American Ultra

Dolores & Victor

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    dolores young
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    L'altro giorno ho picchiato la madre di una compagna d'asilo di Marylou. Non so cosa mi sia preso in realtà, ricordo solo che si è fatto tutto nero e che mia figlia deve aver assistito ad una scena davvero spiacevole. ''Sei stata fortissima!'' Ha esclamato la bambina stringendomi le dita tra il suo palmo piccolo. So di non aver voluto darle un esempio del genere, eppure proteggere il mio orgoglio è stata l'unica cosa a cui sono riuscita a pensare in quel frangente. Sono troppo giovane per fare la mamma, me lo dicono tutti. Sono la madre bianca di una bambina di colore, continuano a ripetermi, come se fosse strano ritrovarsi ad avere un figlio con un uomo diverso da me. Allora quel pugno è partito perché dopo anni passati ad ascoltare queste voci devo aver ceduto alla rabbia. E me ne rammarico, nonostante Lou sembri divertita dall'ossigenarmi i lividi. ''Ci penso io a te, mamma.'' è una ragazzina troppo buona per crescere nella rabbia e sento di non poter raccontare di quanto accaduto ad Ehioze perché...beh, forse lui mi rimproverebbe. ''Grazie Lou, ma mi raccomando, quando vai a trovare gli zii non dire niente a papà.'' La bambina annuisce perché è obbediente ed educata, ma credo che tutte queste belle doti deve avergliele trasmesse il padre io sono...beh, una madre strana ed assente: lavoro fino a tardi e le altre madri sembrano avere da ridire delle occhiaie che porto sotto gli occhi. Sembra come se nessuno sia in grado di capire quanto sia difficile preoccuparsi di mantener in piedi una famiglia lavorando da soli. E non ho alcuna intenzione di contare sulle spalle altrui, devo farcela da sola nonostante ciò spesso risulti snervante. Allungo il mignolo verso la piccola e lei lo stringe: ha imparato da poco cosa significa ''fare una promessa'' e sembra essere bravissima a mantenerle.
    Di quello scatto d'ira ne ho parlato al gruppo di sostegno per i genitori soli. Non so nemmeno io il motivo per cui ho iniziato a frequentare questo tipo d'incontri, ma devo dire che quando mi è possibile andarci, mi fa davvero bene condividere qualcosa con gli altri. Gli altri mi hanno ascoltata e nessuno si è sentito in dovere di giudicarmi. Per questo ogni settimana arrivo in anticipo alla sala del Sacred Heart adibita agli incontri di carattere sociale: perché mi piace circondarmi di persone imperfette e parlare con loro.
    Oggi ho preparato una torta per l'evento speciale gestito dai volontari e dagli assistenti sociali: dev'essere una serata dedicata al tè e agli incontri con il reparto di psichiatria. Il tè mi fa schifo, ma non la compagnia e la conoscenza di nuove persone. Così mi sono cambiata gli abiti da lavoro, ho legato i capelli affinché essi possano sembrare più ordinati del solito ed ho fatto l'ingresso sentendo una strana pressione alla bocca dello stomaco. Forse, spero con tutta me stessa che la torta possa essere di loro gradimento e che la bambina, rimasta a casa del padre, non senta necessariamente la mia mancanza
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    Edited by Alenko - 11/4/2019, 16:12
     
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    Sul come ed il perché mi sia riuscito a far convincere da Jordana Romanoff ad iscrivermi a questi gruppi di sostegno è meglio stendere un velo pietoso. A quanto pare era palese per ogni donna con cui avevo avuto a che fare nella mia intera vita che sono una persona facile da convincere, cosa che non si direbbe dati i miei evidenti problemi di ogni natura. Non è facile rendersi conto di essere sull'orlo del baratro quando non ci sei dentro, e sapere che quegli incontri forse, in qualche modo, mi avrebbero fatto ricordare chi sono, da dove vengo e quali sono le mie priorità forse mi dava quel briciolo di interesse in più per andarci.
    Ma che cazzo dico, ci andavo semplicemente perché avevo bisogno di un certificato per rimanere a dormire in quelle case per giovani disagiati. Non partecipando a nessun gruppo di sostegno o azione umanitaria o volontariato o qualsiasi cosa facciano le persone per lavare il loro senso di colpa nel masturbarsi sulle vecchiette su youporn, non avrei avuto nemmeno una casa dove stare.
    Anche se comunque quel luogo mi faceva schifo, e quando ti addormenti sperando di non svegliarti e ti svegli felice di non essere stato derubato delle quattro stronzate che ti rimangono speri sempre che dal cielo ti piova la manna e magari qualche bigliettone da 500,
    Lasciavo ticchettare la penna sul bordo del tavolino mentre Camille si prodigava nel raccontare come ed in che modo quella settimana era riuscita a camminare con i calzini spaiati senza scoppiare a piangere, sentendo il desiderio di morire proprio in quell'istante, con gli occhi persi nel vuoto oltre l'assistente sociale fin troppo entusiasta di sentirci parlare delle nostre malattie mentali. Condivisione, anche con sé stessi.
    Dovendo scrivere il corso dei miei pensieri sul quaderno con ben stampato sulla copertina il simboletto dell'associazione mi rendevo conto di quanto fosse facile sviare le domande facendo finta di scrivere qualcosa sul quaderno.
    Riflettevo, però, che avrei dovuto trovarmi un posto in cui vivere la mia singolarità - perché no, non la chiamavano malattia, ma singolarità, come se fosse un pregio - in pace senza che nessuno mi chiedesse di condividere come ed in che modo ho affrontato il mio desiderio di prendere a botte il fornaio che non aveva messo dieci olive nel mio pane con le olive, ma soltanto nove.
    Poi, effettivamente, quella cosa della serata dal reparto di psichiatria mi faceva venire il nervoso. Perché dovevamo partecipare ad una festa? Non era abbastanza faticoso anche soltanto esistere? Fuori dalla routine, però, sembra destarsi una figura che non mi aspettavo di incontrare. Aveva una torta in mano, ed io sapevo perfettamente dove andavano collocate le torte, dato che Joy, l'assistente sociale con gli occhi azzurri, non smetteva di ripeterci dove mettere le cose per quella festa e che avremmo dovuto fare in modo di aiutarla senza doverla inseguire.
    Faccio un passo avanti nella sua direzione: "la torta va su quel tavolo."
    Faccio ridere per quanto sono attempato.
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    Non so con quale forza sono riuscita ad accettare un compromesso del genere, sta di fatto che, nonostante mi sforzi di ammettere il contrario, parlare con qualche sconosciuto mi aiuta...specie se so di questo come immerso nella mia stessa merda. Che poi non la chiamerei davvero tale: in fin dei conti Lou è tutto ciò che di bello potrei avere al mondo e quasi mi sento in colpa a pensarla in questo modo eppure...non è mai davvero facile. Dopo il parto mi sono convinta di poter portare avanti la cosa senza alcuno sforzo, tanto che per mesi ho tentato di fare a meno dell'aiuto di Ehioze. Non voglio essere compatita, affatto, eppure detesto il mio lavoro ed i suo orari mai in linea con i bisogni di mia figlia. Spero che ella possa comprendere a pieno questa situazione, per quanto sia difficile sperare che una bambina così piccola possa adattarsi in fretta alla vita.
    Ho fatto un po' di torta anche per lei, ma l' ho nascosta nel frigo per così poterla mangiare insieme quando sarò di nuovo a casa. Per quanto mi faccia piacere sperare di incontrare qualcuno con cui poter condividere qualcosa, inizio a sentirmi a disagio. Sarà che sono abituata a lavorare in una bettola lungo l'autostrada. Sarà che casa nostra sembra nascosta dietro altri palazzi. Sarà che non faccio un'uscita decente dall'ultima volta che ho convinto Ehioze ad andare al cinema...e non ci andiamo da davvero troppo tempo. Ma vorrei fare un passo indietro.
    ''Ah, immaginavo. Grazie.'' Sono forse troppo sovrappensiero da accorgermi troppo tardi della presenza del ragazzo. Mi sembra di averlo già visto e questo dovrebbe essere normale, dato che dal gruppo di sostegno va e viene troppa gente. Ma mi vergogno a chiederglielo, anche perché come potrei uscirmene? Andrebbe bene un ''Ciao, anche tu sei qui perché padre single?'' Sembrerebbe troppo un qualcosa alla Tinder.
    ''Sei qui da molto?'' Do del tu a prescindere, anche se so di poter passare per la persona ignorante che forse sono davvero. Mi affretto a posare la torta dove mi ha indicato e me ne resto un po' sulle mia.
    ''Sai, mi fa schifo il tè, ma hanno detto che sarebbe stato carino partecipare.'' Un sorriso di circostanza e già sono pronta a scartavetrarmi il cervello alla ricerca di un momento. Alla ricerca di un nome.
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    Edited by Alenko - 11/4/2019, 16:12
     
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    victor ledrec
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    La guardo e colgo nella sua espressione - oltre che un volto estremamente carino, cosa che fino ad ora mi era sembrata veramente difficile da notare in qualsiasi essere umano del gentil sesso, che ad avere a che fare con la Romanoff non definiresti nemmeno gentile - un senso di ricerca. Mi soffermo a guardare degli occhi stanchi che sembrano cercare qualcosa, forse un volto noto, forse un messaggio affisso al muro, nulla che potesse avere niente a che fare con me, che non l'avevo mai notata se non in quel momento.
    Non mi soffermo sulle battute sulla malattia mentale, cosa che mi caratterizza da tempo, dato che fra Asperger, Disturbo Ossessivo Compulsivo ed altri grossi paroloni di cui tutti hanno paura non so più come definirmi e forse, forse, non voglio. Non voglio, per la prima volta, erigere un muro fra me ed il mio interlocutore ponendo i mattoni costituiti dalle malattie come divisore.
    Santo cielo, inizio a parlare per metafore edilizie come la dottoressa. Sto diventando grave, forse dovrei iniziare ad impegnarmi a guarire, se rischio di frequentarla ancora un po' sono guai. Mi lamento di non guarire e allo stesso tempo vorrei farlo. Ma esattamente, cosa ho nel cervello?
    Effettivamente, effettivamente, effettivamente, se lo sapessi non starei qui.
    "Sono qui da troppo" aggiungo con una risatina veramente imbarazzata ed imbarazzante, volgendo lo sguardo e gli occhi addolciti verso la torta che vedo posarsi attentamente sul tavolo.
    E' asimmetrica rispetto ai piatti e ai bicchieri.
    Tendo a guardare la ragazza per non accorgermene, per forzarmi a far sopravvalere la normalità alle mie ossessioni. "Io faccio schifo al the, invece" aggiungo, prima di voltarmi di scatto, come un automa incapace di gestirmi, con le dita che tremano sposto i bicchieri, le posate, i piatti. Tutto simmetrico, tutto sistemato. Rigiro più volte le posate, prima da un lato, poi dall'altro. Prima da un lato, poi dall'altro.
    Poi la torta. Era sé stessa asimmetrica, ma la ruotai in modo tale che l'asimmetria fosse meno visibile "Adesso va meglio" aggiunsi, voltandomi verso di lei, come in colpa per il mio agire. "per questo non prendo il the, ma solo latte caldo."
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    La prima volta che ho messo piede al Rouge ho passato le successive sei ore a pentirmi di me stessa. Ogni ordine servito ed ogni sorriso costretto ad ostentare ha avuto per me la medesima funzione di una frustata sulla schiena. Sforzandomi di sottostare al volere di un padrone superiore sono riuscita a pulirmi di ogni mio peccato, di ogni stupidaggine adolescenziale rivelatasi in grado di chiudermi lì. Allora la sera, tornando a casa, mi sono sentita per un breve istante davvero contenta: nonostante mai, prima di quel momento, avevo pensato di potermi far carico di una vita tanto gravosa. Chiudendo gli occhi ho stretto il corpo di Marylou a me e mi sono addormentata con la ferrea convinzione di poter mettere a posto la mia vita. Ma ora, se mi ritrovo qui, è perché devo aver fallito qualcosa il punto è, però, che non mi viene facile ponderare sul mio operato, bensì mi risulta più semplice chiedermi cos'è che lui deve aver fatto.
    ''Il latte caldo mi piace, riesce a rilassarmi quasi quanto una sigaretta.'' Affermo quasi rilassata: Il ragazzo ha una faccia buona, forse la trovo rassicurante. ''Ti andrebbe di fumarci una Marlboro e di bere una tazza di latte caldo? Magari qui hanno un frigorifero ed un thermos.'' Propongo senza pensare che tutto ciò potrebbe risultare strano agli occhi dello sconosciuto. È forse normale sentirsi invitare da una ragazza a passare un po' di tempo con lei...in solitudine...dopo che nemmeno la si sia conosciuta almeno un pochino? Forse è questo che intendeva Ehioze quando diceva che spesso mando messaggi sbagliati. Eppure io non metto alcuna malizia nelle mie parole.
    ''Sai, non sono abituata ad incontrare ragazzi giovani qui...insomma, ci sono solo genitori single di una certa età...le ragazzine che ci restano come me non hanno di certo intenzione di frequentare un gruppo come questo.'' Gli sto forse chiedendo di essere mio amico? Ho davvero bisogno di un amico che sia diverso da Ehioze? ''Quindi...no beh, niente, mi farebbe piacere condividere una sigaretta con qualcuno che sembra abbia la mia età...ecco.''
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    Edited by Alenko - 11/4/2019, 16:13
     
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    A lei piaceva fumare, a me piaceva fumare. Per quanto mi riguarda eravamo già sposati. Scossi la testa col desiderio di schioccare le dita e materializzare una fottuta sigaretta da porgerle inginocchiandomi come se fosse un anello a sugellare il nostro amore eterno, ma evitai di sfoggiare i miei trucchetti da prestigiatore almeno per quel momento.
    Dato che, tra l'altro, non è che fossi realmente molto in grado di gestire la situazione con raziocinio, l'idea di trovarmi solo con quella ragazza per poco più di venti secondi mi portava a desiderare ancora ed ancora di elencarle tutta la lista, che avevo accuratamente imparato a memoria, dei problemi che avevo per farla scappare alla velocità della luce prima che per lei fosse troppo tardi. Lo stesso raziocinio, forse, mi impedì di farlo - o forse qualche altra parte del corpo in disuso da troppo tempo. "Per le sigarette forse non posso aiutarti" perché, effettivamente, non le avevo e non potevo realmente materializzarle "però il latte ed il bollitore so dove sono e posso prepararli, se... se ti va"
    Ma certo che le va, cretino. Te l'ha chiesto lei.
    Per un secondo ascoltai le sue parole con effettiva distrazione, pensavo rapidamente a dove fossero collocate le cose che ci servivano: il bollitore nello stipetto a destra, il latte nell'anta del frigo. Insomma, tutte cose che non dovevano essere così difficili da ricordare, ma che in quel momento mi sembravano macigni insopportabili, ricordi confusi, memorie contorte. In quel momento, poi, tra l'altro, l'unico pensiero che mi venne alla mente fu il motivo per il quale quella ragazza era lì. Poi, bastarono quelle due parole genitore e single che mi portarono alla mente tutta una serie di ricordi legati al gruppo precedente al mio, nel quale ricordavo perfettamente signore di varia età e foto di bambini appese nella stanza. In un attimo, un brivido mi percorse la schiena.
    Bambini.
    Non che non mi piacessero, ma già mi facevano paura gli adulti, immaginarsi i bambini che non erano controllabili in alcun modo.
    "Ah, no tranquilla, ti capisco." potevo capirla? Forse era solo una frase di circostanza. "Abbiamo la stessa età e qualunque sia il motivo per cui sei qui non mi importa" mi fermai, pensandoci un po', riflettendo su quello che avevo detto seguendo il percorso cognitivo di approccio con la gente che stavo apprendendo durante gli incontri. "Cioè, non è che non mi importa, mi importa ma non mi fa differenza, ci siamo capiti, no?"
    Victor Ledrec che si imbarazza. Se mi avesse visto mio fratello mi avrebbe fatto una pernacchia e si sarebbe messo a ridere come una iena. Fatto sta che per alleviare quella conversazione fin troppo imbarazzante, col desiderio di cercare nei meandri della mia memoria un modo carino per chiederle se aveva un bambino vero e se era disposta a sposarmi senza sembrare un maniaco psicotico ed essere mandato al gruppo d'incontro del venerdì alle otto, quello che mi venne facilissimo fare fu spostare la conversazione su di me: "io sono un po' mentalmente instabile" scossi la testa "e molto ironico." aggiunsi poco dopo.
    Mi mossi senza pensarci troppo, concedendomi l'attimo di incertezza nel prenderle il polso per portarmela appresso verso il cucinino di quella stanza. Poco dopo, la stavo già stringendo forse troppo forte.


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    Annuisco, in fin dei conti questo non decreterà il mio essere ''una facile'' come hanno pensato in molte quando sono rimasta incinta di Marylou. Non c'è nulla di sbagliato nel farsi degli amici al di fuori della famiglia, né ritrovarsi da sola con un ragazzo della propria età. Forse non sarebbe sbagliato nemmeno andarci a letto o restarsene a guardarlo come se fosse l'unico uomo interessante nel giro di poche miglia. È che non so, in realtà, cos'è che ora mi tiene buona ed incollata qui. Se prima è stata la convinzione di migliorare per mia figlia, ora inizia a subentrare dell'altro. È forse una sensazione di piacere quella che sento pervadermi. Quella stessa sensazione che si prova a starsene seduto in un bar dinanzi al migliore amico della vita. E continuo a sorridere, anche se so che sarò la sola a stringere la sigaretta tra le labbra. E sorrido, perché lui si sta offrendo di riscaldarmi il latte.
    ''Ho capito.'' Annuisco tirando fuori il tabacco della Marlboro dal taschino della giacca a vento. ''Anche a me non fa differenza.'' Sarà che mi sembra essere passata una vita dall'ultima volta che mi sono permessa di vivere un momento come questo. Un momento privo di ordini o di occhi indiscreti ed indici protratti in mia direzione.
    Lui mi risponde che è instabile e a me vengono in mente un miliardo di ragioni per cui un individuo della nostra età potrebbe sentirsi così. In fin dei conti, chi è davvero stabile? Nemmeno io lo sono e probabilmente, devo ammettere di non esserlo mai stata.
    Mi lascio afferrare e trascinare. Apprezzo che egli sappia farsi vicino ad uno sconosciuto con la medesima infantilità che contraddistingue le mie gesta. E poco me ne importa di quanto forte sia la sua presa in fin dei conti, va bene così.
    ''Chi può considerarsi davvero stabile? Insomma, noi siamo qua per un motivo, ma là fuori c'è gente che non sa di star camminando sul filo del rasoio proprio come noi.'' Dev'essere la consapevolezza della nostra situazione ad averci fatto incontrare. È la maturità psicologica a spingerci a condividere una tazza di latte caldo in cucina e a fumare in un luogo chiuso laddove il fumo passivo è concesso solamente in casi sporadici. ''Perché affermeresti ciò?'' Avevo detto di non essere interessata al motivo per cui egli si ritrova qui con me, eppure per amor della conversazione spesso mi viene facile non farmi i fattacci miei. Allontanandomi da lui per così permettergli di trovare il bollitore in tutta pace, mi siedo sul tavolino e mi accendo il drummino.
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    Sorrido, notando come il desiderio di non essere giudicati fosse la fonte primaria del nostro legame. Legame che, per me, non era altro che un'indissolubile grazia dal cielo di cui ancora non avevo ben compreso l'entità. Allungo una mano verso la finestrella, aprendola per permetterle di fumare in pace dentro quella stanzetta e pensai più volte a come poter procedere a rendermi non uno psicotico ma amichevole. Rifuggivano tutti da me, quindi non potevo fare altro che limitarmi a cogliere il bello delle situazioni imprevedibili. Sorrisi placidamente, ritrovandomi con dolce innocenza a non aspettarmi un'accoglienza di questo genere e mentre con rapidità procedevo nella gestione del latte nel bollitore.
    Mi ripetevo continuamente di stare calmo, che non avevo nulla di cui preoccuparmi, che stava andando tutto bene. Tutte quelle cose che fino a un giorno prima... no, anzi... qualche ora prima avevo snobbato - orgoglioso - davanti la dottoressa, adesso erano un mantra nella mia mente che non mi concedeva di tenere lo sguardo alto verso di lei.
    "Sicuramente quelli che stanno qui se non sono sotto medicinali non sono stabili" ridacchiai, cercando di ricordare se qualcuna delle medicine che prendevo facesse reazione con il latte caldo coi biscotti. Sospirai, ascoltando le sue parole senza avere, come al solito, il coraggio di guardarla negli occhi. Carezzo l'idea di raccontarle la mia vita per un solo istante, ritornando poi a cercare le tazze da riempire con il latte tiepido che si trovava all'interno dell'apparecchio. Mi mordicchiai quindi le labbra, cercando di mantenere la calma e sorrisi, sospirando: "Insomma, disturbo ossessivo compulsivo, ed altri paroloni scientifici che non sto qui a spiegarti perché altrimenti scappi via. Ma sono in cura, giuro. Più che altro perché se non mi mettevo in cura l'ospedale non poteva pagarmi gli studi. Sono intelligente, anche se non sembra" aggiungo, quindi, alla fine, porgendole la tazza di latte.

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    A me non piace giudicare e non lo faccio, sia per rispetto, sia perché spero che tale accortezza possa essere ricambiata nei miei confronti. Che un po' sono stufa di sentirmi gli occhi degli altri puntati addosso ed il fiato sul collo di chi trova strano che una giovane donna bianca possa avere come figlia una bambina di colore. Sono stufa di sentirmi inadatta per il semplice motivo di aver fatto del sesso non protetto e di averlo fatto prima della maggiore età e di qualsivoglia matrimonio accettato da Dio. Diciamo che fortunatamente questa cosa sta iniziando pian piano a scivolarmi di dosso, eppure a volte continuo a sentirla una certa pressione. È una sensazione che non se ne va, come fosse una cicatrice marchiata sulla pelle. Almeno non fa più così male. ''Perché dovrei scappare via?'' Glielo domando con semplicità stringendo la sigaretta tra le labbra. Mi metto comoda sul mobile, accanto al latte che sta riscaldarlo e lo guardo negli occhi, come se in essi io stessi cercando La Verità.
    Chissà se la gente è scappata da me senza che io me ne accorgessi. Chissà se anche la famiglia di Ehioze lo sta facendo pian piano: in fin dei conti non ho mai avuto modo di godere di alcuna malizia e per me, certe cose, quando accadono risultano come invisibili. Il quadro clinico che egli decanta mi fa rizzare le orecchie e mettermi sull'attenti, eppure nessun altro muscolo si ritrova coinvolto dalla mia curiosità. Perché in fin dei conti è quello ciò che sono: una persona curiosa e non paurosa. Perché mai dovrei aver paura di qualcuno che si sta comportando gentilmente con me?
    ''Ah...'' Faccio dondolare le gambe corte lungo il mobile, lasciando che i talloni sbattano contro le ante. ''Ed è una cosa brutta? Insomma, come la vivi tu?'' Non so quanto chiedere ciò possa fargli del male e un po' mi si stringe il cuore al sol pensare di non essere riuscita a starmene zitta. ''Io ho una figlia, come avrai capito.'' Non so se l'ha capito: in fin dei conti non gliel'ho detto, eppure cerco di minimizzare la cosa ponendo le due questioni sul medesimo piano di giudizio. ''E all'inizio mi son sentita molto una merda...insomma, sai cosa potrebbe dire la gente su di una ragazzina bianca madre di una ragazzina nera.'' E lo dico con semplicità, come se ripeterlo possa in qualche modo esorcizzare totalmente il passato negativo legato a queste parole. ''Poi però ho iniziato a fottermene.'' Prendo un lungo tiro dalla sigaretta. ''Sei sicuro che non vuoi fumare? Insomma, non fa di certo bene, è solo un gesto sociale.'' Ora non lo fisso più: non vorrei metterlo in imbarazzo.
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    Mi chiede perché covrebbe scappare via ed è la cosa più tenera che mi sia mai capitata. La guardo negli occhi con la consapevolezza di volerla abbracciare, scuotendo la testa per contenermi nel vano tentativo di sentirmi realmente vivo come non lo ero mai stato, ma le labbra non possono fare a meno di incurvarsi in un tenero sorriso. "La gente non vuole problemi" aggiunsi, poco dopo, in risposta alla sua non poi così retorica domanda "ed io sono fatto al 98% da problemi, la gente ha già i suoi per avere a che fare coi miei"
    Mi mordo le labbra, guardandola poggiare la sigaretta fra le sue senza pensare troppo a quanto imbarazzo potessi generare in lei e l'interesse che colgo nel suo sguardo nel momento in cui le dico la fonte principale dei miei problemi mi meraviglia: avevo visto tale interesse soltanto nella Romanoff, e per fortuna sia mia che sua, non la vedevo da abbastanza tempo da essermi disintossicato.
    "Mi sembra di non guarire mai"
    aggiunsi, poco dopo, in risposta alla sua domanda. I miei occhi adesso vagavano verdeggianti alla ricerca di qualcos'altro che non fosse il suo sguardo. Mi faceva paura quel confronto che mai avevo pensato di avere in circostanze come quella: "Mi fisso nelle cose, è la parte ossessiva del mio essere. Mi da fastidio lo sporco, il disordine, quando succede qualcosa che non va bene non riesco ad affrontarlo con razionalità. Mi fa paura, tanto, tutto."
    Non mi ero mai realmente aperto così con nessuno: Pauline viveva al di fuori della mia vita, con la certezza che da un momento all'altro fossi pronto a scappare per chissà quale spaventoso futuro, Pauline era sempre sull'attenti e non viveva la mia condizione con la serenità necessaria per superarla. Non potevo biasimarla, ma avrei tanto voluto farlo. "Avere una figlia non è una malattia" scossi la testa, scrollando le spalle mentre il bollitore completava il suo lavoro. Versai piano il latte in una bella tazza color avorio con delle decorazioni fiorate che porsi a lei con un sorriso. "attenta, è caldo caldo"
    Ascoltai poi le sue parole con sguardo ed espressione assorte, mi sembrava così strano pensare al fatto che poteva esserci qualcosa di male nell'avere una bambina nera, mi rendo conto solo in quel momento di come possa essere doloroso vivere nel mondo e con la sua pesantezza. "Come si chiama tua figlia?" sussurrai, poco dopo, concentrando lo sguardo sulle sue mani.
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    Stringo la tazza di latte caldo tra le mani beandomi del suo bollore. Mi fa sorridere il modo in cui le due cose - il latte e le sue belle parole - siano capaci di calmare i miei continui bollori: che è da quando sono diventata madre che non riesco a fare a meno di sentirmi sulle spine, sempre pronta a mordere il collo di chiunque si mostri infastidito dalla mia vita. Quella stessa vita che non ostento mai, ma della quale molti sentono il bisogno di trarre continue conclusioni affrettate. Ho concepito una figlia senza volerlo: non mi sono informata adeguatamente sui metodi contraccettivi ai quali fare affidamento, né ho ricorso al rimedio della pillola del giorno dopo. E devo dire che nonostante la paura, se tornassi indietro ripeterei ogni sbaglio che mi viene imputato: perché io amo Marylou più di quanto riuscirei ad ammettere e forse dovrei fregarmene davvero di ciò che pensano gli altri, perché tra di loro -seppur non troppo spesso - potrebbero emergere persone come Victor, le quali si rivelano essere le uniche a cui prestare vera attenzione.
    ''Ti ringrazio per le tue belle parole. Vorrei rincuorarti come stai facendo tu con me, ma sono un po' una frana.'' Mugugno nascondendo la bocca nel bicchiere, bevendo sino a sporcarmi i baffi. Il gusto del latte non mi dispiace molto: mi ricorda le sere passate sul divano insieme a mia figlia, la quale non riesce a starsene seduta sotto le coperte se in mano non tiene una tazza pregna di qualcosa di caldo. E forse è questa immagine ad accendere in me un bagliore strano, forse folle, considerando che Victor non è altri che l'ennesimo sconosciuto a cui forse sto donando troppa fiducia.
    ''Ti- Ti andrebbe di conoscere Marylou? Anche a lei piace il latte caldo.'' E forse devo sembrare insofferente ai suoi occhi: una madre che si dispiace dall'aver lasciato sua figlia a casa della vicina per così presentarsi ad un incontro al quale non sta partecipando affatto. ''Non posso prometterti che troverai casa pulita, magari mi sbrigo a sistemare le cose sul momento prima che tu te ne accorga.'' E ti sorrido, perché forse dovremmo iniziare a considerare le tue ossessioni come qualcosa di normale, affinché anche tu possa accettarle e allo stesso tempo migliorarti.
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    La guardo.
    Mi brillano gli occhi al solo pensiero che sì, qualcuno sembra non avere paura di me. Sorrido con emozionata dolcezza stampata sulle labbra, ritrovandomi a carezzare l’idea di andare con lei e rimanere al suo fianco per sempre.
    Come un uomo, come amico, come compagno, come qualsiasi cosa volesse. La guardo desiderando con tutto il corpo di stringere a me, di carezzarla, di baciarla, di stringerla, di farle capire che mi andava bene qualsiasi cosa fosse successa, qualsiasi cosa stesse accadendo.
    Quindi sorseggio piano il latte, caldo, bollente, sentendo le labbra che pizzicavano sotto il tocco di quelle particelle infernali, osservando le sue parole e rendendomi conto che, forse, non faccio poi così tanto schifo. Con lentezza mi avvicino a lei poggiando piano una mano sulla sua spalla riconoscendo quanti passi avanti la terapia con la dottoressa stia facendo effetto.
    E mi ritrovo a sorridere con la faccia più idiota dell’universo, carezzando nella mente l’idea di rimanere al suo fianco almeno quella sera. Poi, qualcosa mi fa storcere il naso, aprire gli occhi, asciugare la lingua.
    «Ehm…» dormivo, io, nell’ultimo periodo della mia miserabile vita, all’interno delle stanze un po’ fetenti adibite dal centro di riabilitazione. E se fossi uscito a quell’ora, non sarei di certo potuto rientrare al Centro bussando alla porta come se nulla fosse.
    «Se… se vado fuori oltre un certo orario… poi non posso più rientrare prima di domani… Quindi, mi farebbe molto piacere ma… Dovrei chiederti se posso rimanere a dormire da te. In caso. Ecco. Rimanere. Da te. Cioè. Insomma. Rimanere da te, sì, ecco appunto.»
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