Halfland

Morgan/Edie | 7 Settembre

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    Non so esattamente com’è che mi sento, o perché. Ma penso anche che se sapessi sempre, o più spesso, come mi sento o perché mi sento in quel modo, più di metà dei miei problemi sarebbero risolti tanto a fondo da non nascere neanche, e non infilare mai il muso fuori, al freddo. Forse in realtà è una bugia che non conosco il perché, ed è solo che mi sembra stupido. Una di quelle cose che di senso non ne hanno nessuno, perché in fondo, non c’è niente di male. Nessun rischio. Nessuna preoccupazione da covare da adesso fino ad anni ed anni da ora, con una speranza smunta che sa troppo di colpa per essere del tutto libera. È stupido perché è la stessa cosa dell’ultima volta, la stessa identica, senza una differenza che possa essere un fiato sospeso lasciato a macerare nei polmoni troppo a lungo. Però ho comunque le mani strette in grembo, un po’ come se non sapessi cosa farne, con le dita che si stringono le une con le altre in prese che non si danno pace. Sono felice, certo. Non dico di non esserlo. E solo che c’è quel qualcos’altro che mangia pezzi interi, come topi che smangiucchiano fili fino a far saltare la corrente e lasciare tutto al buio, stretto in rumori invisibili che improvvisamente, fanno paura. Fino a qualche secondo fa no, e anche se i rumori sono gli stessi, è il nero a dargli una forma diversa nelle orecchie. Certo che lo sono, felice. Ma mi sembra anche di toccare con mano qualcosa di viscoso, qualcosa che da qualche parte nasconde zanne e artigli. Non penso davvero che possa succederle qualcosa, non penso davvero che possa esserci un rischio che si annidi lì, in qualcosa che ormai, ho lasciato alle spalle. Da qualche parte, sepolto dal peso di quanto sia costato, di quanto ancora costi ogni giorno. Ma non se ne va, quella sensazione, incastrata da qualche parte nello sterno, nel ritmo del cuore che ignoro, in quello dei respiri che anche se in silenzio, piano, cercano di diventare più lunghi, di prendere più aria, più ossigeno sfuggente. Penso distintamente, che sarà la prima a nascere libera. Libera penso sia proprio la parola giusta. E non so com’è che mi fa sentire questo pensiero. È una di quelle volte in cui vorrei una sigaretta, ma per quanto possa sembrare una cosa brutta da dire nei confronti dei gemelli, so quanto questa volta vorrei farlo per bene. E penso che qualsiasi cosa sia, questa, posso gestirla. Alla fine, sono cose che ho sempre dovuto gestire, in un modo o in un altro, anche se non posso dire di essere la stessa persona che ero anche solo tre anni fa. Ma questa sensazione resta, come se venisse invece proprio da lì, e mi fissasse in un modo indecifrabile. Penso che sia stupido, e che dovrei essere solo felice. Senza un corredo di se che gli si accostano, e anche se nebulosi posso sentirli lì. Crescere nelle vene strette, come ritirate nei polsi, in cerca di un punto qualsiasi che mi faccia scivolare via da una morsa che si stringe. Stupido, ma penso anche a mia madre. Non ci pensavo da un po’, da così tanto quando penso sia solo una delle cose che ad un certo punto, ho deciso di strapparmi dalla testa, perché non potevo tenere tutto lì, ad opprimermi. Adesso ci penso, e mi chiedo cos’è che ha pensato lei, quando è stato a lei che hanno detto che quello che aspettava, era una bambina. Non riesco a immaginarlo, e non voglio farlo. Sarebbe troppo facile, e troppo ancora scivolare in un punto vecchio, antico, a quelle paure che se ne stavano lì a schiacciare qualsiasi cosa avrei mai potuto desiderare nella mia vita. Ma penso che era anche per questo che dicevo di non volerne, di figli. Perché non volevo essere una madre che sparisce troppo in fretta, certo, ma anche perché avevo troppa, troppa paura che avrei fatto a una bambina la stessa cosa che avevano fatto a me. Sfilo gli occhiali, tirandoli su, sulla testa. Lo faccio solo per avere un gesto della mano così da sfilarla da quel giogo in cui le ho costrette, prendendo un respiro per guardare fuori dal finestrino, solo un secondo. Uscire da quel fosso che ho sentito che stavo iniziando a scavare da sola, nella mia testa. Stupido, appunto.
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    Una bambina.
    Come avevo detto.
    Non so da dove venga esattamente questo bisogno di avere una femmina. In un mondo come il nostro è al limite del sadismo. Egoismo puro. Un capriccio.
    Oltre che a difendersi dai mostri le dovrò insegnare a difendersi dagli uomini.
    Uomini come me.
    Ha un accento ironico tutto questo, grottesco anche, perché continuo a pensarci e ripensarci e non riesco a smettere di sorridere.
    Una forma delle labbra che tengo comunque a bada perché c’è un silenzio pieno in macchina e so che Edie sta pensando a qualcosa. A qualcosa di pieno appunto. Le ho lasciato un po’ di tempo per macinare qualsiasi cosa le stia occupando la mente prima di mettermi qui a chiederle cosa c’è che non va.
    È evidente che sia qualcosa che “non va”, o al massimo qualcosa che va, però storto, acuminato, tagliente. Mi domando se sia perché è femmina e ci sia quel rigurgito di vecchia ansia a contaminare quel che c’è ora invece. Com’era stato per i gemelli prima di sapere che erano maschi.
    Allungo una mano verso di lei dandole un leggero buffetto sul mento per attirare la sua attenzione. La guardo di tre quarti, un sorriso leggero appeso da un lato, la mano che poi scende e si poggia sulla sua coscia.
    «Se continui con questo silenzio inizierò a pensare che c’è qualcosa che non va» ironizzo, per non partire subito con la marcia sbagliata. Torno alla strada, lei con la coda dell’occhio ogni tanto, intervallando attenzioni spezzate a metà.

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    È istintivo muovere le mani e trovare la sua, stringerla appena. Quel tipo di cose che sono diventate normali, quel tipo di cose che sono la sensazione di qualcosa di fermo quando anche tutto sembra scivolare inesorabilmente, senza trovare una stabilità. Dita che stringono una presa come fosse una fune, o un buco in un cielo nero che lascia passare qualcosa di diverso, come un rivolo d’aria che non è appesantita da sé stessa. Non dovrebbe sembrare che c’è qualcosa che non va, e questo lo so, ma forse qualcosa che non va c’è, nella mia testa e nel modo in cui macina adesso, in questa cosa che anche nel bene, in qualcosa di bello, deve accumularsi, deve incancrenirsi. Anche quando dovrei semplicemente essere felice, per una cosa piccola ma che non lo è affatto, ed è una di quelle dolci in mezzo a tutto. Anche quando dovrei essere felice e basta, e invece c’è quell’ombra; come un capriccio, come se mi fossi impuntata, puntigliosa, per creare un problema anche quando non ne esiste davvero uno. Lo guardo per un attimo, consapevole in parte di come anche questi, siano quel tipo di pensieri che appartengono ad un pattern preciso. Di quelli che arrivano senza bussare, senza chiedere il permesso, e se ne stanno lì a fissare tutto con bisbigli che servono solo ad appesantire, a darmi quelle mille sensazioni sbagliate che si incuneano nel petto. Sposto solo dopo, un po’, gli occhi sulla sua mano, quasi concentrandomici come se potessi davvero chiudere tutto lì, e sbarrare una porta che anche socchiusa, lascia uscire troppo rumore. Lo so, da un lato, che non importa tutto questo. Che va bene, che anche se sono le mie stesse mani a colpirmi senza un motivo che abbia un reale senso, non importa. Lo so che è una di quelle cose che vanno bene, qui, senza nessuna pretesa che si muova contro le mie spalle e mi chieda di essere diversa, di prendere tutto questo e metterlo sotto il tappeto, chiuderlo in una bara così che non possa uscire, ma solo restare lì a lamentarsi ancora ed ancora. Ma non importa quanto io lo sappia, c’è sempre quell’altro che poi arriva, e mi fa credere tutto il contrario di tutto, anche se non davvero, in quel modo complesso che non si spiega mai. Come avere davvero una voce che continua a ripetere la stessa storia, e per quanto lo sai che non è vera, un po’ finisci a crederci, a crederti se possa mai essere tutto solo una bugia. «Lo so, scusa» so anche che non dovrei scusarmi, e che non intendeva che dovessi farlo. Ma anche questo è istintivo, in un modo diverso da quello che lascia ancora le mani contro la sua. Mi prendo qualche altro secondo, le dita che giocano distrattamente con uno dei suoi anelli, facendolo girare appena contro il suo dito, un ritmo lento nella mia testa come se fosse un respiro che scivola piano in gola, ed esce con ancora più lentezza. Dentro e fuori, per sentire con distinta precisione ogni particella di aria, e non avere la sensazione di come invece non ce ne sia affatto. «È strano» anche se non è davvero la parola che userei, ma è quella che mi trovo fra le labbra, come se dovessi iniziare da qualche parte, una che sia un po’ più lontana da quel nugolo di pensieri che si affacciano uno ad uno per venirmi a guardare. «Pensavo di aver superato molte cose, e adesso me ne sto qui a pensare che dovrei essere semplicemente contenta, e invece ho questa cosa nella testa» smuovo un po’ le spalle, come se potessi fisicamente scrollarmela di dosso così. Allontanarla, farla scivolare via, rintanarsi di nuovo da qualsiasi parte sia tornata indietro strisciando. Lo so che non è così che funziona, anche se vorrei. «Non so perché devo essere così» gli spiegherei che è frustrante, che fa schifo, che è un fastidio che si lamenta insieme a tutto il resto nella mia testa, ma penso che non ce ne sia bisogno. Come in fondo, non c’è neanche bisogno di dire di cos’è che sto parlando, e non soltanto perché non può esserci altro che quello quando è da lì che siamo appena usciti. Però, il punto, è che davvero non lo so perché devo essere così, e penso sia quel tipo di domanda ricorrente che accompagna un po’ molti dei miei pensieri da così tanti anni, da poter dire che sia un po’ cresciuta con me. «Non è che non lo sia, contenta» anche questo, non penso ci sia davvero bisogno di dirlo. Non è davvero di questo che si tratta, ma del fatto che non sia solo questo. Come un dito premuto da qualche parte, in mezzo alle costole, che punge e punge. Una spina che continua a bruciare, senza che riesca a sfilarla via dalla carne.
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    All’inizio guardo fisso la strada per più tempo, ho paura che a mettere gli occhi su di lei adesso ci vedrei un riflesso più antico di questo “scusa” del presente.
    Non importa quanti mesi passino. Forse dovrei scusarmi io per avere ancora questa cosa nella testa. In effetti sì, mi sembrano tutte parole che starebbero meglio dette con la mia voce piuttosto che con la sua.
    Sento gli anelli rigirare lentamente sulle dita mossi dalle sue.
    Ho avuto dei dubbi sul suo essere contenta a riguardo e non per questo, ma quelli sono film che persistono più nella mia mente che nella realtà. In ogni caso, non ho mai pensato potesse avere dei dubbi seri riguardo a quell’ancora che la teneva giù nella non-esistenza e che aveva paura di contagiare ai suoi figli.
    «Certe cose non se ne vanno neanche dopo trent’anni, che pretendi?» La guardo il tempo di farle un sorriso per non far suonare strana questa frase. Parlo di me, delle mie cose che non se ne vanno nonostante sia passata la mia intera vita.
    Un modo scherzoso per dire, in altre parole, quello che poi aggiungo poco dopo, «Non sei in nessun modo che non va, è normale e va bene.» La voce più bassa e calma. Più dolce, anche nel modo in cui muovo la mano per cercare di afferrare le sue.
    «Se vuoi parlarne ti ascolto.» Non so se vuole farlo e non so quanto può essere d’aiuto, ma credo di esaminare insieme i motivi per cui non può succedere niente sarebbe inutile. Non è una cosa razionale, lo so, e l’alternativa a rendere questa conversazione un’inutile spiegazione logica è solo ascoltarla e parlarne così, senza di mezzo fatti e certezze cosmiche del cazzo.

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    Forse è una cosa stupida, ma in realtà neanche troppo. Quella che mi fa pensare quando dice che mi ascolta, in quel modo che penso sia un sottofondo perenne di ogni istante. In fondo, quello che mi è mancato quando mi è mancato lui, in un punto o l’altro di questa storia, è stato anche questo. Sapere che mi ascolta, e che per quanto sia tutto intricato nella mia testa, per quanto mi sembri sbagliato, per quanto mi sembri stupido o qualsiasi altra cosa, lui mi ascolta, e le mie non sono mai parola che finisco per cadere, vuote, contro il nulla. Muovo le dita, in risonanza con le sue, per stringere una presa che le intrecci, con uno sguardo che lo cerca e un po’, alza l’angolo delle labbra. Anche se non è davvero un sorriso, ma qualcosa che sa più di una consolazione. Di un piccolo spazio che si fa più caldo contro una tormenta che esiste fuori, e porta il freddo fin dentro le ossa. «Non è che penso che possa succederle qualcosa» lo dico così, anche se è ovvio a cos’è che mi riferisco. Ovvio, quando è un punto così connesso a questo momento, da essere impossibile non vederlo agitarsi sotto la superficie, come un buco su cui è stata messa una stoffa, ma che è rimasto lì, spalancato, mai chiuso per davvero. Abbasso per un secondo lo sguardo, più per racimolare un respiro, un pensiero, che per altro. Un secondo solo, con i polmoni che si riempiono e il bisogno di sentirli proprio così, pieni, a far tremare per un secondo le dita contro la sua presa. In un altro momento, forse, avrei pensato che no, questa cosa non posso mettergliela sulle spalle, quando è solo un nugolo di pensieri insensati che nascono nella mia testa, e che sono lì a divorarne altri che dovrebbero essere qui; ma alla fine, non lo penso. Lo so che in fondo, abbiamo bisogno di prenderle le cose, anche quando all’altro sembrano stupide. Probabilmente, quelle più di tutte. Per dirci che c’è uno spazio in cui va bene che esistano, e non dobbiamo solo macinarle e spingerle a fondo, sperando che prima o poi decidano di sparire del tutto, pur consapevoli che non lo faranno mai. Come quando ho bisogno di prendermi cura di lui, anche se so che non ne ha bisogno, e lui me lo lascia fare perché invece, io ne ho, di bisogno. Anche se adesso, penso anche che per me, sia anche sapere che in qualche modo, le sue mani sono davvero capaci di sciogliere quei nodi che ho nella testa. Come sa cacciare le notti insonni, o i momenti in cui è tutto davvero troppo. Come questo. Quindi, alla fine, so che sono anche io ad averne bisogno. Perché da sola non riesco a farlo, da sola posso solo soffocarli uno dopo l’altro, e aspettare che si allontanino da qualche parte, perché so anche che ogni sforzo a silenziarli, non ha mai fatto altro che renderli più forti; farli girare in tondo per prendere più velocità, e tornare a colpire in ritmi di secondi con più aggressività. «Voglio dire, so che quella storia è finita» stringo per un secondo le labbra, le spalle che si alzano per un secondo, prima di crollare molli di nuovo, un po’ più in basso. «Ma mi spaventa lo stesso. E mi fa pensare a tante cose. Mi fa chiedere tante cose.» non è comunque facile, per me, dire certe cose. Non perché non mi sento al sicuro a dirle a lui, ma perché è difficile infilare le mani lì, e prenderle una ad una, senza ascoltare quella voce che è sempre lì, a dirmi che in fondo non importa a nessuno. «Questo è letteralmente quello di cui sono stata più spaventata per tutta la mia vita» non è un’esagerazione. Non lo è per niente. Ne ero davvero terrorizzata, era qualcosa che non riuscivo neanche a sfiorare. Un’ipotesi che mi ghiacciava il sangue nelle vene. Anche sparire, morire, eclissarmi in un abisso di troppi anni con un coscienza imprigionata, mi faceva meno paura del pensiero di condannare qualcun altro alla stessa cosa. «E sarà la prima a nascere senza quello da... da un sacco di tempo. E penso che in un certo senso, è come se non lo so, sia che alla fine quello che hanno sperato i miei è successo» dovrebbe avere un tono più sollevato, ma non lo ha. Ha invece il tono di una recriminazione. Perché per arrivare a quello che volevano, quando mi hanno avuta, in troppi hanno dovuto dare via tantissimo. «E non lo so, l’ho detto lo so che a lei non può succedere questa cosa, ma mi sento comunque come se dovessi aspettarmelo e aspettare anche che arrivi a non lo so, undici, dodici anni prima di poter prendere un sospiro di sollievo»
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    La prima cosa che penso è che vorrei non essere in macchina in questo momento. Avere più spazio per toccarla, guardarla negli occhi, accarezzarle la faccia e abbracciarla. Tutte queste cose.
    La seconda cosa invece, è che lei non può avere questa roba nella testa per dieci anni. Non può vivere così. Alla fine era davvero un capriccio stupido il mio, uno che fa anche male.
    Mi vengono in mente solo soluzioni pratiche e non so se in questo caso siano quelle giuste. Se abbiano anche solo senso di esistere, perché probabilmente anche a vederlo con i suoi occhi questa angoscia le resterebbe attaccata addosso e non risolverebbe niente.
    Le stringo la mano un po’ di più.
    «Baby, non puoi vivere per dieci anni così. Hai già un sacco di ansie senza che ci si metta pure questa.» Non lo dico con durezza, anzi, con quella delicatezza di una voce abbassata di qualche tono. «Ti posso ripetere ogni giorno che non c’è più quel pericolo, o ti posso proporre qualche idea per averne la certezza medica o quel che è. Qualsiasi cosa se ti può aiutare, basta che me lo dici.»
    Che sia davvero svegliarla ogni giorno con uno sguardo che le dica che va tutto bene e andrà bene anche in futuro, lo farei.
    «Però, Edie…» Le lancio un’occhiata più lunga prima di tornare alla strada. «Non sei tua madre» diretto, perché queste cose così vanno dette «Non hai fatto questa cosa con il rischio che potesse succedere anche a tua figlia. L’hai fatto perché sapevi che quel rischio non c’era più.»

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    Mi verrebbe da dire che anche lui ha abbastanza problemi, preoccupazioni, senza questa cosa fra le mani. Ma sarebbe sbagliato, e non sbagliato come una lingua che si frena e pensa a cosa dover dire, a come farlo nel modo giusto, ma sbagliato perché non è quello che voglio. Non voglio allontanarlo, e vivere questo pezzo come se fosse solo mio. Non è neanche un’imposizione, la mia, è solo un sentire che è cresciuto, lo ha fatto poco alla volta, e non ha smesso mai dalla prima volta in cui l’ho visto fino ad oggi. Ho detto che voglio vivere la mia vita con lui, in mille modi ed occasioni diverse, e l’ho detto perché è vero, lo voglio, ed anche questa è una di quelle cose che ne fanno parte. Che sono sue, anche se nascono nella mia testa. Sono nostre. Stringo un po’ le labbra, un sorriso che soffia lì, lento, come se fosse un po’ una specie di rivolo di vento che scorre da chi sa dove, ma da qualche parte che posso sentire esistere, in fondo, oltre tutto. Sempre lì, intoccabile. Lo so che suono ha la sua voce, e non penso sia meschino, non penso sia crudele. Al contrario, è una di quelle cose che se ne sta lì, nitida, e non pende da nessuna parte, perché è così che vuole essere, così che è. Un dato di fatto, un qualcosa che non può essere smentito. Non sono come mia madre, questo lo so. Non so cos’è che sia più egoista, se quella speranza che so ha avuto, anni ed anni fa. Lo so perché è quella che ho visto venire meno nei suoi occhi, in quelli di mio padre, quando alla fine è stato ovvio che avevo preso proprio da lei, senza eccezioni. Non so se invece, lo sia più quel tipo di pensiero che mi ha fatto dire no a tante cose, per tanto tempo. Ho pensato, qualche volta, che probabilmente era proprio perché lei invece ci aveva sperato così tanto, che io le strade me le ero chiuse tutte, una dopo l’altra. Perché alla fine, sono sopravvissuta per vedere il dopo. Lo spazio che ha lasciato, quel buco scuro che non è stato più riempito. Non da me, non da mio padre. Come un arto mancante di cui ancora si può sentire la presenza. E so di averla detestata. Di averlo fatto per quella sua scelta di mettermi al mondo, e per quella di fingere una vita che poi, avrebbe lasciato noi a raccogliere i cocci. Perché a mio padre, a Josh, lo aveva fatto due volte: con sé stessa prima, e con me dopo. Adesso, non so dire se posso capire il perché o al contrario, sentire solo più distacco ancora da quella scelta. Perché sono al suo posto, anche senza esserci, e ho dei figli e guardandoli, lo so che spero solo che possano avere tutto quello che io non ho avuto e di più, e tutte le cose più diverse che invece vogliono, a prescindere. Mi muovo un po’, abbastanza da poter premere il lato della testa appena contro il suo braccio, la sua spalla, senza lasciare quella presa o preoccuparmi di una cosa o l’altra, tutte quelle logiche ed insignificanti che parlano di codice stradale ed altre stronzate simili. Tutte irrilevanti adesso. Invece, chiudo gli occhi, e per un secondo mi concedo di ascoltare solo come respira lui, come se fosse una guida per trovare il ritmo del mio fiato; ascolto solo il rumore confortante, il rumore che conosco della macchina, lasciando andare un respiro profondo. «Lo so, mi ci ha solo fatto pensare» riapro gli occhi, piano, cercando con lo sguardo un contatto che vede solo in tralice il suo volto. «Non ho ancora capito se fosse una pazza, una stronza, o una con veramente esagerate manie di speranza. Però so che io non ci sarei mai riuscita» per molti motivi. Perché, sì, non volevo condannare qualcuno a questo. Perché non avrei potuto farlo neanche se fossi stata certa che non fosse una femmina, o che nell’esserlo non avrebbe preso da me. Non avrei potuto perché sono stata dall’altro lato, con quel vuoto. Mi viene in mente quello che mi ha detto Morgan, mesi e mesi e mesi fa. Lo so io, come lo sa lui, cosa significa crescere senza una madre. Adesso ha un senso diverso il senso di quel è passato, di quel è finita che è rimasto lì, appuntato a tracciare una linea netta fra il prima ed il dopo. Come se ora potessi toccarlo in un modo diverso, ed entrasse ancora di più nei polmoni. Un bilico come tutti quelli di cui sono fatta, tutti quelli contro cui cammino e che mi fanno sentire, qualche volta, come se fossi lì per lì per cadere miglia e miglia, senza neanche essere certa che ci sia un fondo. «Non penso che il gioco valesse la candela» farci nascere già con un fantasma nascosto nelle sue ossa. Farci nascere con già il senso della sua assenza a riempire la casa, ogni volta che diventava troppo e lei spariva dietro qualcosa che, a quel punto, era più lei di quanto non lo fosse mia madre in tutti i giorni. «Ma lei starà bene, posso credere a questo» non lo dico che è sempre più facile credere a qualcosa del genere, quando è lui a dirlo. Che tutti i suoi è tutto okay per me hanno ancora un senso e significato enorme. Non sono la promessa di qualcosa che è già facile, risolto, che va già come deve andare. È la promessa che qualsiasi cosa accadrà, in qualche modo, la abbatteremo, o almeno ci proveremo. «Devo solo ripeterlo di tanto in tanto» un altro respiro a labbra strette, mentre annuisco senza staccarmi davvero da lui. «Non dovrà avere paura, e neanche io»
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    Viviamo ancora e troppo nei fantasmi dei nostri genitori.
    A furia di guardarci indietro restiamo fermi nello stesso punto senza avanzare mai, e non è questo di cui hanno bisogno i nostri figli. Dobbiamo andare avanti per spianare loro la strada, non importa cosa dovremo falciare o investire per rendergliela piana per quando toccherà a loro. Più facile possibile. Più indicazioni a quei bivi che arriveranno e mai obblighi. È questo che voglio che sia la mia eredità per loro, non un ammasso di regole precostituite da generazioni che al momento della tragedia non forniscono alcun fottuto strumento. Non vogliono che si sentano soli come ci sentiamo soli noi, adesso, che ci giriamo e cerchiamo di capire il perché di qualcosa o l’altro per decidere cosa pensare, cosa fare per non avere paura.
    Non voglio sottolineare adesso che noi abbiamo fatto dei figli che saranno Cacciatori. Che li abbiamo condannati non allo stesso modo, ma comunque già spediti in lista d’attesa per l’ennesima pira.
    Eppure lo penso.
    Penso che non è tanto diverso quello che abbiamo fatto.
    Ma forse Edie non la pensa esattamente come me su questo punto. Non so cosa veda quando guarda nel futuro dei nostri figli. Io vedo sangue, lacrime e fuoco. E nonostante questo ho deciso di volerne tanti e di impegnarmi a rendere quel futuro meno doloroso di quanto sicuramente sarà.
    Mi sento colpevole forse quanto si sentiva sua madre.
    Non i miei genitori probabilmente, invece.
    «Posso sempre vendere l’anima una seconda volta» giro la testa per guardarla dall’alto, un mezzo sorriso che sdrammatizza prima di tornare più serio. Una verità diversa. «Nostra figlia starà da Dio, e se dovesse succedere qualcosa troveremo il modo di aiutarla.»
    Le lascio la mano per far passare il braccio dietro, sul poggiatesta del sedile e arrivare alla sua spalla dall’altra parte per stringerla in questa sorta di abbraccio seduto. Di nuovo un’occhiata, di nuovo una battuta, «Ci sono due divinità che possono testimoniare il fatto che possiamo fare qualunque cosa.»
    Non è così lontano dalla realtà, di quello che sarei disposto a fare per i miei figli.

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    Mi stringo un po’ di più contro di lui, un modo naturale che non ha impulsi precisi, ma tutti ormai radicati così a fondo, da essere come un respiro o l’altro. Qualche volta, penso che sia davvero tutto quello di cui posso avere bisogno, e qualche volta è davvero così. Quando c’è bisogno di un posto fisico, descritto e preciso, come lo è stato tante altre volte nella mia vita, ma a differenza di quelle, adesso non c’è il freddo di un muro indifferente a premere contro una spalla, una mano, un braccio, ma qualcosa che invece è l’opposto. Mi chiedo se anche loro avranno sempre qualcosa che se ne sta lì, come una stretta pesante contro i piedi. Se anche loro avranno troppo spesso bisogno di ancor più troppo alcol, per annebbiare i pensieri che troppo ripidi, li fanno crollare uno dopo l’altro verso terre incaute. Mi chiedo cos’è che potrebbe bastare ad evitarlo. Cosa potrebbe servire per fare in modo che sentano di avere sempre un posto, che sentano di avere sempre un orecchio che è lì, ed ascolta. Mi chiedo se anche per questo non debba esserci una via scritta, precisa, da seguire in cerca del modo migliore, sempre. Se anche questa, invece, deve essere quel qualcosa che ha lingue sconosciute, e ha pezzi di pelle che vibrano per essere dei silenzi che sono pieni, ricchi di tutto quello che diamo. Penso a come avrei voluto, in fondo, avere una vita diversa. Quella vita lì, che nonostante tutto, lo so che conservo con cura, perché è l’unica che ho. Non ho un’infanzia di riserva, non ho altri ricordi di mia madre, non ne ho altri di mio padre se non quelli di un uomo troppo stanco, divorato dalla sua stessa mente. E ci penso a quelle volte, le prime, in cui c’era lei, e in cui guardandola sapevo istintivamente, che aveva provato la stessa paura che provavo io. Lo stesso terrore indefinito, inspiegabile. Anche se in quel momento ero arrabbiata, e da qualche parte la odiavo, sapevo anche che nessun altro al mondo, nessuno in quella casa, poteva davvero saperlo, se non lei. Ero arrabbiata anche perché sapevo che se ne sarebbe andata, e mi avrebbe lasciata da sola, da sola a fare i conti con gli occhi di papà. Penso, ancora, lei non dovrà passarci. Non ci sarà un giorno in cui guardandola, saprò perfettamente quale e quanta paura prova. Non ci sarà un giorno in cui anche senza dirne nessuna, saprò tutte le cose che pensa, tutte le domande che chiede, tutte quelle che ha paura di chiedere anche a sé stessa. Non ci saranno sgabuzzini, scantinati, non ci saranno volte in cui anche guardarsi allo specchio è difficile, e iniziano a contarsi tutte le piccole differenze che segnano passi impossibili da ritirare. Non ci sarà il pensiero di sapere com’è sentirsi solo un pezzo dentro un corpo che non ti appartiene davvero, perché è diviso in due. Non penserò a quanto tempo ci metterà, a divorarla da dentro. Penso a quanto mi sia sembrato impossibile, tutto questo. Qualcosa di irraggiungibile, intoccabile, perfino dai pensieri. «Direi che la nostra relazione è già di per sé una testimonianza bella forte» uno sbuffo, anche se resto ferma e non mi scosto. Uno sbuffo che sa di un sorriso leggero, fermo sulle labbra. Un po’ una volontà, un po’ un punto, un po’ un inizio, un’intenzione a sé stante che rimane qui, anche lei, immobile nello sterno. Un secondo che è un respiro, è qualcosa di tremulo a fondo, nello stomaco. Ci poggio la mano, come se in questo momento fosse importante che stia lì, ferma sul rigonfiamento della pancia, a comunicare qualcosa che è solo un suono incomprensibile, con parole sconosciute, e per questo deve avere quel qualcos’altro talmente forte, da non aver bisogno di linguaggio. «Voglio che sappiano che qualsiasi cosa succederà, saremo con loro» forse, è una di quelle cose stupide che non può essere capita da tutti. Non può essere capita se non in quegli spazi vuoti, che per anni ed anni hanno gridato, urlato, ma che nel non ricevere mai risposta, si sono semplicemente piegati al silenzio. Ci si sono abituati, come ad una malattia che non smette il suo decorso, ma contro cui si smette di lottare. Ho perso mia madre troppo presto, ho perso mia padre molti anni prima di vederlo bruciare come un faro nel buio. Lo conosco, quel vuoto. Non voglio che lo abbiano anche loro. Alla fine, posso dire di aver visto davvero le mie paure dritto dentro gli occhi. Mi sono passate accanto, una ad una, si sono materializzate, sono state mie compagne quando tutto andava letteralmente a puttane. Anche questo, voglio che a loro non accada mai. Forse, anche questo è egoista. Anche questo è in qualche modo sbagliato, ma non so volere niente di diverso. Non che sia tutto bello, perfetto, ma che se mai diventerà brutto, terribile, grottesco lì fuori, sappiano che c’è questo, per loro, e ci sarà sempre. «E voglio sapere che qualsiasi cosa succederà, qualsiasi, sarò abbastanza forte per loro» come non lo sono stata sempre. Come non lo sono stata per quel patto, come non lo sono stata troppe, troppe altre volte.
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    Un po’ fanno tenerezza queste paure che ha. Paure normali, immagino. Paure di un genitore. Ce le ho anche io, diverse, ma il fulcro è sempre lo stesso. Essere abbastanza per loro. Creare un futuro che possa essere più semplice, o almeno, meno faticoso. Meglio di quello che hanno lasciato a noi, vuoto o con debiti da pagare, vendette da completare, o sterile, senza speranza.
    Quella voglio che ce l’abbiano.
    La speranza.
    È l’unica cosa che fa funzionare tutto il resto, senza speranza non so dove sarei andato a finire. Probabilmente già sotto terra molto tempo fa, seppellito dalla stanchezza del dover sopportare anche solo i miei pensieri.
    Invece ho sempre combattuto per sopravvivere in fondo, anche quando dico di non farlo e sono troppo stanco per impegnarmi a tornare. Spero sempre che le cose vadano meglio, che si possano risolvere, che ci sia qualcosa da combattere, un tentativo da provare, impegno da sudare. È l’insegnamento più importante che voglio dargli.
    Freno al semaforo rosso e ne approfitto subito per girarmi da lei, piegarmi per darle un bacio sulla tempia tra i capelli. «Lo sanno già» lascio il voltante e le giro la testa verso di me prendendola dal mento «E anche tu lo sei già.» Un sorriso veloce che le premo sulle labbra. «Ti basta pensare a tutto quello che hai superato.»
    Tante cose, anche se lo so che è più facile ricordare quelle che invece sono rimaste incollate come errori, sbagli, colpe e così via. Io sono il primo a focalizzarmi di più su quello, ma non posso non predicare bene e razzolare male in questi casi.

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    Quello che ho superato è molto meno di quello che invece, è rimasto qui, nascosto ed incastrato da qualche parte. Come in attesa, sempre, di saltare fuori nel momento peggiore, e prendere possesso di ogni cosa. Credo che semplicemente, qualche volta non basti sforzarsi, girarsi dall’altro lato e rendersi ciechi, sordi a quelle cose che sono fatte, invece, come segni di bagnato sul lego, che a lungo andare lo ammuffiscono, lo fanno marcire e restano ad intaccarne il colore, la composizione. Oggi non è che una dimostrazione di quanto davvero poco ci voglia a trovarsi di nuovo incastrata lì, nelle cose che non ho superato. In un’altra vita, forse avrei detto che sì, è abbastanza. Quello che ho superato è abbastanza, ma in questa so che non lo è. Non credo che in fondo sarò mai capace di sentire come sia abbastanza, qualsiasi cosa che faccio, penso, dico. Ci sarà sempre, da qualche parte, quella voce che invece mi dice che non è neanche lontanamente sufficiente. Difficile ignorarla, quando ci vuole poco a girarsi e vedere quei punti che hanno ceduto, anche lì dove ho pensato ci fossero giunture troppo solide per rompersi. Però lo guardo, un respiro che scivola a fondo dalle narici fino ai polmoni, dove lasciarlo macerare per qualche secondo come ad assicurarmi che sia lì. Ben piantato dove dovrebbe essere, senza ascoltare un senso o l’altro che invece, mi fa sentire la gola troppo stretta per un respiro. Anche a questo, riesco a credere con più facilità quando è lui a dirlo. La mia voce non ha mai questo tono, non ha mai questa inclinazione, e neanche questo tipo di parole. Ne ha di diverse, ma sempre le stesse, ripetute ancora ed ancora in loop che qualche volta, diventano un rumore assordante che copre tutto il resto. Vorrei davvero non esistessero, momenti così. Come quelli, come questo. Quelli che mi rendono stanca, quelli che mi rendono crudele contro tutto quello che esiste nella mia orbita, come una bestia ferita che si stringe nel suo angolo. Lo sono stata, una bestia ferita, ma anche quella dovrebbe essere un’ombra ormai passata, superata. Un altro respiro, una mano che preme contro il suo polso, lentamente e con la fermezza che ho sempre, ogni volta, quando si tratta di afferrarlo, di sentirlo in qualche modo. Non avrei dovuto, ma ad un certo punto me lo sono chiesta cosa avrei fatto se non fosse tornato mai. Se quella fosse rimasta la mia unica realtà, quella con un’assenza appesa alle costole a trascinarsi pesante dietro ogni passo. Non è che abbia trovato una risposta: qualche volta, penso che sarei stata capace di riprendermi davvero, perché c’erano i bambini e io ho giurato, giurato, che sarei stata per loro di più di quello che ho avuto io, nella mia vita; dall’altra, qualche volta penso che non ne sarei stata capace, come non sono capace di tante, troppe cose. Non vorrei essere infallibile, solo più capace. «Lo so che ci credi» ed è in qualche modo, una consolazione. Forse, prima, avrei pensato che era un pensiero asfissiante, con quella perenne paura di deludere, prima o poi. Non che mi sia del tutto passata, ma adesso è più simile ad un infarto, uno sporadico attacco che arriva nei momenti in cui tocco con troppa forza tutto. Adesso, non mi asfissia, sapere che lo pensa. Non mi corrode, non mi fa quel tipo di paura che vede come non sappia guardare davvero quello che ha di fronte, e abbia idealizzato troppo. Che così, può solo finire sempre lì, nella delusione. Adesso, invece, è quel tipo di cosa che mi porta un sorriso alle labbra, premuto con una dolcezza che lo so, può nascere solo quando ho lui di fronte a me. Una cosa privata, solo sua, come un soffio, una tinta particolare che nasce solo mischiandone altre insieme, e non può esistere in altro modo. È che adesso, penso davvero che Morgan di me abbia visto tutto. Le cose peggiori, sopratutto. Tutti i cedimenti, gli scatti, gli scazzi, le stronzate, le paranoie, e le cazzate più disparate che so pensare, fare e dire. Ed è ancora qui, come lo è sempre stato. Anche quando non c’era, non è mai andato via. Questa, è una cosa che ci ho messo un po’ a capire, ci ho messo mesi. Ma alla fine, lo sapevo già, da sempre e sempre, anche mentre mi costringevo a non saperlo affatto, perché era più facile così. Ed è questo, qualche volta, ho bisogno solo che sia più facile. E lo so che questo non va bene, non così, non in questa vita. «Ma proverò ad essere migliore, perché questo glielo devo» come in fondo, non penso nessuno lo abbia dovuto a me. Anche questo sa di recriminazione, e di un pensiero che vorrei scollarmi dalla testa oggi. Non essere così. Non essere mai così, in un modo che suona troppo come un lamento fastidioso, anche quando non c’è proprio niente di cui lamentarsi. E allora, quando non c’è, me lo creo da sola, pescando dalla mia testa un pensiero del cazzo del tutto a caso, e ficcandolo bene al centro. Come i miei genitori, oggi. Come una maledizione che non esiste più, oggi. Come tutto quello che sto dicendo, proprio ora. «Sono piuttosto pesante, per non dire assolutamente melodrammatica, per essere solo una che ha appena saputo che avrà una bambina» un cambio di tono, come uno sbuffo, che non è di quelli che cercano di schivare, di nascondere, di scappare da un punto per rintanarsi altrove. È più quell’altra cosa, quella più nostra, quella delle cose stupide anche nei momenti peggiori, sopratutto in quelli.
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    Lo so che ci credi, sì, ci credo. E so anche che è un modo colmo di gratitudine per dire che lei invece non ci crede poi così tanto. È quel genere di cose che avrei detto anche io, o forse ho detto, una volta o l’altra, con parole diverse o anche senza nessuna di esse.
    So anche, per questo, che certe volte non ha senso insistere. Basta solo sentirselo dire, una frase che sedimenta e magari un giorno diventa un appiglio a cui aggrapparsi per tirarsi su, mettersi in piedi, fare il passo di cui si pensava non essere capaci.
    Io penso che Edie ne sia sempre capace, è solo che la mente quando è crudele è più potente. Fa pensare di essere dei fottuti invertebrati con a malapena le ossa al posto giusto, figurarsi rialzarsi. Sembra impossibile. Anche se non lo è. Non lo è mai. È sempre tutto possibile, quello che cambia è se ne vale la pena, quanta forza dobbiamo metterci, quanto dobbiamo essere coraggiosi e scegliere in vista delle conseguenze.
    E per i nostri figli ne varrà sempre la pena, e avremo sempre tutta la forza necessaria, e saremo sempre coraggiosi, e sceglieremo bene o male, ma sceglieremo per loro.
    Per questo non ne dubito, e le sorrido soltanto.
    «Solo» lo ripeto con quell’inflessione che lo fa sembrare esagerato, incredulo «Avremo una bambina, è una cosa gigantesca. Non come la cella che mi daranno quando finirò in carcere per aver ammazzato tutti i suoi pretendenti.» Le prendo la faccia con la mano che stava sul mento, ora una stretta più larga che preme piano le dita nelle guance, così le scuoto la faccia di pochi millimetri. «Perché con questa mamma che si ritrova sarà la più bella.»
    Poi la bacio di nuovo, uno di quelli che si prende più tempo per approfondire con calma. La presa sulla faccia che diventa una carezza sulla guancia fino ad andare tra i ricci in alto, delicato per non distruggerle la coda o quel che è.

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