Dismount my toughts

Aalina/Eså | 7 Dicembre

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    Non so com’è il volto che sto per presentarle di fronte allo sguardo, dopo giorni che sono stati silenzio, sono stati pianificazione, sono stati comprensione di quel tratto di me riemerso come la lava che sgretola le pareti di un vulcano con un solo, tremendo, scoppio. Non so com’è il mio passo quando so sentirlo così fermo eppure tremante allo stesso tempo, come uno stelo d’erba che sente il peso del vento e resiste. Eppure, so che non sono questo. Non un filo d’erba, quando ho rifiutato di piegarmi, e tutto ciò che resta, adesso, è questa sensazione che si dirama nello sterno, e sa diventare più reale, concreta, in ogni passo che muovo ancora ed ancora per raggiungere una casa che conosco, che mi ha accolto, e che diventa il baluardo della realtà di ogni mia scelta. Tutte quelle che quel giorno, in un solo istante, ho raccolto per premerle fra le labbra con un no che si è esteso, ed ha sfiorato molto più di ciò che mi costituisce fra carne, ossa e sangue. Eppure non mi tiro indietro, non mi fermo, non blocco passi che invece, nella lentezza naturale del mio incedere, sanno pure trovare una volontà proprio che mette quel tipo di fretta che è il ricordo di necessità che fanno di me qualcosa di più basso, piccolo, meno volatile nella moltitudine agglomerata di tutto quello che fino a un mese fa, rappresentavo e volevo essere. Eppure, ancora, ne provo una vergogna cocente. Di quelle che restano a graffiare la superficie, e che mi ricordano perennemente l’ingiustizia dei miei stessi moti, e di come questo, e solo questo, sia il punto più alto di una colpa che pure, so di poter sopportare. Sto imparando, come ho sempre fatto, trascinando pezzi di ciò che mi circonda per assemblarli e trovare fra quelli, una coerenza inattaccabile che sappia dirmi qualcosa. Ma l’universo è sempre oltre la logica, e so anche questo. Ed è quello che ho ripetuto, in silenzio, in ogni incontro con Missing, e che adesso sembra essere un punto bruciante tanto quanto lo è stato quel segno che mi ha impresso, e che ancora svetta sul collo impossibile da cancellare. Ma ho bisogno di uno spazio diverso da quello di una stanza, ho bisogno di un volto diverso da quello di mia madre e da tutte quelle consapevolezze che sono ferme sempre sotto la superficie di ogni nostra parola. Di certezze, doveri, realtà, concezioni che si estendono e si perdono nel coacervo confuso di ogni esistenza, anche la mia. Ho bisogno di uno spazio che abbia tracce diverse, e di un volto che è stato la presenza duale che ha resistito nel corso di tutti gli anni che hanno scritto l’inizio della mia nuova vita, la stessa che ormai, giace deperita alle mie spalle, dimenticata poiché sono io ad essere stato quello che da lei si è allontanata in un solo passo, rinnegandola per sempre. Nonostante tutto, non riesco a pentirmene, seppure ci sia quel caotico muoversi nella mia mente che lascia poco spazio al sonno, e non ne lascia affatto ad una meditazione che possa permettere quella calma ormai corrotta e consumata. Conosco a memoria la strada fino alla sua porta, come conosco a memoria il suono della sua voce, il senso della sua presenza, e di quei minuscoli dettagli che nel tempo si sono accumulati, e che sono stati vitali nel percepire come lei e Calien fossero simili nel volto, sì, ma diverse nel profondo che le ha sempre composte come entità divise e sperate, ma importanti entrambe a loro modo. Il mio è un bussare lento, è il bussare dell’incertezza, del dubbio, di qualcosa di pesante che dalle spalle, arriva fino alle nocche e le fa cadere con il suono di una necessità che consuma più energia di quanta ne sappia sentirmi nelle ossa, e che pure è qui, innegabile, e spinge un respiro appena oltre le labbra nel tempo di un’attesa; quella di una porta che si apre, e di un secondo in cui tento a premere un sorriso sulle labbra, ma lo sento vacillare sotto quella stessa realtà che chiede, da me, solo qualcosa che sappia più di onestà verso il tumulto dei miei pensieri, e di quello che sento agitarsi in fondo all’animo. «Avevo promesso che ci saremmo visti presto» è l’unica cosa che riesco a dire, anche se sa di qualcosa che sembra quasi una bugia quando so quanto non sia affatto presto. Eppure, so anche che è stato un tempo che mi è servito a poter ritrovare, anche solo in minimo, una qualche sorta di stabilità, seppure sappia sentirla perfino adesso in un perenne vacillare. «Forse avrei dovuto avvertirti prima di presentarmi qui, mi dispiace»
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    I vuoti sanno fare male più di infiniti dolori sicuri. Quando le attese si tramutano in dubbi e le incertezze diventano lacrime silenziose ma mai sicure, quando la mente si abbandona ad ogni scenario possibile, anche al peggiore, nella speranza di potersi aggrappare a qualcosa, è lì che ogni solida base si tramuta in sabbia scostante e le speranze franano sotto piedi instabili. Aalina non ha saputo come sentirsi, per giorni, nell'attesa della peggior notizia possibile. Ha provato a non pensarci o a pensare, invece, a quanto di più improbabile potesse accadere. Ha tentato di collegare notizie sconnesse, pezzi di un puzzle che non ha acquisito senso nemmeno sotto ad occhi che stanchi si sforzavano di essere attenti. Ma non ha trovato nulla. Non ha trovato un motivo, una tragedia, non ha trovato un dolore a cui aggrapparsi quando nel suo petto c'era solo il vuoto di un messaggio arrivato troppo tardi e di una rassicurazione quasi vuota, che dalle luci di un telefono non le sembrava davvero essere sincera. E' rimasta preoccupata, alla fine, nonostante quel messaggio. E' rimasta in attesa ancora a pensare, a penare per quelle spiegazioni che infine non sono arrivate mai, finché non è stato lui stesso a presentarsi con il bussare di una porta serrata da troppi giorni.
    Ci mette un solo istante ad aprire, a raggiungere la porta e a spalancarla per poter di nuovo respirare. E per un secondo rimane ferma, impossibilitata a muoversi o a parlare, a fare altro che non sia riempirsi gli occhi di un'immagine che ha creduto possibile di sfocarsi tra memorie mai più avverabili. Ma Esa è davanti a lei, adesso, e forse ha solo bisogno di guardarlo un po' per crederci davvero, mentre un sospiro di sollievo, uno lieve e ancora incerto, esce appena dalle sue labbra socchiuse.
    «Sei qui.» E per un momento, per un solo istante di egoismo, le va già bene così. Perché può accettare di doversi prendere sulle spalle il peso di un volto stanco, segnato da fatiche che non conosce, ma che vorrebbe poter fare sue per donargli un secondo soltanto di sollievo. Può accoglierlo in casa, nella sua vita e nelle sue braccia ricevendo in cambio quella sola presenza che ha dovuto credere perduta per istanti infiniti. Per questo lo abbraccia, prima ancora di rispondergli, prima ancora di ascoltarlo perché è lì che ha bisogno di averlo, nella sua casa e nelle sue braccia senza necessità di alcun preavviso, ma solo di certezze indelebili.
    «Non devi avvertirmi. Solo... non sparire più così per favore.» Ma non c'è rammarico nè monito nel suo sguardo che si riposa in quello di lui, che cerca un rifugio mancato e tutto ciò che in esso potrà trovare, senza la paura di dover condividere qualcosa di troppo grande da sopportare. «Entra. Vuoi parlare? Vuoi dirmi che è successo?»
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    È una promessa che vorrei poterle fare, come vorrei fare a mia madre, sempre, quella di essere in grado di andare e tornare senza che qualcosa si spezzi fra le sue dita o le mie; eppure sono promesse sempre complesse nella loro realizzazione, e so che nonostante gli sforzi, l’impegno, qualche volta capita che si sgretolino anche quando cerchi di preservarle come se fossero l’unica cosa importante in mezzo ad una moltitudine caotica che di fiati, non ne lascia neanche uno. Ma so che sono stati giorni fatti di resistenze, di imposizioni, di pensieri ammassati che mi hanno trascinato nelle necessità di una guarigione che non è andata tanto a fondo quanto mi sarebbe servito, nello spirito più che nel corpo. Eppure le annuisco, lasciando andare un respiro e afferrandone un altro subito dopo, con qualcosa che è la punta di un rammarico che arriva a scivolare fra vene inquiete e che adesso, vogliono solo distendersi dentro qualcosa che possa placarne il ribollire. Dimenticare, se potessi, tutto quello che le ha scosse, quand’anche so che nel poterlo scegliere non lo farei, perché non sono mai stato così. Ho sempre, invece, raccolto ogni ricordo custodendolo con fermezza, come se fosse parte delle necessità della mia stessa esistenza. Adesso, però, sento la necessità di uno spiraglio che torni ad aprirsi contro tutto, e s’imponga come mi sono imposto io, rifiutandomi di cedere sotto un giogo che si è premuto sulle mie gambe e ancora più a fondo, nell’anima, senza riuscire ad andare così a fondo quanto avrebbe voluto. Anche se a fondo ci è andato, se pure in un modo diverso che mi ha tenuto lì, fermo in un punto irrisolto che ancora giace fra le dita, e sosta nei respiri come un conflitto che nessuno più ha saputo risolvere. Troppo intricato, ingarbugliato, per trovare l’inizio e la fine. Ma guardo la preoccupazione che si smuove sul fondo del suo sguardo, e lo so che in fondo quello che voglio fare, adesso, è trovare lo spazio per promettere che non succederà più, qualsiasi sia il destino che attende sommesso sulla strada che ho intrapreso poco più di un mese fa. «Non lo farò» c’è qualcosa che diventa solenne nella voce, e resta immobile pure nel tremolio del tono che si gonfia per un secondo, di quell’intenzione granitica che compone il mio sguardo. Anche se è oltre di lei, fisso in un punto che la impersonifica nella mia mente, quando c’è una stretta che ricambio trascinandola per qualche secondo in cui sento le braccia stringersi appena più contro di lei, in un bisogno di un contatto umano che possa farmi sentire esattamente così, umano, fin nel centro delle mie stesse ossa. Niente di più, niente di meno; semplicemente esistente in qualcosa che nasce da me, un mio desiderio, e non porta con sé la minaccia di una conseguenza che si alza per devastare e distruggere. Abbasso appena il volto in un annuire che lentamente, mi spinge più dentro spazi che ho imparato a riconoscere come qualcosa che occupa uno spazio importante fra i miei pensieri; che siano passati, presenti, o quel sentire di un futuro che per quanto mi appaia densamente scuro, ora, resta agganciato a quelle stesse ancore che hanno sempre gli stessi fili tesi fino a qui. Stringo appena le labbra, un gesto che serve solo a creare un movimento nel volto, un cedere di muscoli che concedono spazio ad un sospiro quando ancora, torno a guardarla. Ricordo, per un istante, quanto mi sentissi smarrito la prima volta che ho messo piede in questo mondo, con niente se non il suo nome ad essere appoggio ed appiglio contro tutto quello che nella mia mente, si sfaldava istante per istante, risucchiando i miei stessi occhi in un vortice che sapeva solo seccare ogni cosa. «Sì, sarei molto felice di farlo» è una verità che scivola spoglia di qualsiasi altra cosa, anche se posso riconoscere in essa qualcosa che s’incurva, e va più a fondo nello scavare quella che sembra diventare quasi una necessità, come un bisogno radicato che possa accogliermi e non spingermi, invece, più lontano. Aalina conosce, di me, ideali e credenze, e di quelle cose che si sono create nel corso di anni, e posso dire che qui, sia la persona che mi conosce più di tutte. Perfino, più della mia stessa madre, con cui pure ho avuto il tempo di distendere il tempo per recuperare tutto quello perso. Ma è diverso, lo è nella certezza che adesso, mi spinge ancora più dentro, che mi fa muovere le mani per sfilarmi il cappotto dalle spalle, lasciandolo a pendere sull’avambraccio destro, piegato contro il busto. «Mi dispiace, per quel che vale» c’è un altro respiro che sembra voler scuotere a fondo la cassa toracica, ma che porta i miei occhi a fermarsi ancora di più contro di lei, il suo volto, i suoi occhi, in secondi trascinati in un silenzio che resta breve. «Sono stato da mia madre, se così vogliamo dire. Sono stato portato lì in condizioni... non ottimali. Ma adesso sto bene, mi hanno guarito, si sono presi cura di me» non aspetto neanche che ci sia un muoversi, un sedersi, o qualsiasi cosa. Le parole scivolano quasi come se volessero affannarsi fuori, una dietro l’altra, e diventare solide contro l’aria. «Per questo non ti ho contattata prima, e poi...» scosto lo sguardo, muovendo due passi appena verso il lato, solo per spingermi contro uno spazio che non mi tenga fermo. «Ho avuto molto su cui pensare, riflettere. Molto su cui lavorare, e anche adesso non sono riuscito del tutto a riconciliare molte cose»
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2 replies since 4/1/2022, 19:05   69 views
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