But i've been Waiting

River/Layla | Central Park | 18 Giugno 2011

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    All’epoca non ero ancora davvero la persona che sarei diventata. Avevo già compreso molto del tempo, o almeno, del nostro tempo, tanto da avere già quella sensazione assopita, che mi diceva che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato. Ho sfiorato così tanto quella data segnata sul mio diario, quello che ho iniziato a tenere per tenere traccia di ogni nostro incontro come lui mi ha insegnato a fare, e posso ancora sentire, anche senza sfiorarlo, la sensazione della pagina curvata appena sotto la pressa della punta della penna. Penso che da un certo punto di vista, quello sia stato davvero un inizio. In ogni senso, anche se io River già lo avevo memorizzato e scritto a fondo, in quel modo che anche nell’esserci incontrati in momenti così casuali, ma mai per davvero, mi avevano gridato quanto fosse importante, e quanto lo sarebbe stato. Ma, ancora, non avevo ben chiaro cosa fosse stato scritto dai nostri stessi pugni, da dei noi disseminati avanti ed indietro nel tempo, dispersi ma mai persi davvero, come se fossimo stati stretti chi sa dove, e chi sa quando, da un filo che ci ha resi connessi fin dal primo istante. Il mio primo istante, ed il suo. Qualche volta mi dico che ho letto troppo, che la mia stessa voce nella mia testa non è che quasi un’esagerazione nell’essere solo quel desiderio che diventa quasi cibo d’essenza, eppure in tutte le volte che ho provato a spiegarmi nel modo più razionale ogni nostro come o perché, non sono mai stata capace di trovare una risposta che non fosse pregna di un Destino che ci ha solo fatti incontrare e scontrare contemporaneamente in ogni nostro secondo insieme. Ero già piena di quella certezza, anche in quei giorni incerti in cui di promesse non ne esistevano, eppure potevo quasi sentirle come presenze che neanche nate, avevo visto consolidate nel suo sguardo. Era come se me le avesse raccontate, senza farlo, solo guardandomi, come se mi avesse fatto leggere poche righe o, ancora meglio, mostrato un’immagine che priva di parole, aveva ancora quel significato così carico di tutto da non poter far altro che abbracciarlo, stringerlo tanto forte da tenermelo fra le dita come un tesoro inestimabile. Non penso fossi davvero capace, in quel momento in cui mi muovevo e basta come se quello fosse un giorno qualunque, anche se con quella sensazione addosso che ti resta attaccata da un sogno, a tutte le implicazioni, ma come ogni cosa che riguarda noi, penso anche che fosse vero solo in pare. In un certo senso, penso di essere sempre stata pronta, in ogni istante, a tutto. Non perché avessi una conoscenza pregressa, ma perché esisteva davvero, come esiste adesso, quel qualcosa che, inspiegabile, ci aveva solo resi coscienti l’uno dell’altra, mostrandoci occhi contro occhi e palmi contro palmi come se ci conoscessimo già da sempre. Ed in effetti, è quello che abbiamo fatto. Ci siamo conosciuti da sempre, in un certo senso, senza mai avere un inizio di uno, che non fosse solo il continuo dell’altro. Dopo, solo dopo avrei pensato a quanto quelle due prime volte, fossero in qualche modo simili fra di loro, anche se io non avevo la consapevolezza di River nell’andare incontro a quel momento che di me, per lui, non conservava memoria. Eppure, in qualche modo sono ancora oggi convinta che nel vederlo lì, a Central Park, a leggere un libro, sapessi già che in qualche modo ci fosse qualcosa che avrebbe cambiato tutto ancora una volta. Che non era un caso, che non poteva esserlo. Era come una di quelle sensazioni che diventano concrete, restano scritte sulla pelle anche se non si hanno parole per descriverle, non esistono vocaboli che possono comprimerle in sensi che sono nati per essere più grandi, immensi, e perdersi e trovarsi ancora una volta in qualcosa che, non potrò mai smettere di crederci, ci aveva voluti così per davvero. Lo pensai anche quella volta, quando non mi sarei aspettata di vederlo lì, eppure sì. Me lo ero aspettato per come mi sentii in quel momento, quasi come se fosse normale, come se ci fossimo dati appuntamento proprio a quell’ora e in quel luogo, e a pensarci anche ora, sono certa che sia stato quello il motivo per cui i miei passi, mai casuali, mi hanno portata proprio lì. Ma mi stupii comunque, per qualche istante. Come una sorpresa attesa perché per tutto quel tempo, non avevo fatto che aspettare quel momento, senza mai credere neanche per un secondo che non sarebbe arrivato, ancora, il momento in cui lo avrei rivisto. Ne ero stata certa come ne sarei stata certa sempre, e anche all’epoca non potei far altro che sentire quella conferma crescermi dentro come fosse un respiro che scivolava dentro e fuori dai polmoni. Devo aver deciso di ignorare quell’altra sensazione, quella che voleva tenermi sull’attenti, o devo essere semplicemente stata incapace di ascoltarla quando ogni parte di me, sapeva solo volerlo raggiungere per entrare in quello spazio che già all’epoca, mi sembrava possibile raggiungere solo con lui. Per quello mi avviai con una certezza morbida, con la tracolla, piena di libri e quaderni come sempre, che mi sbatteva sulle gambe e qualcosa che fra gola e stomaco non sapeva conciliare il modo in cui mi sentivo. Eppure, mai una volta, mai, ho saputo provare anche solo quella che fosse una punta d’imbarazzo quando si trattava di River. Neanche quella volta, o nessuna che l’ha preceduta o che è venuta dopo. «River» solo il suo nome, quando fui abbastanza vicina. Solo quello, come se fosse l’unica cosa che importasse. E in fondo, lo era. Lo è sempre stato.
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    Devo dire la verità, non mi ricordo perché ero lì quel giorno. Quale missione avessi, che cosa stessi facendo nel 2011 a New York e per quale motivo, da dopo Layla tutti i miei ricordi precedenti di quella visita si sono cancellati perché hanno smesso di avere una qualsiasi importanza. Mi ricordo soltanto che prima di vederla, ero seduto su una panchina a Central Park, speravo di passare inosservato come al solito, rileggevo per l’ennesima volta un libro di Steinback che nemmeno era uno dei miei preferiti ma probabilmente stavo passando il tempo in attesa di fare qualcos’altro. Forse in realtà sapevo già di dover essere lì, forse avevo qualche appunto che chissà da dove arrivava, da un me stesso di un altro tempo o da una Layla di un altro tempo. Ero ancora abbastanza inesperto quando incontrai per la prima volta Layla. Un’inesperienza che non mi ricondusse subito al pensiero che poi, per il resto della mia vita, avrei mantenuto come automatismo ad ogni incontro. La prima cosa che pensai non fu di prendere il diario, controllare se avrei dovuto incontrare qualcuno o l’avevo già incontrato da qualche parte nel futuro, il mio passato; non fu neanche chiedermi se lei mi conosceva e io ancora no, se l’avrei conosciuta più tardi rispetto a quando l’aveva fatto lei. Il mio primo pensiero fu, alzando gli occhi da “La valle dell’Eden”, che quella ragazza sembrava sbucata fuori dal nulla solo per me. Avevo questa sensazione, che cresceva esponenzialmente ad ogni mio successivo secondo di silenzio, che quella ragazza era lì per me e c’era sempre stata. Proprio in quel preciso punto. È un sentore difficile da spiegare ma era come ascoltare il tempo arrotolarsi in sé stesso, ascoltandolo cambiare, nascere, crescere e morire contemporaneamente, nello stesso momento e in altrettanti così diversi, mutevoli e immobili. Naturalmente in quel momento non ho pensato a nulla di tutto questo, troppo complesso da fare per un pensiero istantaneo quanto piuttosto mi soffermai sulla sua figura, sul suo volto precisamente, in realtà, e mi resi conto solo che lei era importante. Non sapevo per cosa, se per me o se per il mondo intero. Seppi soltanto che Layla era importante in una maniera che si legava indissolubilmente ad ogni fiato che avrei avuto da quel momento in avanti, eppure rimasi zitto ancora per qualche istante ad osservare una ragazza con solo il mio nome tra le labbra e uno sguardo carico di aspettative che sentivo non avrei mai voluto distruggere. Non sapevo cosa dire, in effetti, se era arrivata da me in quel modo forse pensava che la conoscessi già, e che cosa avrei dovuto fare per non rovinare nulla di quello sguardo che ancora, dopo vent’anni, ricordo come fosse accaduto ieri. Non volevo che si intristisse. Non volevo che ci restasse male. In un lampo cercai e frugai nella mia testa ogni possibile risposta, una che non suonasse troppo brusca e che allo stesso tempo non desse l’impressione di essere un pazzo, qualcosa che mi avrebbe permesso di capire però, se sapeva che ero un Viaggiatore Temporale senza dirlo direttamente. Ed era complesso, impossibile quasi. Alla fine dopo essermi perso in troppi attimi buttati nel silenzio, scelsi la risposta che mi venne più naturale anche se anticipata da una scusa che penso fosse suonata quanto più sincera possibile perché davvero, realmente, mi dispiaceva non sapere chi lei fosse «Mi dispiace, ma io non so chi tu sia». Abbozzai un sorriso a quel punto, uno che si appese alle labbra e restò lì per poco tempo prima di seguire come un mimo le espressioni che invece nacquero sul volto di lei. Tra me e me ripetei che mi dispiaceva ancora una volta, ma non lo dissi di nuovo, lo lasciai lì senza una ragione precisa ed esistere a prescindere da tutto il resto, come se avesse un qualche senso che ancora non potevo comprendere ma che esisteva oltre ogni limite di concezioni universali.
     
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    L’ho detto che non ero pronta a quel giorno, e a quello che avrebbe significato. In un certo senso, penso di aver provato a spiegare a me stessa che sarebbe accaduto e perché, e quanto fosse importante che accadesse, senza farlo mai, e forse senza mai essere neanche capace di accettarlo, come se pensassi di poter quasi saltare direttamente al punto in cui era stato River in tutte le volte che ci eravamo già visti. Ma in fondo, sapevo da qualche parte che non era possibile arrivarci senza attraversare quella fase, quella che, vitale, era stata una a rappresentare uno dei nostri tanti passi, di quelli che erano tutti importanti, uno dopo l’altro e nel loro ordine disordinato che non prevedeva inizio e fine. Ma ricordo di come mi sentii in quel preciso istante. Ero convinta, in uno di quei modi infantili che mi sono rimasti scritti sulla pelle, che anche nel ritrovarci sconosciuti da un punto di vista, sarebbe stato di un genere diverso, ricordando come era stato per me vederlo apparire fra le fronde degli alberi a Pasadena, senza considerare di come io, in quell’occasione, io fossi solo una bambina stretta fra solchi d’erba e sogni immensi, ancora incapace di cogliere davvero quel senso che avrei imparato a conoscere solo dopo, maturando e trattenendo sempre quel ricordo con me così da poterlo capire, di anno in anno, sempre più a fondo. Non ero delusa, non ero arrabbiata, perché in fondo, mi ritrovai solo ad essere certa improvvisamente che quella consapevolezza che avevo sfiorato senza provare ad afferrarla mai davvero, incapace di disegnarmela fra i pensieri, fosse semplicemente arrivata così come doveva arrivare, così come arrivava sempre lui: inaspettata, e senza nessuna preparazione. Penso che per qualche secondo, mi sentii semplicemente persa. Ero abituata a guardare un River che di me sapeva tutto, conosceva anche cose che perfino io, di me stessa, ancora non avevo scoperto ed assaporate, e lo potevo capire dal modo in cui erano fatti i suoi occhi, da quello in cui si agitavano le sue parole, i suoi respiri, senza mai averne alcun dubbio. Trovarmi di fronte ad un River che di me non conosceva nulla, né il volto, né il nome, né la voce e neanche tutti quei piccoli dettagli che semplicemente rendevamo me me, mi fece sentire per qualche istante come se anche io avessi perso ognuna di quelle concezioni, come se improvvisamente fossi un colore uscito dalle sue linee, i suoi spazzi, e che confuso non sapesse più come appiattire la sua forma per rientrare in quella sagoma. Non so effettivamente quanto tempo rimasi ancora lì, immobile, a guardarlo con occhi che lo so, da quell’attesa spasimante trassero via ogni scintilla, mutando penso in modi infiniti fino ad arrivare ad una realizzazione che, per quanto non era colpa di nessuno, seppe comunque darmi quel colpo che un fiato me lo fece perdere e il cuore me lo strinse con un po’ troppa forza inclemente fra le dita. Ma ricordo che sorrisi comunque, in quel modo quasi malinconico, come se mi avessero appena strappato qualcosa dalle dita, e in fondo in un certo senso era così; ma avevo anche, ancora incerta e appena nata, la certezza che in cambio, mi era stato dato molto di più. Scostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio in un modo quasi imbarazzato, anche se non si trattava di quello, ed ero solo io che cercavo di dissimulare quel colpo come se una parte di me, potesse già saperlo che anche così, anche senza neanche conoscere il mio viso per ritrovarlo fra le sue memorie, non avrebbe voluto impartirmelo come aveva fatto nella semplice casualità di un tempo che per noi aveva scelto di scorrere in modo differente da tutti gli altri. «Immagino che sia arrivato quel momento» lo dissi più a me che lui, cercando ancora di tenere quel sorriso anche se sì, tremava in quel modo che non potevo davvero fermare, anche se ero ancora così certa, e con tanta forza, che per quanto potesse apparire strano, quello fosse un inizio. «Sono Layla, Layla Burton. In realtà ci conosciamo, anche se per te è un non ancora» lo dissi abbassando la voce, anche se non c’era nessuno di abbastanza vicino a noi da potermi sentire anche se avessi avuto un tono normale, e penso che fosse solo che, in qualche modo e senso, pensassi che fosse una di quelle cose che dovessero restare segrete, dovessero essere celate anche al vento, alle piante, a quegli alberi che crescevano diramati in quel parco piantato in mezzo al cemento, come una piccola oasi in un deserto grigio. «Aspetta» mi mossi solo per infilare le mani in borsa, aprirla per cacciarne il Diario dove avevo segnato solo quelle date con i luoghi che ci avevano già stretti insieme, quelli che per lui, in quel momento, erano un futuro che ancora non aveva sfiorato. «Me lo hai detto tu di farlo» lo allungai verso di lui, consapevole che sapesse già di cosa si trattasse o che, se non altro, lo avrebbe capito nell’aprirlo e trovarci solo quelle poche righe che poi avrei riempito tanto e di tante altre cose che ci appartengono oltre quelle date e quei luoghi che rappresentano i nodi delle nostre esistenze.
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    Le notai tutte le espressioni sul suo volto, esattamente come un pittore impressionista che riporta su tela ogni variazione dei colori della luce proprio mentre cambia e crea nuove sfumature secondo dopo secondo. In effetti, nella mia mente è proprio come se avesse ritratto il suo volto ed è per questo che tutt’ora, adesso, me lo ricordo così bene. L’ho impresso nella mia memoria come un timbro di inchiostro indelebile in tutti i miei cieli, in tutti i miei spazi di vuoto senza stelle così da poter ritrovare sempre lei e quel primo volto, quel primo sguardo carico di malinconia che in un certo senso, mi spezzò il cuore. Mi fece di un male che allora non avrei saputo comprendere perché non conoscevo Layla e non sapevo che cosa sarebbe diventata per me, eppure una parte di River già lo sapeva, intrinsecamente, e forse si trattava della mia anima anche se non sono mai stato bravo a comprendere questi metri di consapevolezza così eterea. Forse, il tempo che accade tutto insieme mi stava parlando dal futuro al passato e dal passato al futuro, comunicando a ciò che ancora non era accaduto ciò che stava accadendo e allo stesso tempo, ciò che sarebbe accaduto, cucendo tutti insieme in un unico filamento dorato che mi si fuse allora alla pelle e non si sfilacciò mai più. Neanche adesso è cambiato, e credo, ne ho una certezza devastante, che non cambierà mai. Se dovessi semplificarla potrei dire che io e Layla siamo sempre stati anime gemelle, destinati a vivere la stessa vita intrecciata in modi sconosciuti e conosciuti in sentori che ci si sono rivoltati contro innumerevoli volte senza mai concederci il lampo di sapere che qualcosa sarebbe andata in un modo inaspettato neanche quando era questo, esattamente, ciò che succedeva. Persino ora, che le cose sono cambiate in un modo tanto definitivo, posso dire che Layla è meno importante per me perché nonostante tutto, anche ora, proprio adesso, esiste un River che sta vivendo quel momento e altri milioni di River che ne stanno vivendo altri. Penso che, in realtà, io mi sia inoculato con forza l’obbligo di lasciare ad ogni River il suo momento e che queste parole, questa regola, l’abbia creata Layla le volte in cui io e gli altri ci siamo quasi incrociati nelle nostre strade e lei ha saputo essere la Layla di ogni nostro secondo per tutti i nostri secondi, diversa ma sempre identica e sempre la stessa. Sa essere estremamente assurdo eppure anche ovvio, ora come in quel 2011 in cui ancora non avevo idea di nulla, se non la consapevolezza bambina che lei era tanto importante quanto necessaria, come ossigeno, come terra e cosmo, come luce e buio, ed era già mia ancora prima che potessi comprendere che in effetti era esattamente così. Lei è sempre stata mia e sempre lo sarà anche ora, che non lo è più. «Layla» ripetei il suo nome mentre prendevo il diario, trattenendolo sulla lingua come si fa come aria che ha odori in sé, trasmessi dall’olfatto al gusto per descrivere e delineare una sensazione che coinvolge ogni molecola del corpo. Il diario fu una risposta abbastanza eloquente in realtà, non era una cosa che facevo con molte persone e in realtà, prima di Layla ce n’era stata soltanto un’altra, anche se questa visione dell’intreccio, guardata da diversi punti di vista può essere sia vera che falsa, un po’ come una realizzazione su carta di un ritratto picassiano che si apre e si smembra per essere visto da tempi diversi tutti insieme e contemporaneamente. «Ci conosciamo già abbastanza da averti detto del diario quindi» stavo riflettendo a voce alta, e quando mi accorsi di averlo fatto riportai in fretta lo sguardo su di lei. Dal suo volto avrei voluto cancellare quel sorriso malinconico ma non mi presi questo diritto, dissi soltanto che «Mi dispiace, non volevo che… ci restassi male. Ma non dirmi niente di come saremo poi in futuro, se ti ho detto del diario significa che sei importante per me e se sei importante, allora voglio che questo sia un primo incontro in piena regola, almeno per me, anche se da un certo punto di vista potrebbe esserlo anche per te». E sorrisi, le sorrisi con una dolcezza naturale che non avevo idea da dove venisse ma era lì ed era lì per lei, per nessun altro. Quindi mi alzai, riponendo il libro e porgendole indietro il diario su cui avevo fatto scorrere velocemente gli occhi. La guardai ancora con qualche ritardo di silenzio sulle labbra, piegate in una linea che non si raddrizzò ma anzi, si fuse ad un’osservazione che non riusciva a staccarsi dai suoi tratti «Ti andrebbe di fare una passeggiata?».
     
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    Ogni volta che il mio nome è uscito dalle sue labbra, da quella che per me è stata la prima volta fino ad oggi, mi è sempre sembrato come se aggiungesse qualcosa di nuovo ad ogni mio angolo d’esistenza. Come se così, quelle poche lettere imparassero a nascondere un segreto da svelare, e mille ormai confessati che insieme si poggiano come gocce di pioggia su un suolo che non aspetta altro che dar vita a stili d’erba rigogliosi. Anche quella volta non fu diverso, ed in quello, da solo, sapevo ritrovare la strada di scelte che avevo già fatto, e di molte che ancora lontane, si erano comunque poggiate fra le dita come rugiada che scivola con lentezza portando sempre qualcosa con sé. Avevo già, seppur piccola e ancora incosciente, la concezione di come passato, presente e futuro, per noi non fossero che nomi tanto astratti da non essere davvero possibile stringerli in prese che erano sempre state fatte per sfiorare, invece, quel tempo a parte che sarebbe diventato semplicemente il nostro tempo. Se devo essere onesta, in qualche modo sapevo sentirmi privilegiata. Non per qualche motivo fatto di una sensazione affondata nella carne, ma per qualcosa di più etereo, come del semplice fatto che fossimo lì, ancora una volta e per la prima, ad assaporare quella che era solo una traccia, un’impronta lasciata da tutto quello che saremo stati. Non erano pensieri lucidi, quanto più sensazioni che si smuovevano con quella lentezza che richiamava il trascorrere delle stagioni, sfumando poco alla volta una dentro l’altra per farmi ritrovare, in pochi e piccoli gesti, qualcosa che anche se nuovo, anche se sconosciuto, sapeva darmi un senso di certezza che non potrei mai descrivere. Ad oggi, non saprei dire se era perché in qualche modo, fossimo già certi all’epoca di tutto quello che saremmo stati poi, come una memoria scritta sulla carta che confondeva tutti i nostri passati ed i nostri futuri, o se fosse solo una certezza che mi ero spinta nel palpito dei respiri e che mi accompagnava come il soffio di un vento che mi spingeva sempre verso di lui. Rimasi con quel Layla rendendomi conto, in quel modo quasi infantile che non posso dire mi abbia mai lasciata davvero, di quanto fosse importante nell’essere la prima volta in assoluto, che le labbra di River riconoscevano quel suono premendolo su di me. Lo aveva pronunciato così tante volte, per me, eppure sapevo anche di come fossi testimone, allo stesso tempo, di quella che era stata la prima. Penso che ci fossero tante cose a corrermi nella testa senza suoni e, fra tutte, doveva esserci anche quel pensiero che si fece strada con dolcezza, quello che mi diceva di come fra tutte le versioni di River con cui avevo avuto a che fare, quella era la prima, l’inizio. Ero lì a guardare come si muovevano i suoi occhi la prima volta che mi aveva visto, sapendo già come lo avrebbero fatto poi, come se dalla fine del mondo fossi stata catapultata al suo inizio per poterlo vivere sulla pelle e sentirlo tanto mio, da non avere più nessun dubbio, ma solo certezze costruite poco alla volta. Mi rese così genuinamente felice che ancora oggi non so davvero spiegare il perché di quella sensazione che le labbra me le piegò in un sorriso solo per quello, un nome, un nome di cui dovevo già sapere, in qualche modo che sapeva di premonizione impronunciata, River sarebbe stato custode. Sapevo anche, in uno di quei modi che dovevano essere rimasti sepolti fino a che non era giunto il tempo di venire a galla, che non gli avrei mai raccontato di ciò che sapevo e ciò che per me era stato, ma che per lui doveva ancora accadere. In un certo senso, già all’epoca sapevo come volessi che proprio per quella sua natura che affondava nei suoi stessi momenti per assaggiarli ancora ed ancora da punti diversi, volessi regalargli quella sensazione di scoperta che non lasciava mai spazio a niente se non attimi che nell’essere i primi, per lui, diventavano una proprietà che nessuno avrebbe mai potuto togliergli. Penso che molto di quelle scelte erano state prese nel guardarlo quella che per me era stata la prima volta, con quegli occhi che, ancora oggi, ricordo come se fossero una presenza costante, e che a tratti temo di rivedere ancora dipinti sul volto che ho imparato a conoscere in ogni sua sfumatura. «Non ti avrei detto nulla in ogni caso» lo dissi con un sorriso, prendendo il diario per rimetterlo a posto e nulla mai mi convincerà del fatto che non fossi già in qualche modo consapevole del fatto che, prima o poi, glielo avrei mostrato, e per quello fino a quel momento non avevo fatto altro che riportare l’essenzialità di date e luoghi senza decori. Dopo sarebbe cambiato, quando invece del diario, ci sarebbero state quelle domande scambiate nel chiedere quanto tempo fosse trascorso, per uno e per l’altra, dal nostro ultimo incontro. Adesso lo so che se River è custode del mio nome, io lo sono di quei momenti e di quelli che non vivrà mai come ricordi sbiaditi da racconti, ma solo come istanti che si alzano e sono sempre, inesorabilmente, una strada che avanza e non torna indietro, ma diventa sconosciuta e per questo, sempre sua. «E questo è il nostro primo incontro per quanto mi riguarda, River Shaw» lo accarezzai con le labbra, con l’aria, quel nome che avevo pronunciato solo per sentirlo fluire uguale a sempre, eppure così nuovo e diverso da farmi sembrare quasi che aprisse un mondo nuovo, uno che avevo appena potuto scorgere solo in una sua parte minuscola, ma in cui adesso stavo entrando con passi che non sapevo rendere indecisi, né frettolosi, ma solo pregni di quella calma trepidante, che voleva scorgere e sentire ogni cosa così come lo faceva anche lui. Scostai ancora i capelli dietro le orecchie, in un gesto che mi lasciò il tempo di uno sguardo ancora verso di lui, un sorriso nuovo, come se mi fossi insegnata, e mi avesse insegnato lui, in quel preciso istante, l’importanza precisa dei nostri momenti, slegati da ogni tempo, ogni spazio, e solo esistenti nell’interezza di quello che siamo sempre stati. «Mi va moltissimo»
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    Ero inguaribilmente curioso. A quell’età, ancora così giovane, ero più curioso di quanto non lo sarei stato in futuro riguardo al passato di Layla, che spesso era il mio futuro. Quella volta lo fui tanto, così tanto che trattenendo ancora un po’ il diario tra le dita prima di renderlo a lei, sentii una forza magnetica trascinarmi gli occhi sulla copertina e osservarlo. Fu un istante, per me duro molto di più. La tentazione. Vile, meschina tentazione. Ancora oggi mi chiedo come feci a resistere a quella forza prepotente, ma credo in fondo, sia stato per merito suo. Dovetti alzare gli occhi poco dopo, mentre glielo porgevo, e dovetti poggiarli nei suoi. Lì, vi rimasero incastrati, da allora fino ad oggi. Da allora, per sempre. Aveva un volto così dolce, Layla Burton. Uno sguardo così pieno, gli occhi grandi e la pelle pallida. Piccole lentiggini sul naso. Labbra che sembravano morbide. Osservai i capelli venire nascosti dietro l’orecchio, la osservai sorridere e ne studiai il riflesso in quegli enormi occhi: mi catturarono. Le mie labbra si mossero allo stesso modo, ricalcando il suo, di una dolcezza delicata, di quelle che non ero abituato a sentirmi sul volto. Mi alzai a quel punto, ma senza riuscire a smettere di osservarla. Mi dissi anche di essere inopportuno a quel punto scostai lo sguardo altrove con il sorriso che, tenue, si smosse su quella stessa onda danzando altrove. Allungai una mano in avanti, con il palmo rivolto al cielo e un’esortazione a camminare in una direzione assolutamente casuale, «Prego, signorina», allora tornai a trovarla e ancora una volta, mi resi conto di essere inopportuno. Quella volta però non distolsi la mia attenzione. La trattenni lì, nel susseguirsi di passi lenti. Mi sembrava di essere sul limbo di una conoscenza di incredibile importanza, un’apprendimento maestoso, eppure di essere costretto a ridiscendere il burrone con lentezza, sporgenza dopo sporgenza, nonostante avrei tanto voluto lanciarmi giù nel vuoto ed assaporarne anche l’aria a sferzare sul volto. Curiosità. Soppesai per un secondo le parole, le domande che avrei voluto fare, erano tante e alcune inadeguate, quindi alla fine scelsi quella più semplice: «Allora, posso chiedere di cosa ti occupi?».
     
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