Sorrowing moans

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    Central Park, 16 Dicembre alle 22.30
    Siete stati quattro ore immersi nel velo con la dimensione ombra e non importa da dove siete entrati, sbucate tutti nello stesso spiazzo di parco. Entro venti minuti sarà pieno di forze dell'ordine, ambulanze e giornalisti.
    Può partecipare alla role chiunque abbia partecipato alla quest♡


    Interagisce con Aalia, Diana e Luc (ed evita accuratamente di guardare Abel e Kali)

    jackals
    28 y.o.
    Sono attimi che si allungano nella fatica di ogni movimento imposto ad un corpo stanco, sono scie di luce che si fanno più ampie per circondare un intero panorama di desolazione e oscurità a circondarlo fino a creare un sentiero da seguire per raggiungere un nuovo mondo che sembra lontano nonostante sia tutto ciò che conosce. Lo sente il respiro regolarizzarsi e il petto farsi più leggero, libero da oppressioni sconosciute e sempre più sbiadite, quasi lontane, quando sono solo preoccupazioni reali a prendere forma davanti ai suoi occhi senza più il rischio di trarlo in inganno per risucchiare altre forze ormai inesistenti. E lo sa che alcune allucinazioni hanno ormai preso il posto di figure reali e vivide davanti ai suoi occhi, le stesse che si costringe a scartare con sguardi ancora persi tra le luci dei lampioni e i volti su cui i suoi occhi scivolano con un accenno di apatia. Li passa in rassegna uno ad uno senza nemmeno conoscere il tragitto o la direzione di occhi che d'istinto sanno dove fermarsi per trovare una spinta che mobiliti ogni muscolo immobilizzato da una stanchezza atroce. Si sforza di recuperare qualche energia mentre è un balzo a spingerlo verso chi ha creduto di aver perso per sempre, un accenno di corsa che termina affondando nei capelli di Aalia per stringerla con entrambe le braccia, ricercando un contatto che non li unisce da anni e che comunque è ancora in grado di farsi sentire accogliente. Ha bisogno di qualche secondo, di perdersi per un attimo in qualcosa che gli assicuri la fine di ogni incubo prima di riallacciarsi ad una realtà meno piacevole ed affrontare ogni conseguenza generata dai trascorsi di tutti loro in un buio più scuro di quello della notte. Perchè esistono ancora doveri non imposti che desidera rispettare, promesse da richiedere con l'urgenza pressante di minacce nascoste tra ogni loro segreto, perchè liberarsi dall'incubo lo ha riportato in una realtà che non può essere ignorata nella ricerca spasmodica del soddisfacimento di milioni di nuovi bisogni.
    «Vuoi che stia con te stasera?» Trasforma quel contatto in una presa salda sul suo braccio mentre si stacca da lei per immergersi nuovamente nel buio del parco, mentre con gli occhi cerca la figura di Diana e con le dita libere raggiunge un pacchetto di sigarette che è sempre stato nella tasca dei suoi pantaloni per servirsene e poi porgerglielo, come fa con una giacca che sembra poter servire di più alla sua pelle scoperta a contatto con il gelo.
    «Come stai? Ti devo accompagnare a casa?» Forse non deve, forse non dovrebbe neanche sentirsi in dovere di farlo e forse, effettivamente, non è affatto un dovere a spingerlo in sua direzione per assicurarsi che non sia sola. Perchè lui non vorrebbe esserlo affatto, lui che con Diana ha tacitamente condiviso ogni paura e sensazione e ora teme che potrebbero condividere anche quello. Ma c'è qualcosa che è obbligo e non solo preoccupazione, un patto che ha sigillato unicamente con la propria parola ma sente bruciare dentro la carne con stille di una preoccupazione disumana e ossessiva. C'è un volto che ricerca tra la folla perchè sarà suo dovere e non vuole farlo ricadere su altri, non quando tra le sue mani può sembrare un compito facile o sicuro come appare solo ai suoi occhi.
    «Luc vieni con me? Devo chiederti un favore.»
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    Fissa JJ e Aalia in modo molto inquietante. Interagisce con Abel, Vivi e con la sua nausea.

    kali mittal
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    empathetic
    Vorresti essere capace di sentirti e mostrarti più morbida in questo momento, ma nei brividi di freddo che ora sono liberi di scuotere il tuo corpo isolandolo dal calore di movimenti spinti al limite, ci sono solo muscoli congelati in moti che si fanno immobili di fronte a gesti che non vorresti notare. Gesti che, nel buio, diventano fari di luce da cui non riesci a distogliere lo sguardo. Aspiri forse troppo rabbiosamente attraverso un filtro che si accartoccia tra le labbra mentre lo vedi stringere braccia intorno ad un corpo che non dovrebbe essere quello di Aalia Kaufman. Anche se probabilmente ciò che reagisce esplodendo con una rabbia consumata da sé stessa è quel senso di perfezione che li permea dentro al tuos sguardo, perché dovrebbe, invece, perché è così tragicamente giusto che i suoi abbracci finiscano a cingere il corpo di un’altra persona che non sei tu. Che non è un qualcosa di amorfo e terribile che è stata capace di sparargli senza la sicurezza che ciò che aveva di fronte era un illusione della mente, che l’ha abbandonato nel buio di tunnel senza via d’uscita, che gli ha vomitato addosso furia nella forma di pallottole vaganti, che l’ha voluto uccidere. Lo guardi così, da lontano, e pensi che hai cercato di ucciderlo. Che gli hai svuotato un caricatore addosso solo perché aveva tentato di proteggerti da un’idea che non volevi ammettere potesse essere un veleno così fatale. Ti rimbombano nella testa quelle parole, non sono mai andata via, così come troppe di tutte quelle che sono state dette, lo faccio per te. Inali fumo trattenendolo nel polmoni per sentirne il raschiare bruciante che scende nella trachea e riverbera di un fuoco che non è abbastanza, non lo senti abbastanza. Vai avanti. Lo sputi dalle narici con un gesto secco che ti si richiude addosso in un fremito delle ossa e non è abbastanza, vorresti prendere una punta come un tizzone ardente e premerla dove la carne è più morbida, ma non puoi. Non qui, di fronte a persone che non conosci, di fronte a lui che si spinge in attenzioni per tutti tranne che per te. Non ora, che sai che Abel non è in grado di guidare nessuno perché è di nuovo troppo perso, più perso di quando l’hai conosciuto senza neanche più uno spiraglio di aria per respirare sotto il pelo dell’acqua, e c’è sua figlia che ha bisogno di lui. Di un lui che non c’è. Le hai detto che aveva bisogno di combattere e adesso, cosa le diresti se potessi? Le diresti che ha bisogno di non esistere? Che ha avuto così tanto bisogno di uccidersi per mettere un piede avanti e non fermarsi, che tutto quello che è l’ha sotterrato in una bara dentro una fossa troppa profonda per vederne il riflesso screziato dal sole? Non puoi. Non puoi andare a dirle che ciò che è rimasto di suo padre ora non lo può trovare, che per quanto si possa allungare fino a stirare così tanto i muscoli e stracciarli a sangue, non riuscirà ad afferrare niente di quello che lei ha bisogno, come te, come di ciò di cui tu hai bisogno. Perché avresti bisogno di un abbraccio, ma nessuno qui te lo darà. Non Abel, non JJ. Nessuno, resti sola anche qua fuori alla luce di un inquinamento luminoso che non ha pietà per le stelle, ed è come se fosse ancora più buio oltre la fine di un tunnel che dell’oscurità aveva fatto la sua materia prima, tra le fronde di alberi che ululano come lupi solitari. Scosti lo sguardo su Abel ora, nell’osservare il rilucicchio del metallo per qualche attimo di silenzio prima che la voce si alzi da sé «Smettila, non peggiorare la situazione» te ne sorprendi, non dell’autorevolezza con cui si è fatta strada all’esterno ma di averne ancora una. Di poterla usare per parlare e non più solo per piangere e urlare, e di come quei lamenti non l’abbiano consumata tutta per esprimere una sofferenza che ora è incastrata da qualche parte in una cavità che vorresti potesse essere davvero vuota. Ne prendi un altro di respiro di fumo e questa volta lo lasci uscire come un sospiro, il sospiro di chi lo sa che ora deve raddrizzare la schiena, liberare il corpo da una stretta di braccia che si sono annodate per ripararsi inutilmente dal clima, e deve farcela anche quando vorrebbe credere di non poterlo fare più. Getti la sigaretta per terra e prendi il telefono dalla borsa. Quasi ti aspettavi di sentirla più piena, come se ci dovesse essere per davvero un diario rubato da un corpo che si è incenerito nel nero come lo ha fatto chi lo aveva generato. Vai avanti. Non riesci a toglierti dalla testa i suoi occhi spalancati. Non riesci a toglierti dalla testa lo sguardo di JJ mentre lo imploravi di non uccidere tuo padre. Non riesci a toglierti dalla testa tuo padre che hai visto per troppo poco tempo, anche se non era vero, anche se era una proiezione lo avresti voluto comunque un po’ di tempo… per non sai cosa, non lo sai cosa avresti fatto con un po’ di tempo con lui. Le dita scorrono lentamente ma tu vedi i suoi occhi e ti si smuove qualcosa nello stomaco, l’hai ignorato per tutto questo tempo finché non ti costringe ad avanzare passi veloci per allontanarti e piegare la schiena per assecondare una liberazione che ti fa ricordare soltanto come ti sentivi in quei momenti. «Sto bene dai» ti rialzi cercando acqua in una borsa che fai scivolare sulla lingua e te ne rendi conto sempre di più di come questo riflesso sia solo un meccanismo automatico del tuo corpo che rifiuta, rifiuta quello che cerchi di fargli credere da troppi anni. Rifiuta quell’amore malato. Rifiuta Lui. «Chiamo il taxi per l’ospedale» ed è una decisione che non ammette repliche in un tono che vacilla per un istante solo all’inizio, Vivianne la cerchi con lo sguardo chiamandola con la stessa inflessione della voce «Vivianne, hai capito? Andiamo all’ospedale, probabilmente dovranno operarlo» hai già spostato gli occhi sul cellulare, non la guardi mentre avanzi ordini. Vorresti solo che lo capisse che adesso nessuno ha la forza di lottare ancora, neanche tu che hai identità da proteggere, segreti da nascondere, odio verso un ragazzino che ti ha infilato un proiettile nella spalla e che da qualche parte ancora pensi di voler uccidere. Vorresti che lo capisse e non dicesse nient’altro che “va bene”, anche se niente va bene ed è tutto finito, tutto quello che avevi, già distrutto e spezzettato dentro quelle fogne nella consapevolezza che non puoi avere niente davvero.
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    Edited by hime. - 4/3/2020, 12:52
     
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    now I am a happy song placed on the lips of a woman
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    O mio babbino caro, Luc (dai però un mezzo limone ci stava), bercia a Rust (perché ne ha ancora le forze sì) e fa le treccine a Kali.



    vivianne comstock-dixon 21 y.o. voice song look
    N
    on so più quanto male ho fatto, in che condizioni siano le mie mani usciti di qui, di che colore sia il mio sangue e i buchi che mi si aprono sui palmi ruvidissimi e macchiati di qualcosa che stenta a cancellarsi. E si appiccica, si aggrappa, e lo so perfettamente cosa è, anche se una parte della mia testa mi vuol segregare in una falsa apatia ingenua che non mi permetta di riconoscerlo. È il tuo sangue, papà. Da che mi sono premuta contro di te insieme al metallo non mi si leva di dosso.
    Non provo nemmeno sollievo a saperci fuori, tra filari di alberi e lampioni che quasi accecano dopo essere stati per così tanto tempo dentro quei tunnel, nonostante sia già buio pesto là fuori. Che qualcosa è cambiato lo sento unicamente nel respiro e nei polmoni che si aprono, si spalancano tanto dal far male tra le costole dietro la schiena. Per il resto sento ancora come una patina scura calata sopra gli occhi che quasi mi rende cieca, che non mi permette di distinguere cosa succede e chi sono gli altri qualche metro più in là. Devo costringermi a sbattere le palpebre e stringere gli occhi forte per poter mettere a fuoco e non sentire frizzare negli angoli degli occhi la voglia di piangere.
    Perché non mi sento sollevata nel sapere che è tutto finito, tutti questi incubi, tutte queste illusioni. Ci sono rimaste aggrappate alla pelle, anzi no, ci hanno disossato e hanno tirato fuori la carne più scura che ci portiamo dentro e che anche a noi sconvolge vedere. Siamo tutti imbiancati, intonacati di fresco a ricoprire brutture e bestialità che sappiamo di possedere o dalle quali, invece, credevamo di essere preservati.
    "Tieni. Adesso… adesso la sistemiamo" lo dico a te, papà, mentre mi tolgo la giacca di jeans che è zuppa e umida, e mi sfilo via il golf da tenerti premuto contro la spalla che è ancora fatta di carne viva e sanguina. Perché l'altra non posso pensare di essere stata io a portartela via. Non posso credere di averti sparato per davvero, di non averti saputo riconoscere. Vorrei convincermi che non è stata colpa mia, che l'Abel che avevo di fronte non era un uomo ma era un concentrato di Corruzione che mi avrebbe divorato, che aveva ucciso mio padre e lo aveva lasciato indietro. Vorrei convincermi di essermi soltanto e unicamente difesa da lui, Redeeemer. Ma lo sai, giusto? Lo sai che per quanto poca possa essere la tua reale colpa questa ti si attacca addosso e non ti molla più.
    Lo odio e mi odio, perché sei l'ultima persona contro la quale solleverei un dito. Ma cosa lo dico a fare? Lo sai, ce lo abbiamo scritto dentro la pelle e vergato, inciso in fondo ad ogni respiro che siamo gemelli.
    Voglio sperare che un giorno possa ricordarmi di quella pallottola e sorridere. Adesso non riesco neanche a guardarla.
    "Chiamo la mamma, ok?" te lo dico prendendoti il viso tra le mani, perché mi fa male anche questo: vederti con questo sguardo desertico, dove non riesco a scorgere, né a trovare un barlume di vita, un'oasi, una pozza d'acqua che tremola e mi dice che ci sei ancora da qualche parte. Cosa ti hanno portato via là dentro? E perché non ero con te quando lo hanno fatto? Perché non mi hai permesso di restare? Perché ti ho lasciato da solo? Non ce l'avrei fatta? No, non è vero. Lo sai: io ce la farei sempre, anche a costo di spaccarmi in due, di farmi strappare pezzo per pezzo ma io ce la farei, anche a costo di far rimanere di me che un nulla. Ma tu non avresti voluto, tu ti ostini di poter reggere da solo, di poterti prendere il mondo, il tuo mondo che è immenso e pesantissimo, tutto sulle spalle.
    Non tenermi più fuori. Non farlo mai più, papà. Dammi una parte del suo peso, posso reggerlo, voglio reggerlo per te. Non guardare il mio aspetto fragile. Io posso e voglio farlo.
    Mi allontano di qualche passo, cercando il cellulare in fondo a ciò che resta della mia borsa, di quello che mi è rimasto aggrappato alla spalla, e prego che ancora ci sia, anche se con uno schermo crettato come una ragnatela.
    Ed è quanto ti rivedo di nuovo, Lucian, e non ci penso un secondo.
    Ti corro incontro per quei pochissimi metri che ci separano e ti butto le braccia al collo. Perché non mi importa di quello che ho visto là dentro: sono troppo stanca per poter avere persino paura. Lo sono persino per ricordarmi che non siamo che amici, che poco meno di due mesi fa ci stringevamo la mano per la prima volta.
    Vorrei chiederti se stai bene, se non ti sei ferito, che razza di demoni da oggi cominceranno a tormentare la tua mente. Vorrei chiederti se erano solo illusioni, se era solamente magia nera, corruzione, oppure sapere che cosa sei, Lucian. Potrei non stupirmene, sai? Non so più neanche io che cosa sono, anche se non trovo neanche una pozza per specchiarmi e vedere finalmente che cosa mi sono cucita al posto del mio viso. Sangue, fantasmi, no se c'è qualcosa che più mi spaventa adesso è questo: è il sapermi diversa e non conoscermi più, non avere più niente di chiaro, nessuna certezza, nessuna sicurezza nemmeno più su chi sono io. Poi ci sono gli altri. È un lato di mondo che non conosco, che non avevo mai visto, e adesso New York, Central Park, ciascuno di noi qui mi sembra diverso da come lo ricordavo, da come lo era prima di entrare in quel tunnel. È rimasto qualcosa di noi laggiù in fondo, come ne siamo usciti? Non siamo gli stessi di quando siamo entrati. Nessuno di noi lo è. Ci ha cambiati. Ci ha mutati come un morbo, come una nebbia che si è infilata a scambiarci geni, a dargli e toglierci arti, a cambiarci i volti. Dentro e fuori.
    Ti lascio andare con JJ, Lucian, e mi guardo attorno a cercare altri volti familiari, tirando via dalla fronte e dalla faccia capelli che neanche vi sono ma che sento come umidi e attaccati alla pelle.
    "Rust!" lo chiamo anche se la voce mi trema, perché mi sembra di aver persino dimenticato come parlare, e di me non riconosco più neanche questa tonalità che mi vibra tra le corde vocali.
    "Dobbiamo portare papà in ospedale. Sta male"
    E poi, da come mi guarda, lo ricordo che non sono più la stessa Vivianne che conosce e che andava a suonargli il campanello e alla quale chiedeva un abbraccio fin tanto che lo chiamava zio. Mi verrebbe voglia di piangere solo per questo: perché non sono più neanche quella Vivi che lui, Aalia, Camron ricordano.
    "Sono io" gli mimo solo sulle labbra mentre gli occhi mi si piegano in delle virgole e la gola mi si stringe provando a fatica a deglutire.
    Le gambe mi fanno male: so che non resterò a guardare e aspettare semplicemente dentro l'ospedale, anche se non so più neanche cosa aspettarmi davanti a dei risultati scritti su un foglio di carta riguardo chi è e come si chiama la "nuova me".
    Torno a sedermi sull'asfalto, a fianco di papà, sollevando gli occhi verso Kali. Quanto diversa sei uscita tu da questo buco nero?
    "Sei una stronza"
    Per JJ, per avergli scaricato addosso una pistola, per averci tagliati fuori, per aver costretto Jordan a seguirti, perché scopro solo oggi che non avrebbe saputo lui fare altrimenti. Per aver voluto fare di testa tua, contro tutti. Oppure semplicemente perché sono mesi che aspetto di dirtelo, anche se il tuo volto è un altro ed è diverso da quello che era sui giornali o con il quale ti sei presentata a casa nostra.
    Cazzo, Kali, vorrei legarti adesso a questo asfalto e costringerti come vorresti che nessuno mai facesse con te.
    Non me ne frega niente adesso. Sono troppo stanca, la testa mi esplode. Ti lascio solo questo: non ho voglia di discutere adesso. Ho finito, e ancora ho il cellulare in mano con il numero di mamma che vi lampeggia nervoso e affaticato sopra.
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    Si attacca alla compagnia di Abel e chiede come essere utile

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    Aaron I. Tyson - 21 - Student - Outfit -
    All types of knowledge, ultimately, mean self knowledge.
    Tutto concluso, non erano nelle fogne erano a central park, aveva un male tremendo al fianco, e stava tremando.
    I brividi erano freddi, non per il freddo. Era un cumulo di lividi e paura, aveva ucciso tutte le figure che riteneva importanti, aveva ucciso anche solo a livello concettuale praticamente ogni faccia conosciuta, ed era lì con una serie di sconosciuti. Il tizio che aveva distrutto il mostro che lo stava attaccando era ferito.
    Poteva dire che era stata l'esperienza più traumatizzante nella sua vita. E poter anche affermare di esserne sopravvissuto era per lui un motivo di vanto.
    "Di sicuro i media arriveranno a breve, siamo tutti apparsi all'improvviso a Central park, secondo me qualcuno ha già segnalato la cosa." pensò mentre vedeva alcune persone riunirsi intorno all'uomo che lo aveva salvato. Sembrava tutta gente più grande di lui. Probabilmente lo era, probabilmente qualcuno lì aveva un'idea migliore di quelle che lui poteva pensare.
    Sapeva che non poteva intrufolarsi, ma voleva dare una mano a quell'uomo che gli aveva salvato la vita. Era suo dovere morale in fondo. Decise allora di avvicinarsi, vide un uomo di mezza età, guardò tutti in quel piccolo circolo e disse: "Mi chiamo Aaron Tyson, sono solo uno studente, probabilmente non posso fare molto, ma ditemi il da farsi e mi offro per fare il necessario. So che non vale molto, ma voglio ripagare il mio debito con quest'uomo, mi ha salvato e voglio poter dare il mio per essere utile. Basta dirmi e posso dare il mio. Ho visto che se è stato preso da quella cosa c'è in parte della chitina. La chitina potrebbe essere pericolosa, rischia l'avvelenamento."
    Sperava qualcuno lo ascoltasse, sperava qualcuno avesse idee migliori della sua. Se qualcuno avesse avuto un'idea migliore avrebbe aiutato. Sembrava però gente abituata a queste situazioni.
    "Qualsiasi cosa sono disponibile"

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    Vivi e JJ <3
    jackals
    27 y.o.
    Esistono luci in fondo a lunghi corridoi che, nonostante la fatica, non riusciremo mai a raggiungere. Dicono che bisogna sapersi lasciare andare, abbandonarsi, come se i piedi avessero la possibilità di non rispondere alle leggi di una gravità che ci costringe pesanti. Eppure restano soltanto chiacchiere.
    Con la mano strofino vigorosamente il sangue che nel tempo ho lasciato seccare sulle labbra come monito di un destino che non posso far altro che stringere a me come fosse un figlio desiderato ardentemente. Ma nonostante l'accettazione finisco sempre per voler nascondere la verità dei fatti agli occhi di chi faticherebbe nell'ascoltarmi pronunciare la mia storia.
    Mi piace far finta di non averne davvero una, di essere invisibile quanto basta per continuare ad osservare la schiena altrui senza venir interrotto da curiosi sentimentalismi. La tua continuo a guardarla tutt'ora, Vivi. Nonostante sembra che non ci sia più nulla di cui spaventarsi: Che queste cicatrici un giorno diverranno vecchie polaroid da poter appendere sui muri di una casa che a fatica avrai costruito per te soltanto. Le mie continuo a leccarle come un gatto. Le curo, le mantengo vive, perché non ho più così paura di ricordare cos'è che, alla fine dei giochi, mi ha portato qui da voi.
    Allora avanzo. Stringo gli occhi quando la luce dei lampioni mi acceca e cerco di non dar ulteriore peso a delle gambe che solo ora hanno smesso di tremare. Ma resto in disparte, quanto basta per non invadere spazi che non mi appartengono e lasciare che sia tu ha circoscrivere i miei tra le tue braccia magre, nelle quali nascondo un volto ancora sporco. Timido, come un bambino che sa di aver commesso qualcosa di sbagliato. Come un bambino che a conti fatti, nonostante la voglia di indipendenza, finisce sempre per cercare una stretta come questa.
    ''V-va tut-to bene.'' Probabilmente lo dico più a me stesso che a te. Perché nulla va bene: non va bene la spalla di tuo padre, non va bene l'odio che ho provato, né lo sguardo di JJ che mi cerca tra la folla. Non dovremmo essere qui.
    ''N-non voglio and-d-are.'' È un sussurro che lascio custodire a te. Perché chino sulla tua spalla ci sto bene. Perché solo ora, seppur ricurvo, mi sembra di riuscire a respirare a pieni polmoni. Ma alzo il volto, cercando lo sguardo di JJ.
    ''C-ci sentiamo...'' Non ti guardo perché non ho alcuna intenzione di sentirmi involontariamente costretto a tornare indietro, a spalleggiarti, a sorreggere tuo padre quando certi affetti non riesco a farli miei. Perché se quelle braccia sono calde questo non vuol dire che ho finalmente trovato un luogo in cui potermi adagiare. Non voglio sentirmi protetto, non voglio credere di essere riuscito a trovare il porto sicuro contro il quale attraccare. Non voglio sentire altro se non questa insicurezza che da sempre continua a farmi muovere passi dopo passi in direzione di chiunque si riveli capace di pronunciare il mio nome con così tanto coraggio e sicurezza.
    ''D-dimmi J.''
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    Edited by ( : - 28/12/2019, 14:23
     
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    Allora, vediamo: ignora tutti. Proprio tutti. Prende il pullover di Vivi, aiuta Kali quando vomita, grugnisce ad Aaron e scuote la testa e fine niente basta raga è rotto ciao

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    È finita. Ci sono di nuovo luci lungo la strada. Volti che non vedo ma sento vicini. Diventano una pressione mentre queste luci sono qui e il buio lo strappano. Hanno una pretesa sulla carne. Una pretesa che diventa condanna quando la illuminano e fra tutto questo sangue e queste ferite aperte si nascondono quelle che senza nome sono sempre state qui. Non c’è più niente da nascondere, non ci sono più rifugi che si fanno scuri e concedono. Una scusa, una menzogna, una bugia, un copertura. Ma adesso sono qui, ancora, di nuovo in questa città che si stringe e mi cerca fra i suoi vicoli. Quelli più sudici e malmessi. Quelli sporchi in cui vivo nelle ore che si spengono e tutto muore. C’è un vuoto enorme nella testa e penso a tutto quello a cui dovrei pensare, ma non ne trovo traccia fra questo contorcersi di nulla in cui esistono solo fitte a cui mi aggrappo. Penso al ferro sulla spalla, penso che devo scioglierlo mentre mi siedo a terra, liberare un proiettile che freme nella carne e ha ancora attaccato il suono del suo sparo nelle orecchie. Penso che ci sono persone e che dovrebbe importarmi di cercare fra i loro visi quelli che conosco, ma non voglio guardare gli occhi di nessuno adesso. Non voglio guardare altro che asfalto, altro che fili d’erba scura, altro che mani che sono rosse e sono le mie. Penso che sono fuori. Che quest’aria è più leggera, ma penso anche a quanto ancora sono dentro. A quanto ci resterò perché ho tolto un pezzo ancora e questa volta è stato troppo grande. Questa volta, come tutte le altre. Questa volta come sempre, in un ciclo continuo che si ripete sempre e mi lascia qui. Ovunque. Qui. Da nessuna parte. In un punto o l’altro del mondo, con tutti intorno e io al centro, a miglia e miglia di distanza. Digrigno la mascella in un gesto che è spontaneo quando c’è una pressione su una spalla che sanguina di meno adesso, ma che fra poco riprenderà a gorgogliare copioso e continuerà a imbrattare tutto. Penso che i lembi della giacca si saranno ormai attaccati alla pelle, alla carne dove il sangue si è asciugato e tessuti si sono mischiati a me in un groviglio che tira tutto. Ma premo l’altra mano contro il ferro, quello che è freddo sotto le dita. Freddo come l’aria. Freddo come il mondo. Freddo come quello che si agita fra polmoni e cuore e sembra immobile e fatto di quella stessa sostanza che tengo a freno nella spalla, ma che libero invertendo processi adesso che non ho bisogno di inchiostro per regolare scambi che si manifestano in silenzio. Vorrei dire a entrambe di lasciarmi in pace. Di lasciarmi a premere la testa su quello che conosco e non ha voce. Perché adesso le parole mi stanno premendo nella testa come se fossero proiettili bollenti, spari che hanno boati ma che non sanno trattenere nessun significato. Sono suoni amorfi. E mi rendo conto che anche nella mia testa non ci sono più parole, che sono tutte spente, che ci sono solo impulsi di gesti, di bisogni, che tutto si riduce ad un messaggio fra nervi senza linguaggio. Mi rendo conto che la luce mi da fastidio, so concettualmente di volere una terra lontana e isolata, fra limiti di campi, fra montagne scure, fra silenzi prolungati nelle notti in cui le anime si allontanano e posso starmene lì, su ogni confine, senza altro se non un silenzio che conquisto come se fosse il primo passo mai compiuto in questo mondo. Penso per la prima volta, così incoerentemente, che voglio le mie notti da bambino, che voglio lo scricchiolio di una casa da cui potevo scappare, che voglio tutto quello che è perso. Voglio tutto quello che ho perso e non posso riavere. Voglio un’altra guerra piene di scuse comode, dove potrò sporcarmi al buio senza che nessuno veda, senza che lo veda anche io. Io che ormai lo so. Mi alzo perché questo rumore lo conosco e lo sento alzarsi fra tutti i brusii che si fanno così confusi da diventare solo echi di sottofondo, quando tutto sbiadisce e questa volta, adesso, non provo ad afferrarlo. Non ho più niente per lottare, sono alla fine della mia battaglia e lo so che la bandiera che si pianta sulla mia terra è la reclama è quella del nemico che mi è cresciuto fra le braccia prima di diventare la bestia che mi ha azzannato. Ma sento Kali e mi sposto come posso, ascolto il dolore che adesso torna sulle spalle e solo lui mentre la aiuto in questi istanti in cui non lo so. Non lo so cosa dovrei fare. Non lo so cosa dovrei dire. So che non ci riuscirei lo stesso e le labbra le tengo chiuse. Le stringo molli come se fossero un muscolo che ha smesso di funzionare, atrofizzato come la lingua, come lo sono io nel profondo delle ossa. La guardo, la guardo per un secondo e non voglio che risponda a questi occhi adesso. Non voglio sentire niente, neanche nel silenzio. Voglio quello che è solo mio ed è freddo, non ha altro che ragionamenti asciutti. Tutto stretto e arido, come crepe nel deserto di rocce. Come terreno che si spacca sotto il sole. Non voglio trovare parole senza suoni, non voglio trovarle così come potrei capirle libere da lettere. Non voglio altro che tornare lì, nel punto in cui ero prima, nel punto in cui vorrei sparire una volta e per tutte. Vorrei solo chiedere che mi lascino andare. Vorrei solo dire basta, ma non so spremerlo fra le labbra e non so che suono abbiano queste parole nella mia voce. E allora restano così, mute, senza suoni, senza nulla, spoglie di tutto se non di un’intenzione che negli occhi muore mentre guardo giù, a terra, e ci sono ancora passi e voci che si affollano ovunque, così vicine quando sono così lontano. Alzo gli occhi e guardo un altro volto ancora. Uno che non conosco, ma parla di me. Scuoto la testa, la abbasso ancora, e penso a come sia sempre la stessa storia. Quella di soldati che salvano vite, ma che così tante ne hanno prese. Quella di uomini che per caso si trovano a fare qualcosa di buono, vengono investiti di onorificenze quando in realtà è solo un punto di vista. E io non ho salvato mai nessuno, neanche me stesso. Ho solo ucciso tutto, come edera velenosa che si arrampica ovunque per asfissiare anche l’aria. Non so fare altro. E voglio solo andare a casa.
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    JJ e basta, viva i pg sempre social

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    È una stanchezza che arriva come un flusso che la svuota ora che non ha più muscoli in cui rifuggiarsi con gesti che diventano necessità di una lotta furiosa con il retrogusto di uno sfogo che si dissipa con la lentezza con cui quelle fronde riappaiono poco alla volta. È una stanchezza che dilaga nel crollare di dighe che non hanno più motivi di tenersi in piedi e possono lasciare all’acqua lo spazio di inondare tutto con una veemenza che le strappa un respiro, uno solo, mentre stringe di più la mano sull’impugnatura di tutto quello che le è rimasto. Chiude appena gli occhi per trovare quell’aria che non sia pesante e lo sente il flettersi di pensieri che diventano mormorii precisi, le parlando di come quell’incubo non è stato che un punto fra tanti, ma abbastanza profondo da lasciare spazi ancora più martoriati sotto la carne. Ed è stanca. Stanca di stare in piedi ancora e di saperlo fare così bene, di esserselo scritto a fuoco nelle ossa così che anche il suo stesso corpo negasse un crollo per lasciarla sempre in piedi contro ogni avversità. Può solo sentirsi nuda di fronte a tutto, con strati di stoffa che non sono abbastanza per coprire la pelle che trema, con il volto deturpato da segni che tracciano troppo nitidamente sentieri di un pianto che anche se ha strappato nel privato di un tunnel denso torna ad essere sotto luci e fra occhi che la fanno sentire depredata. A piedi scalzi, bagnata fin dentro le ossa e fra tremori che chiedono solo di lasciarsi cadere a terra e pretendere ancora, ma resta dritta in brividi che smuovono le spalle e non lo cerca. Non lo cerca adesso, non lo cerca mentre vorrebbe e sente gli occhi saettare così meschini e traditori verso quella folla per ritrovarlo e vederlo solo un secondo, un istante appena. Il suo volto fra mille. L’unico di cui le importi fra tutti, quando è stremata e vuole solo che tutto svanisca così che possa strappare pelle escoriata per guardare ferite che diventano visibili solo al buio di stanche chiuse come cassaforti dalla forma di bare. Ma è un volto ancora quello che ritrova e lo sa che c’è un sorriso nascosto da qualche parte, incapace dimostrarsi davvero fra strati di muscoli esausti. Si avvicina piano a JJ senza raggiungerlo davvero, ma abbastanza da poter sfilare una sigaretta allungando il braccio per infilarla fra le labbra e premerla lì con la forza di dita che tremano appena. Ma scuote la testa con un gesto che indica la giacca prima di accendere la punta e tirare un respiro lungo di catrame, stringendosi da sola con l’altro braccio mentre lascia scivolare via il fumo. «No, tranquillo chiamo Dean» è un nome che scivola fra le labbra con una semplicità che non esiste quando lo sa che comprime lì un bisogno che si sta facendo asfissiante sempre di più da quando si è tutto illuminato per trascinarli via da cunicoli umidi. «Tienila quella, tanto sono vicina a casa» lo aggiunge prima di un altro tiro ancora, prima di recuperare il cellulare dal beutel per guardarlo qualche istante incapace di sbloccarlo davvero quando lo sa, lo sa che c’è un sospiro che vorrebbe lasciar andare prima di chiudere di nuovo tutto per rendersi più resistente ancora. Non sa di cosa abbia davvero bisogno adesso quando tutto si affolla e si mischia e delle paure restano anche ora che quelle fogne si sono cancellate dai loro occhi lasciando impronte nella mente. Paure che si accumulano su sagome che hanno fatto da testimoni ad un tradimento che va sepolto sotto terra, ma con fori che lo facciano respirare ancora nell’egoismo che le preme ovunque nel diventare l’additarsi di una colpa che conosce e di cui conosce il sapore. «Piuttosto se non volete rotture di palle ve conviene muovervi tutti molto in fretta che fra poco questo posto si riempirà che manco l’inferno» ma si sta già allontanando quando ci sono troppe tracce di intimità che segna ancora come segna tutto, anche quando non vorrebbe altro che strapparsi tutto dagli occhi e dimenticare ogni cosa per poter solo lasciarsi andare ad una corrente clemente. Vorrebbe andare da Rust e cancellarsi lì, respirare aria che sappia di lui. Vorrebbe andare da Dean e perdersi lì, sentire mani che sono capaci di strapparle tutto di dosso per ridarle ogni appartenenza. Guarda il telefono con un respiro tirando ancora da una sigaretta che non basterà come non basta mai, perché c’è un male che scorre nel sangue e non può essere estirpato.
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    Vivi, Abel, Aalia e Diana con il colloquium.

    rust kaufman
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    I miei sono passi che si sono allontani prima di tutti gli altri, sono già lontano quando mi rendo conto che dovrei tornare indietro perché ci sono spiegazioni che devo dare e bocche da cucire nel contenere segreti che si scontrano l’uno con l’altro diventando minacce di fini fatali. Stringo il filtro tra i denti nel bloccare di piedi che si incastrano sul terreno e sollevo lo sguardo che si perde nei rimasugli di cielo incastrati tra le fronde di alberi immobili, e lo sento il peso di tutto quello che è successo sta sera e non doveva succedere, il peso di una realtà svelata che doveva restare segregata dietro occhi fermi. Sento il peso di immagini che si sono riversate dentro la testa e che ne sono uscite per rivelarsi come demoni dalle facce di soldati dispersi oltre il fronte, attraverso tempeste di sabbia che tornano solo per ululare tra granelli di polvere che quello che è andato non è mai davvero andato. Dovrei parlare, come ogni volta in cui in situazioni del genere mi sono trovato a non poter ascoltare il suoni e non parole come avrei voluto, nella solitudine di un pub che è circondato dal parlare soffuso di persone che vogliono dimenticare sé stesse sul fondo di una bottiglia. È questo che vorrei ora, alcool da iniettare nel corpo come fosse una medicina e nessun altro sguardo, nessun altro giudizio o accusa, nessuna responsabilità da far diventare una pugnalata spinta fra le costole. Prendo un fiato di fumo soffiandolo con uno sbuffo mentre mi giro e torno indietro, in una zona che si è fatta gremita di tutte quelle persone che erano lì dentro con me e non ho considerato poi tanto. È una ragazza che non conosco che mi si para davanti subito, ci vedo negli occhi qualcuno che però mi è così familiare da farmi sentire l’ondata di una dolcezza che ricollego dopo qualche istante a Vivianne. Non posso capire cosa le è successo, ma so che ora non è il momento di fare domande né di pretendere eloquenze che mi spieghino un volto cambiato irrimediabilmente. «Mi chiquilla» esce dalle labbra insieme al fumo con un soffio di voce più bassa, è un appellativo che lo lascia intravedere il tono preoccupato che si maschera di un lieve sorriso che tenta di essere meno amaro di quello che vorrei mostrare. Trovo dietro di lei Abel con uno sguardo che corre a sangue, troppo sangue «Occupati di tuo padre, poi mi racconterai che hai combinato, okay?» allargo le braccia e non aspetto per prendermi un abbraccio che dura poco, nel arretrare per poggiarle un bacio sulla fronte poco prima di vederla scappare via. Cerco mia figlia e la vedo tra le braccia di qualcuno che non vorrei tornasse nella sua vita per farle di nuovo male, ma me ne rendo conto di non poter dire davvero niente, di non poter mettere bocca su scelte che ho vissuto sempre dall’altra parte e mi farebbero un ipocrita. È arrivato il momento che quelle bugie finiscano, almeno nella maggior parte, anche se non ora. Mi avvicino ad Abel e glielo leggo negli occhi che forse è il più provato qua in mezzo, nel suo modo di diventare carceriere di sé stesso e non permettere a nessuno di entrare. Fermo davanti a lui parlo piano in una lingua che si contorce dentro messaggi in codice rapidi e forse non mi ascolterà, forse le mie parole gli passeranno davanti senza farsi prendere ma lo so che prima o poi le ritroverà «Alfa w Novembre, hum yaerifun dhalik, 'ana mashdud jiddaan, alan 'ana alnzwl diki, walast bihajat 'iilaa 'an 'akun wahadiin» ed è giusto a titolo informativo, quasi, un’informazione che si libera e si arresta per togliergli un pensiero tra i tanti, quasi un saluto. «Yumkinuk aistieadat 'an 'akhdimak klh, eh, Primo Sergente» lo faccio quel cenno che unisce due dita sulla fronte e le fa scattare lontane con una cannuccia di tabacco solida tra indice e medio. Forse sto temporeggiando, in realtà, perché quando mi volto e vedo Aalia a distanza di qualche metro e capelli biondi che si accendono nel mio sguardo, lo so che non posso più aspettare oltre. Non mi soffermo troppo a guardare Diana anche se vorrei, vorrei davvero, cerco solo un contatto telepatico che è rimasto attivo e in cui faccio risonare la mia voce per una speranza che questa volta non muore istantaneamente «Riusciamo a prenderci cinque minuti?» mentre mi dirigo verso mia figlia per cercare una sua mano e scostarla un po’ più lontano, dove le nostri voci non potranno essere colte. «Aalia, vieni un attimo» cerco di simularla una calma che si è fatta troppo piccola per non macchiare una voce che dovrebbe essere più solida di quanto non sia mai stata «Mi stavo dimenticando una cosa importante» le stringo appena la mano, prima di portarla verso una ciocca di capelli che le spingo via dal viso con una carezza. «Non dirlo a nessuno di me e lei, neanche a mamma o a Cam» non pronuncio il suo nome per sicurezza, perché non mi fido di un mondo che ha orecchie puntate sempre su dettagli da trafugare e rigirare come armi puntate contro le tempie. «Ne va della mia vita, letteralmente, in un altro momento ti spiegherò, va bene? Per favore nene» le prendo il volto tra le mani, spremendo gli occhi di una serietà che forse non mi ha mai visto addosso con così tanta importanza, ma è importante, lo è davvero, e Aalia deve capirlo.

    1 Un modo carino di dire tipo "la mia bambina".
    2 Alfa e Novembre, lo sanno, sono proprio fottuto. Ora mi levo dal cazzo che ho bisogno di stare da solo. Tu riprenditi che mi servi intero.
    3 Anche questo è un modo dolce di dire "bambina".



    Edited by hime. - 29/12/2019, 13:34
     
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    Qui abbiamo praticamente solo JJ e Rust, mentre cerca Vivi con lo sguardo, che per ovvi motivi non riconosce.

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    Aalia Kaufman

    ■ 26 y.o ■ Artist ■ voice & outfitsheet

    Non è solo stanchezza quella che percepisce, in lei come in tutti quelli che sente vicini. Si sente rotta, a pezzi, e sa che raccoglierli sarà tutto fuorché semplice; dovrà ricostruire il puzzle della sua mente ormai infranta e spezzettata, cercandone il senso logico che da sempre ha sentito come una protezione. Per un attimo sente le gambe cedere, incapaci di sostenere il peso degli eventi, ma il suo sguardo si aggrappa ad una visione che la tiene ancorata alla realtà: Jordan. Nel caos frenetico dello scontro non aveva avuto modo di badare alle sue condizioni o a quelle di chiunque altro, e vederlo le causò un benessere istantaneo, come se, nonostante tutto, le cose potessero risolversi in qualche modo. Perché lo sa che gli anni hanno modificato i forti sentimenti che prova per lui, eppure loro sono ancora lì, l'affetto e la stima, la sicurezza che sente solo accanto a lui. E così cede, al suo abbraccio, ad un pianto soffocato, liberatorio, perché pensava di aver perso tutto, ed invece è felice anche solo di poterlo riabbracciare. Tutto scompare, i suoni sono attutiti, come se il mondo intero ora girasse attorno a loro due, figure simili e così diverse, che hanno bisogno l'una dell'altra. E come spera e desidera, Jordan comprende al volo il bisogno di compagnia di Aalia, mentre ella si aggrappa alla sua richiesta come un salvagente in una tempesta. Si, ti prego. Da sola temo crollerei. E non si vergogna, non con lui, nell'ammettere la sua attuale fragilità, perché lo sa che la percepisce, che la capisce, e sa che con lui può essere vera e non costruita in quel momento.
    La presa di suo padre la riporta al presente, mentre la sua mente sotto shock inizia a processare le informazione, a riprendere una sorta di deviata lucidità, mentre con lo sguardo scorre i visi delle persone vicine, in cerca delle persone che ama. Manca Vivi e un moto di agitazione si fa largo. Eppure si concentra sulle parole di Rust, perché anche in quello stato capisce dalla sua voce seria l'importanza delle parole che sta pronunciando. Prende il mio viso tra le mani e il suo sguardo è perentorio, quanto richiestivo. Avrebbe domande, tante, ma la sua mente è stanca, e sa che ora non è il momento. Annuisce, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Promesso. Non ad anima viva. S-stai bene? Io vado con Jordan, non me la sento di stare sola. Si sente in dovere di spiegare, senza un reale motivo, e sa che potrebbe infastidirlo, ma sa anche che capirà il suo bisogno. Così torna da JJ, ed è una sola la domanda che vuole porgli, mentre ricerca con la mano la sua, per un contatto che le serve da ancora. Non ho visto Vivianne. Sta bene? Mentre lo dice, rabbrividisce, forse per il freddo, forse per lo shock.

    I'm a lonely soul
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    Lucian, va via con Aalia e messaggia con Kali

    jackals
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    È lenta ad assalirlo la consapevolezza che tutti quei doveri, quei movimenti oltre lo stremo di forze inesistenti, non siano altro che distrazioni auto imposte per ignorare ciò che vorrebbe perseguitarlo anche ora che le ombre si sono diradate e i sentieri per ciò che ognuno di loro vorrà chiamare casa si sono illuminati in un nuovo buio. Perché sarebbero infinite le domande da porre e i dubbi da sfatare se solo si lasciasse andare a quell'impulso che spinge il suo sguardo un po' indietro, a seguire una figura che non riesce veramente ad ignorare anche se per una volta lo vorrebbe, o almeno crede di farlo. Che la preoccupazione è ancora sveglia e il suo petto si svuota di ogni lacrima di ossigeno nel sentirla parlare, muoversi e farsi più lontana, soffrire per pene che forse non potrà mai capire ma che sono sue e solo per questo lo distruggono. Perchè è sempre stato più facile immergersi nei problemi altrui ed andare avanti accantonandosi al secondo posto, rimanendo volutamente l'ultima preoccupazione propria e di chiunque altro lo circondi per non bagnarsene mai fino a che non diventa necessità. Non lo vuole quel bisogno di autocommiserazione che conosce troppo bene, non vuole paure e incubi a perseguitarlo in una notte che non trascorrerà da solo per un misto di affetto ed egoismo che lo priverà di ogni problema che sia solo suo. Così non guarda Abel e non guarda Kali perchè è l'unico modo che conosce per non pensare a ciò che ha visto in fognature buie ma non quanto le rivelazioni che lo hanno assalito, non li guarda anche se è un messaggio insolito a fargli vibrare la tasca dei pantaloni ed è costretto ad ignorarlo per rimanere su di un sentiero già scelto. Che ha deciso cosa fare nel momento stesso in cui ha visto luci familiari circondare tutti loro, che forse lo sapeva già da prima, da quando gli occhi di Kali hanno ritrovato una scintilla di vita perduta nell'avvicinarsi a qualcuno che non è lui. Gli istanti che Aalia si concede con Rust non sono altro che uno squarcio da aprire in quella promessa fatta a sè stesso per rimarcare sentieri proibiti un'ultima volta, per offrirsi in richieste e preghiere in favore di un segreto più grande di loro, più grande di Kali, più grande di lui che lo mantiene senza alcuno scopo né giustificazione. E spera che lo stesso possa farlo anche Lucian perchè lui, al suo posto, rischierebbe la vita pur di proteggerlo.
    «Senti... quello che hai visto prima, io e Kali, non si può venire a sapere. Non te lo chiederei se non fosse importante ma non sarei al sicuro se tu lo dicessi a qualcuno, a chiunque. Ti prego, dammi la tua parola.» Basteranno quelle parole sussurrate nella cura di raggiungere lui soltanto, perché di lui si fida nonostante le ombre che si sono addossate sulla sua figura nel renderlo qualcosa di irriconoscibile e macchiato di sangue, perché si fiderà anche nel conoscere quella sua natura mai svelata che non toglie o aggiunge nulla ad un legame già solidificato da troppi tratti e traumi in comune, da un destino condiviso e mai completamente compreso da entrambi. Ed è per questo che è facile capirlo, che è facile perdersi per un istante solo nei suoi occhi per stringere un patto che sappia di promesse e accettazione mentre lascia andare ogni altra cosa, fatta eccezione per la stretta sulla mano di Aalia che ritrova con un sollievo inaspettato. Non gli importa di cosa possa sembrare, non gli importa dei messaggi di Kali e dell'istinto che ignora di spostare lo sguardo su Rust per chiedergli fiducia anche quando è probabile che non ne meriti nemmeno una lacrima. Ma gli importa di Aalia e gli importano le sue richieste di aiuto sussurrate quando è il suo profumo a cullarlo in qualcosa che sa di casa più di quelle mura asettiche che presto raggiungeranno. Gli importa di essere il porto sicuro in cui si potrà rifugiare ora che gli incubi si sono dissolti in fantasmi pronti a perseguitarli durante la notte.
    «Diana ha ragione, dovremmo andare.» E non sono mura che sappiano di sicurezza quello che cerca, non sono stanze che non sanno di casa né di liberazione, ma solo il soddisfacimento del disperato bisogno di allontanarsi da un'angoscia crescente. E vorrebbe che Kali lo capisse mentre le invia un messaggio dopo l'altro con una mano ancora stretta a quella di Aalia, muovendo passi verso Brooklyn e una solitudine che sarà la loro salvezza. Vorrebbe che capisse quanto sia incapace di resistere nel vederla vivere con lui e per lui, quanto bruci nel petto una ferita che è lì da mesi ma è stata squarciata quella stessa notte. Perchè non ha incontrato incubi in quelle fogne ma solo verità troppo crudeli, non sono state allucinazioni a portarlo a fondo ma l'immagine di una realtà che si è rifiutato di vedere fino a che non gli è stata imposta come unica visuale. E vorrebbe solo dirglielo, vorrebbe urlarle in faccia quanto fa male e quanto è sbagliato, quanto sarebbe più facile se fossero davvero e ancora solo loro due. Perchè è sbagliato che Abel si sia rotto quando ha pensato che come lui fosse pronto a mettersi al secondo posto per proteggere vite più fragili, perchè è sbagliato che Kali non lo sappia o che lo accetti quando i suoi sforzi di tenerla in vita diventano vani e lo rendono inutile, quando anche le preoccupazioni che lo smuovono non assumono il significato che vorrebbe. E allora non può fare altro che pensare a come tutte quelle promesse siano fallaci, quelle richieste di essere un punto fisso deturpate da incomprensioni che non li hanno mai resi così lontani come ora che legge i suoi messaggi e vorrebbe davvero non esserci, non essere niente per lei ma essere libero.
    «Dopo che te ne sei andata è successo qualcosa, ha come cambiato faccia. Penso che possa essere una reazione magica al trauma o qualcosa del genere... insomma, non sapevamo che tu fossi sopravvissuta finché non abbiamo trovato Abel. Ma stava bene, nei limiti del possibile.» Tralascia così tante informazioni che proverebbe dolore nel rivelare, tralascia errori e incomprensioni che li hanno assaliti mentre segreti mai svelati annebbiavano la loro capacità di pensare lucidamente. Perchè vuole essere l'ancora che la tiene ferma tra onde burrascose ma sa che sarebbe troppo facile trasformarsi nel peso in grado di trascinarla poi a fondo con paure che è pronto a trattenere per essere travolto dalle sue, almeno per una notte.
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    Edited by Patrizia. - 30/12/2019, 00:22
     
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    Fa le treccine a Vivi. Interagisce con Aaron. Messaggia con JJ e li fissa ancora, lui e Aalia, #creepyaf.
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    Hai il telefono in mano e una voce robotica che ti parla nell’orecchio, riattacca. Hai occhi che non riescono a staccarsi da quell’immagine e una domanda che scivola sui tasti del cellulare nel chiedere qualcosa che sai già e di cui non vorresti conoscere la riposta. Lo sai cosa farà JJ, lo sai cosa farà Aalia, l’avresti fatto anche tu ignorando quello che intorno si contorce per mostrarti responsabilità da prendere in mano quando nessun altro lo farà al posto tuo. Quando c’è un uomo che è spento, quando c’è una figlia che ha bisogno di un padre che non c’è più e forse è rimasto laggiù, sotto muri di mattoni e sangue incrostato sulle mani. Osservi chi si avvicina, ascolti parole che si traducono alle tue orecchie ma che rimangono linguaggi in codice che non puoi ancora decifrare. Osservi chi si allontana e non ottieni alcuna risposta, se non l’impulso di due parole che arrivano a sottolineare l’evidenza ancora una volta. Sposti lo sguardo su di lei guardandola dall’alto di una visuale che si spacca a metà nel sapere esattamente quanto ha tremendamente ragione. «Sì, lo so» lo sai che sei una stronza, che sei stata gelida, che sei stata rabbia e dolore, che sei stata l’abbandono di cui hai tanta paura, che sei stata tutto ciò che sei e niente di più, niente di quello che ti ha fatta diventare Abel in questi mesi. Lo faccio per te. Perché, ti chiedi, perché fare qualcosa per qualcuno che dentro non ha spazio per nessuno, dove c’è solo ghiaccio, una distesa infinita di ghiaccio che non ha confini e si allunga a dismisura per intrappolare cuori infranti sotto la superficie. Infili la mano nella borsa per cercare uno specchio in un istinto che hai trovato anche tu quando hai scoperto di avere lineamenti nuovi che si erano attaccati al volto e non sapevi come spiegarti, ma sapevi di doverli accettare. Ti chini per porgerle la cipria e c’è solo una parola che fuoriesce dalle labbra in un filo sussurrato appena «Tieni» prima che arrivi l’impellenza di scrivere di nuovo. Sono mani intrecciate che lo richiedono, che spingono la mente ad inviare parole attraverso circuiti e reti per trattenerlo, per tenerlo a te nel vederlo andare via con qualcuno che non sei tu. Quante volte hai visto questo finale? Da qualche parte lo sai già che quel presentimento che hai avuto mesi fa si sta avverando, che è arrivato il momento in cui per lui è diventato troppo, eppure non puoi accettarlo. Cerchi di nuovo il pacchetto di sigarette, prendendone una tra i denti mentre lo allunghi verso Vivianne. «Ne vuoi una?». È una domanda che si fa avanti in fretta prima che arrivi un’altra voce sconosciuta e ci metti del tempo a riconoscere un volto che hai visto solo di sfuggita e di cui non ti è importato niente dall’inizio alla fine. Ora però gli sorridi mentre premi l’indice sulla punta della sigaretta e l’accendi con un elemento che riscalda a fa frizzare scintile nell’aria «Grazie, stiamo andando all’ospedale» è un sorriso che si addolcisce appena e si fa perfetto nell’essere una finzione che non si lascia scoprire. Attiri l’attenzione così che la sposti da Abel e lasci perdere ogni tentativo di comunicare con lui, che si è rinchiuso dietro una diga impossibile da scavalcare. «In effetti c’è una cosa che potresti fare, se ci beccano i giornalisti mentre andiamo via, potresti distrarli?» la lasci fluire la stanchezza di un tono che si ricrea dolciastro per approfittare di un’opportunità che vedi nelle vesti di un ragazzino che voleva soltanto aiutare un eroe che odia quella definizione come fosse l’epitaffio sulla sua tomba. «Siamo tutti un po’ scossi, non vogliamo rotture di coglioni» sputi il fumo sulla destra stringendoti appena nelle spalle e ti avvicini a lui di un passo «Tu stai bene? Ho visto che eri accanto a noi» non te ne frega un cazzo di sapere come sta, ma lo chiedi perché con un sorriso saresti in grado di suscitare la devastante necessità di un appoggio che farebbe comodo quando nessuno di voi, non tu, non Abel, non Vivianne, potrebbe sopportare domande e tentativi incalzanti di scavare dentro tombe in cui vi siete già stesi nell’attesa che la terra piova dentro come una tempesta al sottosopra. «Il taxi comunque ci aspetta all’uscita più vicina» ed è un po’ per farli alzare, e un po’ per allungare passi che vorrebbero allontanarsi da tutto il più velocemente possibile, mentre il cellulare ancora vibra e chiede di sforzi che cercano di intessere una ragnatela di sangue che non concede sconti, ma è disperata nel suo incedere attraverso un buio che l'ha inghiottito via e te l'ha nascosto, te l'ha portato via ora e per sempre. Ma, vai avanti, Kali.
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    Edited by hime. - 4/3/2020, 12:53
     
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    Guarda Kali cerca di capire la situazione, risponde

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    Aaron I. Tyson - 21 - Student - Outfit -
    All types of knowledge, ultimately, mean self knowledge.
    Aveva ragione la donna che l'aveva degnato di una risposta. Non sentiva quasi nulla, poi guardò, non era una grande ferita ma aveva un taglio, media grandezza, ma non era in pericolo di vita. Un po' di sangue sgorgava. Era consapevole che non sarebbe servito a nulla pensare troppo, in breve sarebbero arrivati tutti, la gente si era già dispersa in gruppi, loro non volevano rotture ed era giusto.
    Non era da tutti quello che aveva fatto quell'uomo e non voleva di certo disturbare. Voleva essere utile.
    "Senza di lui sarei messo molto peggio, proverò a fare come mi hai chiesto, ma non garantisco nulla. Quelli sono esperti rompi scatole. Fate presto, secondo me arriveranno tra poco, in bocca al lupo" già sentiva il rumore di quella folla, loro appena usciti dall'inferno ed i giornalisti stavano arrivando a succhiare il midollo delle loro ferite scoperte per guadagnare la prima pagina, o più like. Aaron avrebbe voluto scappare solo al pensiero, tornare al campus, entrare nella sua stanza e dormire per i prossimi giorni, per tutto quello che era successo.
    Rielaborare un trauma è essenziale, non poter fare nulla a riguardo sarebbe stata una follia persino per lui. Il fatto di aver dovuto uccidere i suoi cari, ogni essere vivente che aveva visto, e anche la tentazione di far crollare loro che lo avevano aiutato, aveva dubitato della verità. Lì era tutto sfuggente, tutto era stato un continuo domandarsi del vero. Sentire quella voce lo fece ricordare però. Si erano già incontrati, per un momento aveva sentito la voce di quella donna. Aveva anche lei visto il suo personale inferno. Quella cosa era sparita, quello che aveva lasciato però era dentro tutti, per certi versi era anche rimasto altro, legami che si muovevano, si spezzavano, ma avevano condiviso qualcosa.
    Era il momento giusto per andarsene, in realtà probabilmente aveva già fatto troppo. L'azione più furba sarebbe stata quella di sedersi, godersi la sera e la quiete dopo la prima tempesta, e prima della seconda tempesta.
    Due situazioni diverse collegate da un gruppo per buona parte casuale.
    Il riposo gli permise di iniziare a rimettere insieme i suoi pensieri, iniziando ad appuntare mentalmente: "La creatura si è dimostrata in grado di ferire e rendere le ferite infette. E' riuscita inoltre a leggere ed accedere alla mente delle vittime, nessuna morte, tutti feriti o gravemente danneggiati. Non sono in grado di avere una stima. Chiedo a nome di tutti riservatezza sulle identità. Sono disposto a lasciare le dichiarazioni ufficiali solo alla Brakebills University a fini di studio e con le autorità. Se possibile chiederei un controllo clinico ed un paio di anti dolorifici"
    Iniziò quindi ad esercitare questo discorso, dicendolo un paio di volte, cercando di essere il più tranquillo possibile.
    Aveva bisogno di riposare, aveva bisogno di capirci di più di quello che era successo.

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    Kali, Abel e spippe infinite tra lei e la sua nuova faccia #justthetwoofus



    vivianne comstock-dixon 21 y.o. voice song look
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    ollevo appena gli occhi verso Kali per squadrare, per dare una geometria circolare che sappia riconoscere quello che mi sta porgendo. E lo so perché. Lo so che lì dentro, chiuso tra polvere più scura della mia pelle, c'è una soluzione alle mie domande che già hanno ottenuto la silenziosa risposta che sì, non sono più io. Non sono più Vivi. Non c'è più niente di me stessa sul mio viso. Neanche Rust ha saputo riconoscermi se non appigliandosi con tutto sé stesso a qualcosa che gli ricordasse sua nipote, sua figlia. Forse allora qualcosa è rimasto di Vivianne, anche se mi sento invisibile. Anche se potrei passare a fianco di Aalia, di Nidya e non essere riconosciuta, ed essere una delle tante da scansare, a cui tirare uno spintone per gettarsi su qualcuno che sta peggio di me. Potrei sparire allora, e nessuno se ne renderebbe conto. Non è vero che non siamo il nostro aspetto. Non è vero, è una bugia. È una bella menzogna per aggrapparsi a qualcosa e costringersi a non svanire, a fissarsi su un lembo di pelle, sul riflesso di un piccolo specchio. La scuoto via la cipria che si è tutta rotta e polverizzata, macchiando con una spessa patina color sabbia scura lo specchietto. Ed è sotto un pollice, che sporco prova a ridare un po' di chiarezza a quella superficie, che incontro una persona che non conosco.
    Non rispondo nemmeno a Kali nel suo offrirmi una… non so neanche cosa mi stia allungando o cosa le sia uscito dalle labbra. Non riesco ad ascoltarla. Non riesco ad ascoltare nessuno attorno a noi. Vorrei solo spalancare quello specchietto, renderlo più grande per vedere cosa sono diventata e chi ha preso il mio posto, chi si è distesa sulla mia pelle.
    Chi è? Chi è questa ragazza che somiglia così tanto ad Abel? Non sono io. Io lei non la conosco, non l'ho mai vista prima. Eppure ce l'ho addosso, eppure si muove come me come un sortilegio che si consuma dietro il mio riflesso. Eppure mi corrisponde nei nuovi spigoli del mio viso. Sei davvero Vivianne? Sei proprio tu? No, Vivi era diversa. Vivi non era così e tu l'hai cancellata. Gli occhi mi bucano perché mi trovo davanti una persona crudele che vorrei soltanto mi rendesse ciò che era mio, ma che scopro sempre lì a guardarmi anche se sposto lo sguardo da una parte all'altra, rimbalzando da un lampione a un marciapiede. Vorrei chiederle perché è diventata improvvisamente anche lei cattiva con me. E alla fine lo trovo quello che mi ha lasciato di mio, quello a cui ha potuto aggrapparsi uno come Rust nel riuscire a riconoscermi.
    Sono proprio questi occhi spaventati. Sono ancora loro. Sono ancora gli occhi di una Dixon, autentici e non ricostruiti sull'immagine ricalcata di un uomo che adesso ha le iridi dello stesso colore anche se dentro vi si è seccato il deserto e tutte quelle pagliuzze più scure non sono che le crettature di una terra riarsa e bruciata.
    Ti guardo, papà. E vorrei che tu mi guardassi allo stesso modo e mi riconoscessi sotto le pieghe di questo volto. Vorrei che tu mi dicessi che questa è la mia pelle, che è sempre stata questa, che tu e la mamma mi avete pensato proprio così e che ce lo avevo scritto nei geni, in quelli che mi avete vergato addosso, che sarei dovuta crescere in questo modo.
    Ma tu sei vuoto, ed è stata anche colpa mia. Colpa di quel metallo che ti si apre sotto la maglia e del sangue con il quale mi sono altrettanto macchiata. Neanche lui sulla pelle mi sa riconoscere. Guardami. Guarda come la paura mi ha ricostruita da zero e mi ha lasciato solo due oculi che erano già da soli carichi di tanto spavento.
    «Dobbiamo andare.»
    Non riesco neanche a toccarti, papà. Ti tendo le mani anche se non so come fare, anche se non so come sollevarti.
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