Heartbeat

Ginevra & Sirthareth | 18 Settembre

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    Incassi le spalle, sei incinta di un mostro. E non uno qualunque, credi sia il più spietato dell'Universo. Ed hai atteso, dio se hai atteso vittima delle sue assenze. Che quando torna è sempre una sofferenza atroce, quando parte forse diventa insopportabile. Ti tira lungo i margini della follia, una pazzia che imperversa come un temporale estivo: inarrestabile. Questo è Sirthareth, il tuo demone, l'incubo di molti ma la tortura di pochi. E si, ti ha educa così bene che quand'anche hai la possibilità di mettere un piede fuori da casa sua, non lo fai. Non ti sposti, non ti muovi, neanche fai la spesa.. il massimo è sempre aprire la finestra e restare in terrazza. Leggi, preghi, attenti come se non avessi trecento anni alle spalle. Come se fossi solo una ragazzina che implora il carceriere, che ti animi solo se c'è lui. Solo quando l'attesa è un piacere che si estingue al suo ritorno. E ti ricordi sempre come sa prenderti, come le sue dita estraggano sangue direttamente dalle vene, gli basta sfiorarle. Che quando lo fate, oh, Ginevra, siete incastri del destino, tu lo credi profondamente. E non hai smesso di pregarlo di risparmiarti, di darti tregua quando poi non la vuoi, quando è una recita che conoscete a fondo, raramente reale. Che tu del dolore che provoca ne sei dipendente.
    Tuttavia a spaventarti oggi non è solo il suo ritorno. Hai allarmato i mastini, sai che tornerà e non l'hai fatto solo perché ne hai sentito la mancanza, l'hai fatto perché.. perché ci sono dei bastoncini lungo tutto il tavolo in legno. Li guardi.
    Non respiri molto bene, magari neanche respiri davvero.
    «N-e.. ne ho fatti nove...Sirth è-..» non hai bisogno di guardarlo, neanche lo alzi lo sguardo, resta vuoto nel nulla. Sai che è lui, non hai dubbi, ormai ne percepisci l'essenza per quanto ha invaso i tuoi incubi e quanto sia stupido sentirti rassicurata se resta a dormirti accanto. Ormai non avviene neanche più. Le mani le hai strette sulle ginocchia. «E' tuo» sussurri.
    Il ventre è un po' gonfio, e non sai davvero come la stai prendendo tu, hai bisogno di capire come la prenderà lui, ora che la pelle trema, i muscoli vibrano, le ossa si infiammano. Ti fa già male, hai già la nausea di nuovo. Hai paura degli dei quasi più di quanta ne hai di lui. «Ma.. non cambierà niente..» insisti.
     
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    sirthareth
    La situazione del Calvario è sempre più simile ad un fastidio sotto pelle, un prurito che impiega lo sforzo di ogni molecola nel guardare il caos che si genera nell’inutilità del pensiero che il loro scopo sia cambiato. È sempre lo stesso, quello in cui sono incisi uno ad uno e su cui è impresso il loro sangue. Non sopporta quella convinzione che si è estesa nelle menti deboli di quelli che sono stati forgiati in un nome, ed uno soltanto, e non hanno altro diritto se non quello di portare avanti la stessa crociata in cui sono nati. Feccia inutile, li massacrerebbe tutti uno ad uno se non fossero numeri nascosti in un punto o l’altro, se non fosse che c’è troppo a dividere spiriti che non hanno mai avuto nessuna utilità se non quella di un numero informe e sacrificabile. Slaccia l’ultimo bottone della camicia, quello che è diventato una stretta al collo che sa solo dell’ennesimo fastidio, l’ennesimo impedimento e rallentamento quando vorrebbe pensare solo a come riportare, ancora una volta, la libertà a suo Padre, invece che gestire schiere infedeli che meritano solo martirio eterno. È diventato poco il tempo di piaceri diversi, di giorni di ozio in cui seguire solo una pulsione o l’altra, perdendosi nel miasma mortale che lo circonda. Poco il tempo anche quando ne ha sulle spalle più di quanto se ne possa contare, e solo la rabbia fastidiosa di ogni secondo perso contro uno scopo insulso. Non esiste nessuno che meriti il posto di suo padre, non esiste nessuno che meriti il suo di posto. Scivola dentro la casa con la durezza che lascia le spalle, diventa un sospiro mai proferito che percuote il suo fastidio, e lo lascia andare. Preme lo sguardo su Ginevra, invece, aspettandosi che ci sia qualcosa da dire dopo una chiamata che lo ha raggiunto facendogli abbandonare, per un attimo, il fardello burrascoso della sua ira. Ma lo sposta seguendo una scia che si allunga sul tavolo, gli preme un punto nelle sopracciglia, un luccicare nello sguardo che si anima per un secondo nel tornare di nuovo a guardare lei, l’espressione che muta per crogiolarsi in un sorriso che ha sempre la stessa impronta, e un vorticare salato sugli angoli. Non lo dice che è scontato che sia suo, che non avrebbe mai pensato potesse essere diverso, perché non c’è mai stato modo che potesse esistere una possibilità simile. Sa quanto intimamente Ginevra sappia di non possederle libertà che invece, sono tutte una sua proprietà, incisa secolo dopo secolo nella sua carne, strette con nodi impossibili da sciogliere. Nodi che diventerebbero stragi se si allentassero un po’, nella pretesa di usurpare ciò che gli appartiene. Non lo sa se Ginevra sa cosa comporta una gravidanza del genere. Non lo sa se conosca nomi e realtà che parlano di qualcosa del genere, di quello che viene svezzato già grande, potente, di quello che lo sarà ancora di più nel suo segno. Suo, come tutto il resto. Come lo è anche lei. Gira intorno al tavolo, lo fa con una lentezza che con gli occhi, accarezza ognuno di quei pezzi di plastica che sono solo l’affermazione che rimbomba nelle orecchie, un suono brutale che riempie ogni spazio, e per un istante lo lascia a prendere un respiro più lungo. Uno solo, prima di trovarsi al suo fianco. Un braccio si allunga, le dita cercando il mento, lo fanno con una durezza che sa di ruvidità, come lo è ogni suo gesto che di dolcezza non ne conosce, non ne sa avere quando le sue, sono mani che sono fatte per altro. Le sposta il volto, con quello stesso muoversi duro che ha sempre avuto, e che non è mai cambiato, ma che preme a fondo per scavare dentro la carne. «Sei stata brava» un sibilo che diventa carico, grondante una soddisfazione che nel petto, preme con forza per venire fuori. «Da quanto?» non lascia la presa sul suo volto, né con la mano né con lo sguardo che resta puntato lì, immobile in uno smuoversi che scivola in scintille virulente.
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    Sei stata brava, Ginevra. Ma non sai in cosa, non lo sai se il suo avvicinarsi è panico e dolore, se è un amore che ti muove nel profondo le viscere. Innamorata del tuo peggior aguzzino, che a volte osi ancora chiamare Conor. Forse è di quello che vivi, della fantasia che il ragazzo a cui appartiene quel corpo - altrimenti sai bene che aspetto avrebbe il tuo demone infernale, il tuo carceriere - possa risvegliarsi, vincere la sua battaglia.. in qualche modo amarti.
    Anche se sei bravissima a convincerti che Sirthareth provi quella stessa pulsione per te, meno viva, meno idealizzata, ma sempre quella. Che se posasse gli occhi su un Guardiano diverso da te, andresti fuori di testa, imploreresti Samenar di portarti via con lui, ti sganceresti da Aaos a costo di perdere la tua pelle nello scambio.
    Quando ti tocca, il corpo trema, è una reazione che non controlli, non freni, credi perfino gli piaccia. Che ti alza il muso e tu pianti gli occhi nei suoi. Non ti sottrai anche se non sai cosa pensare, se tutto ti ha colta alla sprovvista, non dovrebbe succedere no? Non è successo in anni di violenze, perché ora si?
    «Sono stata brava...» Ti esce come un soffio incredulo, che neanche è una domanda quanto più la richiesta di una conferma. Che tu le dita le muovi piano attorno al suo polso, che sai a volte come la tua iniziativa non piaccia. Hai paura, ma neanche tu sai di cosa. Forse non del tuo mostro, della sua ossessione no, ma della sua progenie. Oh, Ginevra.
    «Ieri.. ieri stavo male ma.. ma oggi, guarda...» Gli indichi quel rigonfiamento già troppo grande, tu due giorni fa non avevi niente, ora sembra che abbia già attecchito una vita là dentro. Tanto che sui test più avanzati si parla di una gravidanza già quasi di due mesi e mezzo. «Cos'è?» chiedi, piano, provando ad appoggiarti a lui, a cercare qualunque cosa ti dia meno ansia, andandoci incontro a piè pari.
     
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    Cos’è, un Dio fra gli uomini. Direbbe questo, se non conoscesse nell’intimo il significato della parola Dio, e di quanto comporti. Ma è quanto di più vicino ad un Dio un entità nata uomo, prima di ascendere ad altro, può creare. Una manifestazione che supera lui già da ora, fra vagiti ancora non prorompenti, ma nascosti in un grembo che cresce rapido, troppo rapido perché possa piegarsi ai dettami di una normalità rifiutata. Uomo lui non lo è, neanche la sua progenie può esserlo. Qualcosa di più puro, di più concreto, di più etereo nei suoi filamenti già dal modo in cui il suo DNA si muove, già da ora che embrione, molecola appena, scavalca le porte dell’esistenza tutte d’un fiato. Non ne teme il senso, quello che porta quel bambino più in alto del suo capo, ma lo brama. Come lo brama di quei bambini che prende e porta lì giù, con la speranza che possano essere qualcosa di grande, e di suo, anche loro. Ma sono spesso delusioni, solo in poco diversi dai Banditori. Impulsivi, troppo legati al senso di una vita persa, e a quegli stessi legami che in vita li hanno limitati. Questo è diverso, è una creatura nuova. Una sua creatura. Le dita su Ginevra si fanno più dure, rispondono a quel tremore, quell’incertezza nel suo sguardo che per lui, è come pane di cui cibarsi nelle magre, nei tempi fertili, e in tutti quelli che nel mezzo sono solo il blando procedere dell’esistenza. Non smetterà mai di cercare la sua paura, di premere la sua incertezza, di incatenarla ancora con le stesse prese che l’hanno presa la prima volta, e non l’hanno mai più lasciata. Marchiata non in un corpo che i segni se li lascia troppo facilmente alle spalle, ma in qualcosa di più profondo, dove c’è la sua mano stretta in una morsa che non dimentica, e non lascia andare. «Un Cambion» la lingua schiocca contro il palato, compiaciuta, mentre il mento glielo alza abbastanza da tenere gli occhi pressati contro i suoi. Il sorriso ancora lì, intatto, immobile, che parla di felicità abiette schierate nel suo animo. L’altra mano, scivola con punte di dita contro il suo volto; ne traccia i contorni, dalla tempia allo zigomo, le labbra distese, la mascella, fino a trovare la strada sul collo dove serra una stretta che non è davvero morsa, ma solo la promessa di poterlo diventare. «Mio figlio» un soffio che trasuda una soddisfazione incontenibile, cola dai pori come petrolio, merce avariata sulla pelle che nella muffa ha fatto il suo regno, e cova nel marcire della pelle ogni suo istante. Suo. <i>Suo/i>. «Sarà forte, sarà potente. Molto più di me» orgoglio, non pensa di averne mai provato, ma lo prova adesso. Bruciante, brulicante come l’infestazione di edera velenosa che cresce nelle vene, e annienta tutto il resto. Anche il dovere verso suo Padre, per un secondo, si adombra. La mano dal mento si scosta, viaggia indietro fino ai capelli, diventa una stretta lì, al limite della violenza, per trascinare dalla nuca ciuffi che le facciano piegare il capo appena all’indietro, il volto più verso l’alto. Verso di lui. «Sfiorerà il Divino» trasuda un senso che ghermisce la sua anima, la riempie da poro a poro, senza lasciare spazio ad altro. «Capisci perché e come questa è un’ottima notizia?» anche questo non è più che un sibilo, aria premuta fra i denti che ha solo a stento il connotato di lettere sfuggenti fra le labbra. Premute una ad una, mentre il volto si avvicina a quello di Ginevra, con quello stesso incedere che nasconde sempre, perennemente, una minaccia nella sua mera esistenza. La presa sul collo si fa più dura, anche quella trasudante di qualcosa di indefinito, fin troppo simile ad una compiacenza orgogliosa, ad un punto alto in ogni suo pensiero, come l’ascesa di un pensiero, un’ideale concretizzato fra le sue stesse dita. «Molte cose dovranno cambiare, fino alla nascita» non è una domanda, non è neanche una comunicazione. È un fatto. Nasce da un suo pensiero, diventa già normalità consolidata. Semplicemente l’ordine delle cose, senza spazio per altro. Mai nessuno spazio, neanche uno. Solo lui, tracotante, che si espande in ogni angolo e detiene la sua presenza come marchio indelebile.
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