Where Do You Think You’re Going?

Morgan/Edie | Harlem | Upper Manhattan | 1 Maggio | Contenuti sensibili

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    Mi lascio cadere sul divano, il fiatone alza e abbassa rapidamente il petto. Mettere in moto il corpo e il sangue per farla salire più in fretta è una delle prime cose che ho imparato, per impazienza probabilmente.
    L’unico aspetto negativo dell’emme è che ci mette un’eternità ad arrivare.
    E anche quando scende, anche quello è terribile a volte.
    Ma non ci penso.
    La chiave per godersela è non pensare alle cose brutte, altrimenti arrivano immensamente più forti, soverchiando l’anima, ti annientano, contagiano tutto il mondo e non si spegne, perché non si spegne mai, ma si colora di luci malaticce e velenose.
    I residui di quello che mi porto dall’altro ieri pulsano delicati dentro i muscoli, passeggeri. Fra un po’ non li sentirò più, o li sentirò e non m’importerà, li amerò nel modo più giusto che sia concepibile per un essere umano.
    Prendo una sigaretta lasciando il pacchetto abbandonato sul divano.
    Mi sembra di aver lanciato aria.
    Faccio scattare l’accendino, la fiamma oscilla così lentamente da rendersi irresistibile. È viva anche lei, nello spazio, brucia luminosità. I bordi sfumati esplodono di luce. «Cazzo, finalmente», sospiro attraverso un sorriso.
    Arriva e ti solleva.
    Ti solleva da tutti i pesi del mondo.
    Tutti.
    Ti rilascia leggero a scivolare nell’ossigeno sentendone ogni particella.
    Aspiro per accendere la sigaretta e non sento niente, o sento tutto, sembra di fumare l’intera esistenza.
    Poggio indietro la testa contro il bordo dello schienale e cerco Edie con gli occhi. «Ti insegno un trucchetto, se guardi la luce e vedi i raggi significa che ti sta salendo.» Le sorrido, e so esattamente che espressione ho perché mi è capitato di guardarmi allo specchio in questi momenti.
    Brutta idea a volte.
    Ma lo so, e non m’importa.
    È questo il punto.

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    Non avrei pensato di essere in un posto come questo, anche solo stamattina. Ho cercato di non pensare per niente, in quel modo stupido che non ha mai davvero funzionato, ma che è rimasto agganciato a tutto come un bisogno che a furia di essere espresso, magari ad un certo punto sarebbe diventato reale. Non funziona mai, ma alla fine, serve quanto basta a superare le cose, una ad una, senza contrare il tempo, i secondi uno ad uno, sfilandoli da ogni cosa che sa muoversi. Ma alla fine, siamo proprio qui, nonostante tutto. Ed è una sensazione che voglio ascoltare, fino in fondo, e forse un po’ anche per questo che alla fine, siamo finiti in un appartamento a fare qualcosa che non avrei mai pensato di fare nella mia vita. Sembra una cosa stupida, ma in qualche modo, a me non sa sembrarlo adesso. Dopo tutto, penso che ci sia solo il bisogno di strappare un diritto, anche quando è qualcosa di piccolo, anche quando è qualcosa del genere. Il diritto di una sera, se non altro. Di prendere tutto e scostarlo, e lasciare che ci sia solo qualcosa di più leggero. Sono davvero convinta che ce ne sia bisogno, in un modo che è pari solo al peso che è rimasto sospeso da quasi quando lo conosco. Una cosa che si è trascinata per tutto il tempo, ed è rimasta sospesa sulla sua testa a fissarlo, anche quando cercava di non guardarla. Non ho idea di come sia, per lui, sapere di averla lasciata alle spalle. Ma so com’è per me, e mi da un senso che non credo possa essere descritto in qualche modo. Classificato, trascritto con parole che ne possono a stento sfiorare il senso. Stringo appena le labbra, lo faccio seguendo il suo gesto mentre arriva sul divano, alzando un braccio per premere il gomito sullo schienale e aprire la mano per premerci il volto. Allungo solo una mano, lo faccio per raggiungere le sue sigarette, sfilarne una e incastrarla fra indice e medio, lanciandogli solo un’occhiata leggera. «I raggi, certo» lo sbuffo in mezzo ad un sorriso, muovendo appena la testa per annuire e spostare lo sguardo nel farlo. Lo so che ho quel tipo di pensiero, da quanto l’ho visto, che mi continua a dire di come invece, potrei guardarlo per ore e non stancarmi. Sono i rimasugli di paure che non sono mai andate via, anche quando ho cercato di romperle tutte una ad una, per lasciare invece spazio solo a tutto quello che serviva. Ma non sono mai stata brava in questo, solo che in momenti come questo, non so pentirmi di non esserne così capace. Come se fosse un contrappeso che poi, alla fine, nel farmi prendere un respiro, lo riempie ancora di più, gonfiandolo fino a renderlo pieno di tutto. Stringo un occhio, lo faccio nel girarmi davvero a guardare le luci. Queste sono cose decisamente fuori dalle mie corde. Del tutto. Ne ho un concetto teorico stretto da qualche parte, fra nozioni che se ne stanno lì, senza voler dire niente. «Lo sai che suona un po’ come una cazzata, vero?» socchiudo appena gli occhi, lo faccio spostandomi per premere la schiena contro il divano, lasciandomi scivolare appena un po’ più in basso. Qualche secondo che mi lascia un po’ sospesa, a inspirare la mia stessa aria ed ascoltare solo il silenzio dei suoi, di respiri. Il rumore dell’accendino. Li riapro, con ancora lo sbuffo divertito contro le labbra, ed è una cosa che un po’, succede all’improvviso. E questo non me lo aspettavo. Non so perché, ma ero convinta fosse qualcosa di più lento. Ma guardo la luce, e c’è una consistenza diversa, c’è un senso diverso in tutto. Come se la pelle formicolasse, e potesse sentire anche lo smuoversi dell’aria. Premo una mano di più contro il divano e lo sento incedere contro le dita. Mi lascia per qualche secondo semplicemente zitta, ad ascoltare il moto totalizzante del mondo. «Ah» muovo un po’ di più la mano contro il divano, muovendo la testa per seguirne il gesto, su e giù senza un senso logico, ma che invece, ha un senso tutto suo che avanza di poro in poro contro l’epidermide. «Oh cazzo»
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    Anche io la prima volta non avevo assolutamente idea di che cosa sarebbe successo, e mi sembravano tutte cazzate. Non mi sarei mai potuto immaginare che è così che funziona. Che semplicemente ti toglie via un velo dagli occhi e ti mostra le cose per come sono davvero, non come lo fa la cocaina che schiaccia contorni e forme e le irrigidisce, tutto diventa spigoloso e tu ci passi attraverso con falcate decise.
    No, è una realtà diversa. Non è più nitida, non è più colorata o più luminosa. È solo più reale.
    E mi era mancata da morire questa sensazione di esservi parte.
    Senza barriere, senza confini, una connessione continuativa e pacifica.
    Non è una cosa che si può inventare prima di averla provata. È troppo oltre qualsiasi sensazione provata. Ed è così vera.
    Le vorrei dire di non pensare alle cose brutte, ma dicendolo ci penserebbe e ci sto pensando già troppo anche io. Per fortuna però, è tutto una distrazione continua. Mi chino verso la bottiglia poggiata ai piedi del divano per tirarla su e bere un sorso dalla canna.
    Fresco.
    Acqua.
    Penso all’acqua.
    Voglio toccare l’acqua.
    Ma finisco a stringere entrambe le mani contro la birra ascoltando ogni goccia di condensa sul vetro. La sigaretta premuta tra le labbra e la mascella che scatta leggermente ogni tanto. «Già,» mastico tra i denti, «Adesso è tutto nuovo. Questo è com’è la realtà veramente, solo che siamo sempre troppo concentrati su noi stessi per sentirla davvero.»
    Parlo più velocemente, come se le parole si inseguissero di corsa per uscire una dopo l’altra e io temessi di perdermene una tra un secondo all’altro, ed è un po’ così. Ma so come addestrare l’impellenza di sentire tutto contemporaneamente e anche di distrarmi in continuazione.
    Penso a quello che ho detto.
    «Sono un poeta.» Mi viene da ridere, ma la mandibola stretta stira la risata in uno sbuffo soltanto. Poggio la birra. Tintinna contro il pavimento. «Che merda però che siamo a New York, sarebbe stato molto meglio in un bosco. Un parco. Con la natura, l’erba, le cose.» Penso che siamo dentro una casa e non è possibile uscire a guardare la notte, sentire il vento freddo sulla faccia, ascoltare il suono degli alberi, toccare i tronchi, scivolare tra le foglie. Questo non mi piace ma va bene comunque, perché sono con Edie e non pensavo che l’avrei fatto, invece l’ho fatto e… Edie.
    Lei intenta a sentire il divano.
    Ottima idea, ma dopo. Perché adesso c’è solo lei. Un istante totalizzante. Completo. La guardo e non so nemmeno da dove iniziare. I capelli, le gambe, le mani, la faccia, gli occhi, le labbra, i cosi che ha addosso, il vestito, le calze. Le gambe. Le gambe. Sì quelle.
    «Adesso ti lascio un po’ di tempo perché ti voglio far provare un sacco di cose ma con calma, cerchiamo di fare con calma anche se è difficile.» Per me è difficile, perché ho questa fame di avere tutto insieme e vorrei spezzarmi in più momenti e pezzi per arrivare a ogni cosa nello stesso istante.
    «Molto difficile», borbotto mentre mi piego verso di lei mezzo seduto. Una mano ancora bagnata dalla condensa della bottiglia la poggio sul suo ginocchio e poi verso l’alto, mentre scendo fino a poggiare la testa sulla coscia. «Amo le tue gambe.» Il tessuto sotto la mano, sotto la guancia, girato di profilo.
    Chiudo gli occhi per un po’ e sento solo quello che sente la mia pelle. Una cosa alla volta, mi ripeto.

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    Ad essere onesta, non mi sembra neanche così assurdo quello che dice. Anche se mi concentro di più sul suono che fa. Il modo in cui rimbomba, scivola, scende e si alza per andare in un flusso che continua e continua. Mi viene da pendere appena di più verso di lui, un dondolio che da destra a sinistra sembra il moto denso di onde. Non sono neanche sicura di sentire davvero ogni parola che dice, ma continuo a concentrarmici nel modo in cui riempiono lo spazio una dopo l’altra. Le sento vibrare nello sterno, come se potessi toccare e lo stessi facendo, anche senza muovermi. Anche il divano diventa qualcosa che si preme in mezzo, in un modo che fonde la sua voce e la sensazione sotto le dita. Mi sento come se stessi fluttuando in qualcosa che ha mille consistenze diverse, e non premono con forza, ma hanno voci che mi fanno solo venire voglia di seguirle. Di premere io, contro tutto. «Mh-mh» mentre ancora ciondolo, piegando un po’ la testa all’indietro solo per sentire una sensazione che si arrampica lungo la schiena, quando la nuca ne sfiora appena l’inizio. Anche quello, a destra e sinistra, prima di girare la testa in un modo che mi permette di premere la guancia contro la spalla, il tessuto del vestito, e premere gli occhi contro di lui continuando solo ad ascoltarlo in un modo che spalanca tutto. Lo seguo con gli occhi, guardando il modo in cui i confini dei suoi movimenti si fanno strada insieme a pensieri che ruotano e si svegliano, e mi fanno premere contro bisogni lucidi di esplorare tutto. In un modo che non ha confini, quando ogni cosa ha mille modi di arrivare, tutti insieme, soffiando sui sensi per attivarli tutti. La sensazione sul ginocchio è morbida, diventa un punto focale da seguire. È quasi assurdo pensare che sia solo una mano, che sia solo un muoversi che si trascina dietro una sensazione che formicola sotto l’impronta umida. Ne sento il calore, la pressione, in un modo che sembra muoversi al di là di ogni punto, scivolare con dolcezza a fondo e mantenere una vibrazione tutta sua. Come se tutto si mischiasse. Il mondo intero si raggrumasse per essere così pieno, da non lasciare spazi vuoti. E lo ascolto, insieme alla sensazione della testa che si preme contro le gambe, e quella dei capelli che stanno in mezzo. I capelli. Muovo la mano, la scosto dal divano seguendo un punto che nella mia testa, diventa importante, consuma tutto il resto, sa di un bisogno che si smuove e arriva contro la punta delle dita fino ai suoi capelli. «Baby» lo dico con un soffio, con dita che diventano un palmo, due, e un continuo muoversi fra scalpo e punte, avanti e indietro, mentre un po’ mi chino per avvicinarmi a quel punto. «Giuro che hai i capelli più belli del mondo» continuo a muovere le mani lì, a sentire il modo in cui ogni ciocca, ogni singolo capello, si poggia contro la pelle. Indescrivibile. Penso che vorrei sentirli contro la guancia, in un modo che mi sembra naturale, scontato ovvio. «Dovresti toccarli» anche questo è un soffio, mentre cerco di avvicinarmici davvero, con il volo, anche se non ci riesco, e il pensiero un po’ si perde quando con la punta delle dita di una mano, arrivo all’attaccatura del suo zigomo, e inizio a premere i polpastrelli lì uno alla volta come se fosse un cammino che apre uno spazio tutto nuovo di fronte a me. «Continua a parlare, la tua voce è come quando sei vicino ad un amplificatore e partono i bassi ed è molto bella, ma ho bisogno di mettere la faccia nei tuoi capelli e non ci riesco così»
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    Tengo gli occhi chiusi ancora per un po’, le sue mani sono come acqua. Sicuramente ho dei capelli bellissimi ma preferisco ascoltare le sue mani prima di toccarli.
    Struscio la guancia sulla sua gamba, la mano torna indietro, in basso e in alto sul tessuto che sfrega sotto il palmo, si incastra nei calli. Per un momento penso che dovrei stare attento a non romperle le calze ma poi penso che in realtà vorrei farlo.
    Per un momento penso di farlo.
    Devo chiederglielo prima.
    Lei continua a parlare, allora apro gli occhi e mi ricordo di avere la sigaretta ancora in bocca. Accesa. «Oh cazzo, mi ero dimenticato la sigaretta scusa.» Mi sollevo di scatto, non del tutto, resto vicino scostando la sigaretta tra le dita per controllare la pelle e da vicino. Che non ci sia niente, neanche una briciola di cenere. «Non ti ho fatto niente vero? No niente», ci passo la mano sopra come a scacciare qualcosa che non c’è. Poi le labbra, in una pressione rapida che mi abbassa di nuovo prima di tornare del tutto dritto, seduto accanto a lei.
    Porto indietro i capelli con un gesto lento. I raggi, dicevo prima. La lampada in alto esplode di raggi. Li posso quasi contare, li conto. Uno, due, tre, «Sì i miei capelli sono molto belli. Ma saresti stata più contenta se li avessi avuti lunghi vero? Sì lo so non c’è bisogno che rispondi. Sei fissata con i miei capelli», lo dico con una distrazione che si perde nello sguardo di nuovo in movimento.
    Lascio la sigaretta sul tavolino accanto al divano.
    Mi chiedo cosa stessi pensando poco fa, qualcosa che dovevo chiederle. Non importa.
    Tiro fuori il cellulare dalla tasca del jeans stirando le gambe per arrivarci meglio, voglio musica. L’ho deciso mentre lo cercavo, ho deciso la canzone mentre la cerco. La cerco e so già che musica voglio.
    La musica è la cosa più bella che sia mai stata inventata dall’uomo.
    È aria, ossigeno, è libertà, è un’utopia che respira come se fosse una persona ma è meglio di una persona. È meglio di qualsiasi altra cosa e adesso la voglio.
    «Se vuoi un’altra canzone la possiamo mettere.» Premo sul touch e parte Dear Mr. Fantasy, che ha un retrogusto triste ma è perfetta comunque. Con tutti quei livelli, uno sopra l’altro, si incastrano, si circondano, si accolgono, risuonano separati e perfettamente uniti, mischiati insieme in un unico suono fatto di tante cose insieme. Posso sentirli tutti adesso, separati e insieme contemporaneamente. Piego la testa all’indietro con un respiro dal naso, lento, si prende anche lui la musica che è parte dell’essenza.
    È questo che è, l’essenza.
    «Se vuoi qualsiasi cosa devi solo dirmelo e lo farò perché voglio fare tutto quello che vuoi e darti tutto quello che vuoi. Capito? Tranne giocare con la mia pistola, quello non si fa.» La cerco girandomi, con una serietà che non so da dove mi sia uscita ma so che è importante se è qui. È una cosa molto seria quella che ho detto.
    Mi rendo conto che è una cosa che ho sempre pensato ma adesso è uscita così, semplicemente, senza temporeggiare, filtrata da niente se non lo sguardo che pende verso di lei. Verso Edie. Perché la guardo e penso improvvisamente a quanto mi sento esplodere di miliardi di cose, ogni volta, adesso e ogni volta. Sto sorridendo non so da quanto esattamente, incantato su una cosa che oggettivamente, oggettivamente, non poteva che fare questo effetto. Lei e basta.

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    Non sicura di quello che succede, perché il mondo si muove in un modo che rende tutto talmente condensato, da farmelo sentire prima che un solo pensiero possa arrivare a poggiarsi da qualsiasi parte. Ma sento l’aria che arriva come un tocco lì dove si sposta, e mi lascia le mani a scivolare appena dalla testa, i capelli, morbidamente contro il grembo, in un modo che per qualche secondo, mi lascia a trascinare pezzi del vestito contro i polpastrelli, in pizzichi che trattengono la stoffa mentre sposto la testa per guardarlo. Guardarlo, e guardarlo ancora. C’è qualcosa che riempie e continua a riempire, come tutte le volte che nel guardarlo mi sorprendo di qualcosa, ma adesso è come se fosse completo. Totale. E diventa davvero qualcosa che arriva, e colma ogni cosa. Ho la sensazione di essere in mezzo a qualcosa, io e lui, come se potessi toccare le sue percezioni con le mie. Anche se non sono sicura siano le stesse, ma è un pensiero che non arriva così limpido, e mi lascia solo la certezza contraria. Poi arriva di nuovo la mano contro la gamba, la pressione di labbra che attraverso il nylon, ha sfumature diverse, mi porta a lasciare un soffio dalle labbra che diventa il rumore basso di una risata che non lo è davvero, ma ha lo stesso tipo di gorgoglio. E il mondo continua a miscelarsi, come colori sopra una tela, che si fondono e ne creano di nuovi, e pulsano perché c’è tutto da vedere, da toccare, toccare e toccare ancora. Per sapere che sapore ha, contro la pelle. Muovo solo la testa, scuotendola appena anche se non è davvero per rispondere, ma solo per sentire il flusso dell’aria contro le orecchie. Per un secondo, penso al semplice fatto che siamo qui, io e lui. E quanto questo qui sia enorme. E quanto questo insieme sia enorme. Come dentro la stessa bolla, in un crescere che si aggancia a tutto. Penso di volerlo toccare, di voler sentire anche il suo sapore contro la pelle. Così, completo, come se fossi arrivata finalmente ad un punto importante, che dipana tutto, e lo rende così chiaro da essere assoluto. Ma poi arrivano le note, e sento il corpo spostarsi indietro, trovare di nuovo lo schienale su cui lascio andare la testa, all’indietro. «È perfetta» mi sembra davvero che lo sia, e per qualche secondo mi ci perdo. Come se ci nuotassi dentro. E a bracciate, toccassi ogni vibrazione, ogni nota, e ognuna di quelle, apre un altro strato del mondo per farmelo guardare, sentire tutto. La voce di Morgan mi fa saltare di nuovo in un punto diverso, che diventa ancora il centro di tutto, di ogni mia attenzione. Mi muovo, una mano si poggia contro lo schienale, ci affonda per qualche secondo, finendo in un altro mondo che colora tutto con un illuminazione che è fatta solo di una sensazione aderente. Mi ci fa premere per qualche secondo in più quando poi, tiro su una gamba e poi l’altra per mettermi in ginocchio sul divano, spostando l’altra mano quasi alla cieca verso di lui. La camicia, per prima, che sotto le dita è un prato morbido, asciutto, con peli che carezzano l’epidermide e formano qualcosa che mi porta gli occhi in quel punto, come se fosse una realizzazione improvvisa. Come se la vedessi per la prima volta. Lascio perdere il divano, muovendo anche l’altra mano contro la sua spalla, prima di scivolarci con il lato della faccia, lungo il braccio, la spalla, lasciandola lì a sentire con la punta del naso, invece, appena l’impronta della pelle del collo di Morgan. «Morgan penso che stiamo fluttuando nell’universo» lo mormoro prima di muovermi ancora, risalire un po’ dal collo di nuovo ai capelli, come se me lo fossi appena ricordata, e premerli contro la guancia, con le mani che si spostando da un lato e l’altro, una dalla schiena e una dal petto, solo per sentirlo ancora, e ancora, e di più. «Sono così contenta che hai voluto fare questa cosa con me, lo sai?» mi sposto perché sia il naso a premere fra i suoi capelli, in uno strusciare che non si ferma, e mi porta su e giù in continuazione. «Questa canzone è bellissima, tu sei bellissimo, e morbido, e voglio solo fare tutto, e toccare tutto, e con te» sento la concezione di Morgan, della sua semplice esistenza e presenza, diventare qualcosa di immenso. Mi fa fremere i muscoli in un modo che è rilassante, che è pieno, che è tutto.
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    Alla cieca quasi lancio il telefono sul mobile dove prima ho poggiato la sigaretta. Guardo lei, la muoversi, parte di tutto e anche il centro su cui si focalizza la mia attenzione, i miei pensieri, una catena legata per ogni singolo anello. Non c’è altro. Nient’altro ha senso. E l’ho messo a rischio così tante volte solo perché sono un coglione.
    Scaccio il pensiero.
    Queste sono proprio il genere di cose a cui non devo pensare.
    Per fortuna lei si muove, mi tocca, le sue mani mi toccano ma sembra che la sua anima lo faccia, arrivi in fondo dove è così profondo che è difficile arrivare ed è così naturale adesso, che mi ci sento trasportato dentro. Portato, invitato ad andare in un posto che è questo e nessun altro.
    Era esattamente per ritrovare noi che volevo farlo.
    Perché lo so quanto mi sono rinchiuso in questi mesi, sempre di più, sempre più a fondo, sbarrando porte e finestre in una stanza insonorizzata così che nemmeno potesse sentirmi. Volevo essere solo, per essere niente e sentire niente, perché ero al limite.
    Invece oggi è un “dopo”, uno che non pensavo sarebbe arrivato, ma che alla fine siamo riusciti a strappare via al destino e tutte quelle cazzate sul fato, ed eccomi. Eccomi e basta. Non mi sento perché sento tutto quello che c’è fuori ed è molto più importante, è meglio. Vorrei vivere sempre così. Concentrato sulla realtà esterna e non sul puttanaio che si agita e urla dentro il cranio.
    Concentrato su di lei, così tanto da non percepire nient’altro che le sue mani, la sua voce, come respira, il suo calore.
    Ha ragione, anche se è molto da checca ripeterlo, che stiamo fluttuando nell’universo.
    È il senso di questa droga fantastica. La migliore, proprio perché è per momenti unici, con persone scelte o per la solitudine immersa nella natura e tante altre cazzate da hippy che non direi mai ad alta voce. Anche se ora potrei dirle. Potrei. Forse l'ho detto. Ma adesso sono di nuovo distratto dalle mie braccia che si muovono da sole per abbracciare Edie, spingendomi contro di lei per premere la testa più in basso, tra il collo e la spalla. «Tu sei bellissima.» Ma gliel’ho detto così tante volte che forse ormai ha smesso di essere importante, non lo so.
    Trascino la faccia lungo il suo collo, «Sono morbido?» Respiro il suo profumo. Da dietro la schiena risalgo con una mano per cercare i suoi capelli e li accarezzo da lontano, solo sfiorandoli con il palmo. «Non è un complimento per un uomo.» L’altra scende in basso, al lato segue la linea della coscia piegata e risale. «Ma almeno hai detto che sono bellissimo. Lo so, lo sono.»
    Sotto la pelle sento le righe del suo vestito scivolare una dopo l’altra come setole compatte ma morbide. Dall’altra parte, contemporaneamente e con la stessa intensità infilo le dita tra i capelli dietro la nuca, attento a non tirare niente ma solo stringendo per sentire quanto siano soffici.
    «Volevo farlo proprio con te e basta. Anche perché con chi altro avrei dovuto farlo? Non c’è nessun altro con cui vorrei farlo, questa droga è solo per persone di cui ci si fida moltissimo, del tutto, completamente.» Scendo con la testa, lungo le clavicole e in basso nello spazio tra i due lembi aperti del vestito sullo sterno. Le parlo sulla pelle. «Da ragazzino lo facevo da solo nei boschi. Non c’era nessuno di cui mi fidassi abbastanza. Se mi capitava di trovarmela nel bicchiere poi me ne andav–» Odio il mio cervello.
    Scuoto la testa.
    La mia bocca è attaccata per una linea troppo diretta a quello che penso, che mi torna alla mente. Orribile. Ma che c’è sempre in qualche modo quando ho a che fare con le droghe, volente o nolente, come un mostro invisibile che se ne sta lì ad aspettare per ricordarmi che esiste.
    Un collegamento troppo diretto.
    Di qualcosa che è semplicemente una brutta sensazione, una che non riesco a definire ma che non mi piace ricordare.
    «No, non voglio parlare di questo, che palle la mia testa. Parliamo d’altro.» Però adesso sono capace di scivolare da un punto all’altro senza farmi investire, se faccio abbastanza in fretta. E posso farlo, perché c’è lei e le sue gambe, e ora ricordo che volevo romperle. Ma dico: «Tipo che dovresti toglierti le calze.» Ecco, forse è meglio.

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    Per un secondo, mi viene da stringere un po’ di più le mani contro di lui, e lo faccio. Come se potessi davvero toccare qualcosa, e prenderla, e tirarla via. Come ho sempre voluto fare, in un modo che sa solo di esattamente questo. Prendere, e tirare via. Neanche guardarlo. Solo tirarlo via. Lasciare uno spazio diverso. Uno che adesso sento concreto, sento davvero reale, tutto intorno. Che trepida, aspetta, invita. Propone e non pretende. Offre e basta. Muovo la faccia, lo faccio in un modo che segue un suo tragitto, quello che si disegna prima nel gesto che nell’intenzione, perché è tutto un rincorrersi perenne che si sta dietro da solo, e combacia. Non c’è il tempo di chiedersi niente, è tutto giusto. Da prendere con due mani, da sentire. E c’è lui, così concreto di fronte a me, su di me, dentro, fuori, ovunque. Non c’è niente che importi di più, e tutto quello che succede, viene da qui, da noi, e viene da fuori per essere parte di questo. Si mette al nostro ritmo, al mio, anche quando ci sono punti che vibrano nella testa per essere colti, uno dopo l’altro. Arrivo con le labbra alla sua tempia, le premo lì, le allontano, le ripremo, le scosto di nuovo, prima che sia di nuovo il lato della mia faccia a strusciare in quello stesso punto, e il corpo a dondolare e nel farlo, sfregare punti casuali di me e lui insieme, uno contro l’altro. Uno dentro l’altro. Sento come se il confine di tutto il mondo intero, fosse adesso stretto fra le sue mani contro di me, fra quei punti che si stringono di me e di lui. Lo sento fisicamente, in un modo che diventa solo quel continuo di tutto, quel muoversi indomato che non ha bisogno di un pensiero che diventi una cosa e l’altra. Esiste e basta. Sono davvero convinta, adesso, che ci sia qualcosa di bellissimo in questo. Non saprei descriverlo, ma adesso sono anche sicura, sicurissima, che non ci sia bisogno di farlo. Che in qualunque punto siamo, in qualsiasi punto siamo sospesi, perfettamente al centro di tutto, non ci sia bisogno di spiegare cose come questa. «Li tiro via, non ne parliamo» ha senso, nella mia testa. Ha un senso profondo, intricato, ma anche così semplice, che quando mi scosto un po’, quando lo faccio trascinandomi in un modo che non lo lascia davvero ma mi tiene contro ogni sensazione pregnante di lui, me lo sento riscuotere ancora dentro. Senza fatica, senza nessun senso disperato. Senza niente, se non aprire una porta, una finestra, e guardare tutto il resto. Che è così tanto. Lui è così tanto. Sposto le mani finché non arrivano al lato del suo volto, il respiro che anche quello, trattiene pezzi di tutto e li trascina dalle narici, per farli fluire insieme al sangue, all’acqua del corpo, e renderli parte di quella stessa sensazione che confluisce da lui a me, da me a lui. «Me le tolgo, però prima devo dire una cosa importante se no poi me lo scordo» perché ho già altri mille impulsi, e ho le mani che sul suo volto si muovono, e si concentrano così tanto sul senso della sua pelle sotto le dita, delle sue ossa, della sua forma, della sua esistenza, di lui, che tutto il resto un po’ si perde. «Sei l’uomo più uomo del mondo anche se sei morbido» anche adesso, penso che tutto quello che sento adesso, è solo qualcosa che preme sulle vette più alte di una pace che non ho mai sentito. Pace con tutto. Va oltre, diventa comunione. Penso di poter essere tutto quello che sono, penso di poter accogliere tutto quello che è lui. Tutto insieme, senza rischi, senza bruciature. Penso anche, che voglio che sia così. Tutto, e basta. Nel punto più profondo ed alto, più tutto. Mi da un senso euforico, anche quando muovo le mani in basso, lungo il collo, ne seguo il movimento di nuovo fino alla camicia, lo stacco della maglietta con il collo. Due sensazioni diverse. Due sensazione che mi fanno pensare: lui. Totalmente, completamente. Mi riempiono la testa, riempiono tutto e basta. «E mi fido di te completamente, oddio non lo sai quanto mi fido di te, e quanto mi piace fidarmi così tanto di te, perché non mi fido mai di niente e nessuno» alzo di nuovo gli occhi, le dita, le sposto fino al contorno della sua bocca, sentendo ogni più piccolo dettaglio del suo volto come se fossero cose enormi, chiare, limpide, nella testa, sulle dita. «Sono un sacco, sacco, felice che siamo qui adesso, che siamo insieme, che sei nella mia vita» mi scosto, lo faccio riacciuffando un pensiero diverso, premendomi le mani contro le guance come se fossi sorpresa di essermelo dimenticato. «Le calze» mi chino tornando seduta, un po’ traballando, un po’ muovendomi come se seguissi un’onda invisibile che mi attraversa, fino ad arrivare alla fine degli stivali e fermarmi lì, allungare le dita poi fino alle caviglie, risalire. «Dio, baby non hai idea di quanto sono belli questi stivali» ne sfilo uno, lo allungo per premere la parte morbida direttamente contro la sua faccia, smuoverla piano contro il suo zigomo. Solo un po’, prima di lasciarlo e concentrarmi sull’altro. Qualche secondo che si allunga a toccarlo, prima di sfilarlo. «Ho una connessione profonda con queste scarpe, non posso farci niente» me lo tengo in mano, premendomelo sulla faccia quando mi premo dal lato opposto del divano, allungando le gambe verso di lui, smuovendole appena perché dia loro attenzione. «Toglile»
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    Li tira via. Non l’ha mai detto così chiaramente come lo dice ora, e so che è normale, perché come a me viene da dire tutto quello che mi passa per la testa, anche per lei sarà più o meno così.
    Però, comunque, fa effetto sentirglielo dire così, a voce alta, come se fosse una cosa che fa sempre, naturale, e a me sa proprio di questo. Di una cosa che fa sempre. Naturale. Anche quando io cerco di impedirglielo.
    L’ha fatto un sacco di volte, tirarli via.
    Anche per questo così tante volte mi sono sentito bene con lei.
    Era un bene che, con tutto quello che stava succedendo, non credevo sarebbe tornato mai più. E mi accorgo adesso di averle fatto più male con questo che con tutto il resto, molto probabilmente.
    La cosa migliore è che adesso l’impronta pesante, nitida e immensa delle colpa, è solo passeggera.
    Infatti dopo un po’ mi accorgo di starla guardando. Sorridendo. Perso, incantato, perfettamente indirizzato nella via che avrei sempre dovuto prendere. Ho dimenticato quanto tempo è passato da quando ho sentito le sue mani sulla faccia e poi non so cos’è successo. La guardo soltanto, in ogni particolare, come ho fatto tante volte ma adesso anche diversamente. La luce e come le rimbalza addosso, come muove le labbra per parlare, le espressioni che disegnano pieghe sul volto. Il colore che assumono i suoi occhi, anche se è sempre lo stesso in realtà cambia ad ogni parola.
    Non sono certo di aver sentito cosa mi ha detto all’inizio.
    Anche a me piace che si fidi di me così tanto, anche se non me lo merito.
    Scivola via dalle mie prese. Sembra un risveglio, uscire dall’acqua calda, tiepida e solo dolcemente mossa. Lei si ricorda, si muove, e io mi risveglio.
    Mi tolgo la camicia, all’improvviso ho caldo.
    La tolgo, la appallottolo, la stringo tra le mani comprimendola quanto più possibile. Forte. Un forte che torna indietro, forte di nuovo fino alla fine. Poi mi trovo qualcosa in faccia, liscio e fresco, e nero. Stivali, mi rimbomba in una consapevolezza lontana. Deve averlo detto lei in un qualche momento in cui non stavo ascoltando. «Sono davvero molto belli hai ragione», ci smuovo piano la faccia contro.
    Poi spariscono e spariscono anche dalla mia attenzione. Lancio la camicia da qualche parte senza guardare, sto guardando altro. Sto guardando lei di nuovo. «E tu sei troppo carina cazzo» è una concezione che mi esplode in testa, incontrollabile ma la controllo per non saltarle addosso adesso perché vorrei stringerla come ho fatto con la camicia e non è il caso.
    Perché Edie è un essere umano anche se sembra qualcosa di molto meglio.
    Mi pianto solo una mano in faccia, sbirciando attraverso le dita dischiuse di fronte agli occhi. Sempre lo stesso sorriso che preme contro il palmo, inizio a pensare di avere una faccia da coglione. Forse l’ho già pensato, ma non è così importante.
    Le sue gambe lo sono.
    Mi giro meglio sul divano per potermi abbassare verso di lei, allungare le braccia, scivolare con le mani sul tessuto in cui mi impiglio ma ignorando gli intoppi per salire e salire fin sotto il vestito. Arrivo al bordo e tiro giù lentamente, abbassandomi ancora, girandomi meglio, per poter raggiungere la sua pelle con il volto e seguirla in basso man mano che scendono le calze. Raddrizzo la schiena solo per sfilarle completamente e lanciarle via, ancora una volta senza guardare dove, tornando su di lei subito dopo.
    «Mh.» Seguo la sua pelle verso l’alto, con le labbra, ogni respiro, le mani una da una parte e una dall’altra. Sposto un po’ quella a destra per uno spazio in cui continuare a salire, oltre il ginocchio, lungo il lato interno della coscia. «Così mi viene voglia di fare cose indecenti e tu non ti sei neanche alzata da questo divano, ti stai perdendo un sacco di cose», parlo su di lei. Ancora verso l’alto, di più, libero altra pelle spingendo i lembi del vestito. «Ora ci alziamo, okay? Anche perché pure camminare è molto bello.»

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    Voglio che sia felice. Anche questo è un pensiero grandioso, enorme. Totale. Adesso, sembra anche fattibile. Lo sembra in quel modo in cui, ora, mi sembra di poterla anche toccare la felicità, farlo fisicamente, e allora riconoscerla, cercarla e trovarla in uno degli angoli di questa stanza. Lo penso guardandolo, guardando il modo in cui sorride che di rimando, mi fa salire lo stesso gorgoglio nel petto, sulle labbra. La sua, la mia, mi sembra tutto talmente la stessa cosa, adesso, da esserne solo invasa nel modo migliore possibile. Questo è il modo migliore possibile. Ed è nostro. Completamente. Lo possiamo toccare, lo possiamo sentire, e si scrive per noi, e basta. Senza nient’altro. Mi concentro sul suo volto, sulle sue mani quando non c’è quello da guardare. Anche perché non saprei concentrarmi su altro. Non saprei farlo in nessun momento, ma in questo, è come sfiorare il contrario di un’utopia. È questa, l’utopia. Ci siamo dentro. Mi ci sento premuta con ogni grammo del mio essere. È tutto semplicemente, completamente, totalmente perfetto. Ogni respiro, non fa che aggiungere briciole di quella stessa perfezione a tutto. Sento le sue mani. Il modo in cui sono ruvide, e tutti i punti in cui invece sono rimaste morbide. Il modo in cui sono, semplicemente, le sue mani. Ed è più di ogni altra volta in cui ho pensato di amarle. È più di tutto e basta. Come se il sangue le seguisse, e lo facesse solo per sentirle meglio, in un modo nuovo, che va oltre, un modo che supera tutto. Come porti che lasciano attraccare tutto, e dolcemente lo spingono anche lontano. Per sentire il fruscio delle onde. Sono onde, le sue mani. Sono fatte della stessa consistenza, ma anche, di qualcosa di più solido, che possa premere di più, e farsi sentire di più. Per un secondo, penso di star davvero toccando qualcosa di assoluto. C’è una sensazione che questo pensiero, lo avvolge, lo accoglie, lo estende, lo rende il punto più alto dell’esistenza. Mi da il sapore di Morgan in bocca. «Amo le tue mani» è uno strascico che esce dalle labbra come se fosse parte di quelle stesse onde, quando torno a guardarlo, spingendo con i gomiti sul divano per mettermi più dritta, per galleggiare in modo diverso in uno spazio che non ha contorni. È fatto di colori, di sensazioni, di qualcosa che si alza leggero nella testa, scivola e continua a farlo, trascinando tutto con sé nel suo vortice che sa di una stretta dolce. Scosto le gambe, lo faccio piano. Piano per sentire tutto quello contro cui adesso entrano in contatto. Contro cui tutto esplode. Tutto si anima. Tutto arriva preponderante per continuare ad avvolgere, a sorreggere, a stringere, a mormorare, a sussurrare. A farmi essere un punto estremo in un mondo estremo. A farmi essere un punto concentrato, all’erta, con tutti i sensi in piedi a sentire ogni più piccola sfumatura. Resto a guardarlo, premendo per un attimo le labbra in dentro per sentire che sensazione da, e guardare lui per sentire che sensazione da. E mi da ogni tipo di sensazione. Solo qualche secondo, in una contemplazione senza nome, ma con tutto il resto. Non mi sono mai sentita così piena, e così connessa, e così in equilibrio. Con il mondo, sì, e con lui. Con tutto. Muovo il bacino, abbastanza da rivoltarmi dal divano, farmi allungare le mani verso il pavimento, accogliere anche quello in un moto che alla fine, mi porta a scivolarci lentamente contro. Con la guancia, le mani, il busto, le gambe. Ci resto con la pancia premuta contro qualche istante, gli arti che si muovono solo per sentirlo. Fresco contro la pelle. Diverso dal caldo, immobile contro ogni recettore per colmarlo. Mi giro per finirci con la schiena, lasciar andare una risata bassa che mi preme ancora a strisciare solo per il gusto di sentire come tutto si espande contro ogni movimento. «Alziamoci» lo dico annuendo, anche se mi rigiro di nuovo e resto di lato ad accarezzare tutto quello che esiste sotto di me, ed è un terreno che diventa di un’interezza quasi insostenibile. Come essere sempre perennemente vicino al culmine, ma con la certezza di non poterlo superare. Di poterci ballare sopra, ancora ed ancora. Mi sposto con il busto, per mettermi seduta prima, e tirarmi su in piedi solo dopo, ascoltando anche il modo in cui le piante dei piedi si perdono con il terreno e mi lanciano tutto su per le gambe. «È bellissimo» lo dico mentre mi spingo verso il divano, lo scanso per arrivare al muro contro cui appiattirmi. «Dobbiamo mettere questo muro a casa, Morgan, questo muro è assurdo, e il pavimento, il pavimento» ci premo la faccia contro, la fronte prima di girarla perché sia la guancia, le mani che si spostano lentamente per sentire ed ascoltare ogni più piccola insenatura, ogni più minuscolo dettaglio. «Perché non ho mai fatto questa cosa?» non è davvero una domanda, più un’esalazione. Che scivola dalle labbra mentre un po’, gli occhi li chiudo, lasciando solo che il respiro si moduli contro la parete. Contro tutto.
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    Resisto alla tentazione di guardarmele, le mani. Non è una cosa che mi piace fare, come con i riflessi. Le chiudo nel nulla, con l’aria che è una carezza fisica sulla pelle. Edie che scivola fino al pavimento. Edie che si scioglie sul pavimento, diventandone parte oppure capendo che lo è sempre stata. La sua risata sembra venire proprio da lì, dal pavimento, dalla terra, dall’atmosfera, da un centro che persiste contro ogni evento.
    Mi alzo anche io. Lo spostamento d’aria è forte quanto vento e leggero come una brezza.
    Questa stanza è troppo piccola e il mio corpo è così leggero che non m’importa di quanto lo sia, in un altro momento sarebbe opprimente ma adesso vedo solo troppe cose che voglio toccare e scoprire. Un bambino che è appena venuto al mondo. Ma mi ero solo dimenticato quanto potesse essere bello.
    Recupero il pacchetto di American Spirit dal divano, trascinandocelo contro fino al bordo e tirandolo su allora, stringendo un po’ la carta tra le dita che lentamente ci si rinchiudono intorno.
    Non so ancora se voglio una sigaretta.
    Il muro.
    Mi sporgo sul divano allungando il braccio fino a poggiare il palmo sinistro sul muro. Ruvido, scende e risale contro la pelle nelle divisioni irregolari dei mattoni. «Sì, veramente bello.» Lo accarezzo un paio di volte annuendo.
    «Me lo sono chiesto molte volte perché non l’hai mai fatto.» Sì me lo sono chiesto. Mi sono chiesto un sacco di cose sulla sua vita. Alcune le ho sapute, altre no, ma va bene, non devo per forza sapere tutto anche se a volte ne ho bisogno. Per avere un’immagine chiara che mi insegni dove devo muovermi, cosa fare, come, perché, per non sbagliare.
    Anche adesso temo di sbagliare.
    Pensando alla sua vita passata temo di sbagliare, non voglio che lei pensi a cose brutte. Quindi cambio discorso subito, staccandomi dal muro per rimettermi dritto e andando a prendere la bottiglia di birra abbandonata per terra. «Che peccato non averlo fatto a casa saremmo potuti andare in spiaggia. E ci sarebbero stati anche gli animali, che belli gli animali. Ma poi avrei coccolato troppo i nostri figli e sarebbe stato strano.»
    Prendo un sorso di birra e la poggio adesso sul mobile accanto, dove trovo la mia sigaretta di prima. Metà una colonna di cenere e l’altra metà intonsa. «Poi Den mi avrebbe visto in questo stato, no, troppo imbarazzante.»
    Mi giro dall’altra parte.
    Una pianta.
    La raggiungo strisciando la mano sul vetro freddo della finestra, sulla tenda dall’alto verso il basso, con il rumore che mi ci inchioda solo per un attimo. Dal basso verso l’alto e di nuovo viceversa. Un altro passo. Mi abbasso un po’ e mi concentro per mettere a fuoco un po’ meglio la pianta dentro questo vaso, la vista traballa, una diapositiva incastrata che va avanti e torna indietro sballottandosi sopra e sotto. Stringo le palpebre. Non riesco a capire che cos’è.
    Alla fine ne strappo un pezzo nella parte colorata e mi giro per porgerlo a Edie, avvicinandomi di un paio di passi. «Baby, te lo regalo. Adesso ti vado a versare un bicchiere d’acqua che dovrai bere tutto, okay?» Faccio un cenno alla porta che conduce all’altra zona, con il letto, la cucina e il balcone. Aspetto di capire se mi ha sentito e capito, se io non la vedessi più all'improvviso, senza preavviso, avrei un attacco d'ansia in questo momento probabilmente

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    In un momento, penso che non mi sono mai sentita così bene. In un modo così totale che solleva, che invita, che si muove e resta fermo per essere preso, annusato, sentito in un punto indefinito che esiste appena sotto la pelle, e sempre addormentato, adesso è sveglio e all’erta. Lo guardo muoversi girando un po’ la testa, perdendomi in questo movimento e in quello che dai piedi, alla schiena, continua a strisciare contro la pelle. Lo guardo con la schiena che si ferma, ascolta il modo in cui le ossa premono contro la ruvidezza, attraverso lo strato morbido del vestito. Inizio a giocarci con le dita, fra le righe del tessuto e la testa che si piega, di lato, fino a finire sulla spalla, che piego solo per sentirlo anche lì. Ed è come se il mondo si fosse aperto, e penso che aveva ragione, prima, a dire quello che ha detto. È così che lo sento, aperto dove è sempre stato chiuso. Come se avesse spalancato porte segrete e ci avesse lasciato entrare per prendere tutto a due mani, e sentirlo per quello che è davvero. Così intimamente da percepirlo anche nell’aria, anche nella distanza, come se ci stessimo letteralmente camminando attraverso. Guardo ancora lui, e mi sembra per un secondo nitido nel modo in cui, in realtà, è sfocato, ed è come essere sopraffatti, ed esserlo nel miglior modo possibile. Sentire una pulsazione, un battito continuo che continua e continua, e porta sempre più su. «Però adesso ho capito perché ti piace» lo impasto nella bocca, in un modo che tira su gli angoli, e mi fa solo muovere un po’ la nuca, lentamente, contro il muro. Penso ai bambini, le mani morbide, le guance morbide. Il muro non va più bene adesso, ed ondeggio qualche passo per scostarmici, sentendo solo il modo in cui le braccia si perdono a vuoto nell’aria. Fermo gli occhi su quello che ha in mano lui, guardandolo per qualche secondo come se fosse sbucato dal nulla per allacciare ogni mio senso alla sua semplice esistenza. Allungo la mano per prenderlo, stringere piano con l’altra i punti morbidi dei petali, prima di strusciarlo piano contro la guancia tornando a guardare lui. «È bellissimo» lo allungo appena per strusciarlo nello stesso modo contro la sua di pelle, e passargli quella sensazione che sa di velluto con lentezza lungo la guancia, sulla punta del naso. Penso all’acqua, e anche quella diventa un punto importante nella testa, se ne sta lì a farmi solo immaginare quanto sia bella. «Voglio toccare l’acqua» torno con il fiore contro la pelle, lasciandolo scivolare lungo il collo come se fosse un’abbraccio che arriva ovunque, e mi lascia dondolare appena sul posto. «Il mondo chiede che io tocchi l’acqua» mi sposto verso l’altra parete, quella liscia, allungando la mano libera finché non ci sono contro, del tutto premuta, ascoltando quel tipo di freddo che pizzica la pelle, e il modo in cui, sotto la pianta dei piedi, il pavimento si allontana e si riavvicina, come in una stretta che si scosta solo per tornare e farsi sentire di nuovo completamente. Sposto la testa quanto basta a guardarlo. «Posso venire con te?» lo dico mentre torno a premere il fiore contro il volto, sulla fronte, lungo la linea del naso, senza smettere di guardarlo con mille pensieri che si aggrumano uno sopra l’altro, e sono lì a dirmi che devo muovermi e scoprire come tutto, ogni più piccola cosa, si muove contro tutto.
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    Da quando l’ho provata per la prima volta mi sono convinto che nessuno, nessuno, potrebbe non capire perché mi piace tanto l’MD. È fisicamente impossibile che esista qualcuno a cui non piacerebbe, ne sono certo. E se esiste, è una persona orribile con cui non voglio avere niente a che fare.
    Mi chiedo a chi non piaccia trovarsi cose in faccia senza sapere neanche cosa sono, e pensare che qualsiasi cosa sia è la migliore nel creato.
    E pensare che tutto questo stava per sparire.
    Distrutto.
    Inglobato dal Calvario.
    È un bel modo per festeggiare cosa abbiamo aiutato a salvare.
    Mentre Edie mi accarezza con questo fiore arrivo addirittura a pensare che forse Caiden ha ragione, Caiden e le sue puttanate ecologiste.
    Edie mi fa una domanda strana e la guardo così, stranito. «Certo.» Ovvio che può venire con me. Vorrei andare con lei ovunque, mi potrebbe portare in qualunque posto e starei comunque benissimo perché c’è lei.
    E voglio che venga con me ovunque.
    Voglio seguirla e portarla con la stessa intensità.
    Ovunque.
    Le prendo la mano libera intrecciando subito le dita per andare verso la cucina e quella specie di salotto con il letto. «Io devo fare assolutamente una cosa perché ci sto pensando da prima e se non me lo tolgo dalla testa impazzisco.» La pistola. Mi odio per averla nominata ma ora ce l’ho in testa e devo assolutamente guardarla, toccarla, e soprattutto smontarla. Anche se ho messo la sicura, non si sa mai.
    È meglio smontarla.
    E poi ho voglia di smontarla.
    «Però prima…» non la lascio neanche quando mi fermo di fronte al lavello, apro il rubinetto e le alzo la mano per portarla sotto l’acqua corrente. «Ecco la tua acqua.» Che è molto bella, come al solito. Anche se dopo un po’ mi annoia. Però ci resto sotto con la mano ancora in quella di Edie.
    Una cascata.
    Fredda.
    Freddissima.
    Perfetta anche lei, l’acqua, come tutto il resto.
    Faccio per muovere l’altro braccio e mi ricordo che ho il pacchetto di sigarette ancora in mano. Decisamente accartocciato. Cazzo. Fanculo. Lo mollo sul bancone e vado ad acchiappare una delle bottigliette che ho lasciato sul bancone quando siamo arrivati. Stringo le dita intorno alla plastica fresca e si piega, scricchiola, screpita. È molle e rigida allo stesso tempo.
    Lascio la mano di Edie per svitare il tappo e la poggio accanto al lavello. «Bevi piano,» mi giro a guardarla e assecondo il lancinante improvviso bisogno di toccarla di nuovo. Pendo dal suo lato cingendole il fianco con un braccio, un passo indietro alle sue spalle e l’abbraccio con entrambi, chinandomi su di lei accanto al volto. Un po’ tra i capelli, un po’ sulla sua pelle struscio la faccia. Le parlo vicino all’orecchio, sulla guancia, ci premo le labbra contro. «Non tutta visto che questa è una bottiglia e non un bicchiere. Scusa ogni tanto ho bisogno di toccarti.»
    Così vicino quello che vedo è ancora meno di prima, ondeggia, balla, sempre la stessa diapositiva inceppata e ora offuscata di colori e sensazioni tutte unite in qualcosa di troppo pieno ed enorme, preciso al tempo stesso in ogni dettaglio. Il suo profumo, quello dei suoi capelli che è diverso, morbidi anche quelli. La sua pelle, che è liscia, morbida anche lei. Il suo corpo così piccolo che posso quasi arrivare alle ossa attraverso la sua morbidezza. Perché anche questo è morbido, lo è tutto. «Anche tu sei molto morbida e molto bella.»

    Say you're there when I feel helpless. If that's true, why don't you help me? It's my fault, I know I'm selfish. Stand alone, my soul is jealous. It wants love, but I reject it. Trade my joy for my protection.

     
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    Mi concentro completamente sulla sensazione della mano contro la sua. Il suo palmo caldo, contro quello che diventa più freddo e batte sul dorso, ed è aria, ma con una consistenza che sembra impegnata a farmi percepire ogni più piccola sfumatura del contrasto. La sensazione ancora più fredda degli anelli. Quella ruvida delle dita che conosco, eppure non conosco affatto. Non così. Mi cattura ogni pensiero, e trascina una sensazione lungo il braccio, nel modo in cui le gambe si muovono per seguirlo un passo dietro l’altro. Muovo appena il pollice contro la sua mano, in movenze che assaggiano altri punti ancora, e colano con ogni poro che quasi posso contare, e sentire vibrare tutto intorno. Arriva tutto insieme, la sensazione di essere fortunata. In un modo inspiegabile, come se potessi vedere i filamenti del cosmo muoversi tutto intorno, e come si sono mossi tutto intorno, per arrivare a creare questo singolo momento. Con lui. Anche questo mi riempie, scandito dalla perenne sensazione della sua mano contro la mia, che assaggio come se in ogni secondo, potessi trovarci qualcosa di nuovo. «Tutto quello che vuoi» struscia fra le labbra, mi fa alzare per un secondo lo sguardo, via dalla mano, verso di lui. Smetto solo quando vedo il lavello, il getto che scivola fuori, il rumore che fa contro il metallo. Acqua. È più densa di quanto la ricordi, lascia la sensazione di poter essere afferrata, stretta per davvero fra le dita. Come qualcosa di solido. Freddo, cola sulla pelle come una carezza che mi lascia andare un respiro che sta a metà fra il sorpreso, e il semplice estasiato. Ci allungo di più il polso, fin dove la striscia nera della stoffa delimita la pelle scoperta, girando la mano e guardando quello scorrere come se fosse una magia inspiegabile. Lo è. Inspiegabile, ma anche una magia. «Oddio» continuo a girare la mano, sfilandola solo per lasciare solo il getto la punta dei polpastrelli, uno ad uno, e ascoltare quel modo in cui il flusso preme su ognuna di esse. «È assurdo, baby l’acqua è una cosa bellissima» sposto lo sguardo per un secondo sulla bottiglia, sfilando la mano per premermi le dita sulla faccia, e sentire quella sensazione lì, uguale e diversa, lasciare impronte che restano e sembrano camminare da sole. Umide. Mi premo un po’ più indietro, dove sento il caldo di Morgan, stringendo appena le spalle nel gesto, anche quando le mani le allungo per arrivare alla bottiglia e premerla lì, qualche istante in più. Sentire le pieghe della plastica sotto le dita, quelle umide e quelle asciutte. Sentire come si muove con una pressione o l’altra. La sensazione di fresco ovattato dell’acqua al suo interno. Prendo un sorso, piano, e anche in questo qualcosa esplode in un modo che accarezza tutto, ma dall’interno. Ma diventa un pensiero che sfila via quando di nuovo, sento la sua voce più vicina, rimbombare come se venisse da dentro la mia cassa toracica, dentro il corpo, e lì si smuovesse per echeggiare ovunque. Lascio la bottiglia dove l’ho presa, con una mano che invece, si sposta verso il braccio di Morgan, per seguire quella strada avanti ed indietro, con dita, palmo, ogni cosa. «Tu mi piaci più dell’acqua» socchiudo gli occhi, lo faccio in un moto che così, mi lascia solo sentire la sua presenza ancora di più. Delinea lì ogi cosa, ogni più piccola particella del mondo. «E mi piace quando mi tocchi, in generale ma di più adesso, e poi se lo fai è come se lo faccio anch’io, capito? E tu sei molto bello, da toccare» muovo l’altra mano, spostando un po’ il braccio all’indietro, cercando di arrivare ad un punto che trattenga la traccia dei suoi capelli fra le dita. E sono ancora più belli di prima, ancora di più. «Molto, molto, molto bello»
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    Sì lo capisco, ed è qualcosa che ho sempre sentito anche se in modo diverso. Uno corrotto dalla realtà, da una lente d’ingrandimento posta verso l’interno e non all’esterno come succede adesso.
    Forse è per questo, in realtà, che mi piace così tanto.
    Mi sento giusto, perché è esattamente così che deve funzionare. Lo fa bene. Senza errori. Lo fa seguendo un senso che non incrocia momenti di fallimento, di collassi, motori che si surriscaldano ed esplodono. Lo fa senza sentire la voce di qualcuno che imputa sempre agli sbagli. Non ci si deve sentire così, è la voce perenne che ho nella testa anche quando non la ascolto direttamente. Vive come vivono tutte le altre, sussurra muta, ne sento solo la presenza lontana prima che arrivi a mangiarmi il cervello.
    Quando lo fa è terrificante.
    Se potessi vivere ogni giorno della mia vita così non avrebbe la stessa funzione. Perché questo, il mondo in generale e soprattutto il mio, non è fatto per accogliere una percezione del genere. Non è un mondo che è fatto di occhi curiosi che scoprono tutto, ogni volta qualcosa di nuovo anche dopo averlo visto miliardi di volte. Che sentono, che respirano la sensazione, ognuna di essere.
    È un mondo fatto di cattiveria, di sentimenti premuti in basso per essere nascosti e soffocati. Va bene anche questo, lo accetto. L’ho già accettato tanto tempo fa, prima che potessi capire che in realtà sarei stato fatto per altro se ne avessi avuto l’opportunità.
    Ma non l’ho avuta.
    Pazienza.
    «Sì lo capisco» dico dopo un po’.
    Premo la mano contro il bordo del bancone per allontanarci di un passo, me e lei, trascinandola con me, facendola girare per averla di fronte.
    Mi chiedo come sia baciarla, se anche normalmente mi sembra di cadere dentro di lei e non poter risalire più. Forse sarà troppo. Troppo da diventare insopportabile.
    Mentre me lo chiedo lo faccio.
    La stringo di nuovo con entrambe le braccia, contro di me. Vorrei toccarla tutta in un unico momento, vorrei avere più mani per arrivare ovunque in un solo secondo.
    Le dita si perdono a scivolare sul tessuto, sulla sua schiena, trovando a volte il pulsare del suo sangue sotto e più sotto per seguirlo e altre volte contando senza farlo tutte le righe del vestito che superano e ripercorrono.
    Premo le labbra sulle sue all’inizio piano, poi di più, e mi perdo.
    Il blackout degli occhi chiusi, nel nero, il cervello si stacca e dimentico tutto. Non esiste nient’altro. Solo quanto siano morbide le sue labbra, il suo sapore, il suo corpo che posso stringere ancora un po’. Pace.
    Ci sto cadendo dentro.
    Dentro al momento, dentro a lei.
    E io non esisto più, ma è un bel modo di non esistere. Quello che cerco sempre e niente riesce a darmi. Ed è meglio, perché non è solo non esistere ma è anche esistere all’ennesima potenza, così in alto da vedere tutto dall’interno senza i pesi che ci sono lì, ma con la leggerezza di una visione esterna.
    Non è un buco scuro in cui sto cadendo.
    È pace.
    Mi stacco solo perché penso che ancora un po’ e non potrei farlo mai più. Resto vicino però, ancora da sentire lei su di me, le sue labbra che sfiorano le mie e niente davanti se non, ancora, questa visuale ondeggiante a un ritmo schizofrenico.
    E intorno non c’è niente.
    Quindi posso parlare.
    Nessuno mi ascolta se non lei, e lei va bene che mi ascolti. Voglio che mi ascolti. Voglio che mi capisca.
    «Ora non voglio dire che sento sempre tutto così perché non sarebbe vero ma quasi. Mi capita un sacco di volte, tipo quasi sempre, di sentire come se non ci fossero confini, soprattutto con te. Sai, quando siamo nel nostro spazio.» Struscio la faccia contro la sua, una mano risale a infilarsi tra i capelli, avanti e indietro, stringendo e rilasciando.
    «Non so più dove finisco io e dove cominci tu, come ora. Alcune volte mi fa sentire perso, come se potessi esistere solo in funzione di te, solo perché tu esisti. Altre, mi da una specie di senso di equilibrio, di consapevolezza di dove sto e chi sono.»
    Non sapere chi sono mi consuma, fisicamente, letteralmente. Mi drena via ogni goccia di consapevolezza e mi lascia confuso a domandare, chiedere, pretendere risposte e cercarle disperatamente perché non posso fare nient’altro.
    Fa schifo.
    Effettivamente forse non dovevo dirlo.
    Mi allontano di scatto per guardarla meglio, anche se è impossibile mettere a fuoco i contorni del suo volto senza che scattino, si rivoltino, tremino. Le premo le mani ai lati del volto, «Non era per iniziare un discorso triste non lo sono tranquilla. Spero di non averti resa triste. Non ti ho resa triste vero? Non voglio che tu sia triste.»

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