Skull & Bones

New York 2016 - Leah/Kian

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    Kian Haywood
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    Leah era un fottuto parassita del mio cervello, da quando l'avevo conosciuta niente era riuscito a togliermela dalla testa per più di un secondo. Era come se con quel bacio mi avesse marchiato a fuoco, definendomi suo per sempre, potevo sentire la pelle bruciare la dove aveva poggiato le sue labbra anche a settimane di distanza, mesi, anni, non sarebbe cambiato un cazzo, lo sapevo già. Mi aveva preso all'amo con quegli occhi come buchi neri, la sua assenza di parole e il silenzio più chiassoso che avessi mai udito, con quel numero di telefono stampato sul mio braccio che da solo, aveva molto più valore di una scopata tra i cassonetti dei rifiuti, almeno per me, probabilmente qualsiasi altro stronzo avrebbe preferito scoparsela tra la merda.
    Infatti, non ero riuscito ad aspettare prima di chiamarla, l'avevo invitata al mio prossimo combattimento, facevo così con le ragazze che mi interessavano davvero, le invitavo subito a far parte della mia vita, qualcuno avrebbe detto che era inadeguato che diventavo invadente troppo presto, ma a me che cazzo importava di quello che diceva qualcuno?
    Nel frattempo, di lì a pochi istanti la mia musica d'entrata sarebbe partita e io avrei varcato le soglie di Valhalla, conosciuto anche come la gabbia. Sette minuti e trenta secondi dopo avevo vinto al secondo round per knock out. Non avrei mai descritto il mio modo di combattere ma se avesse dovuto farlo qualcuno di esterno alla mia testa, penso che avrebbe detto "è una bestia potente e letale", sì, insomma, quella definizione mi calzava a pennello, a quel punto ero piuttosto convinto di avere dei proiettili al posto dei pugni, precisi e devastanti. La bilancia mentale che pesava ego e realismo, aveva perso del tutto il suo equilibrio, considerando soprattutto che probabilmente Leah era lì, le avevo detto di aspettarmi nel mio spogliatoio quando l'incontro sarebbe finito.
    Feci una capatina veloce dal medico per farmi richiudere un brutto taglio sotto l'occhio destro con qualche punto di carta, quello sinistro si stava lentamente gonfiando ma non era grave, il labbro inferiore si era rotto di poco, ma quello si sarebbe cicatrizzato in un attimo. Mi ripulii la faccia dal sangue, indossai al volo una canottiera pulita e mi diressi verso il luogo dove, ci speravo da morire, avrei incontrato la ragazza più triste su cui avessi mai posato lo sguardo e che, inevitabilmente, aveva fatto nascere in me il desiderio di renderla felice. Avevo detto a tutti, coach e amici di levarsi dalle palle perché aspettavo qualcuno di ben più importante, per lo meno se non ci fosse stata lei avrei trovato lo spogliatoio vuoto, aprii la porta e...

     
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    «And I find it kind of funny. I find it kind of sad. The dreams in which I'm dying are the best I've ever had. I find it hard to tell you. I find it hard to take, when people run in circles it's a very, very Mad world, mad world, enlarging your world, mad world»

    Per alcuni il destino è intrecciato come le maglie di ferro di una rete, fili rigidi che si stringono uno all'altro per poi lasciarsi. Tra di essi si intravedono solo spicchi di una realtà violenta ed eccitante. Nella gabbia che fa da ring a quel posto fatiscente la vita sembra esplodere tutta in una volta. Leah riesce a vederla scorrere con la stessa chiarezza con cui vede il sangue colare dal taglio sulla fronte di Kay. Si chiede se veda tutto rosso come uno di quei tori che perdono il controllo quando si avventa inferocito contro l'avversario. Leah sguscia piano in mezzo a volti sbavanti per l'eccitazione, evita gomitate e spintoni. Le urla di delirio sembrano latrati di cani rognosi, eppure c'è come un'armonia in tutta quella confusione. La percepisce girando piano intorno alla gabbia. E' un inno bestiale, segue il ritmo dei due uomini avvinghiati al centro del ring. Destro, sinistro, gancio, l'avversario di Kay è atterra, la folla esulta. Proprio come un cane lui non molla la presa. Si avventa sulla preda e continua a colpire. Ancora, ancora, ancora. Il controllo sembra una scintilla di umanità soffocata dalle tenebre di un istinto furioso. Gericaut, Higgins, Schiele. Nessuno sarebbe riuscito a cogliere la deformità dell'uomo come fa il volto paonazzo e sudato di Kay in quell'istante. Nei suoi movimenti, nella sua furia, c'è la bellezza disarmante di un sentimento lurido, eppure così puro. Furia. Rabbia senza controllo. Il cuore di Leah batte alla rapidità dei suoi pugni. Il ritmo aumenta e aumenta, sembra che arriverà a farle esplodere il petto prima di fermarsi. L'avversario gli pianta una gomitata in piena faccia. L'arbitro li separa. Un coro di fischi. Kay arretra barcollando e intanto si pulisce il labbro spaccato con il dorso del guantone rosso. Il tempo si aggrappa alle ciglia di Leah e prima che possa tornare a respirare vede una goccia di sudore mescolarsi al sangue sulla tempia di Kay, colare rapida fino al mento in un'unica curva perfetta. Quando il suono della campanella rimbomba fragoroso il tempo riprende a scorrere rapido, ancora una volta lui parte per primo, dritto destro poi sinistro, l'avversario schiva. Leah torna a camminare di lato, ma con gli occhi non smette di seguirlo. A volte le persone le oscurano la vista e diviene preda di una fretta spasmodica di tornare a guardarlo, ma non accelera nemmeno un attimo gusta ogni istante di quella attesa cieca. Poi supera l'ostacolo e torna a guardarlo come abbeverandosi ad una fonte. kay riesce ad assestare un montante sinistro sul mento. Saliva e sudore schizzano come sangue, la luce dei fari bollenti piantati sul ring non nasconde nemmeno un dettaglio. La testa dell'avversario salta all'indietro e lui cade a terra scomposto come un giocattolo rotto. Un coro di latrati esplode di delirio. L'arbitro conta battendo le mani a terra. Sembra il colpo di un tamburo che rimbomba nel petto di Leah che ormai è sull'orlo di un baratro. Una vertigine l'attraversa come elettricità statica quando le acclamazioni detonano di nuovo non appena il guantone di Kay viene sollevato per proclamarlo il vincitore. Leah è sopraffatta così arretra. Scompare nella folla e una volta fuori si accende una sigaretta. La inspira fino in fondo per poter sentire i polmoni riempirsi di fumo. La testa le gira come un frullatore che fa del suo cervello una poltiglia rosa e sanguinolenta. Il mozzicone arriva a bruciarle sulle labbra era talmente assente che non si è resa conto del passare degli ultimi istanti di vita della sigaretta. La schiaccia contro l'asfalto bagnato e con un brivido torna dentro. L'odore di sudore e alcol è acidulo, impregna l'aria come fossero le pareti stesse a sudare. Sguscia nel buio e dopo un po' trova l'ingresso dello spogliatoio. La porta è aperta così entra di soppiatto. Una luce al neon illumina un ambiente squallido. Una lampadina inizia a fare i capricci, ma lei avanza lo stesso accompagnata solo dal rumore dei suoi passi. Ci sono degli armadietti, l'odore del sudore questa volta è mescolato a quello del cuoio dei guantoni e all'umidità delle docce che devono essere lì da qualche parte. Si siede sulla panca più vicina e accavalla le gambe sottili e ghiacciate. Si accende un'altra sigaretta mentre lo attende, stretta nella giacca di pelle che indossa come unica difesa contro il gelo del mondo esterno. Quando la porta si apre lo fa con un cigolio singolare. Si richiude con una folata d'aria che la fa rabbrividire, ma non ci bada. Quando lo vede solleva appena un angolo delle labbra impastate di rosso. Si è fatto ricucire la faccia, un peccato le piaceva vederlo distrutto, ma vincente, gli avrebbe volentieri leccato le ferite lei stessa. "Perchè lo fai?" continua ad osservarlo avvicinarsi. Non allontana gli occhi dal suo volto nemmeno un istante, questa volta però è lei ad inclinare la testa. le ciocche di capelli corti le sfiorano il viso e le spalle. "Perchè quando sei fuori dal ring nascondi tutto quello che ho visto sta notte?".

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    Per un momento, un istante, quello prima della tempesta che poi avrebbe coinvolto il mio cuore, pensai che mi sarei trovato a osservare uno spogliatoio vuoto. Avevo capito ormai da tempo che le donne irraggiungibili, quelle alte, quelle che si stagliavano al di sopra della massa di umanità poco pensante che informe, aveva preso posto in un pianeta che non si meritava, erano quelle che mi colpivano di più, quelle che sapevano sconvolgermi con uno sguardo o una parola detta nel giusto modo e nel giusto momento, cazzo Leah era proprio una di quelle, ma ancora meglio. Era un mistero, ma definirla con quella parola sarebbe stato come banalizzarla, no Leah era più enigmatica di uno stesso e enigma, quando parlavo con lei mi sentivo come se stessi guardando qualcosa di immenso e inarrivabile, attraverso il buco di una serratura di una porta chiusa ermeticamente. Scioccante con un pugno in pieno viso, e Dio solo sa quanto amavo quella sensazione.
    Per tutta quella serie di motivi, una parte di me pensava che non avrebbe neanche considerato il mio invito, che io, un fottuto comune mortale del cazzo, non rispecchiassi i suoi interessi. Mi sbagliavo, perché lei era lì, la statua di una dea di un mondo in rovina che ancora non ha capito che in realtà, le vere divinità sono proprio quelle persone che comprendono il mondo attraverso quel qualcosa di più che in pochi possono osservare. Leah è una di quelle persone, l'ho capito immergendomi nelle sue iridi la prima volta che l'ho vista.
    La raggiunsi lentamente, così da poterla guardare attentamente da ogni angolazione, da ogni distanza che il mio occhio mi permettesse di cogliere, come fossi un ritrattista che deve riportare un'immagine su carta, io la volevo disegnare nei miei ricordi per conservarla gelosamente fino alla fine dei tempi. Poi lei parlò con una domanda, il viso nascosto per un attimo dietro una voluta di fumo e anche io sentii il desiderio di accendere una sigaretta, andai a cercare il pacchetto nelle tasche della tuta senza però toglierle gli occhi di dosso, avevo paura di perdermi anche il suo più piccolo movimento. La domanda era una che mi avevano fatto spesso, troppo banale per una come lei che era già andata oltre al semplice perché, continuò, facendomi quello che invece era il vero quesito, quello che mi ponevo da quando avevo cominciato a combattere e cioè da quando una timida e giovane coscienza aveva cominciato a muoversi dentro di me. Un interrogativo che continuava a saltare fuori quando non prendevo le medicine per troppo tempo e che dopo un po', mi faceva impazzire nella confusione più totale e nell'altro più oscuro della mia psiche, carico di questioni sulla vita, l'esistenza e tutto quanto. Perché non ero semplicemente me stesso di fronte al mondo?
    Non risposi subito, senza distogliere lo sguardo lasciai che il silenzio si depositasse delicatamente tra di noi, mentre tiravo fuori un pacchetto di Benson&Hedges rosse, portandolo vicino al viso ne trassi una sigaretta tirandola fuori con le labbra, il filtro si macchio un poco di sangue, quello stesso sapore di metallo che apprezzavo ancora sulla lingua, nel fondo della gola, nel mio stesso intestino. Mio, di altri, non era questo l'importante, era sangue, linfa che rendeva vitale degli inutili pezzi di carne che avevano bisogno della violenza per trovare un contatto. Con l'altra mano cercai l'accendino nella tasca opposta, uno scatto e un sibilo leggero bruciarono la carta bianca della stecca che tenevo ferma, inspirai con calma, assaporando come quell'amaro si mischiava con il ferroso del sangue e poi, togliendola dalla morsa delle mie labbra, parlai « Il mondo non è pronto a conoscere la verità sul genere umano » parole che si prendevano il tempo di essere formulate, che risalivano i profili di quel sorriso che mi sollevava l'angolo destro della bocca formando una piccola fossetta tra lo zigomo e la guancia. Una sensazione che mi sentivo bruciare nello stomaco, mi diceva che Leah la conosceva già quella verità e che l'aveva intravista tra le maglie della mia gabbia quella sera.

     
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2 replies since 21/10/2017, 23:14   70 views
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