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River/Rafael | Harlem | Maggio 2020

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    Ci sono state tante cose, nella vita, che mi sono sembrate davvero impossibili. La maggior parte di queste penso di poterle ricondurre a quell'instabile ed odiosa insicurezza che ha caratterizzato gran parte della mia adolescenza, quella che non avrei proprio potuto evitare nel sentirmi sempre circondato da un ambiente e da persone così fottutamente diverse da me. Sentirmi un intruso nella mia stessa famiglia mi ha reso incerto fino alla paranoia ed è qualcosa che non ho saputo accettare, che non ho potuto controllare come forse hanno fatto i miei fratelli. E' così e basta, non importa quanto posso apparire spensierato. Ma poi ci sono alcune cose, poche, sparse in un tempo che sembra sempre più infinito di quanto non lo sia veramente, che sanno sembrare impossibili e saprebbero farlo anche di fronte ad un uomo invincibile. Io non lo sono, invincibile, non lo sono mai stato, ma l'idea che il mio vero padre possa trovarsi in questo ristorante mentre io servo i tavoli è al di sopra di qualunque potere io abbia mai potuto conoscere. E' una fottuta coincidenza, una di quelle che non capitano davvero nella vita reale. Perché ci sono così tante variabili che ci hanno separati da prima ancora che io nascessi e così tanti mondi ad averci divisi, perché di tutti i tempi che esistono è difficile condividerne uno che sia unico con un estraneo, figurarsi con il proprio misterioso padre mai conosciuto. Insomma, non sono davvero sicuro che sia lui, ma ormai sarebbe un po' un caso anche se non lo fosse. E io non sono propriamente il tipo che ama rimuginare su queste cose, perdere occasioni, qualsiasi esse siano, o pensare a quanto diversa sarebbe stata la mia vita se ci avessi provato. Ho finito con queste stronzate, sono molto deciso a parlargli e anzi, lo sto praticamente già facendo nel momento in cui cambio i tavoli con il mio collega per avere il numero 12. Oh, che belle queste cose di cui ci si potrebbe un sacco pentire. «Buongiorno, benvenuto ed ecco il menù. Non è che posso farle una domanda?» E non mi fermo, non intendo farlo neanche per un secondo quando una sillaba si mangia l'altra e non sto davvero aspettando un suo cenno di assenso per procedere. Inspiro, una volta, quasi mi scordo di espirare ed ecco che altre parole stanno già cercando di espandersi con un sussurro in tutta l'aria che conosco. «Conosce, per puro caso, Ruth Southeil?»
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    Quando feci quell’incontro nel 2020 di cui non sapevo ancora nulla, iniziai a comprendere che forse c’era molto di più di quello che mi aspettassi di trovare, in quell’anno. Da che avessi ricordi ero sempre stato trascinato avanti da qualcosa, qualcuno di invisibile, senza che potessi avere davvero una spiegazione che riempisse di certezze tutti i miei dubbi e anche di fronte a Rafael quella prima volta, ne fui sommerso con quella violenza che a volte era tipica della mia concezione di un’esistenza che con me, sapeva essere violenta. Ma era solo una mia percezione, quella di trovarmi in mezzo ad una tempesta, in realtà il Tempo e tutto ciò che ne derivava, o sarebbe derivato, non aveva la concezione della crudeltà, di una malvagità che a me pareva tale. Il Tempo era un costrutto a sé stante e no, non aveva una coscienza come l’avevano le persone, incapace di provare rabbia e quindi il desiderio puramente umano di fare del male a qualcuno. Io, ero soltanto qualcuno che si era trovato in mezzo ad un insieme di scelte fatte da un me di qualche altro tempo e allora, pensavo che prima o poi avrei trovato una risposta per tutto. Ora quella speranza si è affievolita, un po’, arrivato a quest’età credo di essermi quasi arreso al fatto che no, non capirò mai se c’era una ragione, se ce n’è mai stata l’ombra. Quando Rafael si avvicinò a me non lo riconobbi, ovviamente, non l’avevo mai visto prima. Ma la sua domanda mi fece pensare immediatamente che forse lui aveva conosciuto me più avanti, o che forse era stata Ruth Southeil, che in qualche modo poteva significare qualcosa nello scorrere di eventi che avevo sfiorato soltanto. La ricordavo bene, Ruth, e lui le somigliava, ma non collegai subito quella sensazione ad una risposta concreta, mi limitai ad osservarlo ed annuire. «Sì, l’ho conosciuta tempo fa» per me, precisamente, erano passati sette anni. L’incontro con Ruth era stato una di quelle tappe obbligatorie che avevo dovuto rispettare, ma ai tempi era stato quasi un viaggio involontario. Sono tutt’ora convinto che significhi qualcosa la nascita di Rafael, che anche lui abbia un posto da qualche parte nel continuum di un Tempo che si innalza come onde anomale più grandi di noi, e può sommergerci, può trasportarci, può guidarci con furia e con pacatezza verso lidi che non avremmo potuto altrimenti immaginare. Mi chiesi, qualche minuto più tardi, come mai non me lo fossi venuto a dire che avevo avuto un figlio. O perché non fossi tornato a trovarlo qualche volta dal futuro, dopo quel momento nel 2020 in cui l’avevo saputo, ma la risposta mi si formulò rapida tra un pensiero e l’altro, oltre al fatto che sapendo che non l’avrei fatto, non lo feci mai. Ripensando a ciò che scoprii poi di Layla e della sua morte, credo che volessi semplicemente evitare di rovinare la vita a qualcun altro con la mia fumosa e anacronistica presenza. Poi, conoscendolo, compresi anche che era stato meglio così, che Rafael non voleva avere nulla a che fare con quel mondo incredibile di storie interlacciate tra di loro oltre le barriere della visione semplicistica del tempo che avevano sempre avuto gli esseri umani, in quegli anni per lo meno. Infatti, Rafael aveva quella tipica precipitosità tipica di quell’epoca. Come se stesse sempre correndo da qualche parte senza sapere nemmeno dove, inutile dire quanto mi sentissi distante da lui, quasi lasciato indietro in un punto in cui potevo soltanto guardarlo girare in tondo sullo stesso tracciato, com’era accaduto a me, ma per non andare da alcuna parte; alla sua vita, sembrava non ci fosse un seguito, per come la viveva. I miei penso che fossero riflessioni un po’ deluse, ma mi accorgevo anche all’epoca di essere uno… beh, uno stronzo a formulare quei pensieri riguardanti le scelte di vita di mio figlio. A trentatré anni ero ancora immerso fino al collo in quella visione di me stesso che potrei definire vagamente narcisistica, avevo questo pensiero di me che mi poneva al di sopra degli altri e non ci potevo fare niente, avevo visto già tante di quelle cose che ad altri non erano state concesse che non riuscivo ad evitare di considerarmi quasi un privilegiato. Un privilegiato che non riusciva a fare a meno, spesso, di sputare nel piatto dove mangiava, e quindi anche un ipocrita. Vedere una possibilità come quella sprecata mi fece arrabbiare, ad un certo punto, ma era una sua scelta e io non potevo andare da lui a fare il padre, per davvero, dopo che per venticinque anni, dal suo punto di vista, non c’ero stato mai. «Come mai questa domanda?».
     
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    Fino ad un secondo fa ho pensato di aver bisogno di una conferma; un gesto, una parola, uno sguardo che in qualche modo potrebbero essere capaci di dirmi che questa persona che osservo conoscendo già la verità è mio padre. In realtà non mi serve nulla di tutto questo, nulla di più di una figura che combacia ancora troppo perfettamente con quella che mi è stata mostrata tante volte, per motivi che ancora fatico a capire. Non so perché mia madre ha voluto farmi conoscere un'assenza in modo tanto insistente, ma so che ci sono delle somiglianze tra me e quest'uomo che nessuno di noi due ha voluto davvero provocare. O almeno questo è quello che penso, perché non so quanto bene possa conoscere mia madre e vivere un futuro in cui le sue azioni non hanno avuto alcuna grave ripercussione. Eppure il futuro da quel punto no sembra essere stato molto, per lui, non quanto avrebbe dovuto. River qui e adesso non corrisponde alla figura di lui che avevo immaginato, ma anche questo è qualcosa a cui ho dovuto pensare più volte, conoscendomi e conoscendo lui di rimando, attraverso le nostre somiglianze.
    «Non così tanto tempo fa, sembrerebbe.» A volte mi pento di quello che dico sotto voce ma mai abbastanza da tenermelo davvero per me, questa è indubbiamente una di quelle volte. Non so se posso fargli una colpa per ciò che sono, ma nel mio tono esiste l'ombra di questo possibile oltraggio e di mille domande che ancora non è il tempo di porre.
    «Lo sapevo. Il mio occhio infallibile mi diceva amico di famiglia o qualcosa del genere, raramente si sbaglia.» E prendo un respiro un po' più rumoroso, come se avessi davvero bisogno di più ossigeno quando non c'è altro a cui potrei aggrapparmi, niente che mi parli davvero di una scelta di cui non ho mai conosciuto origini e ragioni. Ci sono solo parole frenetiche che sanno nascondere un fiato spezzato, espressioni rapide che sanno fare da cornice sfocata ad occhi ancora troppo attenti, troppo ancorati a qualcosa che forse non è ancora successo.
    «Niente, ti lascio ordinare con calma. E' solo che mia madre mi ucciderebbe se sapesse che non ho salutato un amico.»
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    Mi sentivo in allerta, quella di non sapere mai chi potessi avere di fronte. Poteva essere Qohen. Tutti potevano esserlo e allora diventano attento a ogni dettaglio. Rafael aveva un atteggiamento strano e questo non sfuggì ai miei occhi, anzi, ebbero la funzione di ancorarli lì, incapaci di andare altrove ma con il desiderio di spingerli in un punto che avrebbe compreso qualcosa in più. Certo, mi dissi allora, che se fosse stato Qohen mi sarei trovato una pistola puntata contro, magari sotto il tavolo, o qualche altro marchingegno dei suoi di cui faticavo a comprendere le dinamiche. Ma, mi dissi anche, che poteva aver optato per un approccio diverso che non avrei potuto prevedere. Dopotutto un attacco in piena vista, seguito da un ovvio combattimento, avrebbe compromesso entrambi. Qohen ogni tanto dimenticava che anche io volevo ucciderlo. Pensava di essere lui a cacciare me, ma quando le nostre strade si incrociavano i ruoli si scambiavano ed ero io il Cacciatore. Per quanto avessi da tempo messo da parte quelle origini, non avevo scordato il mio retaggio. Non avrei mai potuto. «Aspetta,» lo dissi all’improvviso, quasi sporgendomi sul tavolo. Più serio e senza l’ombra di un sorriso aggiunsi: «Io non ho quel tipo di amicizie.» Il tono fu eccessivamente lapidario ma doveva essere un monito, in caso avessi avuto di fronte proprio lui, doveva avere il suono di una minaccia per far capire che io stesso, per primo, avevo capito, nonostante mi servisse una qualsiasi altra conferma. «Chi sei?»
     
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3 replies since 30/4/2020, 22:49   116 views
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