla. Callaway li aveva istruiti perché convincessero il loro doppio a desistere dal combatterli, ma quando Sam aveva studiato l’olografica radiografia della sua metà ferita il suo obiettivo primario era mutato. Sapeva che la Pranoterapia non era efficace contro malattie fisiche o avvelenamenti, ma non era quello il caso, e se c’era un’occasione per lenire le sue lesioni l’avrebbe colta.
    Ma prima doveva riuscire a calmarla, a farle capire il proprio punto di vista. Persuaderla, confonderla con Rune emozionali, accecarla con formule di luce o imprigionarla al terreno erano tutti gesti violenti, che avrebbero solamente ridotto le sue chance di successo. Il riflesso doveva ascoltarla, guardarla negli occhi, tornare a fidarsi di lei per sua volontà.
    «Up Ur!» le due sillabe risultarono gutturali, ruvide. Se avesse cominciato a parlare, lo spirito avrebbe dovuto prestarle attenzione. Era lei, dopotutto. E Sam non si era mai chiusa di fronte alla voce di nessuno. Vagliava le opportunità, la loro attinenza con chi era, con i propri progetti, ma precludersi una prospettiva era l’atteggiamento di una persona piccola, stupida e meschina. Non il suo caso.
    E se non dovesse ascoltarti?” insinuò il parassita intrecciato al suo ki. “Non ci sarebbe nulla di male, a quel punto, se la eliminassi del tutto...
    No, no. Lei non era solo questo. Lei era entrambe. Se era riuscita a capirlo, anche l’altra Sam avrebbe dovuto compiere quel salto. Corrugò le sopracciglia, l’Ombra sempre più melliflua.
    “È già debole. Basterebbe un solo colpo per spazzarla via”
    Ma non era ciò che voleva.
    “Non volevi diventare più forte?”
    Ma certo, è per questo che-
    Che cosa? La confusione aumentò pericolosamente. Di nuovo quella spiacevole sensazione di aver perso un tassello. Forse vedere la runa sanguinare le aveva permesso di riordinare le sue priorità, di questionare i propri principi e le proprie scelte. Forse...
    “Non era questo lo scopo del tuo patto?”
    Ma quale patto?! Di cosa stai parlando?!
    Silenzio.
    Attese qualche istante, trepidante, il cuore che le pulsava più rapido nella cassa toracica, anelando la risposta come un uomo assetato nel deserto.
    Venne ignorata, abbandonata nel suo mare di sconcerto. Non era la prima volta che si ritrovava a discutere con se stessa, come se si trattasse di un’entità distinta incatenata dentro di sé. C’erano giorni strani, giorni in cui si alzava di pessimo umore, in cui avvertiva una tale energia distruttiva dentro di sé che l’unico modo che aveva escogitato per sfogarla era scagliarsi contro i sacchi da box della confraternita.
    Certo non era un’ingenua, la causa di quelle anomalie poteva essere solo una. Eppure aveva convissuto con il germe di Chaos per due mesi, e non le aveva mai trasmesso emozioni simili prima, solo una pulsione ad allontanarsi da chiunque e da qualunque cosa che, realizzò, ora non possedeva più. Avrebbe potuto farsi aiutare da Callaway, ma ogni volta che ipotizzava di farsi sfiorare l’aura dal professore, una pulsione più intensa, un istinto di autoconservazione sui generis la faceva desistere, lasciando dietro di sé un’inquietante sensazione di disagio, sfiducia e tradimento, accompagnata da frasi sconnesse e mai udite.
    «D a n n y h a c a m b i a t o l a s u a l e z i o n e u n t e m p o s i s c e n d e v a p i ù i n b a s s o n e l p r o f o n d o»
    Scosse la testa. Non aveva tempo per questo, e ne aveva già perso troppo. Ciononostante, era necessario che si raccogliesse qualche istante in sé o avrebbe tentennato, e non c’era spazio per l’esitazione. Perché se era vero che una parte di lei nutriva mire quasi egoistiche nei riguardi dello spettro, l’altra metà era mossa da sincera compassione, dalla volontà di salvarla da se stessa, di svelare le menzogne che continuava a raccontarsi. Una parte di lei puntava ad assoggettare quella più debole, farla tacere, incatenarla per il puro gusto di dimostrare di essere nel giusto, di essere la Sam destinata alla vittoria. L’altra metà, accompagnata dal gorgoglio gutturale della lince, le sibilava nell’orecchio come un campanello d’allarme, avvertendola che se avesse sbattuto gli infissi della finestra troppo forte, la candela sarebbe incorsa nello stesso destino provocato dal vento. Rischiava di creare più danni di quanti ne avesse già subiti, di smarrirsi senza più possibilità di ritorno.
    Con questa disposizione di spirito avrebbe cercato di infondersi una maggiore forza d’animo, proclamando «Vis Animae!» con convinzione e sguardo di fuoco. Avrebbe percepito la propria aura rossa circondarla, trasmetterle sicurezza e spingerla ad esordire.
    «Ascoltami, Sam» ripeté. «Ciascuna di quelle cicatrici è tua. Tutte, dalla prima all’ultima, ma non te ne sei inferta nessuna da sola. Non si tratta di ferite di qualcun altro, non capisci? Il morso è il fardello di Lara, ma lei è sempre stata parte di noi, le sue pene sono sempre state anche le nostre. Non è un onere, e Lara non ci rende più deboli, ma più forti. Se così non fosse, pensi che i Loa avrebbero benedetto il nostro legame?».
    Era fondamentale che il riflesso non considerasse la Lilnoir come una minaccia, perché era l’unica su cui avrebbe potuto contare se avesse dimenticato di guardare la Stella Polare che albergava in lei.
    «Io non voglio affatto distruggerti. Se sono ancora qui» “Ancora rispetto a cosa?” «è grazie a te. Se sono me stessa ora, è grazie a te! Ma io non sono te, non del tutto. Solo perché ho accettato che non c’è solo luce in noi, non significa che impazzirò. L’oscurità è parte di noi, Sam. Non puoi ignorare che legno ci scelse a undici anni, quale pietra ci chiamò quando estraemmo il nostro yang. Non è voltandosi dall’altro lato, fingendo di non sapere, che le cose funzioneranno. Secondo te perché ho preso questa decisione? Perché sei tu lo spettro e non io?». No, no, non doveva premere il tasto delle colpe. «Ricordo la sensazione di paura, di ipocrisia ed incompletezza che senti, perché è stata anche la mia angoscia. Ed è straziante sapere che sei ancora in balia di quei tormenti. Ascoltami. Stava per giungere al nocciolo del suo discorso e le si avvicinò lentamente, per non farla sentire aggredita o messa sotto pressione. Doveva usare calma, pazienza, compassione. «Soffrire in questo modo non ti rende più umana, solo più infelice. È come un cancro che ti divora dall’interno. Mi incolpi della tua distruzione, ma io non voglio annichilirti, voglio che tu comprenda. Che l’unico modo che hai per salvarti, è tornare con me. Se mi annienti, anche tu sarai completamente spazzata via. Se fossi io a farlo, anche io cesserei di esistere».
    Ora erano ad un metro e mezzo di distanza. «Ho sbagliato a lasciare che venissi violentata in questo modo» Ma quando, come era successo?! «Ma non me ne pento! Non posso camminare su una fune con una piuma da un lato e un’incudine dall’altro, prima o poi perderò l’equilibrio. Lo yang ingloberà lo yin, e non è questa l'armonia. Vuoi davvero sacrificare la consapevolezza per una calma apparente? Continuare a preferire una menzogna alla verità? A che prezzo vuoi la pace? Il conto è già stato saldato»I l p e g n o è l a tua f u t i l e f a l s i t à”. La lince le scivolò sotto le dita di una mano, lasciandosi carezzare il capo e fissando lo spettro con fierezza e compatimento. La peculiarità del suo daimon era proprio scoprire gli inganni celati di cui è guardiana, dando qualcosa in cambio. «Il danno più grande lo stai facendo a te stessa, a noi. Se queste cicatrici» indicò i solchi imperscrutabili sulla cute della sua gemella «sono il prezzo da pagare, va bene. Ma non ho più intenzione di ferirmi da sola. Né di permettere a te stessa di continuare a farlo».
    L’una di fronte all’altra, iridi rosse e grigie in pozze cerulee, la mano di Sam prese dolcemente quella del riflesso. «Lascia che ti curi. Torna con me»

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    Incantesimi usati durante lo scontro:

    Depotenziamento Fisico
    Descrizione: Permette all’esecutore di rendere meno offensivo un attacco fisico/psicocinetico/elementale che sta subendo.
    Formula: DOWN REID (la runa che appare è la REID, solo capovolta)
    Movimento: Posizione del Drago

    Potenziamento dell’Aura
    Descrizione: Permette di potenziare la propria aura, quindi la forza della propria essenza (Magia Bianca)
    Formula: UP UR
    Movimento: Posizione del Cane

    Forza d'animo
    Descrizione: l'energia del ki infonde più forza nell'animo del mago (+4 ai tiri volontà). Una luce intesa viene emanata dal corpo del mago quando incantesimi di volontà vengono esercitati su di lui.
    Formula: vis animae
     
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    The Lone Stranger
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    «I
    o non ho paura.»
    Ringhiò a sua volta a quel riflesso distorto di se stessa. Si morse il labbro inferiore, mentre vedeva l'ostilità di quella figura crescere con l'avvicinarsi della fine delle sue parole. Si sarebbe aspettata un attacco fisico da lei, ed a tale provocazione era pronta a rispondere. Invece, rimase completamente inerme di fronte al colpo che ricevette. Etereo come l'aria, forte come un pugno alla bocca dello stomaco, e violento come solo un'emozione troppo forte ed incontrollata poteva essere. Aprì la bocca, annaspando in cerca d'aria. Faceva male, un male fisico che avvertiva bruciante sotto la pelle, conficcato nei muscoli con l'acume di aghi, come se quella pelle orrenda le fosse stata cucita addosso in un istante. Ma non era solo quello. Era anche angoscia, un senso di totale oppressione che veniva da ogni lato, senza tregua. In un attimo le pareti di quella prigione d'alberi sembrarono sempre più strette, più strette, impenetrabili. Più che una prigione, una tomba. Si sentiva senza scampo, senza via d'uscita. Debole. Portò il palmo in avanti, di fronte a sè, sentiva la magia scorrerle nelle vene secondo il bisogno che la guidava inesorabile verso la mano tesa.
    «Collustro
    Pronunciò con decisione, mentre dalla sua mano si sprigionava una luce intensa, forte, diretta contro l'altra sè. Doveva distrarla, doveva distrarla e renderla inoffensiva. Allora avrebbe potuto farci i conti.
    «Mi dispiace.»
    Riuscì a dire con un filo di voce. "Mi dispiace." Per cosa le dispiaceva? Per aver causato un dolore simile alla sua controparte? Lo sapeva, che non era neanche la punta dell'iceberg. Per essere scesa in quella sorta di arena interiore? Forse. O forse le spiaceva di più per ciò che stava per fare. Cercò la concentrazione necessaria, ed incanalò la sua magia nell'incanto alchemico. Il terreno sotto i piedi dell'antiFianna doveva crollare in una profonda pozza liquida, qualcosa che la ostacolasse, che le rendesse difficile muoversi prima che il secondo incantesimo, sempre sulla desità di quel rosso terreno, non ne riportasse lo stato solido. La voleva ferma, la voleva controllabile.
    «Mi dispiace.» Ripetè allora, traendo un respiro profondo, ricercando il coraggio e la calma, tentando di scacciare da sè quel vortice con sui l'altra l'aveva investita.
    «Ma dovrai impegnarti di più. Cosa credi? Che non sappia esattamente come ci si sente?? Che non lo viva sulla mia pelle ogni santissimo giorno???»
    Avvertiva una pressione a livello delle proprie mani, sapeva esattamente cosa stava accadendo. Rabbia. Si stava innervosendo, e stava diventando qualcosa di non troppo dissimile da ciò che le stava di fronte. Cercò con lo sguardo il wampus. La creatura dei guerrieri, che placido non si lasciava dominare dalle passioni. Non doveva farlo neanche lei. Doveva concentrarsi, calmarsi, dominarsi ancora. Ma quelle pareti di tronchi sembravano sovrastarla sempre di più, sempre di più.
    «Lo so che è dura. Lo so, anch'io vorrei che fosse tutto diverso.Che fossimo---normali. Ma non lo siamo, e non lo saremo mai, Fianna.»
    La guardò in quegli occhi diversi l'uno dall'altro, cercando di venire a patti con la repulsione che le causavano. La verità era che faticava ancora, dopo anni, ad accettarsi completamente. Lo sapeva, che il suo era solo un modo di anestetizzare quella pena, ma era l'unica maniera che aveva trovato per sopravvivere. La guardò in volto, guardò quella pelle animale cucita addosso. Ne aveva sentito il dolore fisico, il bruciore di quei punti, uno per uno. Che modo era di vivere, con quella cosa attaccata addosso?
    «Lascia---lasciami avvicinare. Non attaccarmi. Voglio toglierti quella cosa di dosso.»

     
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    AYUMU KUROSAKI ♢ MEDIUM › SHEETVOICE
    Silenzio. Questa fu l'unica risposta che Ayumu ebbe dal suo riflesso e non si sorprese più di tanto. Era una reazione che conosceva assai bene, perché lei stessa era solita farlo; un brutto vizio che da tempo avrebbe voluto estirpare. Sorrise amaramente a quella constatazione, consapevole che la lotta con lei avrebbe comportato seri sconvolgimenti nel suo animo. Nuovamente, però, il cristallo presente nella tasca dei jeans parve farsi più pesante, quasi volesse conficcarsi nella pelle tranciando la stoffa. Una sensazione fastidiosa, ma nel medesimo tempo confortante: la volpe era lì. Alla mente sovvennero nuovamente le parole di Callaway, guida fondamentale per lei in quegli ultimi mesi e caldo balsamo per le ferite del suo animo. Eppure faceva fatica a pensare il concetto di pietà in riferimento a sé stessa, sempre abituata ad essere severa e critica al fine di migliorare. I suoi genitori l'avevano cresciuta nell'umiltà, nell'idea che per pretendere dagli altri bisognasse innanzitutto pretendere da sé stessi, giungendo al punto di non essere mai soddisfatta; di non aver pietà di per sé.
    Era paradossalmente ridicolo che ora, all'età di ventun'anni, le si chiedesse di cambiare totalmente quel suo pensiero; eppure sapeva benissimo anche necessitava di ciò. Lo comprese appieno quando, scioltosi improvvisamente il muro che la proteggeva, Ayu scorse lo sguardo umido dell'altra per una frazione di secondo. Non fu, tuttavia, il vedere quelle stille salate mal celate a coglierla in fallo, piuttosto il fatto che fosse proprio lei, l'AntiAyumu, a produrle. Rappresentando la parte più ferina, indomita, incontrollata di lei, mai avrebbe creduto di poter scorgere una tale espressione sul suo viso. Fu in quel momento che comprese; comprese che quella paura così profonda necessitasse di una comunione con sé stessa per poter essere sconfitta - almeno parzialmente. Nuovamente il rimbombo delle parole di Callaway si fece persistente e l'accompagnò per tutta l'azione alquanto suicida che compì.
    Non si difese. Non volle difendersi. Semplicemente si preparò ad incassare, ad accettare la furia omicida che sapeva albergare in lei. Avrebbe fatto tanto, ma tanto male, ma scelse di fare ciò ugualmente: era l'unico modo. Aspettò, dunque, che l'altra scaricasse completamente la forza telecinetica, tendendo i muscoli e stringendo i denti per la paura. Perché non era così stupida da negarsi quell'emozione, sopratutto in quel momento.
    Avrebbe, quindi, cercato di resistere il più possibile al suo attacco, evitando di scansarsi o attaccare a sua volta e cercando di sfruttare il momento esatto in cui il suo arto sarebbe arrivato il più vicino a lei, in una posizione ottimale. Avrebbe semplicemente cercato di afferrare il polso della mano con cui aveva castato il colpo, tentando quindi di tirarla giù con uno strattone, aiutata anche dal contraccolpo della botta subita. Una semplice caduta, che non avrebbe aspettato a trasformare a suo vantaggio, a vantaggio di entrambe. Se fosse riuscita a farla crollare e avesse avuto le forze necessarie, Ayumu avrebbe ribaltato le posizioni, mettendosi a cavalcioni su di lei e cercando di bloccarle le mani contro il pavimento, a fianco della testa.
    "Ti ho detto di smetterla! Non vedi quanto sia stupido ed inutile?! Non potrai mai annullarmi, come io non potrò mai fare lo stesso con te. Io sono te e tu sei me e conviveremo finché avremo respiro." avrebbe iniziato a dire con il fiatone, cercando di trattenere le lacrime che premevano per uscire.
    "Lo so benissimo quanto ti dia fastidio che io sia debole e inutile e ti capisco. Ma ti prego, renditi conto di ciò che abbiamo fatto. Renditi conto di quello che ci stiamo facendo a vicenda, di come le nostre ferite non smettono di sanguinare. Noi non siamo solo questo. Noi siamo anche Taylor, Rose, Alexis...Marloon. Noi siamo altro, ti prego, renditi conto di ciò." avrebbe pigolato, appellandosi all'intelletto che condividevano.
    GLEN
     
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    aleksandra "alex" elena kiseleva

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    I cambiamenti del bosco potevano apparire così infinitesimi agli occhi di molti, ma non per Aleksandra che lo osservava con gli occhi della consapevolezza. Quando aveva indossato il cristallo bianco per la lezione non aveva avuto i timori di un tempo. Stava cominciando a crescere e a capirsi, ma la strada che doveva percorrere era ancora così lunga che a volte non ne vedeva la fine. Vi era una luce diversa, la foresta appariva più luminosa, come se la luce del sole riuscisse a filtrare con più forza attraverso la coltre di alberi, quasi a voler rappresentare una flebile speranza di cambiamento. Un lieve strato di nebbia rendeva l'aria umida e molto fredda, piccole volute di fumo fuoriuscivano dalle labbra della ragazza mentre quasi riprendeva confidenza con la sua foresta.
    I suoi occhi osservarono con attenzione ciò che aveva davanti, la figura familiare e rassicurante del suo daimon nitriva poco più lontano. Sembrava star brucando dell'erba, gli si avvicinò lentamente. Passi lenti e misurati, come se stesse attendendo da un momento all'altro di essere attaccata. Poggiò una mano delicatamente sul collo della figura eterea, bastò uno sguardo con la sua guida che questa cominciò a camminare mostrandole la strada da seguire come un fedele Virgilio che guidava il suo Dante nelle viscere dell'Inferno, fino allo splendore del Paradiso. Lei sarebbe riuscita a risalire una volta scesa all'inferno? O sarebbe stata risucchiata in sé stessa. Il solo pensiero di smarrirsi la faceva tremare. Il volto del suo daimon si avvicinò al suo sfregandolo leggermente in una carezza appena accennata, aveva accettato il suo significato e la sua presenza con tranquillità, accettando tutto ciò che significava avere come animale guida una tale creatura. L'andatura dell'animale rallentò per poi fermarsi poco dopo in uno spazio libero da alberi, la luce riusciva a penetrare più facilmente nel sottobosco facendo apparire tutto più chiaro. Il pulviscolo che si sollevava dal terreno creava particolari giochi di luce davanti ai suoi occhi incantandola e distraendola per qualche secondo, prima che il nitrito del suo cavallo la riportasse alla realtà, lo vide trottare leggermente verso il lato attirando il suo sguardo su una figura seduta tranquillamente su un tronco caduto. La somiglianza che le univa lasciava per un attimo senza fiato, era come guardarsi ad uno specchio infingardo, il quale rimandava non l'immagine di sé che si voleva vedere, ma tutto ciò che si cercava di nascondere. Gli occhi di Aleksandra tremarono leggermente mentre risalivano la figura esile del suo riflesso, anche se avesse voluto evitare di vederle non avrebbe potuto: erano ovunque.
    Il suo corpo era totalmente livido, non vi era un centimetro di pelle esposta che non mostrasse una lividura profonda e dolorosa che doveva causare un dolore immenso alla figura che aveva dinanzi. Quasi riusciva a riconoscere ognuna di quelle ferite come propria, poteva quasi ricordare dove e come se l'era procurata quando era bambina e chi ne era l'artefice. Scorse il segno degli schiaffi che avevano più volte colpito quella guancia leggermente paffuta di bambina e sul quale le tracce di lacrime secche segnavano ancora la pelle, scivolando tra il sangue rappreso. Riconobbe su quelle braccia che l'aveva trattenuta a letto spingendola e strattonandola per non farla parlare, che l'avevano picchiata fino a che non era svenuta perché doveva capire che era il dolore che rendeva forti e invece aveva reso lei debole, costringendola ad arretrare nel limbo di sé stessa per non perdersi.
    Meglio un limbo, che smarrirsi nell'inferno. Guardò ancora il suo volto e la vide tendere le labbra in un sorriso che sapeva anche quello di sangue e dolore. Erano legate tra di loro, non con forza, ma unite da un filo di ferro che le segnava e lasciava che il sangue si raggrumasse tutto intorno. Erano labbra di sangue, dolorosamente forzate al silenzio, affinché lei non parlasse, non potesse dire nulla. Doveva essere solo una brava bambina, mentre ripeteva gli insegnamenti di suo nonno. Le labbra dell'altra Aleksandra si stirarono in un sorriso che sapeva di sangue e lacrime, mentre la vera Aleksandra indietreggiava, mosse solo qualche passo mentre una mano saliva ad artigliare la maglietta all'altezza del cuore, mentre notava altro che non aveva visto, che aveva preferito evitare. Era come se le mani dell'altra sé stessa fossero bruciate, ma non erano annerite, ma ancora rosse e mostravano avvolte la carne viva dove la pelle bruciata si era staccata.
    Provò a respirare per calmarsi mentre silenziosamente e cercando di non farsi scoprire provava a capire in che modo e quanto fossero profonde tutte quelle ferite. Provò a diagnosticare l'aura dell'altra sé stessa, forse avrebbe potuto guarirla, forse poteva porre rimedio a ciò che era volutamente inflitta. Era colpa sua se nascondeva sotto tutto ciò che era le ferite di una bambina. - Scusami... mormorò titubante, mentre provava a sollevare lo sguardo verso gli occhi della ragazza, che sembravano bruciare, animandosi di quel dolore e di quella sofferenza, dando ossigeno ad un fuoco che non sembrava volersi spegnere.

    role code by annah.belle don't copy


    edit: Spiego anche io le sue ferite.

    lividi Aleksandra è letteralmente coperta dai lividi, a causa di suo nonno e di suo zio che nei tre/quattro anni che l'hanno "accudita" hanno riversato su di lei l'odio che provavano per la società magica, cercando di mostrarle che l'unica vera strada per crescere era la sofferenza. Hanno ben deciso di iniziare con lei piccola. Ha dei particolari segni sulle braccia, due mani che la tengono e la stringono.
    labbra cucite negli anni in quei ha vissuto con suo nonno Aleksandra ha disimparato a parlare, non riuscendo in alcun modo a dire nulla. Era solo una bambina dopotutto, ma ciò ha inciso sulla sua capacità di socializzare.
    mani bruciate Aleksandra ha paura del contatto fisico, soprattutto se maschile. Le sue mani rappresentano per lei un po' tutto, perché sono anche il senso che ha sviluppato a Psichica e sono la sua arma, ma anche una debolezza. Il fuoco è poi il suo elemento.
     
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    Ora esito tutti non abbiate timore, mi hanno però fatto notare che il senso della lezione è un po' ostico, ed in effetti è molto probabile che non mi sia spiegata al meglio, quindi lo ripeto, ma se ci fossero ancora dubbi vi esorto a contattarmi quanto volete:

    Nella precedente lezione il vostro pg ha scoperto ciò che lo rende debole, le sue paure e le sue sofferenze, in poche parole ciò che si trascina dentro da anni e che lo turba indebolendo il suo ki e la sua magia, oltre alla sua emotività. La lezione morale di quella volta era l'accettazione, accettare di essere deboli, comprendendo però che questo non volesse dire rinunciare alla propria forza, che il personaggio ha dimostrato curando qualcuno che aveva bisogno di aiuto, nonostante fosse in una situazione di forte tensione emotiva. In pratica ha tirato fuori l'altruismo che nascondeva dentro di sè.

    La lezione di oggi serve ad imparare ad affrontare quelle stesse debolezze. Il personaggio deve capire che la violenza non lo porterà da nessuna parte, essere violenti con noi stessi infatti non ha alcun tipo di risultato se non quello di renderci ancora più deboli e sofferenti. Il vostro personaggio deve mostrare pietà per se stesso, deve dimostrare di essere in grado di accogliere se stesso, così che possa imparare ad essere compassionevole verso gli altri, che siano amici, o nemici, perchè tutti soffriamo e nessuno si può erigere a giudice degli errori che ognuno commette.

    Detto ciò presto arriveranno gli esitiii
     
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    tumblr_nxgcm4dAEj1ru0j5io3_250Winter D. Merriwether
    And I’ll find comfort in my pain - eraser

    Far ragionare il suo riflesso si era rivelata una missione più ardua di quanto pensasse.
    Winter si aspettava la versione docile e mansueta di se stessa, universalmente riconosciuta per essere accondiscendente, gentile e, soprattutto, calma.
    Ciò che aveva di fronte era l’esatto opposto – era tutto ciò che temeva, un animale in gabbia, impaurito, ferito, marchiato.
    Uno spirito che non le apparteneva più – era di proprietà di qualcun altro, qualcuno che le aveva imposto la sua presenza con il fuoco –, che se ne stava rannicchiato nel suo sangue, senza lasciare che Winter potesse cercare di riparare i danni, rimarginare le ferite.
    Sapeva che il suo riflesso avrebbe portato su di sé i suoi sbagli, che sarebbe stato un monito per tutte le volte che aveva lasciato perdere, cancellato e voltato pagina – se lo aspettava, pensava di essere pronta. Ma non si aspettava lei. Non poteva immaginare di trovarsi faccia a faccia con l’aggressività che le dilaniava l’interno, un mostro che faticava a tenere a bada, che aveva incominciato una caccia al colpevole, desideroso di vendetta, e che non si sarebbe fermato finché l’imputato non fosse stato punito.
    Pensava di aver imparato a non sentirsi più in colpa per quanto era successo – ma, ricordò a se stessa, era lei ad esserne convinta, mentre il suo inconscio forse non aveva mai cessato di ritenerla una vittima sacrificale adeguata per la sua carneficina.
    Winter gemette, guaì mentre le unghie del suo riflesso affondavano nella pelle del suo braccio. Cercò di scansarsi con uno strattone, stupita dalla selettiva violenza che aveva scorto negli occhi del suo doppio, «Winter», la richiamò all’attenzione, il tono più fermo che le riusciva mentre l’altra ancora le arpionava il braccio, «ascoltami, ti prego», la supplicò, addolcendo la richiesta, «cerca di ragionare», soggiunse, tentando di nuovo di liberarsi dalla sua stretta, «so che ami Daniel, ma lui non ti ama», le spiegò, la voce che traboccava di rimpianto e di compassione, «non ti ha mai amata, ma non è questo il punto», rincarò la dose, attenta a non caricarla di troppe informazioni – preferì tenere per sé il dettaglio della scommessa, almeno per il momento, «il punto è che non sei sua, non sei di nessuno, sei libera, te lo prometto», mormorò, «e te lo posso assicurare, se solo lasci che ti aiuti».
    La guardò con occhi pieni di speranza, le tese l’altra mano che tremava e fremeva al pensiero di esporsi di sua volontà alla mercé della sua avversaria. Voleva solo aiutarla.
    «C’è qualcuno, là fuori, che ti amerà esattamente per come sei, senza che tu debba scendere a compromessi, senza volerti ingabbiare, senza volerti marchiare, Winnie», sussurrò, gli occhi velati di una patina di lacrime che riusciva a stento a contenere.
    Non era certa della promessa che le stava facendo – Winter non poteva avere la più lontana sicurezza che qualcuno l’avrebbe amata di nuovo, che avrebbe accettato e fatto sua ogni sua paura, ogni sua piccola stranezza, ogni suo dubbio ed incomprensione. L’animo romantico che si celava in lei viveva in funzione di quella speranza – il pessimismo che nasceva da un passato oscuro, tuttavia, serpeggiava in silenzio a pari passo con la prospettiva di un futuro migliore, le impediva di credere davvero che un sogno del genere si sarebbe mai avverato.
    Ma doveva mostrarsi sicura – doveva farlo per se stessa, doveva farlo a se stessa, mentire alla persona che conosceva ogni suo trucco. Ma era necessario – sapeva che era ciò di cui l’altra aveva bisogno, che non si sarebbe fermata all’evidenza, non si sarebbe gettata tra le sue braccia se non fosse stata certa non restare ancora una volta sola.
    Ciò di cui aveva bisogno il suo riflesso le parve chiaro come il sole, che, Winter sapeva, si nascondeva dietro alle nuvole cariche di pioggia nel cielo di Brighton, giocava a fingersi irraggiungibile, «Non sei sola, Winnie», le disse, «ci sono io con te», le sventolò la mano davanti agli occhi ancora una volta, nella speranza che la prendesse senza ritorcesi contro di lei, «se non ti basto, sei circondata da persone che ti vogliono bene, ed ora anche Noah è tornato, non sarai mai più sola, nessuno lascerà che questo accada».
    Alzò il mento, espirò lentamente – doveva dirglielo: «Quello che Daniel prova per te è sbagliato, non ti meriti una persona del genere, non ti ha mai meritato, so che nel tuo cuore lo capisci, anche se hai paura», il ricordo della se stessa terrorizzata al pensiero che il ragazzo la lasciasse era vivo dentro di lei, si manifestava di fronte ai suoi occhi con una chiarezza spaventosa, «ti ha convinta di poterti possedere, di poter fare di te ciò che vuole, ma sei più forte di lui – tu sei forte, Winter, e con me al tuo fianco lo sei anche di più. Siamo in due, siamo insieme, possiamo sconfiggerlo», se non poteva annientare il suo desiderio di vendetta, sperava almeno di rivolgerlo verso il suo carnefice, colui che veramente lo meritava.
    «Ora però ti devi calmare, lascia che ti aiuti, ti prego», cercò di riportare alla mente la melodia antica che l’altra aveva intonato poco prima – mamma, aiutami, pensò, alzando gli occhi stanchi al cielo –, incominciò a cantarla per lei, allungò di nuovo la mano per accarezzarle i capelli, cercando di tranquillizzarla.

    made by zachary

     
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    christian milovich"l' artista è il creatore di cose belle" MlosohE
    Christian era molto dispiaciuto per il suo doppio che gli chiese di liberarlo dalle catene alle mani,non sembrava esserci niente di cattivo in questo così il ragazzo si avvicinò all'altro se stesso per vedere se c'era un lucchetto.
    Non c'è un lucchetto,proverò a spezzarle con qualcosa. Qualcosa di abbastanza forte da corrodere l'acciao, quelle catene erano nere e molto pesanti,gli stavano praticamente segando i polsi, Chris pensò che poteva usare l'evocazione per evitare che gli cadessero le mani. O meglio,che cadessero al suo riflesso e questo lo fece pensare,le mani gli servivano per dipingere,per qualche tempo c'era sempre stato un bullo che gli aveva impedito di farlo.
    Comunque ora non doveva pensare al passato ma a come recuperare la sua essenza, avrebbe evocatouna spada ferendosi a sua volta quindi prese un pezzo di marmo.
    Ora evocherò una spada e con quella cercherò di colpire le catene.Ma forse sarebbe meglio un coltello affilatopensò ad alta voce quindi si tirò su una manica, si strofinò il marmo sulla pelle e pensò al suo coltello, doveva essere abbastanza forte da spezzare le catene ma piccolo da non fare danni alla pelle del suo doppio già sanguinante perchè se gli avesse fatto del male non se lo sarebbe mai perdonato.
    Una volta che il coltello gli apparve in mano, ritornò dal suo altro se stesso.
    Non abbiamo mai fatto qualcosa del genere prima d'ora quindi ti consiglio di stare fermo in modo che io possa tagliarti le catene senza farti ancora del malegli consigliò quindi gli afferrò una mano vincendo il disgusto della sensazione del sangue sui vestiti,passò il coltello sulla catena rivolgendo il dietro verso il polso sanguinantecercando di spezzare. Perchè lui voleva assolutamente liberarlo e liberarsi, non gli importava cosa sarebbe sucesso poi.
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    levi hughes
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    C
    'era qualcosa di incredibilmente importante in quello che aveva detto il docente prima di spedirli di nuovo dentro sé stessi. "Da oggi proverò ad insegnarvi la pietà" e Levi sapeva che non era un caso se avesse scelto quella prova per dar loro quell'insegnamento. Perché, in fondo, le cause delle proprie pene si potevano cercare negli occhi e nei visi altrui, ma solo lo specchio avrebbe rivelato il vero colpevole. Sapeva anche che elargire pietà era forse più complicato di concedere perdono, entrambe cose che esulavano dalla decisione ma che nascevano sponatnee nell'animo. Non stava insegnando loro ad imporre ai propri sentimenti in che direzione vergere, ma piuttosto provava ad aprire i loro occhi perché vedessero oltre le apparenze e i riflessi che ognuno innalza per difendere il proprio, piccolo, debole nucleo. «Levi!» quello di Jyque era un urlo simile ad un ringhio e lo riportò bruscamente alla realtà. Le liane si stavano allungando verso di lui e poteva sentire il desiderio di stringerlo fino a togliergli il respiro. Sapeva che il suo Spirito premeva per uscire e proteggerlo, ma come avrebbe potuto la violenza aiutare quel sé stesso se era la violenza che lo aveva generato? "Non puoi ripagare un debito con la violenza, il dolore, o appunto la morte. Non si rimedia alla distruzione portandone altra, ma costruendo qualcosa, qualcosa di buono" ancora una volta la voce del docente riportò pace al suo animo. Aveva trovato la sua risposta in quel pomeriggio non ancora primaverile, ma che già lasciava l'inverno dietro di sé. Non avrebbe sconfitto il suo demone usando gli stessi mezzi che lo avevano generato, no. Era stata la fiducia a sconfiggerlo, a spazzare via le sue catene e liberare il suo spirito. Jyque, dentro di lui, si agitava tumultuosa, ancora incapace di concedersi a quel sentimento perfino quando si trattava del suo stesso riflesso. Lo sapeva, glielo avevano detto quando aveva creato il legame con lei. Sentiva che il suo compito quel giorno era mostrare anche a lei ciò che Callaway voleva mostrare loro, così che perfino Jyque potesse comprendere la complessità delle emozioni che si celvano dietro i gesti, crudeli o benefici che fossero, di ogni individuo. E per questo non si mosse, lasciò che le liane si avvolgessero dolorose intorno al suo corpo. Era l'unico a poter capire chi aveva di fronte, l'unico a poter cogliere ogni sfumatura di quel grumo di paure e difetti che aveva abitato il suo animo e che, ancora, ne occupava uno spazio pronto a riemergenere non appena avesse abbassato la guardia. Ma Levi aveva fatto una promessa, un giurmaneto, e aveva intenzione di mantenerlo fino al suo ultimo respiro. Le parole piene di rabbia lo colpirono come pugni in pieno volto, più dolore di ogni colpo mai ricevuto. E lo erano perché quei pensieri erano suoi e lo colpivano nei punti più deboli della sua mente. Eppure, in quel preciso istante, nel momento esatto in cui la voce si spense, qualcosa si fece strada in lui. Non lo sei. Era un pensiero che echeggiava dalla sua mente a quella di Jyque, impossibile dire da chi fosse nato in principio ma ora rinuonava potente in entrambi. «Non lo sono. Non lo siamo. Vuoi sapere perché sono rimasto lì? Perché non me ne sono andato? Su chi sarebbe ricaduta tutta quella rabbia e quella violenza, se non su me su chi? Andarsene voleva dire dare ad altri il mio destino. Scappare non è mai una soluzione» era vero, lo meritava. Ancora non era sfuggito da querl pensiero, ma una nuova forza si annidava in quella certezza. Attraverso il dolore sarebbe potuto rinascere, avrebbe potuto comprenderlo e trovare il modo di lenirlo lì dove lo avesse incontrato. Non si possono sconfiggere i demoni finché non se ne ha visto uno negli occhi, finché non lo si è conosciuto nel profondo intimo del proprio animo. E scrutando le sue ferite, sentendo su di sé ogni singola cicatrice, poteva comprenderne il peso e la dimensione, la profondità e la radice. Il dolore non doveva per forza essere una maledizione, non per sempre. Era grazie a lui che l'animo si rinforzava e si espandeva. Non reagì quando lo colpì, quando lo gettò a terra per infierire con i calci sul suo corpo martoriato. Non perché non ne avesse il tempo o la forza, ma perché in quel momento sentiva che fosse giusto così. E solo quando il doppio si fu fermato, ansante sopra di lui, alzò lo sguardo ignorando, per la prima volta, le parole del suo spirito che gli affollavano la mente.
    "Ho bisogno che ti fidi di me"
    "Ti farai ammazzare"
    "Fidati."
    «Non è questo che vuoi essere» disse al suo riflesso. Una verità semplice, banale forse, ma che eraevidente. «Vuoi essere il contrario di tutto ciò, e puoi farlo, puoi esserlo. Puoi diventare migliore, lo so che credi di non meritarlo, credi che io non lo meriti. Sento che vedi la mia forza e la detesti perché esiste, ma questo è quello che siamo diventati non perché abbiamo dimenticato, ma perché abbiamo accettato e cerchiamo un modo per rimediare a tutti i nostri sbagli» loro. Era importante che capisse di non essere solo, di non essere stato abbandonato da Levi stesso, segregato e dimenticato. La solitudine era sempre stata la sua benedizione e la sua maledizione, e ricordava quanto profondamente il sapere di non essere solo lo aveva sollevato e fatto sentire al sicuro, al caldo, come di fronte al calore di uno scoppiettante camino. E quella sensazione voleva trasmettere a quel grumo di rabbia e dolore, di disprezzo e odio.
    this is not the end of me this is the beginning
     
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    Meggie
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    Perchè l'ho salvata? Bè,perchè è nostra madre, la donna che mi ha generata e ha generato anche te e perchè volevo dimostrare la mia bravura contro un Mago Nero anche se era solo per quella lezione ma sopratutto perchè volevo vederla ancora una volta. Lo so che è sempre morta ma mi manca, ci manca,tu lo sai bene e non l' abbiamo neanche conosciuta, avevamo due anni quando è morta,tu sei parte di me quindi dico noi. Eravamo solo bambine quando è successo,spiegò Meggie al suo doppio mentre capiva una cosa: nell'altra se stessa c'era il dolore nascosto in vent' anni di lutto per la madre, ecco perchè era così triste e ora anche arrabbiata pensò mentre la vedeva trasformare la croce in spada. Capiva anche perchè non avesse capelli, non aveva altri pensieri a parte il lutto, altre emozioni tranne il dolore, esigeva di essere sfogata.
    Meggie, so cosa provi e capisco perchè sei diventata così disse cercando di spostarsi dal suo affondo,provava solo pietà per lei,non doveva essere facile essere un dolore non sfogato,ma ti posso assicurare che non potevo far nulla per salvare nostra madre, come può una bambina,per quanto nata strega,contrastare un Mago Nero? Sono stata impotente e vigliacca a salvarla solo nella prima lezione di Magia Bianca ma solo lì mi è stata data l' occasione di farlo, se vuoi uccidermi solo per questo uccidi anche te stessa perchè io sono parte di te. E poi immediatamente dopo la lezione ho sofferto perchè mi sono resa conto che non era la realtà poi ti ho respinto ma è venuto il momento di accoglierti definitivamente. Con queste parole guardò il suo riflesso,voleva abbracciarlo ma sarebbe stato impossibile se avesse cercato di colpirla ancora.
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