PARK'IN FEST

[EVENTO] - 22 Settembre 2021

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    E invece... Josh

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    26.
    Una promessa era una promessa. Anche se posta implicitamente, come quel bicchiere di birra umido dalla condensa che continuò a stringere in mano. Se lo ripeté così tante volte da sentire di poterne uscire pazzo. Lo fece mordendosi le unghie e camminando, avanti ed indietro, sotto quello stesso palco e poi dietro le quinte. Claustrofobico, perché seppe di poter usare solo gli occhi per cercarla: Che trovare un posto più appartato per liberare le falene senza esser minimamente visto significava rischiare troppo, così come di sperdere la propria aurea in quel modo, in quell'istante che gli sembrò terribilmente eterno e che finì per rompersi, come fosse di cristallo, al suono della voce di Josh.
    Si sentì morire dentro nel percepirlo così vicino: Era stato così occupato nel cercare di rilassarsi e, al col tempo, di ritrovare Alice, da non essersi nemmeno accorto di come quei venti minuti fossero già passati ed il concerto fosse finalmente terminato.
    Finalmente, ma solo se le cose si fossero risolte diversamente. Nel voltarsi verso di lui lasciò scivolare il bicchiere dalle mani. La birra si sparse lungo le sue scarpe e così anche la cannuccia, che venne immediatamente calpestata.
    Lo guardò ed il tempo gli sembrò dilatarsi ulteriormente. Rimase ad osservare il suo sorriso spegnersi come fosse girato in slow motion. Fece persino fatica a rendersi conto di chi altro fosse nelle vicinanze. Di quante persone fossero e di quale canzone stesse andando con il DJ Set. Non sentì più nulla se non la fiducia di Josh, probabilmente, morire in quel preciso istante.
    Ma deglutì e quello significò per lui riprendere a respirare o quantomeno, a spingere l'aria giù per i polmoni, ma anche lungo la trachea. Che a forza di farlo male, probabilmente, avrebbe persino rischiato il singhiozzo. E non gli fu chiaro se il problema fosse aver perso di vista Alice od aver deluso le sue aspettative. Quell'egoismo latente. Quelle manie di protagonismo, probabilmente, lo misero al centro dell'attenzione altrui. Al posto della bambina, al posto di ciò che doveva essere davvero importante in quel frangente.
    ''Alice è nel tuo camerino, vero?'' E lo disse come se quell'affermazione mista a domanda potesse in qualche modo sistemare la situazione. Farla tornare indietro di una mezz'ora ed impedirgli di perdere tempo ad osservare Ray fumarsi la sua sigaretta. Quella che gli aveva offerto, prima di sapere che da lì in poi non sarebbe successo nient'altro. E chissà cosa cazzo si aspettava Chrys: Forse voleva raccontargli del matrimonio con Joshua. Forse, forse era solo curioso di sapere se era riuscito finalmente a farsi una vita o quantomeno, a sistemare la sua. '' Dimmi di sì.''
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    Chrys
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    27.
    Sento un tecnico imprecare per come la birra possa rapidamente raggiungere i cavi e rovinare mesi di lavoro, ma sinceramente non me ne frega un cazzo. Sono così serio che posso sentire la mandibola stridere e lamentarsi di come io la stringa nel serrare le labbra a forza. Non me ne frega un cazzo del modo che hanno intorno a me di muoversi le persone. Niente mi sa distrarre dal punto focale su cui concentro ogni fottuto movimento di merda: Chrys. Lui e la sensazione di merda che mi prende lo stomaco e che già so non mi piacerà per niente. E sì. Sì esiste un momento egoista del cazzo in cui non guardo dove sia Alice, e non mi chiedo perché non gli sia immediatamente dietro, non me ne preoccupo perché temo che lui abbia fatto qualcosa che possa mettere in crisi tutto. A tre fottute ore di merda dalla mia partenza. E lo sento, è palese come sappia innervosirmi e no, non lo risparmio solo perché è lui, forse so giudicarlo ancora più aspramente in quel "che cazzo hai fatto?" che mi sale attraverso lo sguardo. Mezzo passo verso di lui.
    Alice non è nel mio camerino. E l'attenzione si dirama in punti che fanno più paura di così. Ha perso Alice. «No... era venuta a cercarti. Doveva tornare da te.» Mi esce con un tono che si fa ringhio molto, molto basso. Anche troppo quando mi rendo conto che non vorrei minacciarlo così, che non vorrei mi brillasse nessuna fottuta vena sadica addosso. Ed invece ce l'ho e per poco non faccio scintille nel posto meno consono e più propenso ad andare in fiamme ad un battito di ciglia. Per un cortocircuito ci vuole poco, pochissimo. Invece faccio il bravo, ma solo perché mi sta pregando di dirgli che Alice è con me, perché è preoccupato, perché forse è già piuttosto pentito di essersela fatta sfuggire. Per questo mi fermo. «Merda» Stiamo perdendo tempo.
    Stringo i pugni lungo le gambe, chiudo gli occhi e per un fottuto attimo mi immagino il niente assoluto. Ma c'è troppa gente e non posso sondare nessuno, non posso neanche incazzarmi come vorrei perché una sola fottuta cosa pensavo sarebbe riuscito a farla. E lo so che non è solo colpa sua, ma cazzo gliel'avevo affidata proprio per evitare questo. Ero sicuro che l'avrebbe tenuta con sé.
    Ma ero anche sicuro che lei sarebbe tornata con lui. Gli faccio solo cenno si seguirmi, dobbiamo spostarci, dobbiamo cercarla, ma devo sapere tutto quello che ha fatto. Così lo trascino con me ancora un po', finché non restiamo in un angolo più buio tra la folla che si sposta e l'inizio delle bancarelle.
    «Quando l'hai vista l'ultima volta?» so che sembra un fottuto interrogatorio, è quello che è. «Mi ha detto che tornava da te prima che salissi. Dove cazzo eri Chrys?» Ho un punto di agonia al centro del petto e non vorrei, cazzo non vorrei dirlo nel modo in cui mi esce, ma invece non so fare altrimenti. Ringhio. Dov'eri?
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    Slater
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    Slater annuì piano, con calma, come se temesse che un semplice gesto avventato potesse farla scappare via. Ma non era questa la vera ragione. Fissava i suoi occhi, cercava qualcosa in quegli orizzonti azzurri, un contatto che non voleva spezzare. Impresse un tono morbido nella propria voce*, soffice quanto lenzuola di seta pronte ad accoglierla candidamente, non era facile, soprattutto per lui. Aveva bisogno di richiamare a sé tutta la propria concentrazione e quando aprì bocca cercò sul viso della bambina l’effetto di quell’incantesimo.
    “Sì, la conosco. È qui”
    Sorrise e allungò una mano verso di lei, “posso aiutarti a trovarla, se vuoi. Non aver paura”.
    Scostò una ciocca di capelli dal suo viso per portarla dietro l’orecchio, “le assomigli moltissimo, lo sai?” mormorò spingendo anche nella voce, oltre che sulle labbra, un sorriso. Non c’era niente di cui preoccuparsi. Niente.
    Non allontanò le dita dalla sua tempia, ma disse “hai fatto tanta strada per arrivare fin qui, non è vero?”. Lo chiese con gentilezza, ma non aveva bisogno che rispondesse, ciò che voleva sapere era nascosto nella sua mente e senza troppe difficoltà riuscì a seguire il percorso frenetico dei suoi pensieri attraverso le peripezie che l’avevano portata fino a lì*.
    “Sei una bambina straordinaria” disse e annuì. Lo era davvero, molto più di quanto si fosse reso conto, o di quanto forse sapessero i suoi genitori. “Il tuo nuovo papà lo sa quanto sei speciale?”, gli bastò chiederlo e ancora una volta non ebbe bisogno di alcuna risposta. I pensieri della bambina corsero velocemente da Joshua al suo vero padre e così riuscì ad arrivare molto più affondo per sfogliare come pagine di un piccolo diario segreto tutte le cose che non le aveva ancora chiesto, ma che erano lì perché lui le vedesse.
    “Molto bene, Alice. Dovrai fare due cose per me e poi ti aiuterò a trovare chi vuoi”, non provò a sorridere ancora, allontanò semplicemente le dita dal suo viso.
    “Non devi dire a nessuno le cose che sai fare*, perché ti rendono speciale e se lo dici a qualcuno non lo sarai più, nemmeno per la mamma, o per Joshua” scosse lentamente la testa per accentuare quel divieto, non poteva essere sicuro che seguisse alla lettera il comando, avrebbe potuto scavare nella sua mente per impiantarlo per bene, ma non voleva lasciare tracce tanto evidenti del suo passaggio. In quella maniera, se nessuno se ne fosse reso conto, le sue parole sarebbero cresciute silenziosamente dentro di lei.
    “Ora voglio che dimentichi tutto quello che ti ho detto*”, estrasse lui stesso quel ricordo dalla sua mente, a partire dal momento in cui le aveva chiesto di sua madre, fino a quel preciso istante, quando le sorrise per l’ultima volta.

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    Nome: vox miră
    Requisiti: 20 II lezione II anno
    Tipologia: influenzamento psichico
    Descrizione: il mago può emettere attraverso la voce o un suono onde ipnotiche che rendano più credibili le sue parole, come se il suono stesso fosse affascinante, ipnotico. Se il suono non ha un significato (es. un rumore) porta solo il bersaglio ad uno stato simile alla trance, di distrazione, in cui è più facile provare malinconia e "perdersi sul viale dei ricordi". Nella sua forma leggera (senza formula) è un influenzamento che induce sensazioni come serenità, affidabilità o il loro opposto (es. minaccia, diffidenza) a seconda dello scopo del mago; nella sua forma più potente (con formula necessaria), invece, può essere applicata solo alla voce e comporterà un maggiore stato di trance e di influenzamento. Chiunque senta il suono può essere bersaglio dell'influenzamento psichico.
    Formula: per la forma leggera sufficiente modulare la prosodia (voce) o concentrarsi sul suono - vox miră


    Nome: navigātio memoriae
    Requisiti: 26 x lezione IV anno
    Tipologia: memoria
    Descrizione: il mago può identificare e seguire collegamenti di ricordi fra la memoria a breve termine e la memoria a lungo termine (es. per vedere se c'è un ricordo legato a qualcosa di appena accaduto - come se una cosa è già stata vista in precedenza - si segue il processo che il cervello fa in automatico per collegare i due ricordi o la rievocazione etc.) oppure fra un ricordo nella memoria a lungo termine e altre informazioni ivi contenute (es. per vedere cosa una persona sappia - memoria semantica - in merito al contenuto del ricordo). L'incantesimo viene usato anche dagli obliviatori per capire cosa si debba "cancellare" dalla memoria per un'efficace intervento. Se c'è contatto fisico (mani sulle tempie del bersaglio) l'incantesimo permette di vedere i collegamenti e dove portano come se stesse seguendo una strada ad alta velocità, vedendo anche stralci del contenuto della memoria; se l'incantesimo viene fatto a distanza sarà invece possibile solo vedere o sentire un solo collegamento, il principale (es. se voglio seguire il collegamento di un ricordo di bullismo, è facile che percepisca un altro episodio di bullismo, se invece mi concentro sul bullo, informazioni circa quella persona contenute in memoria).
    Formula: navigātio memoriae
    Durata: immediata - in caso di contatto fisico, fintanto che permane il contatto, ma il mago non sarà cosciente di quanto accade all'esterno.

    Nome: ipnosipedia crescens
    Requisiti: 24 II lezione II anno
    Tipologia: influenzamento psichico
    Descrizione: il mago può instillare un'idea in un bersaglio. All'inizio (primo turno) sarà solo un pensiero improvviso che fa capolino nella mente, ma nei turni successivi diventa via via più insistente. Più è vicina al sistema di valori e idee del bersaglio, più è facile attecchisca.
    Formula: ipnosipedia crescens
    Durata: 3 turni

    Nome: oblivion
    Requisiti: 30 x lezione IV anno
    Tipologia: memoria - azione modificabile
    Descrizione: il mago può cancellare una parte della memoria di un essere senziente, come un ricordo preciso e/o quelli a esso collegati in modo permanente. Se viene utilizzato scorrettamente con modifica comunicazione sinaptica, la cancellazione può causare amnesia retrograda permanente. La cancellazione di ricordi immagazzinati nella memoria a lungo termine è legalmente praticabile solo dagli obliviatori o in contesti specifici e professionali (es. terapia psicologica, anche se nella pratica moderna non è consigliato né usato). L'applicazione può durare diversi minuti.
    Formula: oblivion
    Durata: 1 turno

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    Ryan Wilson
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    Chrys si dilegua in un istante, accenno un saluto quando ormai è già troppo tardi, è andato, perso in mezzo alla folla. Allontano lo sguardo e niente, non riesco a trattenere un sospiro, uno di quelli pesanti di chi ha sufficientemente superato il punto di non ritorno. Guardandomi indietro so che non potevo fare di peggio.
    Alzo gli occhi su Caiden. Almeno non sono rimasto da solo, altrimenti me la sarei squagliata.
    “Cedo che sia contro la legge bere quando si tiene in braccio un bambino” e se non lo è dovrebbe esserlo, è pericoloso. Niente alcol, sigarette, droga e pasticche, a meno che non siano caramelle, che ad ogni modo i neonati non possono mangiare. Insomma so tutto, più o meno. Pan a questo punto dovrebbe essere nella fase in cui impara a vestirsi da sola, almeno stando ai libri, che spero siano davvero affidabili, perché non voglio perdermi niente, anche solo con il pensiero. Dannazione, è una cosa parecchio triste. Lasciamo perdere.
    “Dai, vieni. Ti accompagno a fare la fila” dò un colpetto alla manica di Caiden e poi mi dirigo verso lo stand delle bevande. “Il lato positivo è che se metti una cannuccia nella cocacola non fai tanto una brutta figura. Ho paura che la cugina di Chrys non sappia come si beve una birra. Anche se… beh se gli assomiglia almeno un po’ non sarebbe poi così strano”.
    Infilo le mani nelle tasche della giacca, non so cosa dire, per questo me ne esco proprio con la prima cosa che mi salta in mente. “Comunque davvero mi fa piacere vederti” gli sorrido, cerco di essere convincere, anche perché è vero, è solo la mia faccia che si è paralizzata su una certa sensazione da quando ho visto Chrys e ancora non riesca a togliermela di dosso.
    “Non ci vediamo da un pezzo, mi dispiace se non mi sono fatto vivo, è stato un periodo un po’ frenetico” non basta come scusa, non convince nemmeno me, “d’accordo, non è proprio vero, cioè sì, lo è stato, ma sparire è un po’ la mia prerogativa. Anche… con Chrys sono un po’ scomparso. Penso ce l’abbia con me, anche se non lo ha detto apertamente, ma stava parecchio sulle sue prima che arrivassi tu, non lo biasimo” scuoto la testa, che cos’altro potrei fare? Voglio dire non mi sono mai comportato bene con lui, a dire il vero non mi sono comportato bene con nessuno quest’anno. Non è stato esattamente il modo con cui speravo di gestire le cose al mio ritorno a New York.
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    I
    l nostro spazio.
    Mi ritrovo a dirlo tra me e me, come faccio anche più spesso di quanto mi piacerebbe ammettere quando non sono con lei.
    La magia che sa fare Edie, creare il nostro spazio con un semplice gesto. Anche in un momento come questo e in mezzo a tutta questa gente. In mezzo ad un oceano di persone che ogni tanto guardo e mi dico, quanto sono ignare di quello che potrebbe succedere per i capricci di un Dio.
    In quegli “ogni tanto”, penso anche a quello che ho detto ad Aaos e mi sento in colpa.
    Ma non è importante adesso.
    Nessuna delle mie intenzioni, tutto quello che ho fatto, quello che ho minacciato di non fare. O almeno così vorrei che fosse, non importante. In realtà lo è. E lo è in un modo che non riesco a tirare via nemmeno dal nostro spazio, non dopo quello che ho pensato di recente, non dopo quel tipo di pensieri e quel tipo di azioni.
    Non dopo ricordi che ho ammesso di avere.
    È importante, anche troppo, ma non voglio pensarci e allora ci riesco, un minimo. Solo un po’. Ci riesco guardandola e ascoltando quelle cose che gracchiano in sottofondo come fastidioso rumore bianco.
    Non so quanto sia vero che siamo ad una chiamata di distanza, non saprei dire quanto adesso sarò capace di andare lontano quando sarò via, oltre i reali chilometri che ci separeranno. Forse molto più di prima. Probabilmente, anzi, quasi certamente, saranno miliardi di miglia e una chiamata suonerà come un’eco distante.
    E non sarò qui finché non sarò qui per davvero, con lei, nel nostro spazio.
    Mi sforzo di non pensarci.
    Mi concentro sulle pressioni del suo corpo contro il mio, le sue mani, il modo in cui il suo respiro ormai è diventato naturalmente capace di dettare tutti i miei ritmi. Mi sembra di essere fatto per lei ormai. Questa versione di me che è la sua, è fatta per esistere per lei e solo con lei può farlo. Guardo il disegno del suo sorriso; penso ad un disegno, come la prima volta che l’ho vista dopo trent’anni.
    Penso a quanto fossi così semplicemente grato e al tempo stesso incredulo di essere lì. Ingenuamente anche, ho creduto di essere libero per un secondo, ma quella era un’illusione infantile che si è frantumata in un attimo.
    Non so quando io e mio fratello abbiamo smesso di essere liberi, ma è stato molto prima del mio patto.
    A Edie però sorrido, un’onda leggera che scivola sulle mie labbra e le sposta per farle diventare una virgola a metà di una riga. «Mh-mh» mugugno avvicinandomi con il volto per guardarla più da vicino, fino al punto in cui guardare smette di avere senso e diventa solo un sentire profondo, di quello che cerca un contatto sotto la pelle. Premo le mani suoi suoi fianchi, scendono sulla vita e una si ferma mentre l’altra si muove ancora in basso, sulla coscia, la gamba, risale da lì per insinuarsi ancora sotto il tessuto.
    Non le premo baci sul volto ma le premo respiri, che sono lenti e misurano parole distratte dagli sguardi insensati che ho solo per lei, «Ora mi hai distratto, ho perso la corda del discorso. Le dita cercano quel contatto, quel legame di muscoli e carne viva, di carne viva e sangue. «Questo vestito ti sta particolarmente bene» lo soffio sulle sue labbra, verso l’angolo, arrivando a sfiorarlo piano prima di seguire una linea immaginaria che, come quel disegno presente solo nella mia mente, segue il mento verso il basso e la mascella. Senza smettere di guardarla, la testa leggermente reclinata per riuscirci.
    Neanche per un attimo.
    Mai, smetterò di guardarla così.
    Il centro di un mondo che per nessun altro esiste, perché è il mio.

     
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    26.
    Ad ogni modo Chrys era un tipo semplice, se lo si sapeva prendere nel modo giusto. Ed in quello nemmeno Josh ci riusciva sempre, nonostante fosse riconosciuta ormai la sua dote nel tenerlo a bada quando le emozioni negative prendevano il sopravvento. Il fatto, però, fu che in quel momento il mago non sentì nulla se non la paura di perdere l'altro. Come se ogni cosa potesse portare a quello. Come se ogni evento nefasto fosse sintomo di uno sradicamento doloroso. Che riconoscere la delusione nella voce di Josh fu per lui come sentir la pelle staccarglisi dal corpo in una lentezza quasi disumana. Diabolica.
    ''Quando l'ho fatta salire da te.'' Pensò dunque, in una cantilena presente solo nella sua testa, che l'unica cosa che avrebbe dovuto fare sarebbe stata rispettare dei patti. Promesse su promesse che però continuavano soltanto ad accatastarsi nel suo petto. Come un blocco di bile incapace di vomitar fuori. Come un mattone a comprimergli il respiro. Dovette accelerare il passo dietro di lui solo per lasciar smaltire la paura. Che però se ne restava ancora lì, stabile, resistente come la più forte delle mura. Era qualcosa di invalicabile, soprattutto quando andava a sovrapporsi alla schiena di Josh.
    ''Ero a prenderle da bere...'' Sentì di dovergli delle spiegazioni come se fosse stato proprio quel ritardo a spingerla ad andarsene. Come se le motivazioni risiedessero in qualche modo nel suo atteggiamento e quell'incapacità che aveva di prendersi cura di qualcuno. Perché non ne era capace e questo gli era divenuto palese proprio nell'attesa che avrebbe portato Josh lontano da loro due. Lontano da un equilibrio che ancora faticava a farsi stabile. ''Ho incontrato Ray e Caiden...''' Poi prese a far mente locale, come se quello potesse aiutarlo in qualche modo a ritrovare Alice negli angoli dei suoi occhi. Dispersa tra la sua memoria.
    ''Se non fossimo circondati da babbani sarebbe più semplice!'' Ringhiò a denti stretti affiancando nuovamente Josh. '''Io...ho ritardato solo qualche minuto, il tempo di una canzone.'' Il tempo di una canzone che nemmeno aveva ascoltato, come se per un istante, come se dopo quella che gli aveva dedicato, non potesse essercene nessun'altra. Anche l'egoismo aveva vinto quella volta e così avrebbe continuato a fare a lungo. ''Josh...'' Tese una mano verso il suo polso.
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    27.
    Cazzo, Ray. Non è che sia la prima cosa che sento, ma è la sola che adesso sa indurirmi di più lo sguardo finché la mandibola non scatta. Rischia di spezzarsi in un sospiro che non so trattenere. Ray, perché cazzo dev'esserci sempre la sua ombra ad aleggiare intorno a noi? Dio, forse perché Lilian è morta o farebbe lo stesso con me. Ma tra tutte le fottute persone stipate in questo cazzo di punto di Central Park, proprio Ray doveva trovare? Mi stempera solo che ci sia stato anche Caiden, seppur no, non risiede abbastanza nella mia testa per impedirmi un ringhio di dovuto fastidio. Profondo, lungo, che gli lascio addosso quando devo scostarmi per non perdere la calma già sull'orlo di un baratro.
    Si è perso Alice perché si è fermato con Ray. E Caiden. Ma soprattuto Ray. E io non so cosa dire, o meglio, diciamo che è bene che non dica niente perché tutto sa leggermisi in faccia. E lo so che magari dopo mi pentirò di essere stato così duro, ma adesso, adesso non me ne frega un cazzo di quello che può leggere. Gli ho affidato mia... mia figlia ok? E speravo che per una fottuta sera non ci fossero casini del cazzo. Utopie di merda, ecco cosa sono.
    Ha tardato il tempo di una canzone, ed il mio sguardo gli finisce addosso in zero secondi. Quale. Quale canzone? A cosa cazzo ti ha fatto pensare mentre parlavi con Ray ed ignoravi Alice. E mi chiedo si come cazzo sia sentita lei a non trovarlo, ma anche il perché non sia tornata al backstage, era comunque un luogo sicuro e.. e niente i pensieri si fermano quando Chrys mi prende un polso. Allora forse il tamburo in petto si calma, ma è apparenza, la calma furente di chi sta solo ritardando l'inevitabile. E' lampante il giudizio che mi porto addosso, che abbasso immediatamente lo sguardo sulle sue dita. Cosa vuoi?!
    «Va.Tutto.Bene.» Non sono credibile, non devo esserlo, lo sto imponendo come se dovessi ritardare anche la delusione che provo ora, l'ansia che forse Chrys abbia mentito tutto il tempo, abbia detto di essere pronto a viversi questa responsabilità solo perché io non me ne andassi o tutto non diventasse inconciliabile. Merda.
    Non so neanche restare fermo, so solo prendere un cazzo di respiro e provare ad essere più razionale possibile almeno per trovare una via che potrebbe aver percorso una dodicenne e mi muovo tenendo Chrys nella periferia di uno sguardo che davvero non penso voglia su di lui ora ma non posso farci niente, io questo sono.
    Una bancarella dopo l'altra, veloce perché il mio volto non sia facilmente riconoscibile, navigando tra un'ombra e l'altra, cosicché in fondo l'idea di me sia solo questo: una cazzo di idea. Solo che lo so come poi le cose sanno scalare velocemente e la gioia di una fottuta volta in cui potevo godere di qualcosa, finisce nel caos. Il suo Caos. Ed io lo conosco troppo bene per non percepirne l'aura che già sa far tremare la mia. Dio sono un fottuto scolaretto del cazzo quando lo vedo a pochi mentre da noi, accanto ad Alice. Slater. Merda! E lo so come Chrys vedendo Alice potrebbe già muoversi per avvicinarsi ma io lo voglio più lontano possibile da Slater. Che già così è troppo vicino. Ma che cazzo credevo eh? Che non avrebbe capito? Che non sarebbe tornato a chiedermi il conto del mio momento di pausa? Eccolo qui con i miei passi che si fermano ed una mano che va in difesa immediata di Chrys. Come quando mia madre - nonostante avessi la cintura di sicurezza - metteva un braccio davanti a me se frenava troppo bruscamente. Faccio lo stesso ma muovendomi anche lateralmente per coprire metà del suo corpo con il mio. «Fermo» lo dico che, nell'essere imperativo, somiglia ad una supplica. «.. quello è Slater» glielo indico rimanendo immobile, e adesso non so neanche come mi esca il nodo d'ansia che stringe in gola. Credo non le farà niente, ma Alice è proprio lì accanto ed è un segreto che non posso nascondere. Cazzo, non ho mai davvero potuto pensare di tenerlo lontano dalla mia vita, quando ci si è infilato per darmi la forza di superarla. «Alice..» forzo un sorriso quando lo sguardo lo passo da uno all'altro in cerca di una pace che non credo saprò trovare oggi. «..viens ici.» vieni qui. E mi aiuto allungando una mano verso di lei, come se fosse lì a camminare su un tronco sospeso su metri di strapiombo mortale. Mando aghi giù per l'esofago, in respiri che non si piegano al mio volere. Ma è nel parlare con lei che torno a guardare Slater, palesemente allarmato dalla sua presenza tanto vicina a quello che adesso ho di più caro.
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    Vivi, messaggino a Yael e schifo generale

    L'
    Unica cosa di cui sono certo è che non tutto ciò che ci prefissiamo poi va come dovrebbe. Perché nella vita reale non esistono solo vittorie che vanno a sommarsi l'un l'altra. Ci sono anche delle sconfitte nel mezzo e questa suppongo faccia parte di un insieme di fallimenti che non possiamo lasciarci scivolare di dosso con tanta facilità. Perché ci sono dei desideri, qualcosa che tendiamo a prefissarci aldilà della loro reale riuscita e questi sono spesso il motivo per il quale muoviamo i nostri passi. Come non dovremmo, forse o nel modo più inappropriato che conosciamo. Perché se adesso Vivianne sa scattare in sua direzione io finisco per non sapere come fermarla. Le tendo una mano quando comprendo l'intenzione di star dietro a Yael come se la sua condizione fosse sintomo di cura, ma non gliela stringo. Non la costringo ad essere ciò che non vorrebbe diventare, né a sopprimere quella bontà che l'ha resa caratteristica ai miei occhi. So solo di voler alzare il telefono e mandare un messaggio a Yael: Che la conosco abbastanza bene da sapere che forse non vorrebbe sentirsi alle strette, non dalla mia ragazza poi.
    ''Vivi f-forse d-dovrsti...'' Lasciarla in pace. Perché per quanto io abbia desiderato un branco. Per quanto il mio bisogno di appartenenza ad un determinato sottogruppo sociale fosse quasi indispensabile, so bene come noi wendigo poi finiamo per morire soli. E non nel modo più dolce a cui si possa auspicare. Perché se tutto andrà male e non sarà Riley a farmi fuori, allora ci penserà qualcuno di quei cacciatori da cui ci dice di tenerci alla larga. Stando attenti a come ci muoviamo e alle tracce che lasciamo al nostro passaggio.
    Ma lei si lascia trascinare tra la folla. Come fosse essa stessa la marea che impervia sulle nostre vite. Come quella sera con Dorothy quando si è lasciata ferire da quel tipo. Come quella volta in ospedale che si è sentita in colpa per aver ucciso un uomo nonostante fosse per legittima difesa. Credo di non poter arrestare Vivianne, credo non sarebbe giusto e ne sono convinto, anche quando scrivo velocemente un whatsapp a Yael per annunciarle del suo arrivo. Perché per quanto avessi bramato in una loro unione, inizio a capire sin da subito come la mia sia stata semplicemente una sciocca utopia. Il sogno di un bambino che vorrebbe tenere tutte le persone più importanti della propria vita incollate a sé. Pronte a vorticare attorno al suo vuoto. Alle sue ansie.

    ''Credo che Vivi stia venendo
    ad accertarsi che tu stia bene.''

    Mentre io me ne resto in disparte, a qualche passo di distanza. Che non so mai amalgamarmi come si dovrebbe fare né comprendo i giusti meccanismi che tirano avanti la socialità. Resto un outsiders anche in questo.
    jackals
    supporter
    wendigo
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    Lucian Coppola;
    ...
    Ogni giorno mentre guardo te che vivi
    E mi meraviglio di come sai stare
     
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    ALICE OLIVE ÇEVIK – Viaggiatrice temporale – viaggiatrice dimensionale – figlia di lilian e Joshua – orfana – batterista – non ancora scolarizzata
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    12.
    Alice fissò gli occhi in quelli del mago e li assottigliò come si fa quando si cerca di concentrare tutta l'attenzione su un unico dettaglio. E le sue parole, seppur generate da una voce estranea, furono di gran conforto. Perché nell'udirle sentì rinascere una speranza e quella speranza riguardava totalmente i motivi per i quali era approdata lì. Non solo perché il bracciale al polso continuava a vibrare in presenza di Joshua, ma perché sua madre, allora, così come diceva quel signore, era in quella dimensione, in quel tempo.
    Allora inarcò un sopracciglio e trattenne il fiato quando la verità le si mostrò palese ai suoi occhi. Egli non ebbe modo sul momento di confermale la sua presenza, eppure la bambina fu portata a crederci senza alcuna riserva. Perché era una bambina, appunto ed i bambini sono portati a sbagliare e ad arricchirsi di quel fallimento. ''Davvero?'' Domandò in un inglese strano, scivoloso, che le fece arricciare la lingua contro i denti e poi sul palato. Che il francese le si sentiva nella ''r'' ed era uno stereotipo che a Chrys piaceva da morire.
    E le sembrò di aver finalmente conquistato qualcosa: Di aver fatto un passo avanti oltre quelle promesse che Josh aveva pronunciato ma non ancora mantenuto. Oltre a Chrys che tentava di tenersela buona in casa, che mentiva sulla sua identità e la presentava agli altri come fosse sua cugina. In quel momento, sapere che al mondo c'era qualcuno in grado di riconoscerla per ciò che era, le fece saltare il cuore in petto. E quel signore doveva essere sincero: Chi altri avrebbe potuto notare la sua somiglianza con la mamma? Chi altri, oltre a Joshua?
    Si fece toccare, in una pressione che le ricordò il suo incontro con questo Joshua, perché fu proprio da lì che perse sangue la prima volta. Fu lì che suo padre la medicò. Paziente, anche se le era chiaro come non avesse mai avuto figli. Non esisteva un'Alice simile a lei in quel tempo.
    ''D'accord, je te promets...'' Pronunziò in un sussurro mentre con la coda dell'occhio andò a ricercare le sue dita nascondersi tra i capelli. Non voltò il viso in direzione della mano: Sentì di dover restare immobile anche se quella rigidità poi non andò di pari passo con la sensazione di sicurezza che la pervase. Ma fu solo un istante, perché nello scemare di quell'emozione iniziò a sentirsi fuori posto. Arretrò di un passo, uno solo, che servì a sancire una distanza ma non la portò a staccarsi immediatamente dall'uomo. Si sentì frastornata, ma il fastidio scivolò via al suono della voce di suo padre. Gli si voltò di scatto e senza nemmeno doverci riflettere troppo, le dita della mano scivolarono nella sua. Corse a stringerglisi contro il petto.
    ______________________________________
    1. Va bene, te lo prometto;
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    Lo sguardo di Joshua era un pozzo di oscurità. Riconosceva la paura, Slater la fiutava e non perché fosse in grado di comprenderla, ma perché l’aveva vista spesso nelle sue vittime. Il viso assumeva una sfumatura d’attesa, i muscoli si paralizzavano e il corpo si tendeva, impercettibilmente. Era tutto molto sottile sulla fisionomia di Joshua, appena visibile. Apprezzò il modo in cui era capace di controllarsi. Non gli riuscì completamente, ma non si aspettava niente di più da lui. Soddisfaceva le sue aspettative, rivedeva la propria mano, come avrebbe fatto un pittore.
    Gli sorrise senza premurarsi di apparire gentile, non mise tutta la sua attenzione nel modo in cui tese le labbra, non come aveva fatto per la bambina. Joshua doveva conoscere quel genere di sorriso, sperava che dicesse tutto ciò che stava tacendo, come il fatto che non esisteva niente che fosse capace di nascondergli.
    “Ciao, Joshua” lo chiamò per nome, perché anche se in quel momento erano evidenti i tratti di Faust, era chiaro che non si trovava lui di fronte. Solo un altro umano, con degli affetti e delle preoccupazioni, teneva alla bambina, teneva al suo compagno, teneva a troppe cose e quella era una debolezza intollerabile per Faust, ma in Joshua… beh in lui poteva persino accettarla finché rimaneva confinata in quel mondo.
    “La piccola Alice si era persa, dovresti prestarle più attenzione, è una bambina molto speciale” lo disse lentamente, abbassando lo sguardo su di lei.
    “Non voglio le capiti qualcosa di male. Ero qui semplicemente per assistere alla tua grande esibizione quando l’ho vista camminare da sola. I miei migliori auspici, approposito” continuava a sorridere, era pacato e soprattutto sincero, ma ormai Joshua doveva aver capito che di menzogne ne raccontava poche e mai a lui.
    “Spero che tutto questo possa darti ciò che desideri. Quando tornerai dovremo discutere di cose importanti, ma per adesso meriti la tua opportunità per scoprire quanto hai da perdere”.
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    Slater - Alice - e l'ultima parte è solo per Chrys.

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    JOSHUA ÇEVIK – brother – father – rockstar – black magician – faust
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    27.
    Quello è Slater. L'unico cazzo di preavviso che so dare a Chrys, che già mi si impasta in gola. Secco, duro, non so come altro dirlo senza che suoni esattamente come quello che è: un problema. Perché non ha solo perso di vista Alice, no. No lui ha involontariamente permesso che la trovasse l'ultima cazzo di persona che avrei voluto lo facesse su questa terra. Perfino Morgan sarebbe andato bene, mi sarei volutamente sorbito la paternale su come non si educa una bambina. O qualunque altra stronzata simile. Ma non questo. Cazzo. Questa tensione è mia, ed è un pugno nello stomaco. Non accenna a ridursi, né aumentare. Ha raggiunto il culmine da subito. Allora la mano con cui mi illudo di tenere Chrys al sicuro, vibra di un tremolio breve, lieve perché grazie a Slater ho imparato anche a trattenere i segnali più lampanti. Quando ero una fottuta iena, le mani tremavano al punto da far suonare gli anelli, ora invece sono di pietra.
    Stringo di più le dita attorno alla camicia di Chrys, ho il fottuto bisogno infantile di sapere che basti a marcare il territorio. A dirgli quello che già sa, che anche se ora qualcuno ci vedesse mi importerebbe poco, che Chrys è un punto debole ormai evidenziato. Lampeggia letteralmente davanti ai miei occhi. Qui, fisso.
    "Joshua", suona distorto nella mia testa, dove tutto sa farsi tragedia in pochi fottuti attimi. Trovo la forza di resistere in un ringhio che sento risuonare per me. Non ho mai smesso di fissare Slater, e non smetto quando Alice mi si stringe contro ed è il secondo punto debole, debolissimo che lui ha avuto modo di toccare. Quanto cazzo le ha parlato? Di cose? In che modo? E lui non risponderà perché non ho intenzione di chiederlo. Si ho la fottuto utopia di pensare che non ne parleremo più, quando invece so che non sarà così. E no, non ho più voglia neanche di avercela con Chrys, che ora respiro a fatica per la cazzo di paura che mi spinge addosso tutte le paranoie che ho tenuto a bada. Ma faccio il bravo allievo del cazzo e non lo mostro, non lo tiro fuori se non in respiri che Chrys sentirà per primo. Resta immobile. Non so sussurrarlo ma credo che tutto di me lo dica come un fottuto imperativo. A Slater non ci si avvicina. Mai.
    Mi spingo Alice contro il petto, le accarezzo i capelli con una calma che proprio non ho.
    «Nessuno lo vuole» che Alice si faccia del male. Non importa se ha capito che non è mia figlia, ora come ora sono il mio territorio loro due e non si toccano per nessuna fottuta ragione al mondo. E sì, lo so come appare anche se invece sono immobile, solo di pietra. Duro come il cazzo di cemento, seppure dentro ci sia un vortice di paranoia, e quel timore che accende la corruzione, la sento ribollire come eco nelle orecchie, lungo i polsi.
    Non devo ringraziarlo di un cazzo, annuisco e basta anche se il suo discorso è filo spinato che taglia i tessuti e si pianta in fondo, dove estrarlo è solo dolore. Lancinante, imperativo dolore.
    «Vieni via. Ora» l'unica cosa che riesco a dire a Chrys, senza ancora dare le spalle a Slater, su cui non smetto di puntare gli occhi. Mentre la mano a protezione scende invece sul polso di Chrys per condurlo con me, solo ora i miei occhi vanno a lui perché io mi assicuri che non intende restare fermo ancora a lungo a fissare Slater a sua volta. Trascino anche Alice con me, dobbiamo allontanarci ma senza che questo la spaventi, almeno non quanto lo fa con me che cerco fiato nel guardare ovunque tranne loro due. Ovunque, senza vedere davvero niente, che ancora mi manca la capacità di trattenere aria nei polmoni. Dio, perché cazzo ho pensato che avrei potuto averla una vita? «...» Vorrei parlare, non ci riesco e credo di averlo anche stretto un po' troppo il polso a Chrys, sento la pelle arrossarsi sotto la presa che lascio di colpo.
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    Per Joshua e Morgan


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    Osservò Joshua arretrare. Poteva immaginare a cosa pensasse. Un suo scatto, semplicemente uno sarebbe bastato. Provava ad essere pronto a reagire. Intravedeva sul suo viso i segni della paura, ma la verità era che non aveva nulla da temere. Non l’aveva mai avuto, ma in particolar modo adesso che stringeva tra le braccia qualcosa di prezioso, più di quanto lui potesse capire.
    Li lasciò andare, senza allontanare gli occhi dai suoi. Guardò solo lui, tutto il tempo, nessun altro. Né la bambina, né il ragazzo. Lui. Gli chiedeva se sarebbe stato pronto, per quando sarebbe venuto il momento di tornare a vestire i panni di Faust. Quella paura, un ritratto che aveva visto così tante volte, gli faceva pensare che la risposta non fosse più certa. Ma gli avrebbe dato tempo, come aveva promesso. In fondo non gli aveva mai mentito, né l’aveva mai minacciato, non davvero. Lui gli aveva solo ricordato che doveva mantenere un accordo, perché tutto ciò che aveva potesse vivere anche dopo che quella dimensione fosse stata perduta. In nome della guerra di Samenar, o fagocitata dalle spire di Tharizdun. In quel tempo incerto, sarebbe stato necessario ricordargli tutto questo. Ma ancora una volta, gli avrebbe dato tempo. Slater era un uomo paziente.
    Si allontanò per primo, distogliendo lo sguardo per primo, disperdendosi nell’ombra per primo. Tuttavia non se ne andò per primo. C’era un’altra cosa che voleva fare. In nome dei vecchi tempi. Non era di certo un romantico, né un melanconico, in verità voleva assicurarsi che Joshua avesse terra bruciata intorno a sé. Si fidava, ma preferiva la certezza.
    Avvicinò un bambino dai capelli biondi, gli occhi azzurri ghiaccio, fu semplice, i genitori si distraggono, avrebbe dovuto dire a Joshua di non essere troppo duro con se stesso. Purtroppo gli venne in mente solo in quel momento. Anche se si era preoccupato di distrarre lui stesso i due no-mag. Attoniti fissavano il vuoto davanti ad una bancarella, il bambino si era avvicinato proprio come aveva fatto la ragazzina di Joshua.
    Gli porse due sonagli, tenuti insieme da un sottile nastro rosso. Sull’argento c’era inciso finemente il suo simbolo. “Digli che io vengo sempre a sapere tutto in un modo o nell’altro”, poi sorrise. Non cancellò quel ricordo perché Morgan potesse guardarlo ripetere quelle parole con la stessa gelida dolcezza che aveva riservato ad Alice. Gli impartì l’ordine di raggiungere Morgan e la sua signora. Non cercò nessuno dei due nella folla mentre il bambino si allontanava e lui si rimetteva in piedi.
    C’era una possibilità, anche se remota, che capisse come fosse venuto a sapere dei bambini. Sperava pensasse a Joshua.
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    26.
    C'era la stasi. Non sarebbe volata una mosca se non fosse che il mondo stava continuando a girare nonostante lo sguardo di Josh era fermo, fisso sulla figura ricurva dell'uomo che stava respirando forse troppo vicino ad Alice. C'era un odore strano nell'aria. Una staticità elettrica non dovuta da Carmen, né da Josh stesso, che tratteneva i propri impulsi serrando il braccio attorno al polso di Chrys. Ci fu il terrore ad avvolgere il parco in un abbraccio oscuro e denso. Fastidioso come uno strato di petrolio a rendere le loro pelli più pesanti. Furono incatenati lì e solo grazie a quello il ragazzo riuscì a leggere il terrore distendersi lungo le iridi del ragazzo. Fu spaventoso rendersi conto come dietro quello strato acquatico di ghiaccio non si nascondesse altro che un'umanità che sino a quel momento egli aveva santificato, rendendola perfetta. Ma Josh era come tutti gli altri uomini presenti lì attorno a loro. Era come lui e forse somigliante persino a quello Slater di cui egli gli aveva parlato ma che Chrys non aveva mai visto. Non così da vicino, non così nel dettaglio. Eppure riuscì a frenare ogni impulso alla stretta di Josh. E più questa si faceva serrata, più il suo desiderio di farsi valere cresceva. Come se dovesse andare di pari passo a quella tensione che sentiva. Come se dovesse far ogni cosa per dissiparla. Per cancellarla del tutto e permettere così, a quello che era ormai il suo ragazzo, di tornare a respirare in battiti di cuore che avrebbero portato ossigeno ai polmoni senza troppi sbalzi. In modo lineare, perfetto, così come sarebbero dovute andare le cose se Chrys non si perso Alice e se Slater non l'avesse trovata.
    ''Che cazzo sta dicendo.'' Non fu nemmeno una domanda quella che gli si incastrò tra i denti e divenne un sussurro che sperò di lasciar udire solo a Joshua. Nemmeno ad Alice che era lì sotto, con loro, in silenzio. Così in silenzio da non sembrare nemmeno viva o capace di respirare. Chrys la cercò con la mano libera, ancorandosi ad una sua spalla che forse stringe a sua volta con la medesima forza con cui Josh stringeva lui. In una catena perfetta che non permetteva anelli deboli. Che cercava di insaldarsi continuamente. Per quella promessa. Sfruttò la presa su Alice per portarla tra di loro e spingerla, affinché avanzasse sotto la loro copertura. ''Josh.'' Lo trattenne in un respiro che liberò solo dopo essersi allontanati di lì. ''Tu hai paura...'' E quello Alice probabilmente lo sentì, perché si fermò per un istante a cercare gli occhi di Josh tra la confusione. Erano quelli il suo unico baluardo.
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    Morgan e bambini a caso (e tanto RIP perché poverina, è stupida, non è colpa sua se non capisce le cose)

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    Non so come andrà, da dopodomani in poi. Ma del resto, è una di quelle cose che è sempre così, quando non posso mai predire nulla, e alla fine le cose succedono e basta, ancora ed ancora. Ma adesso, adesso mi sembra di essere sul vertice di un più che mai, quando ci sono tante di quelle cose, sempre di più, che se ne stanno tutto in torno, e aspettano solo di cadere come fossero davvero bombe che vogliono infrangere tutto. Lui. È sempre questo il punto, il centro di pensieri che come questo, lo seguono e cercano di trovarlo in spazi che sono preclusi, e allora si fermano ad aspettare, aspettare ogni volta che dall’altro lato, ci sia il suono che rivela la sua presenza. Vorrei essere capace di fare qualcosa che sappia togliere ciò che pesa, ciò che fa male, ciò che si è fermato storto in un punto e l’altro, senza mai andare a fondo, ma incastrandosi fra i suoi pensieri e moti, e che si trascina dietro sempre e comunque. Come se niente fosse, o come se, più che altro, volesse convincere chiunque di questo: che non importa, non è grave. Anche sé stesso, e forse sopratutto sé stesso. Ho visto Morgan in molti momenti, in così tanti che anche se non posso mai, mai dire che siano tutti i suoi momenti, so che sono abbastanza da farmi sapere che ci sono di quelle ferite nascoste che ancora, se ne stanno contro la pelle e sotto, in strati invisibili. C’è stato un lungo, infinito tempo, in cui non parlava. Era tutto lì, chiuso ermeticamente da qualche parte, pronto ad essere cancellato da uno “sto bene” di quelli ripetuti ancora ed ancora, e so quanto adesso sia diverso, quanto si sia sforzato, quanto ci abbia provato, e quanto abbia camminato e saputo tirare fuori, e metterlo piano, con forza, o con paura, fra le mie mani. Per me, è esattamente come gli ho detto quell’ultima volta, a Luglio. È sempre così e lo è anche adesso, lo è anche quando un discorso scivola via, e si eclissa appena più in là, non risolto ma nascosto. Ma del resto, l’ho detto. Ho capito che non c’è qualcosa che debba essere risola in quel modo che pensano tutti, ma che invece, con lui, serva solo ascoltare. Pazientemente, seguendo i suoi ritmi che nel silenzio, si scandiscono sempre, e si mostrano. Basta solo guardare, basta solo, ancora, ascoltare. Ed è sempre questo tutto quello che voglio fare, quando lo stringo in uno spazio che esiste solo per questo; che sia un respiro, una parola, un silenzio. Che sia anche niente di tutto questo, ma solo un girare intorno, tornare in un punto diverso, e allora, allora lasciarlo solo andare e muoversi come vuole. Spero sempre, solo, che lo sappia. Lo sappia davvero che quando gli dico che sono qui, per lui, sono seria. Sono sincera in un modo che è naturale, e che è solo quel bisogno di sapere che in qualsiasi momento, non si senta perso, da solo da qualche parte troppo buia per vedere. Se potessi pregare un qualsiasi soffio di vento perché arrivi a lui e glielo ricordi, lo farei. Invece lo stringo solo un po’ di più, soffio un sorriso che è un respiro contro di lui. E lo seguo. Dice spesso, Morgan, che si tratta di sopportarlo, o di tutti i come faccia a fare questo: sopportarlo. Non penso che potrò mai fargli capire, davvero, che non si è mai trattato di questo. Non per me, non con lui. E ho sopportato tante cose, conosco la differenza. Qui è solo dove voglio stare, qualunque sia il panorama che si muove fuori dalla finestra. Oltre di noi. «Il filo, baby, il filo del discorso» lo dico con un moto che le labbra, negli angoli, le preme appena di più, e che porta le mani ad avere una pressione appena più profonda contro di lui. Ma è un suono che diventa quasi un sussurro, un sospiro appena. Ci sono delle volte in cui, con lui, capita esattamente questo: perdere il filo del discorso. Anche adesso è facile disperderlo, concentrarsi sul suo respiro contro la pelle, o sul modo in cui sento il suo calore scivolare oltre la stoffa, fino all’epidermide. Faccio scivolare una mano dal volto fin su, nei capelli, a stringerli appena fra le dita, con qualcosa che sulle labbra resta appena più basso, ancora nella curva di un sorriso che un po’ si piega in un senso diverso. «A sapere che ti piaceva così tanto, lo avrei messo più spesso» lo soffio appena, muovendo il volto per girarlo appena di più verso il suo, stringendo la mano fra i suoi capelli per fare altrettanto, e darmi modo di trovare le sue labbra con le mie. L’ho sempre detto che non sono una che sa farsi troppi problemi sui luoghi, o le circostanze. Al massimo, direi il contrario. Per questo non fermo un gesto che mi porta a premere appena il volto contro il suo, in un movimento che lascia un contatto anche nello spostare le labbra fino ad afferrare appena il lobo fra i denti. Ma dura molto meno del previsto quando nella coda dell’occhio, vedo un ragazzino che si porta vicino, spedito come se sapesse esattamente dove andare. Mi allontano appena, tornando più dritta e lasciando scivolare le mani sulle spalle di Morgan, con un’espressione incuriosita. «Ne avevi un altro segreto?» lo dico con uno sbuffo appena, un tono che si trascina un po’ nel divertito, anche se trattiene una piccola, minuscola, punta di frustrazione.
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    huunter




    F
    ilo, corda, stessa cosa. Non sto di certo pensando ad un modo di dire, o a quanto ancora dopo vent’anni sia difficile ricordarli esattamente, con le parole giuste. Quelle che si devono soltanto imparare a memoria.
    Sto pensando a quel qualcosa per cui dovremmo avere delle remore, visto che siamo in pubblico. Ma insomma, non le abbiamo mai avute.
    In ogni caso non dura un cazzo.
    Non so perché ho osato pensare che per un giorno non avrei avuto problemi esterni, oltre a quelli sempre presenti nel mio cervello. Faccio sempre questo errore, incredibile. Sono un recidivo palesemente, uno di quelli che ricadono negli stessi schemi già superati, o almeno così pensavano. Quelli che non si liberano mai di niente. Quelli che non vanno mai realmente avanti ma camminano al rovescio per guardarsi alle spalle senza rendersi conto che il passo è ripetuto nello stesso identico punto.
    È da paranoici pensare che qualsiasi cosa un po’ strana, un po’ fuori dalla norma, sia un cazzo di problema. Lo so, me ne rendo conto. Ma è un bambino da solo in mezzo ad un festival che viene direttamente verso di noi, che cazzo dovrei pensare? Hanno già usato dei bambini contro di me in un modo o nell’altro.
    «Baby, alzati» dico frettolosamente, sbattendole piano il palmo sulla coscia ma comunicare quel senso di velocità e rapidità che mi serve ora.
    Mi sposto per avvicinarmi e anticipare gli ultimi passi del bambino, chinandomi di fronte a lui fino a terra; le ginocchia piegate e i piedi in una posizione che mi permetta di scattare più velocemente in caso fosse necessario. Ha lo sguardo spento. «Ehi ciao», gli sorrido. Lui mi porge qualcosa inizialmente senza dire niente. Movimenti meccanici, sguardo spento. Lo so cosa significa.
    Prendo quelli che sono dei sonagli per bambini. Due cazzo di sonagli. Li osservo, li studio per un secondo ed è che quello basta per notare il simbolo. Lo stesso fottuto simbolo che ho al braccio, impregnato nella pelle. Lo stesso simbolo che a volte passo ore a fissare, soprattutto di recente, cercando una scusa del cazzo per chiamarlo.
    Non ne trovo mai una per cui valga la pena rischiare, solo per soddisfare un cazzo di assurdo bisogno inconcepibile.
    Continuo a sorridere al ragazzino, «Sono per me? Wow, bellissimi, grazie», un sorriso che resta solo sulle labbra.
    Poi parla: lui viene sempre a sapere tutto in un modo o nell’altro.
    Infilo i fottuti sonagli dentro il beutel, senza alzarmi, senza smettere di sorridere. Cerco un contatto mentale con mio fratello. È la prima cosa che faccio istintivamente perché ho bisogno di sapere che è tutto okay, perché non è sotto ai miei occhi adesso e devo sapere se sta bene, che non è successo niente. Se Alan sta bene, che non è successo niente a nessuno dei due. «Vieni subito qui», invado letteralmente la sua mente così, non c’è mai stato bisogno di aspettare il permesso per entrare. «Slater mi ha fatto recapitare un regalino, meno splatter dell’altra volta. Solo più inquietante». Lo “dico” con una certa fretta anche nei pensieri, che corrono e si rincorrono nella mia testa, probabilmente lasciando un’impronta concitazione anche in quelli per Den.
    Il suo “arrivo” mi strappa un sospiro di sollievo che soffoco in un semplice sguardo al vento, un moto che ne segue il sentore di alleggerimento.
    Provo il forte impulso a prendere Jaden e tenermelo più vicino di quanto già sia, ma non lo faccio. Resto a guardare il bambino, a sorridere al bambino. Non voglio che si spaventi più del dovuto. Gli porgo la mano destra per stringerla, «Sono Morgan, dammi la mano come un vero ometto», e lui lo fa non senza un principio di diffidenza. Anche se penso sia talmente confuso – perché ha fatto quello che ha fatto, perché a me, chi sono io – che forse finisce semplicemente per fidarsi di uno sconosciuto gentile.
    Lo fanno sempre, si fidano troppo.
    «Bravissimo» gli stringo la mano vigorosamente ma senza metterci forza per davvero, lo faccio sembrare un gioco, o almeno è quella la mia intenzione. «Se non ti dispiace, vorrei andare a ringraziare anche i tuoi genitori, che ne dici?», fargli notare che si è allontanato troppo, che loro non sono qui ed non è normale, che c’è qualcosa di sbagliato o pericoloso in ciò, non è la tecnica giusta.
    Mi giro solo un secondo verso Edie per lanciarle un’occhiata più seria, sovrastante lo stesso sorriso dolce di prima che si affievolisce un po’. «È tutto apposto, tranquilla, solo un messaggio da Slater».
    Io non lo sono, tranquillo, ma è una di quelle situazioni in cui devo esserlo.

     
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