White Rabbit

Rafael/Abigor

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    E' sempre troppo fredda, questa città. Lo sento anche quando sono rinchiuso in un locale, quando ad ogni movimento di una porta non troppo stabile sui suoi cardini si può avvertire uno spiffero insistente che gela leggermente le ossa. E in chiusura quella maledetta porta deve rimanere aperta, ordini dai piani alti. Mi andrebbe anche bene se fosse estate, o se fossi realmente ubriaco, cosa che davvero raramente riesco ad ottenere per sto maledetto sangue caldo che circola sempre troppo velocemente nelle mie vene. Vorrei solo sbronzarmi più facilmente, niente di strano. E invece sono in un locale dopo la chiusura, praticamente già sobrio, per il semplice motivo che devo pulirlo prima di poter tornare a casa a morire sul mio letto.
    E' quello che cercavo quando sono arrivato qui, comunque. Una vita troppo dinamica, troppo piena, troppo stancante per lasciare veramente spazio agli invadenti pensieri che da troppo tempo avevano iniziato a premere sulle pareti fragili della mia mente, come a volerla far esplodere. Eppure a volte succede comunque, che esploda dico. Mi succede che ho bisogno di diventare una bestia, di prendere a pugni qualcosa, per il semplice fatto che da mostro nella mia testa trovano spazio solo gli istinti e non le paranoie. Ma ehi, è da un po' che non succede. Potrei addormentarmi sotto il bancone, in queste condizioni, ma è da un po' che non succede.
    E alla fine questo locale mi piace. La musica è forte, la tengo ancora un po' a basso volume mentre mi affretto a sistemare i sacchi pieni di vuote bottiglie di vetro, la gente mi piace, lo sballo si avverte veramente quando ognuno si infila in questo buco sotterraneo solo per un po' di alcool scadente e la possibilità di drogarsi senza dare nell'occhio. Sante luci al neon. Eppure adesso non dovrebbe esserci ancora qualcuno che cerca rifugio qua dentro, non quando l'alba ha già quasi completamente rischiarato le vie e, purtroppo, neanche se si tratta di una bella ragazza. «Hey, hey, siamo chiusi!» Peccato, però.
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    Eliza Graham


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    ono questi i momenti in cui mi chiedo chi cazzo me l’ha fatto fare? La mia testardaggine, immagino. Quel bruciante bisogno di essere libera. Posso condannare solo me stessa per le mie scelte del cazzo, in fondo, questo è quello che succede quando quello che si fa, lo si fa unicamente per sé, per il proprio futuro, per una vita eterna che non sembri la stessa perenne prigione in cui tumularmi viva non sembra la migliore opzione di sopportazione. “Viva”, poi, è relativo, ma ormai è più vicino ad essere un concetto che una realtà. Lo è, per entità che vivono per sempre. In ogni caso, chi cazzo me l’ha fatto fare? Me lo chiedo, scappando come faccio direi troppe volte perché non sto davvero abbastanza attenta, perché ho la testa altrove. Ho la testa nei motel schifosi dispersi in città inutili dell’America. Ho la testa nei suoi occhi e nei miei, tra mille preoccupazioni che è difficile tenere a bada, sempre in allerta pronta a ricevere la pugnalata alle spalle che sarà fatale. Un’altra, per non farmi mancare niente. Non ho neanche guardato l’ora, prima di gettarmi nel primo locale che mi sembrava aperto e invece non lo è, appunto, perché un ragazzo mi blocca il passaggio facendomi notare che ormai è andata. Ma per me non può esserlo, perché non li ho seminati, sono soltanto riuscita a rigirare qualche strada senza farmi notare ma lo so che ne batteranno ogni centimetro e passare attraverso la Cortina potrebbe aprire ai loro occhi una strada troppo semplice da seguire. Quindi devo entrare, non me ne frega un cazzo se il biondo qui dice che è chiuso. «Senti,» lo dico troppo brusca quindi mi sforzo di rilassarmi, almeno la faccia, il tono, abbozzare un sorriso che diventi più incerto ma anche affilato, teso su di un lato con quella punta di semi-nascosta malizia che piace a tutti intravedere. Soprattutto se non sono sicuri. Di solito poi, hanno voglia di indagare. «Ho dimenticato la sciarpa dentro, ci metto un secondo.» Trascino i denti sul labbro inferiore mentre si stringono le palpebre e l’espressione diventa di supplica, il tono un sussurro che cerca di non tradire la fretta e il nervosismo che mi vive sotto la pelle, «Ti prego.»


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