As all falls Down

Nova/Chester | 7 Marzo

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    Questa è una di quelle cose a cui non ho mai voluto pensare. Mai. Voluto è la parola giusta, quella più azzeccata, perché lo sappiamo tutti com’è che funziona la Vendetta. Ce l’abbiamo scritta nel sangue, insieme a tutto il resto, e sappiamo come funziona, come si insidia, e quanto sia comune anche contro di noi. Non solo da parte nostra, quando qualcuno muore e allora si parte in quel vortice che il sonno lo strappa finché respiri non si fermano e non c’è altro che sangue. Ma no, non parte solo da noi. Parte da tutte le parti, e allora lo sappiamo, lo sappiamo sempre bene che chiunque ci teniamo al fianco, potrebbe sempre finire in una situazione o l’altra. Ma non ho voluto pensarci, neanche per un secondo. Per anni, anni, non l’ho fatto, ed è solo perché lo sapevo che pensarci mi avrebbe solo fatto fermare, immobilizzare, reso incapace di muovere anche solo un passo contro qualsiasi cosa, qualsiasi essere, qualsiasi creatura, nel timore che qualche parte nascosta della loro esistenza avrebbe potuto ritorcersi contro tutto ciò che amavo. Non ci ho voluto pensare, come se fosse solo una di quelle cose che possono essere esorcizzate tanto più la mente non le sfiora, e devo essermene convinto. Sono stati i giorni peggiori della mia vita, e non pensavo che lo avrei detto dopo quella notte, quando la mia vita è cambiata. Non pensavo che potesse esserci di peggio, ma anche quella deve essere stata solo una consolazione, qualcosa a cui aggrapparmi per pensare che almeno il peggio era passato, e per quanto tutto andasse sempre più in malora, non ci sarebbe più stato un momento come quello. L’ho pensato anche quando Nova è diventata cieca, e questo avrebbe dovuto dirmi da solo quanto le mie fossero solo stronzate. Favole della buonanotte che non mi sono mai servite a niente, se non a illudermi di avere delle sicurezze che sono così facili da rompere, da fracassare, distruggere una dopo l’altra da restare solo appese ad un nulla che non fa altro che divorarsi da solo. Avrei dovuto esserci. È un pensiero che mi assilla, lo fa ancora ed ancora, anche nell’avere quella voce razionale che mi ripete che anche se fosse stato tutto com’era, probabilmente non avrei avuto neanche la possibilità di provare a tirarla via. A trascinarla da qualche parte dove niente avrebbe potuto sfiorarla mai. Ma non riesco a non sentire ancora quel tarlo consumare tutti gli altri pensieri, uno dopo l’altro, mangiandoli a bocconi di cui non è mai sazio, ma che li fanno a brandelli ancora ed ancora, senza lasciare spazio a nulla. Nulla. Non ho una speranza. Non ne ho nessuna. Che speranza dovrei avere? Sarà lì, è tutto ciò che so, e so che anche se fosse una trappola, una bugia creata solo per attirare qualcuno, chiunque, nelle fauci di una bestia, ci andrei comunque. Ci sto andando comunque, fidandomi solo della parola di uno psicopatico di cui conosco il nome perché mi si è stampato nella testa, e non si pulirà mai più. Vendetta, l’ho detto, è qualcosa che è parte di noi, e io so che mai niente, niente, sarà abbastanza per questo. Avrei dovuto esserci. Sempre lì, a masticarmi il cervello, a corroderlo, a dirmi solo quante sono le ore che sono trascorse, sempre troppo quando anche un secondo è un lasso di tempo enorme. Corro in quel modo che secca la gola, e quasi fa soffocare quando così arida, neanche i fiati riescono a scivolare come si deve nei polmoni, ma a me non interessa. Se non sapessi che è lì, se non sapessi che anche nell’incertezza è una possibilità, lo so che sarei già a cercare un modo, uno qualsiasi, di trascinarmi di fronte a lui e probabilmente morire e basta. Non m’importerebbe neanche di quello. Ma è tutto in secondo piano, lo è sempre quando esiste Nova, ed esiste in questo modo che non sa farmi girare la testa altrove, ringhiare con tutta la forza che ho nei polmoni per distruggere tutto quello che l’ha anche solo sfiorata con più rudezza, senza tutta la delicatezza che ogni cosa, ogni cazzo di cosa, dovrebbe avere con lei. Una parte di me, non vorrebbe guardarla, e la odio. Non vorrebbe vederla così mai, scacciare quest’immagine come se fosse solo un incubo, uno di quelli che mi sveglia nella notte e trova le sue mani a scacciare via quella che è stata solo la paura di un mondo che non esiste, e io la odio questa parte. La detesto. La anniento nel tenere gli occhi fissi invece, per quanto ancora lontana, prendere un secondo che serve solo a respirare ancora un attimo, uno, e desiderare solo uccidere. Uccidere. Uccidere e morire, e cancellare tutto, riavvolgere il tempo, esserci come avrei dovuto, non far esistere niente di tutto questo, cancellare ogni maledetto secondo che è trascorso e poterle dire che è stato solo un sogno, non è reale, è al sicuro. Mi viene quasi da vomitare, ma non lo faccio, riprendo a muovermi e forse sono ancora più veloce di prima, ancora con più forza, con tutto quello che ho. Come se raggiungerla adesso servisse davvero a qualcosa. Non lo fa, lo so che non lo fa. Che non posso prendere tutto e storpiarlo, cambiarlo, tirarglielo via dalla pelle, le ossa, le vene, la mente, e gettarlo così lontano da non lasciarne neanche la più piccola impronta. Anche se vorrei. Lo vorrei così tanto che mi si fissa nelle vene, mi si fissa negli occhi, in ogni parte, e non mi lascia andare. Neanche mentre mi chino, con fretta, con tutta la fretta del mondo, quella inutile perché sono passati giorni e io non ho potuto fare niente. Ci ho provato, ma non sapevo neanche dove guardare, ed ero sempre così consapevole di ogni minuto, secondo, attimo, da sentirmeli solo sbattere contro con forza e restare lì, a impormi di non urlare quello che avrei voluto urlare, e distruggere ogni cosa che avessi di fronte solo perché avevo bisogno di farlo. Non sarebbe servito, lo sapevo. Avevo solo bisogno di trovarla. Avevo bisogno che mi dicessero che non era niente, che scoprissi che non era niente, un caso, una faccenda che non aveva niente di tutto questo. Lo sapevo che non era così, ma ho pregato che lo fosse. Non so accettare che le sia successo. Non so farlo. Non davvero, non in quel modo che mi permetterebbe di non sentire le mani tremare, e i respiri comprimersi uno sopra l’altro. «Nova» lo mormoro, come se servisse a qualcosa, adesso, tenere la voce bassa, farla essere una carezza, per quanto rotta, devastata. Sfilo la giacca, lo faccio in un gesto che ha la rapidità di una necessità impellente, per poi smorzare il movimento e renderlo più leggero nel poggiargliela piano sulle spalle. «Nova» non so se dovrei toccarla. Mi dico di no, anche se ogni cosa di me implora per farlo, premerle una mano ovunque, una parte qualsiasi, basta che mi dica che è reale. Che è qui. Che adesso è di fronte a me. Allora lo faccio, piano, premendole le mani sui lati delle braccia, con l’attenzione più accorta che so avere, e anche più di quella. «Adesso ti porto a casa, va bene? È finita» non ha senso è lo so. “È finita” è un modo di dire che non ha nulla, perché non finisce, resta lì, sulla pelle, sulle macchie che le coprono i vestiti e mi stringono lo stomaco, lo ribaltano, mi fanno salire qualcosa nelle labbra che le porta a stringersi. A metà con quella voglia perenne di annientare qualsiasi cosa, a metà con la semplice consapevolezza che la sto guardando proprio adesso, così, con segni che sono già immobili sulla pelle.
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    Forse adesso dovrei essere confusa, ma non lo sono. È tutto chiaro quel poco che sento intorno a me. Rumore bianco. Lo sento come se fosse fisico, una patina solida sulla pelle che ancora fa male anche se il dolore è diventato qualcosa di diverso, un compagno da conoscere e un nemico da odiare, una supplica. Di quelle che mi sono sentita pronunciare così tante volte in questo tempo che non so a cosa corrisponda, se siano stati giorni o mesi, o anni. Sono confusa su questo, sulla cronologia, sul luogo in cui mi trovo, ma non sono confusa sul sentire me stessa. È chiaro quanto io sia da un’altra parte ora, non dentro il mio corpo. Quello è un posto inospitale. Lo è da un po’ ma lo è diventato con ancora più acredine quando sapeva essere soltanto una fabbrica di sofferenza, una gabbia da cui non potersi liberare e che continuava solo a riempirsi d’acqua per soffocarmici all’interno, senza pietà. Lui non ne ha avuta, lui non la conosce. Conosce le mie preghiere. Conosce i miei tentativi di resistere e una forza di volontà che è stata esigua perché non sono come loro, i Cacciatori, non sono abituata a queste cose e ho combattuto fin dove ho potuto, entro un limite molto basso che mi ha portato solo lacrime disperate negli occhi e implorazioni che non hanno ricevuto nessun ascolto. Non sono confusa perché so che sono da qualche parte, in un punto preciso altrove, non dentro un ammasso di carne che è stata dilaniata troppe volte per reputarla ancora un posto in cui rifugiarmi. Un piccolo spazio nella mia testa. Un angolo che mi sono ritagliata ad un certo punto, non so quando di preciso, nel momento in cui tutto ha iniziato a diventare meno imponente, insormontabile, il dolore, la costrizione, l’impotenza, e si è trasformato in quel rumore bianco che non ha colore ma è come se lo avesse. Nero. Non è un suono. È silenzio. Non ha corporeità. È ovunque. Non so cosa sto pensando. I miei pensieri sfuggono, viaggiano in direzioni qualsiasi senza un ritorno, a destra e sinistra, in alto e in basso, come se fossero contenuti in una bolla senza gravità. Galleggiano in un livello a cui non posso arrivare. So, razionalmente, che qualcosa si sta avvicinando e per un istante credo che sia lui e tutto si restringe alla sensazione di immobilità del mio corpo, si stringe ancora più su se stesso, lo fa in un moto automatico che ignora ferite che non so più se stiano sanguinando oppure se abbiano dimenticato anche loro come si faccia a piangere. Io l’ho fatto, ad un certo punto ho dimenticato anche quello insieme a me stessa e l’ho lasciato lì, tutto quel bagaglio di sale e acqua che sarebbe potuta diventare una pioggia sotterranea nella mia mente è mutato in un fiume secco, inaridito dall’impossibilità di qualsiasi respiro che non fosse trattenuto dalla sua volontà. C’era soltanto quella, nel nero. Lui e basta. Espanso in ogni millimetro dell’aria, dello spazio, di me. Sento la sua voce, ma non è la sua. Ci metto qualche secondo a capire che no, non è lui, non sono più lì e sono da qualche altre parte, ci metto un po’ a capire che questa voce è una voce che conosco e non mi fa sentire male. Non mi fa salire quella nausea rabbiosa che storce le budella dall’interno e minaccia di risalire in acido dentro le vene. Non è lui. Me lo devo ripetere quando sento movimenti così vicini perché il primo istinto è quello di scostarmi, lo faccio comunque uno scatto d’impulso che mi porta indietro di pochi centimetri in un fremito tremante. So di chi è questa voce. È una voce che ho aspetto di sentire, e che ho sperato di sentire per tutto il tempo, per ogni secondo pensavo a questa voce, e sapevo che sarebbe venuto a prendermi. Io lo sapevo che Chester sarebbe venuto a prendermi e l’ho aspettato per così tanto tempo, mi sembrano passati secoli anche se razionalmente so che non possono esserlo. Non è importante. Alla fine è arrivato e io lo sapevo. Dirigo la testa in avanti senza guardare alcuna luce, adesso che sono tutte spente «Chester?» scivola fuori con un mormorio roco che raschia su un voce che fa male in questo tono tanto basso da quasi estinguersi in sé stesso, ho pianto e ho urlato troppo tanto da graffiarmi la gola e consumare ogni suono. È una domanda incerta, perché ho quasi paura che non possa essere lui, che sia la mia psiche a giocarmi uno scherzo crudele «Sei davvero tu?». Non so perché lo sto chiedendo, se fosse davvero un’allucinazione o qualcosa del genere saprebbe come rispondermi per farmici credere e allora ci sono mani che avanzano a cercare qualcosa che nel buio sappia di lui. Stringo le dita su una stoffa più morbida, un maglione, è una presa che trema, si spezza nel suo incidere come si spezzano argini che dagli occhi fanno scoppiare temporali e singhiozzi sulle labbra. Stringo le labbra nel trattenere un respiro frammentato nei polmoni senza davvero riuscirci, mi sento lacrime troppo calde sulla faccia per non pensare al calore bollente del sangue, ma il mio corpo si immobilizza così. Ghiacciato sotto una cascata di lava.



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    Edited by hime. - 31/3/2021, 21:32
     
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    Per un secondo mi sembra quasi che la sua voce venga da un posto diverso, uno lontano, uno arcigno, corrugato e piegato su sé stesso. Penso di essere io a sentirla così, nel premermi in testa lo sforzo inutile di scivolare lì, ovunque sia stata, e da qualsiasi posto e istante venga tutto quello che adesso la ricopre. Non posso farlo, e la mia è un’impossibilità che sa di impotenza; di quelle che ti si abbattono contro, come onde, tempeste di sabbia che coprono gli occhi e diventano la tua intera realtà, con quella volontà silente di trascinarti in basso, così a fondo da non essere ritrovato mai più. Penso a tante cose, e sono tutte una più inutile dell’altra: a come utopisticamente vorrei ancora, ed ancora, ed ancora, che niente di questo fosse successo; a quali sono stati i secondi, i minuti, che si sono aperti su di lei e l’hanno afferrata trascinandola via, a cosa stessi facendo io nel mentre, senza neanche accostarmi al pensiero che lei potesse essere dentro qualcosa di terribile; penso a cosa avrei potuto fare di diverso, per quanto inutile, per quanto non serva a nulla se non a scavare la stessa fossa ormai talmente profonda da non intuirne una fine, né vederne un fondo. Sono i pensieri intricati di qualcosa che non è una colpa, non è una recriminazione, ma una volontà amputata che mi sono trovato qui, come un moncherino che è arto fantasma di cui ancora sento la presenza. Avrei dovuto esserci, ancora, sì, e non penso che smetterò di dirlo o pensarlo mai. Perché ci sarà sempre qualcosa che mi trascina lì, consapevole di quanto abbia cercato per tutta la mia vita, da che la conosco tutta, a proteggerla, proteggere Elsa, fino a spingermi così lontano da entrambe anche quando avrei voluto solo restare e non andarmene mai, e alla fine lei era sola. Era sola nel momento in cui, più di tutti, o di tanti altri, avrei dovuto essere lì, a sputare sangue perché fosse il mio, sempre e solo il mio, a correre sulla terra e infettarla. Era sola, e so quanto mi si stringa nelle vene questo pensiero, questo concetto che è un veleno di cui non esiste nessun antidoto. Era sola, e io non ero lì. A lottare, a provarci, a darle almeno il conforto di qualcosa, qualsiasi cosa. E non sono riuscito a trovarla. Ci ho provato, ancora ed ancora, senza fermarmi per giorni; scostando il sonno, strappandomelo dagli occhi quando non sarebbe mai potuto calare sul pensiero di saperla così lontana e da qualche parte che anche se avrei voluto sperare fosse diversa, sapevo che era così. La verità è che non so come affrontare tutto questo. Non so come farlo nella mia testa, tanto aggrovigliata da finire sempre negli stessi punti, incapace di procedere, incapace di tutto se non il guardarla con respiri che so essere gonfi nel petto, ed avere con sé qualcosa che sa di carne aperta, spalancata da tagli invisibili che non sono miei, ma in qualche modo sanno esserlo. Ho chiesto che stesse bene così tante volte. Solo questo. Che lei stesse bene, e che nostra figlia stesse bene, e che almeno questo potesse essere una realtà che contro tutto il resto, potesse premersi a ricordarmi che qualcosa esisteva. Lo faceva, contro le luci refrattarie di ogni macchina che ho oltrepassato, contro ogni rumore, e ogni silenzio. Mi sarebbe bastato questo, ma non è mai successo. Muovo le mani, lo faccio per farle salire dalle braccia al volto, stringendole piano, ma con questa volontà annichilente di farmi sentire, di farle percepire qualsiasi cosa che non sia ancora un lascito di quella che l’ha appena risputata da un buco troppo stretto e fatto di lame appuntite. «Sono io» un soffio, uno che vorrei avesse una forza che non so sentirmi adesso, anche quando dovrei averla più che mai per avere tutta quella che le serve così da potergliela donare, o lasciarla lì in un angolo dove almeno possa sentirne il calore. «Sono qui» muovo le dita per scostarle capelli dal volto, tenere un contatto che non so, sinceramente, se mantengo perché penso ne abbia bisogno lei, o se sono io a ricercarlo con quell’impellenza che mi brucia nello stomaco, e mi fa solo sentire la necessità di sfiorarla e non lo so. Non ho nessuna favola da raccontarmi, so solo sentire qualcosa che si contorce nelle mie stesse interiora, e mi lascia ancora impotente di fronte a tutto; di fronte ad un torto che hanno fatto a lei, e non avrebbero dovuto. Di fronte a quella che non posso non chiamare ingiustizia, e che mi fa solo sentire ancora il peso di giorni in cui ho girato in tondo, senza mai, neanche per un solo secondo, istante, momento, avere fra le dita la possibilità di fare qualcosa. Neanche la possibilità. Niente e basta. È un moto che costringo ad essere lento quello che mi spinge in avanti, a muovere le braccia perché la circondino, perché una mano si sposti piano dietro la nuca e me la prema contro con un fiato che si gonfia nel petto e per qualche istante, cerca solo di darmi il sollievo della sua presenza. Ma non funziona. Ho un sollievo che si è corrotto, macchiato, e che si piega male negli intestini. Fa male. «Non ti succederà più niente, te lo giuro» e non m’importa se è oltre le mie possibilità, non m’importa se non ho le capacità di fare una promessa del genere. Sarà così, fosse l’ultima cosa che faccio. Mi scosto appena senza mai lasciarla, non ora che non credo ne sarei capace, non ora che so quanto ho bisogno di sentirla e di farlo in ogni secondo, solo per sapere che è qui, e che se qualcosa ancora si avvicinerà ci sarò io. Anche se potrei non servire a niente, e so che è un pensiero stupido per questo. Ma ne ho bisogno. «Ti porto via» è un mormorio ancora, mentre mi prendo un secondo che è un respiro rotto fra le labbra, un rantolo che si arrampica dai polmoni e scivola via spezzato, con qualcosa che si gonfia nelle vene. «Ce la fai ad alzarti?» lo dico mentre già sposto le mani, lo faccio per renderle un supporto quando no, non ho intenzione di farla camminare, ma solo di metterla dritta così da poterla raccogliere ed alzare, portarmela ancora più vicina, contro, in quello stesso bisogno che so quando sia inappagabile e trattenga solo troppe consapevolezze mischiate nei fiati.
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    C’è un oceano che mi separa da tutto. Un abisso che mi separa da lui. Posso dire di vederlo, anche se non è così, posso toccarlo, come se avesse il corpo di un muro che si arrampica in alto, un’edera che corre verso il cielo e ricopre l’aria stessa per solidificarla nella forma di una ragnatela. Potrei scalare grattacieli interi per arrivare da Chester ogni volta, e so che lui potrebbe farlo a sua volta per arrivare da me, so che lo facciano sempre, ogni giorno di una vita divisa e condivisa con tutta la brutalità di cui è capace il dolore. Non è mai facile, ma adesso scalare una montagna mi sembra impossibile e mi sento così lontana da lui, da qualunque cosa, da avere l’impressione di essere solo un piccolo pezzo di legno che galleggia dentro una tempesta marina, trasportata tragicamente da correnti violente che possono soltanto buttarmi più giù. Giù, giù. Ancora giù. Soltanto giù. Lontana da tutto. Ancora penso che non sia giusto. Mi sembra di aver pensato queste parole così tante volte, mi sembra di averle dette infinite volte e ognuna di esse è un dejavù che si ripete in un ciclo costante di ovvietà. La mia vita è costellata di cose ingiuste, eventi, drammatiche costanti che si ripetono per avverare sempre la stessa identica profezia iniqua. Non è giusto essere nati in questa vita. Non è giusto averla guardata rompersi in mille pezzi. Non è giusto non avere abbastanza spazio per raccoglierli tutti e rimetterli insieme. Non è giusto che continui ad accaderci atrocità. Non è giusto continuare ad essere vittime inermi di due mondi che collidono in un buco nero che divora tutto ciò che ci gravita intorno. Siamo soltanto frammenti di una guerra costante, siamo le macerie di quella guerra, adesso più che mai mi sento così. Un pezzo rotto di qualcosa, terribilmente inaggiustabile. Per un momento penso che non voglio che mi tocchi, temendo che possa farsi male, che possa farmi male anche io, perché la mia pelle è ricoperta di spine da una parte e dall’altra, chiusa dentro la corazza di un riccio avvelenato. Veleno. Me lo sento dentro le ossa, su ogni parola che graffia per uscire risalendo lungo un percorso così impervio da richiedere uno sforzo innaturale anche per qualcosa di così naturale come respirare. Non esiste una via d’uscita e non è giusto. Ma è un’ingiustizia senza fine la nostra, ho le mani legate e vivo in un limbo tanto acido da corrodere tutto quello che vi resta intrappolato all’interno, lo è il mio corpo, una gabbia che mi ha tolto così tanto, dalla vista, alla libertà di fuggire, mi ha costretto ad una sofferenza che non pensavo fosse possibile provare, ma l’ho sentita e anche se ora i miei ricordi sono confusi resta così cocente la concezione di averla provata. Ho paura e lo so, anche se non la sento davvero. Non so perché piango, perché adesso non provo nient’altro che vacuità e istinti superficiali di un cervello che rimanda input di fuga, di preservazione, privi di alcun senso come se la causa ci fosse ancora pure quando si è dissolta nel nulla del rumore bianco. Però piango e continuo a piangere. Sento le lacrime e penso ancora al sangue. Sento i vestiti pesanti e so che è il mio sangue, seccato sulla stoffa, fradicia di punti in cui è ancora così fresco da essere rosso come il tramonto macchiato dello scuro di un dipinto antico. Vorrei credere che non accadrà più nulla, ma non ci credo, anche se lo so che Chester arriverà sempre da me come ha fatto questa volta, non è abbastanza per fermare il moto di quegli eventi che ci circondano e si stringono sempre più vicini. Sempre di più, fino a formare nodi che ci tolgono il fiato, piegano la pelle, la tagliano diventando lame dentro la carne. Perdo tutti i miei respiri contro di lui. Vorrei anche questo, che li tenesse tutti lui, tutti, che non me ne lasciasse neanche uno. Che mi facesse diventare la rappresentazione vuota di un pensiero e così, mi portasse via ogni cosa che adesso persiste da qualche parte dentro un corpo da cui mi sono allontanata e che ancora si muove contorto nei suoi spasmi di fuga, di una lotta che cerca sopravvivenza anche se dovrebbe essere tutto finito. Non lo sarà mai e so anche questo, so che non me lo toglierò di dosso, come non sono stata capace di portarmi via quell’aggressione di tanti anni fa che ancora mi fa camminare più velocemente nelle strade di New York. Resta. Resterà anche questo. Non sono sicura di potermi alzare ma i miei muscoli cercano di farlo, tenendomi così stretta a lui e aggrappandomi con più forza quando mi rendo conto che no, le mie gambe non mi reggono e tremano così tanto da farmi sentire in balia di un vento fortissimo. Gli premo una mano sulla spalla per tenermi più dritta, l’altro braccio lo sfilo oltre agganciandolo dietro il suo collo in un abbraccio così scomposto da non sembrarlo nemmeno.



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    Lo so che ho imparato a reagire a tutto in un modo e uno e basta. Uno che ha due facce, e che se spingermi negli opposti. Quando sono capace di controllare me, la mia mente, e i miei pensieri, è una calma che per quanto fittizia, almeno sa essere il pelo d’acqua che non si scuote, non si agita, e mi permette di avere qualcosa che anche se non posso chiamare distacco, diventa almeno una parvenza di controllo. E poi c’è quell’altro lato, quello che invece si alza e non vede altro che rosso, e si contorce per farmi cercare qualcosa, qualsiasi cosa, che ne diventi centro ed obiettivo, anche quando non esistono colpevoli e sono io a trascinali al centro di un tribunale senza giuria. Non sono nessuna di queste due cose, non davvero, ma sono quello che sono diventato quando tutto e cambiato, e adesso so solo quanto non vadano bene. Né una, né l’altra, perché non so essere calmo, non ora, neanche per finta, in superficie, e lo so che se lasciassi parlare la mia rabbia, partirei verso qualcosa che di me non lascerebbe nulla. Mi sento spezzato. Spezzato in tutto quello che non sono, in tutto quello che forse sono stato, ma chi sa quando, chi sa quanto tempo fa, troppo per essere capace di trascinarmelo sulla pelle e renderlo ancora mia; spezzato in tutto quello che non sono, e che è tutto ciò che mi è rimasto quando sono stato esiliato da me stesso prima che da chiunque altro. Ma so che anche nel trattenerla, nel farlo adesso solo perché c’è Nova a divorare tutto il resto, risucchiarlo in quel modo che non lascia spazio a nient’altro, quella rabbia è lì, e sarà tutto ciò che avrò fra qualche ora, quando l’unica cosa che saprò pensare è come prendere una Vendetta che Vendetta non è davvero, ma più un bisogno viscerale di cancellare qualsiasi cosa le abbia fatto del male. È la rabbia che conservo da sempre, da anni, da quando ha tutto iniziato a crollare poco alla volta, senza che potessi capirlo. Ed è perché sono qui, adesso, con solo la consapevolezza di quanto ancora sia semplicemente impotente. Di fronte a tutto, ad ogni cosa, a tutto quello che ci è successo e, ancor di più, di fronte a quello che è successo a lei, in un contino che di dolcezza non ne ha avuta, e mi ha lasciato solo a guardare da un punto così distante da desiderare, qualche volta, di non vedere e basta. Ma l’ho fatto sempre, senza mai scostare gli occhi, come lo faccio anche adesso mentre cerco di contare i secondi, di contare i segni che le si sono impressi addosso e raccontano una storia che mi urla nelle orecchie, e mi fa solo venire voglia di annientare ogni cosa, tutto. Questo è quel tipo di dolore che non si spiega, e non si cancella, perché non è per me. Non si piega sulla mia pelle, ma sulla sua, e mi trattiene appena fuori, oltre il limite della pelle, impossibilitato a raccogliere tutti i pensieri che si accumulano dietro i suoi occhi e non hanno voce. Non perdonerò mai niente e nessuno, mai. Lo so che nella mia testa, sto già pensando che non m’importa cosa mi costerà una Crociata che è iniziata nel momento in cui è sparita, e ho avuto quel panico misto a speranza che ha saputo durare solo qualche ora, prima di diventare una preoccupazione nera che mi ha tenuto con la mente attiva a cercare qualsiasi indizio, avanti ed indietro per tutti i punti in cui sapevo doveva essere passata, cercando quello che l’aveva vista sparire e finire chi sa dove. Ma dopo, adesso, adesso esiste solo lei. Lei e tutto quello che non posso fare per lei, nonostante non sappia desiderare niente più di questo. Fare qualcosa, qualsiasi cosa, per lavare via ogni respiro che è avvenuto prima di questo, e non lasciarne neanche una traccia. Lo farei, se solo potessi, prenderei tutto sulle mie spalle, la mia pelle, per liberarla. Ma ci sono limiti che niente può superare, e restano qui a scavare fosse che ci mettono qualche istante appena a diventare burroni senza fine che promettono solo cadute rovinose. Mi muovo rapido, lo faccio per seguirla nell’alzarci, senza davvero lasciare che resti sul suo peso, senza davvero lasciare che si metta dritta, ma solo abbastanza da poterla prendere da dietro le ginocchia per sollevarla, chinandomi in dietro per un secondo così da poter muovere un braccio per sistemarle la giacca addosso, prima di premerlo di nuovo dietro la sua schiena. Penso da qualche parte che devo avvisare tutti, penso che devo portarla da qualcuno che possa guarirle le ferite e penso che tutto questo è così irrilevante, adesso, da trascinarlo solo in un piccolo spazio della mia mente mentre inizio a camminare per muovermi verso il punto dove ho lasciato la macchina. «Andiamo a casa» lo ripeto, lo faccio con un respiro che mi trema nelle narici, come se nel dirlo ancora ed ancora, potesse acquistare una consistenza precisa, una che non si sfaldi, e che possa emergere sopra tutto quello che si agita tutto intorno. «Elsa è da Tess» parlo più per farle sentire la mia voce, ancora ed ancora, che per dire qualcosa. Parlo perché ho bisogno di sentire la sua di voce, che sia per un mugugno o un sussurro, un fiato che ha un suono. La verità è che non c’è niente che possa dire, niente, che possa davvero servire a qualcosa. Non adesso, e forse mai. E lo so, ed è questo che scava nella carne e non lascia pace né tregua, ma solo un fremito che non promette nessuna estinzione.
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    Non ci avevo pensato. Non a mia figlia, non a nessuna delle mie sorelle. Non avevo pensato a nessuno se non a me, fino a qualche secondo fa quando sono risaliti in superficie due nomi che hanno scatenato una serie di pensieri così violenti da sommergermi. Mi lasciano a boccheggiare nell’irrigidimento di muscoli, tesi nello sforzo di fare non so cosa perché sono tra le sue braccia ora e dovrebbe essere tutto apposto, ma niente lo è. Non ho pensato a mia figlia. L’ho fatto all’inizio, prima che tutto diventasse un incubo in cui poi ho perso qualsiasi pensiero razionale che non fosse il tentativo disperato di farlo smettere. Avrei fatto qualsivoglia cosa per farlo smettere, lo so, ad un certo punto avrei rivelato qualsiasi informazione in mio possesso, ma non mi ha chiesto niente. Non voleva sapere niente e io non so perché l’ha fatto, non so perché mi è capitato tutto questo se non che è stato per colpa dei Crain. E inizialmente ho detto no, ho pensato che no, non avrei mai dato una colpa a nessuno per quello che stava accadendo, ma con il passare di quel tempo infinito è cambiato tutto e più di ogni cosa, credo di essere cambiata io. Ancora di più di quanto non l’abbia già fatto la vita che ho da quando Chester se n’è andato, di più e di più, da quando sono cieca, da quando ho perso tutto ciò che era più importante. Sono cambiata ancora e credo di essere arrabbiata, in un punto sepolto della mia anima bruciata, a cui adesso non ho alcun accesso. Lo ero anche prima ma adesso è diverso, è una rabbia ostile, una rabbia che odia con la ferocia gelida di qualcuno che ha raggiunto il limite della sua disperazione. È la rabbia di qualcuno che è stanco e non abbastanza da sentirsi costretto a sedersi, ma nell’essere obbligata a restare ferma con le mani legate le sento prudere di una forza nuova, corrosiva. Sono arrabbiata per così tante ingiustizie e per le mie, per l’inerzia e l’accidia con cui ho vissuto in questi anni, quella che ho trattenuto ancora quando ero di fronte a lui e non avevo niente da poter fare se non subire passivamente tutte quelle atrocità. «Elsa» alzo la testa verso la sua come se potessi vederlo, stringendo prese che si fanno così tremanti nel tentativo di impugnare una forza che mi manca nei muscoli tirati abbastanza da vibrare di quella fiacchezza obbligata dal corpo, dalla mente. Le mie parole sono sospiri spezzati sulle labbra ma corrono veloci, incespicando nella mancanza di un fiato che sia integro «Che cosa le avete detto?» ora ci penso, ora. A lei, a tutti gli altri. A tutti quelli che per una colpa che non conosco potrebbero aver rischiato esattamente come me. Mi rendo conto che non so niente, nulla, non ho idea del perché e soprattutto, non ho idea di che cosa è successo mentre io non c’ero. Non so quanti giorni sono passati. E perché Chester era qui, proprio qui, quando lui finalmente mi ha lasciata libera e mi ha lasciata sola. Non so niente e lentamente lo realizzo, lentamente nella testa ma rapidamente sulla bocca che asfissia respiri su domande gettate via una di seguito all’altra «Sta bene? Stanno tutti bene? Se l’è presa solo con me?».



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    Edited by hime. - 1/4/2021, 21:49
     
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    Non le ho detto niente. A Elsa. Vorrei poter dire che è perché sono un bravo padre, e non volevo angosciare la mia bambina prima ancora di sapere cos’era successo. Ma non è andata così. Non ne sarei stato capace, in nessun caso. Non sarei stato capace di guardarla e metterle sulle spalle una notizia del genere, mai. Non sarei capace di sopportare il suo sguardo, e lo so. Lo so che è stato questo, prima ancora di un pensiero logico e razionale. Non ne ho avuti, anche se le mie azioni e le mie parole lo sono state, ma è stato solo un automatismo, un’abitudine che penso tutti noi, Cacciatori, abbiamo scritta nelle ossa insieme a tutto il resto. Mi sono mosso con quella, per raggiungere tutti i punti che dovevo, e spostarli come dovevo, metterli al sicuro, all’allerta. Ma non sarei stato capace di guardare mia figlia e dirgli che non ero stato capace di fare niente per sua madre, che non avevo idea di dove fosse. Stringo i denti. La verità è che siamo così abituati al fatto che toccherà a noi, prima che a tutti gli altri, che non penso siamo pronti a situazioni del genere. Anche se lo sappiamo, lo sappiamo anche se non vogliamo saperlo, che potrebbe succedere. L’ho detto, la vendetta va sempre su più fronti, ma io non mi sono mai preparato all’evenienza di dire ad Elsa che era sua madre quella che era andata. Mai. Neanche per un secondo. Quindi non le ho detto nulla, e non potrei dire mai che è stato per seguire la struttura logica di doveri che sono ancora miei, nonostante tutto. Ho pensato solo a tenerla lontano da tutto, almeno lei. Ma anche lì, lo so che la maggior parte di me, aveva solo bisogno di saperla lontana, e senza neanche un’ombra di dubbio negli occhi. Non per lei, ma per me. Prendo un respiro, tengo gli occhi dritti di fronte a me, lo faccio per qualche secondo, mentre nella mia testa raccolgo i punti di quel giorno. Tre giorni fa, eppure a me sono sembrate ere mosse sopra un filo sottile, tanto da essere quasi impossibile camminarci sopra. E giù, di sotto, solo una condanna. Solo la fine. Ma adesso che sono dall’altro lato non c’è gioia, solo altra miseria. Diversa, ma anche ugualmente crudele, subdola, di quelle che si infilano sotto la pelle, sotto le unghie, sporcizia che ha una consistenza dura che ferisce la carne più molle. «Stanno tutti bene» lo dico per primo, abbassano appena il capo, anche se non può vedermi ma lo so che ha i suoi modi per sentire i miei movimenti, e riconoscerli dal fruscio della voce, del corpo, di qualsiasi cosa. Stanno tutti bene, ma non ho pensato neanche a questo. Mentirei se dicessi che c’è stato anche solo un secondo, un attimo, in cui la mia testa è andata a pensare che anche loro avrebbero potuto essere in pericolo. Non l’ho fatto. Ho pensato solo a lei, lei, lei, lei, come un mantra rotto nella testa, le labbra, gli occhi. Scritto storto sopra tutto il mio mondo, un neon fracassato che manda via scintille elettriche che sanno solo promettere scosse mortali. «Solo con te» devo scostare gli occhi, farlo adesso che sento ancora la mascella indurirsi, e uno scatto percuotere i muscoli, renderli duri per un istante. Solo con lei. Solo con lei. Ma solo è una parola riduttiva, una parola che non descrive davvero quello che è, non per me. Non è solo, non quando è lei. Non quando è Nova, e in quel solo c’è metà del mio mondo. Letteralmente. Tutto stretto lì, fra quattro lettere e quello che trattengo adesso, letteralmente, fra le braccia. Avrei dovuto pensare agli altri, ma non ci sarei riuscito, non oltre la superficialità di concezioni che mi hanno portato ad andare a casa sua e restarci con Rexana, portare Elsa da Tess. Avvertire tutti. Ma non sono riuscito ad andare oltre, costretto in una voragine che era tormenta nella mia testa, e non sapeva davvero farmi staccare dal solo ed unico pensiero importante: dovevo trovarla. Iniziava e finiva tutto lì, in un vortice che faceva ruotare tutto intorno al suo fulcro e non concedeva a nient’altro di esistere. «Ad Elsa ho detto che dovevi lavorare molto, e che quindi avevi bisogno di stare un po’ tranquilla» o qualcosa del genere, la verità è che non me lo ricordo davvero. Non mi ricordo cosa ho detto a mia figlia, perché pensavo ancora ed ancora che ogni secondo era un secondo perso, e che sarei dovuto stare fuori a cercarla. «Sta bene, era tranquilla» torno ad abbassare il volto per qualche istante, prima di puntarlo di nuovo alla strada ignorando tutto, ogni cosa. «Io sono rimasto da te con Rexana, mi ha aiutato nelle ricerche, ma non siamo arrivati a niente, è al sicuro anche lei»
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    Adesso non capisco. Adesso sono confusa. Perché quello che dice non ha senso, collide con troppa forza contro una convinzione che per me è ancestrale. Chester non avrebbe mai avuto bisogno di dirmi che ci sarebbe stato se fossi stata in pericolo, perché l’ho sempre saputo che era una realtà ovvia, scontata. Lo sapevo anni fa, lo sapevo ore fa, anche sotto una paura terrificante che mi faceva scorrere così tanta acqua sulla pelle da annegarmi nelle mie stesse lacrime. Lo sapevo che sarebbe arrivato e questo mi ha fatto sentire sicura anche dove non lo ero. Mi ha fatto resistere fino a quell’ultimo secondo quando ho capito che non ce l’avrei fatta più, ma è stato molto più tempo di quanto avrei mai potuto immaginare. Poi c’è stata la liberazione di un momento e dopo essermi resa conto che non ci sarebbe stata una fine, perché non voleva niente da me, sono tornata ad attaccarmi al pensiero che lui sarebbe arrivato e mi avrebbe portata via. «Non siete arrivati a niente?» è un pigolio così leggero che faccio fatica a sentirlo io stessa, non ha il coraggio né la forza di alzarsi con una voce meno incerta. Come se persino il mio tono avesse paura di uscire e rivelare che sono ancora qui, che non sono protetta e che potrebbe succedere ancora. «E allora come hai fatto a trovarmi?» adesso ci penso, però, e mi ricordo. Ricordo che non è arrivato a portarmi via, no, lui è arrivato dove ero stata lasciata come un pezzo di immondizia ormai inutile. Ora ricordo, anche se non l’ho mai dimenticato e ho soltanto dato per scontato una realtà che si è sovrapposta a quella vera riscrivendola in pochi secondi. Non è arrivato nessuno. È soltanto finita da sola. Nessuno mi ha salvato, nessuno mi ha trovato, Chester l’ha fatto soltanto quando lui ha voluto che venissi trovata. Vorrei cancellarmi dalla faccia le impronte di un pianto che è durato per pochi secondi, già arrestato quando mi ha sollevata per prendermi tra le braccia e sostenermi in questo galleggiare senza meta, come fosse una boa in mezzo all’oceano. Non lo faccio però, ho paura di toccare la mia faccia, ho paura di toccare qualsiasi centimetro del mio corpo e per la terza volta nella mia vita penso che mi va bene non essere costretta a vedermi, neanche per pura casualità quando un riflesso cerca di sfuggire allo specchio. L’ho pensato quando sono diventata cieca, quando i miei occhi erano bruciati nelle orbite e non sapevo che aspetto avessero o avrebbe avuto. L’ho pensato dopo quell’aggressione in città. Lo penso ora, lo penso in un modo così stanco che mi si affloscia sulla pelle diventando un peso morto che non devo sopportare perché anche questo, è solo un dettaglio che scivola con meno durezza rispetto agli altri. Pochi sono quelli che mi colpiscono ma in fondo lo so che fra qualche giorno sarà diverso, che la mia testa avrà il tempo di mettere insieme tutti i miei pezzi e allora ricollegare i tratti di un disegno che sarà orribilmente reale. Sarà diverso quando realizzerò quello che è successo e che Chester non mi ha trovata. Che è finita soltanto perché l’ha voluto lui e questo, mi fa sentire ancora in trappola. O scoperta al centro di un bosco che nella sua penombra nasconde milioni di pericoli sottili, in agguato, pronti a colpirmi. È un moto istintivo quello che hanno le braccia di stringersi contro di lui. Anche se adesso mi sembra quasi inutile, nella parvenza di essere tutti, ognuno di noi, vulnerabile a qualcuno che nemmeno so chi sia. Io non so chi è, me lo domando, esce con una voce che graffia e trema «Chi è?». Io non so chi sia, non so perché, so soltanto che è successo e vorrei capire come mai, in onore di chi devo ergermi dietro questa rabbia che arriverà con il tempo di un gocciolare quieto. Vorrei saperlo come mai, ancora una volta, qualcuno ha semplicemente deciso da qualche parte che dovevamo essere noi a subire le conseguenze di qualcosa che forse per un momento ci ha sfiorato ma non è mai stata generata dalle nostre mani. Ingiustizia, questa parola mi si è incisa nelle ossa per ogni ferita inferta. Mi si è scritta sulla pelle per ogni secondo di questi anni, passati lontani perché ci sono mondi che sono capaci soltanto di odiare e io non l’ho fatto, non l’ho mai davvero fatto anche se credevo di sì. Ma lo sto scoprendo ora e sto scoprendo di esserne capace, sto scoprendo, secondo dopo secondo, che cosa voglia dire avere una belva che reclama carne per potersi sfamare finalmente dopo secoli di digiuno e invece, doverla continuare a guardare morire di fame perché neanche adesso ho del cibo per lei.



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    Vorrei dirle di sì. Vorrei dirle che ci siamo arrivati, che ci sono arrivato, e non per qualche soddisfazione eroica di gloria. Solo perché possa pensare che non c’è posto, cosa, o essere, che possa prenderla senza che io la trovi. Che non ci sia posto, luogo esistente o anche solo immaginato nei pensieri rigurgitati di qualcuno, dove io non possa raggiungerla. Vorrei dirle questo, ma sarebbe una bugia. Fino a quattro giorni fa era per me una certezza. Ero sinceramente, onestamente e stupidamente convinto che non ci fosse niente dove non potessi seguirla; crollarle dietro, di fronte, diventare uno scudo e nulla di più. Non m’importava essere altro. E ne ero sicuro, così tanto che mi ero lasciato convincere da me stesso, così tanto che mi sono cullato da solo in una fantasia che sì, lo so, mi serviva. Mi serviva quando c’erano tutti quei chilometri a dividerci, ed ero sempre troppo lontano, troppo, per poter fare uno scatto e raggiungerla se mai fosse successo qualcosa. Avevo bisogno di raccontarmi che qualsiasi cosa fosse successa, l’avrei trovata e raggiunta, così da poter macinare quei metri sotto i piedi senza stare sempre lì, a voltare indietro lo sguardo, a pensare a tutto quello che sarebbe potuto accaderle in ogni secondo che mi trascinava dall’altro lato del continente. Ma mi è caduto tutto addosso, come lo fa sempre, e per un attimo penso a quanto vorrei che non cadesse anche su di lei. Vorrei tenere questa illusione almeno sulla sua pelle, conservarla in un modo che, forse, basterebbe a non farle sentire questo mondo così come lo sento io proprio adesso: una bestia. Feroce, delle peggiori, di quelle silenziose e metodiche, con neanche l’ombra di uno scrupolo fra le fauci. Ma ho bisogno anche che sia attenta, ora più che mai. Che lo sia in un modo che non vorrei le appartenesse, perché è di quelli che conosco, e che sono ad un filo troppo sottile da una paranoia costante che tiene sempre i sensi all’erta. Sento una punta d’odio risalire dal fondo, diventare quella scintilla che per un secondo resta con me, mi tiene compagnia nel tempo di un respiro. Se ne va, mai del tutto, ma si nasconde in qualche angolo mentre tengo gli occhi sulla strada, e mastico pensieri uno dopo l’altro, uno sull’altro, in una corsa che esiste solo nella mia testa. Non siamo arrivati a niente. Neanche ci siamo andati vicini. E lo so, Cristo se lo so, che è parte di tutto. Rilasciarla prima ancora che potessimo anche solo capire cosa stava succedendo, annichilire ogni tentativo sputandoci sopra come se fosse tutto un gioco. Lascio andare un respiro dalle narici, lo sento bruciare la pelle nel suo tragitto, come se fosse una fiamma che si accende e si spegne ancora ed ancora in un moto continuo. Abbasso lo sguardo ancora una volta, tenendo d’occhio la strada con la periferica, stringendo per un secondo le labbra come se avessi ingerito dell’acido e stessi cercando di non emettere suoni, nonostante stia consumando il mio corpo dall’interno. «Non ti abbiamo trovato, Nova» lo so che sono parole che potrebbero non voler dire niente, ma non è così. Sono macigni che raschiano il fondo, giù, a mille e mille chilometri dalla superficie, e devo trascinarli tutti verso l’alto. Uno dopo l’altro. Lettera per lettera. Parola per parola. Vorrei non dirlo, creare qualcosa di diverso, qualcosa che non sia così duro, ma è un lusso che non posso permettermi finché esistono cose come lui, lì fuori. Cose che non so come affrontare. Cose che forse, non posso affrontare. «Un Banditore: Sirthareth. È un Luogotenente, uno della strettissima cerchia di Samenar» lo snocciolo con durezza, senza essere capace davvero di nascondere la rabbia che fuoriesce dalle parole come lava da un vulcano, a rigurgiti che strabordano sbuffo dopo sbuffo, e colano densi sopra tutto il resto. Non sono capace di nascondere la punta di una ferocia che abita le mie costole, è diventata solida per cospargersi come una corazza sopra i miei organi ed infettarli allo stesso tempo, rendendoli coriacei, ma anche malati di una rabbia incurabile. «È stato lui a dirci dove ti avremmo trovata e quando» anche questo lo mastico, lo faccio con un disprezzo che non è leggero, ma ha sentieri profondi nelle corde della mia anima. «Non sapevo neanche che fosse stato lui a rapirti prima che ce lo dicesse» lo so che devo stare attento a come dire quello che so, attento anche nel mettere plurali lì dove non ce ne sono. Non c’è nessun “noi”, e io ho saputo tutto solo dalle labbra di Morgan. Non avrei saputo niente altrimenti. Neanche l’ombra di un sussurro. «Non dobbiamo parlarne adesso, Nova. Lo faremo, ma non adesso» prendo un altro respiro, lo faccio in un modo più lento, per placare ogni cosa e cercare, provare, a concentrarmi solo sul fatto che lei sia qui, adesso. Vicina. Che non può toccarla più niente, almeno per ora. Ma è solo almeno, ed è già un’ossessione che mi sporca i pensieri, macchia il sangue, e resta a galleggiare senza diluirsi mai come olio sull’acqua. «Adesso pensiamo a te. A curarti, almeno» quando non posso fare altro, e anche questo è così poco. Ma non ho davvero avuto la possibilità di fare nulla, incastrato nei miei limiti come un topo in gabbia.
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    È paradossale come un solo momento, una sola frase, sia capace di far crollare una convinzione costruita negli anni. Così forte da dirmi, con una voce sua e parole sue, che non si sarebbe sgretolata mai. Ma era una convinzione, non una realtà. E adesso è così evidente da far franare la terra sotto ai miei piedi. Non sono al sicuro, non lo sarò mai quando abbiamo contro di noi creature come quelle, e non basterà avere lui accanto a me anche se dovesse decidere di restare, non basterà niente a fermarli. Non ho mai usato delle “colpe” per attribuire un crimine, per i miei occhi, per quello che è accaduto a Chester. Per la nostra famiglia distrutta. Ho sempre cercato di giustificare tutto e tutti, qualsiasi Cacciatore e qualsiasi società malata e distorta in cui vivere, credendo di odiare ma senza esserne davvero capace. Eppure adesso nella testa ho qualcosa di diverso, qualcosa che non ha la mia voce ma che è diventato mia, non l’aveva prima per lo meno, però adesso ha acquisito i miei stessi toni e neanche se volessi, credo che riuscirei a sradicarla da quell’ammasso di ostilità che è cresciuto tra un organo e l’altro, dietro le ossa, dentro le ossa. Ora so di chi è la colpa, e anche se non voglio dirlo con un tono pieno di volume, so che lo penso e so che questo è abbastanza per cambiare tutto. Per ridisegnare un volto che nel mio buio è già sfocato e irrecuperabile, trasformarlo comunque per descriverlo con parole diverse che sanno di rancore, imperdonabile pregnanza. Non mi fa stare bene, ma credo che sia questo il punto dell’odio, non fa stare bene. Mai. Però mi fa sentire nel giusto e per una volta, credo di esserlo, credo di esserlo ovunque, in tutti quegli angoli della mia vita distrutti a cui prima trovavo sempre una scusa. È la società, è la loro mentalità, sono cresciuti così, anche io lo sono, doveri e sacrifici, bene e male. Sono tutte cazzate. Non si rendono conto di quanto dolore hanno causato, e se lo fanno passano oltre perché i Cacciatori fanno sempre così, vanno avanti, e io non lo posso più sopportare. Io li odio, tutti. Li odio e vorrei condannarli alle stesse pene che abbiamo passato io e Chester. Ma è solo un desiderio che arriva dalla rabbia e so perfettamente che non farei niente per renderlo più reale di quello che è già, perché so anche che la maggior parte di loro soffre già, solo che non mi basta. Adesso sono tante le cose che non mi bastano più. «Okay» lo mugugno appena, a labbra strette, quasi masticato tra i denti. Uno sbuffo che non saprei dire se è nervoso adesso, o infuriato, di una collera soppressa. È vero, non c’è ragione di parlarne ora e in ogni caso, quello che volevo sapere l’ho saputo, chi era e perché, ma questo me l’ha detto lui ancora prima che lo chiedessi. Sirthareth. «Il grosso è già stato sistemato, la Dea mi ha curata ad un certo punto. Ma non so quando, ho ricordi confusi» parlo piano, con un tono che adesso si assesta di una piattezza monotona, ed è che sono semplicemente stanca di parlare. Non so perché ancora lo sto facendo, probabilmente in fondo voglio soltanto che lui risponda, voglio solo sentire la sua voce. Ancora e ancora. Per sempre. Vorrei che non andasse via mai più, anche se ho capito anche questo, che non serve quando ci sono cose come quelle, troppo potenti per poter anche solo difendersi e per assurdo, ne sarei più capace io. Lo sono stata, non abbastanza ma lo sono stata più di quanto lo sarebbe stato Chester probabilmente e questo mi fa pensare anche a quello che ho fatto e che avevo dimenticato, aveva perso d’importanza fra tutto il resto. «La mia anima» esordisco con la stessa bassa tonalità, come fosse qualcosa che a me non tange più di tanto e in effetti è così. So quanta ne ho bruciata, so che ancora non è un problema, non davvero, anche se so quanto se ne preoccuperà Chaz e non vorrei, ma non posso impedirglielo e soprattutto non posso nasconderglielo «Ne ho bruciata un po’, non tanta».



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    Lo sapevo che sarebbe successo. Lo sapevo da quando è venuta da me, mesi e mesi fa, tanti da avere la consistenza di anni fra le dita. Lo sapevo, l’ho saputo in quell’esatto momento, che prima o poi l’avrei sentita dire qualcosa del genere. E lo sapevo che avrei pensato, nel modo in cui lo penso ora, che non sarebbe mai dovuta arrivare a tanto. Neanche in principio, non in nulla, e che se ci era arrivata avrei dovuto fare di tutto per impedirle la resa necessaria di utilizzare un patto che da lei chiede tanto. Sapevo che sarebbe successo, perché mi conosco, e lo so che per quanto vorrei essere muro di metallo, diamanti, cemento armato che si frappone fra lei e tutto, non posso esserlo. Non lo sono. E ho pensato mille volte in questi mesi, mille in più di quante ne abbia volute ammettere nel mente che quegli stessi pensieri arrivavano come imbarchi di pirati nel pieno della notte, con cannoni che esplodevano e grida per le strade, che era successo e sarebbe successo perché ci sono cose che sono troppo per me. Per lei. Per chiunque. E che per quanto voglia pulire questo mondo, anche adesso, anche così, non vedrò mai il tramonto di un’era fatta di sangue. Non ne sentirò neanche arrivarne la presenza, con il cielo che imbrunisce e nel suo diventare terso promette un nuovo giorno. Lo sapevo, e lo so, ma non avrei potuto prepararmi in nessun modo. Neanche se mi ci fossi concentrato, e me lo fossi stretto nella testa tanto a fondo da non lasciarlo andare, ma trascinarmelo sotto pelle ancora ed ancora. Non ne sarei stato capace, perché come sempre non so affrontare il pensiero di perdita o sacrificio quando è sulla pelle di Nova che si srotola, e chiede e pretende di quei prezzi che sono sempre troppo alti, troppo perché possa esserci un pensiero alfiere che me li fa riposare fra le sinapsi con sospiri di accettazione. Ma lo sapevo, ma questo saperlo non impedisce a qualcosa di indurirsi da qualche parte fra nervi e muscoli e farmi solo pensare fra voragini di miseria cos’è che vorrei fare adesso, oltre questa stretta che sento rendersi più impellente contro di lei. Lo so, lo so com’è che funziona la mia testa orami, e come ci siano binari che non hanno bivi e non prevedono freni, ma solo ruote di ferro che sfrigolano contro le insenature e causano scintille che vogliono solo essere l’origine di un’esplosione. Lo penso adesso, così nitidamente, che quasi mi si cancella la vista in un momento in cui il mondo sbianca e ragiona solo a contorni rosso fuoco. Ma ho un respiro che cerco nel fondo di polmoni sempre più stretti, sempre più compressi fra sé stessi come se cercassero di immagazzinare la forza di un ringhio che scava già le pareti della gola, fino a farla bruciare. Vorrei dirle che non avrebbe dovuto, ma so che invece è di questo che si tratta. Che ha dovuto. E sono sul precipizio di grazia e pentimento, a chiedermi se rilassarmi nel pensiero che un’arma l’ha avuta, o condannare il mondo per il suo prezzo eccessivo. Lì, fermo, con vertigini che nella caduta mi spingono da un lato all’altro senza farmi vedere quel’è il punto in cui atterrerò. Stringo la mascella, ancora di più, afferrando lembi di guancia interna in un gesto che gli occhi me li tiene puntati per un attimo oltre questa strada, oltre i miei stessi passi, in una lotta interna che ha sempre me come unico sconfitto ai piedi di altari vacui a cui ho rivolto tante preghiere da consumarli nel loro marmo mai eterno. «Che vuol dire non tanta» mi schiocca fra i denti come una frusta nell’aria, che non colpisce nulla se non un vuoto che è suono che si espande e minaccia il niente sotto di lui. Vedo l’uscita, la stessa che ho preso al contrario, per addentrarmi pieno della stessa speranza e gli stessi timori che ho adesso, a combattersi nel petto in una guerra che è solo causa di sfinimento indicibile. Abbasso gli occhi, lo faccio piano, con un timore che non so spiegare, e ha tutte le parole di ogni fobia che abbia mai covato nella mia mente in tutti questi anni; trattate come paranoie che adesso sono una realtà che è lava contro la pelle. Vorrei dirle che non avrebbe dovuto, perché avrei trovato un modo di arrivare da lei. Ma sarebbe una bugia, la stessa che mi scava nel petto, con quel bisogno spasmodico ed impossibile di diventare una verità che non si spezzi, ma si materializzi per essere l’unica possibile. Ma resta bugia, nonostante tutta questa volontà. Resta bugia, nonostante tutto l’impegno che ci ho messo, e che ancora avrei potuto metterci. Una bugia che adesso è quel muro immenso contro cui sbattere con forza, ed è solo segno vivente di una realtà che ci ha rivestito. Non mi aspetto una risposta, perché la mia non è una domanda. Non è un punto interrogativo, né uno esclamativo, né un punto e basta. Un segno che non ha grammatica, bloccato fra troppi pensieri, capace di farne eruttare solo alcuni in modo insignificante, e privo di contesto. «Mi dispiace» è quello che viene dopo e se ne sta qui, ovunque. Mi dispiace. Di non esserci stato, di averci provato invano, di non essere stato capace di squarciare il mondo e ritrovarla anche piantata nel suo nucleo fuso e ribollente. Di essere arrivato solo alla fine, quando ormai era stato già tutto fatto, quando ormai era già tutto finito, e non c’era altro che un permesso che mi ha permesso di trovare la strada e superarla fino a lei.
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    Gli spiegherò tutto poi, lo dico a me stessa più che a lui, perché mi sento la voce affievolirsi piano sulla lingua e trovare sempre più difficilmente la strada per fuoriuscire dalle labbra, anche se solo con un soffio. Credo di essere stanca, davvero troppo stanca per fare qualsiasi cosa, di quella stanchezza che si incastra nelle ossa e appesantisce le palpebre, mi chiede di riposarmi, di dormire per giorni interi e di svegliarmi quando quello che è successo sarà diventato solo un incubo. Ma non lo sarà mai. Sarà sempre qui, invece, a ricordarmi e ricordarsi che ci sono stata davvero, anche se sarà confuso come lo sono gli altri ricordi traumatici che ho, sprazzi di immagini, parole, sensazioni che svaniscono come spuma di onde rabbiose, collise contro la scogliera della mia memoria che cade a pezzi. Non sono mai stata davvero preoccupata per le condizioni della mia mente. Adesso un po’ lo sono. Mi sembra di guardarla dall’esterno e vederla come un organo che si dissangua, tra incubi folli, allucinazioni nascoste tra un sospiro e l’altro di oscurità, ricordi disegnati su strade dissestate, quella sensazione perenne di essere una preda. La mia mente, la mia anima. Lo so, sono troppo ferita e non è qualcosa che dovrei ignorare, anche se sono ferita di lesioni invisibili che nessuno può vedere, nemmeno io. Adesso penso di aver intrapreso anche io una strada rovinosa come le mie sorelle, che sia follia oppure semplicemente la perdita di sé stessi, c’è qualcosa che si sta rompendo sempre di più e questo lo sento. Lo sento dentro di me. Non siamo state brave a non andare troppo oltre come nostra madre, noi abbiamo esagerato e adesso ne stiamo pagando lentamente le conseguenze. E io credevo di aver imparato a misurarmi, forse l’avevo fatto ma ho avuto un istinto di preservazione che ha superato qualsiasi buon senso. Mi ero promessa di non tagliuzzare la mia anima, ma l’ho fatto, sono quel genere di cose che non si possono riparare, resterò per sempre senza un pezzo di me e lo so, lo so perfettamente, che non mi farà bene. Non farà bene alla mia sanità mentale, e per questo penso di dover fare a Chester uno di quei discorsi che potrebbero cambiare tante cose, forse tutto. Gli devo spiegare esattamente come stanno le cose, perché potrebbe esserci un pericolo che nessuno di noi ha considerato. Lui potrebbe morire, ma io potrei svanire proprio dentro questo corpo, ed è qualcosa di cui dobbiamo essere consapevoli per Elsa. Perfettamente consapevoli. Ma glielo spiegherò poi, perché adesso sento di star perdendo di vista un discorso o l’altro, e di starli guardando da una prospettiva sbagliata. Mi arrampico su di lui per arrivare a sfiorargli il volto con una mano, spostandola solo quando la sostituisce una pressione di labbra, leggera, di passaggio quanto parole che gli soffio sulla pelle «Non è colpa tua». So di chi è la colpa, e non è sua. Non potrebbe esserlo mai, non per me.



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    Non riesco a non essere arrabbiato in questo modo che mi spezza i polmoni; un modo che non è definitivo, e non ha quel rancore acceso tanto da bruciare tutto il resto. È quella rabbia che viene dall’impotenza, e non sa dove andare a sbattere quando abita in stanze troppo strette che non le lasciano uscita. Anche se mi dico che non dovrei, che a lasciarla respirare potrebbe solo peggiore, e farsi tanto grande da rompere pareti e frantumarle, e farmi tornare in quel punto da cui sono riuscito a scivolare via solo dopo mesi. Ma non so neanche dirmi che sia sbagliata adesso quando la guardo, e penso solo che niente di tutto questo sarebbe dovuto succederle. Potrei tornare indietro di anni ed elencare ogni cosa sbagliata che le è accaduta, e che non aveva nessun diritto di farlo. Ma sarebbe inutile. Lo so che è questo che alla fine freme fra i muscoli, questa inutilità che di sfoghi non ne possiede, e può solo divorarsi da sola come un intestino cannibale che produce troppi succhi e finisce per consumare il corpo che lo ospita. Prendo un respiro, lo faccio nel guardarla in un modo che vorrebbe credere che ci sia una soluzione, nascosta da qualche parte. Un po’ più in là magari, un punto che può essere raggiunto anche con mille e mille sforzi, e così tanto sudore da prosciugare il corpo, mi andrebbe bene. Mi andrebbe bene anche un deserto arido che da me chiede tutto per poter arrivare lì, da qualche parte in cui possa essere nascosta una promessa di qualcosa di migliore. Lo farei, e non dovrei neanche pensarci, perché lo so che in molti momenti della mia vita, è stata lei quella che ho messo di fronte a tutto, ogni cosa, perfino me. Non mi è mai importato di quanto potesse essere sbagliato, perché ho sempre saputo che non sarei stato capace di perdonarmi di non aver fatto così, e di non aver spinto Nova di fronte ad ogni altra cosa, ogni dovere, ogni credenza e certezza. Lo farei anche ora, se solo sapessi che serve, e se anche non ne avessi la certezza, mi basterebbe un dubbio a farmi andare ovunque. Ma non è così, e ho un respiro profondo che scivola dalle narici, mentre gli occhi li tengo puntati ancora su di lei quando non mi importa della strada, o di quello che abbiamo intorno. Vorrei chiederle domande che lascio ad aspettare per un momento diverso, uno che non sia questo in cui ho solo il bisogno di trovare un modo per rendere calma la sua mente, quando non so neanche come sia adesso. Non ne ho idea, ma so che non può essere nulla di pacifico. Vorrei crederle più di quanto faccio adesso. Vorrei crederle più di tutto, e togliermi da questa equazione, e anche se nella logica lo so, lo so, che non sarei riuscito a cambiare niente, c’è tutto il resto che mi grida che non importa. Avrei dovuto provarci, ed essere lì per poterlo fare. È sapere che fosse sola, che in quel momento non ci fosse nessuno con lei. Sapere che è stata l’ultima cosa, prima che andasse anche peggio mentre noi non facevamo che agitarci senza piste in una città che sembrava averla inghiottita e nascosta nelle sue viscere. Ma è stato peggio, e questo lo so anche se non posso saperlo davvero, ma solo immaginarlo con una mente che lo fa perché non mi risparmierei di farlo solo per allontanare il pensiero e tenerlo abbastanza lontano da non ascoltarlo. Me lo spingo invece nelle meningi, in ogni centimetro della mente, nel guardarla ancora prima di stringere gli occhi e mettere più fretta ai miei passi. Per portarla a casa. Un posto che sia morbido, sia sicuro, sia pulito, e che si trasformi in base ad ogni suo più piccolo bisogno. Lo so che una parte di me, sta già pensando come affrontare tutto questo. Come prevedere conseguenze che ora restano oscure, ma che sono come zolfo nell’aria e hanno un odore tanto pregnante, da annunciare la loro presenza anche restando nascoste. Le premo le labbra sulla fronte, piano, ma con una costanza che resta per qualche istante, mentre so che non so come risponderle. Non ne ho idea, perché ora non potrei spiegarle tutti i perché della mia testa, o tutti quei pensieri che si stanno aggirando dietro gli occhi da giorni. Non ora, non adesso che l’ho detto, voglio che pensi solo a sé stessa, e voglio che tutto il mondo, tutto, si pieghi per creare quello di cui lei ha bisogno. «Va bene» ma è un va bene che lascia le tracce di qualcosa che verrà dopo. Perché non la lascerò. Non questa volta, e abbiamo tutti i dopo che vuole, tutti i secondi, i minuti, le ore ed i giorni. Tutti. Non andrò da nessuna parte, e adesso tutto il resto che non sia lei non è importante, neanche un po’.
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