All the things we should say

Den/Liz | 1 Novembre

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    La bambina sta bene. No, “sta bene”. Non mi fa sentire meglio, ma non pensavo lo avrebbe fatto. Non si è mai trattato di questo, in cose come questa. Anche se adesso, non posso dire di essere sicuro di saperlo, di cos’è che si tratta. Non come lo sapevo prima. Granitico nel mio modo di pensare. Adesso, mi sembra solo di aver fatto avanti ed indietro per lo stesso chilometro, convinto di star andando avanti, da qualche parte, una qualsiasi, senza rendermi conto di quanto invece fosse sempre lo stesso pezzo di strada, ripetuto ancora ed ancora. Ci ho pensato, se venire o meno. Se mettere anche questo fra me e Morgan, un passaggio in un punto che ancora non so davvero com’è che sia, fra me e mio fratello. Se mi andava bene venire, con la consapevolezza di dov’è che è finita la mia testa nel mentre. Non mi piace mai quando è in un punto del genere, e dall’altra parte c’è qualcuno. Di meno, forse, quando c’è qualcuno che conosco. Non so perché penso a com’è che mi guardava mia madre, una volta o l’altra. Anche se lo so il perché. Sono sempre le stesse cose, quelle da cui cerco di allontanarmi da sempre. In modi sempre peggiori, di questo sono consapevole. E mi riesce anche sempre peggio. E lo dimostra anche solo quante volte mi sono sentito così negli ultimi anni. Di più, rispetto a prima. Di più, più a lungo. Ho pensato, no non voglio che mi veda così. Stupido, lo so. Ma l’ho pensato lo stesso. Come se pensassi davvero che se nessuno mi vede, allora tutto questo posso dire non sia mai successo, e continuare così, a suon di cazzate mal fatte, ma a cui mi dico di credere. Penso, devo aver già cambiato tremila pensieri da quando, neanche troppo fa, ho parlato con Morgan. Aver preso altre tremila strade diverse, fatto retromarcia solo per poi premere in avanti con forza. Girare in tondo, azzardare un passo in una direzione diversa. Sono stanco anche per questo, e vorrei prendere un pezzo o l’altro di tutta questa storia e spostarlo. Almeno per un po’. Penso, detesto davvero avere questo meccanismo nella testa ed essere letteralmente fuori dalla sua porta. Come se venissi a metterle addosso qualcosa che neanche so nominare. Oltre a tutti i problemi nuovi che sono arrivati dall’ultima volta che abbiamo parlato ad oggi. E non penso siano da sottovalutare. Però, alla fine, sono venuto. Penso, lo so che è meglio. Meglio di quella piccola casa nel giardino, al buio, al silenzio, a chiedermi davvero troppe cose nella testa che poi non ho le palle di chiedere a nessuno a voce. Aspetto solo che passino, o che mi ci abitui. Come ad una malattia. Non è il sonno, tanto non dormirei. Ho ancora quella stessa paura di dormire che ho da mesi, solo che ora è peggio. Per quello che ho visto, per quello che potrebbe essere successo, per mille motivi che non mi va neanche di nominare, contare, accreditare. Anche quelli faccio finta non ci siano. Invece, penso, questo è qualcosa di diverso. Non del tutto, c’è sempre uno strascico di lei che arriva fino a quel grumo, che ne fa parte come ne fa parte tutto, perché le cose intorno a me hanno code, fili che li legano sempre a quel nugolo. Altrimenti, sono solo cose, persone, di cui non m’importa. Una maledizione del cazzo, me ne rendo conto. Penso, devo togliermi questa faccia da funerale, perché so di averla. Penso, voglio davvero vederla. Al di là di tutto. Semplicemente, e per davvero. Perché davvero, mi è mancata. Penso, per quanto possa essere brutto per lei, per tutti gli altri, è davvero che mi sono sentito accolto, qui, anche quando sbagliavo tutto. Lascio andare un respiro, e mille pensieri di troppo. Tutti insieme, in un modo che non so se so fare, o se è solo una delle cose che mi sono raccontato essere in mio potere, e allora mi sono limitato a crederci. Penso, penso solo a quello che c’è con lei. Quello che è rimasto in sospeso, le cose di cui mi dovrebbe importare, e che invece alla fine non so considerare così pesantemente come ho provato a raccontarmi per muovere un passo più in là. Penso, ci saranno delle cose da dire, da aggiustare. Non importa. Voglio davvero vederla. Questo resta. Il resto, può farsi un po’ più in là. Perché per tutto questo tempo, ho provato a dire che invece no, non volevo vederla. E che se volevo, era sbagliato. Lo ero io, nel farlo. Che avrei dovuto strapparmela di dosso, e che forse così, avrei strappato di dosso anche quello che ero stato con lei. Tutto quello che ho fatto di male. Solo che il punto, penso che sia che c’erano delle cose che invece no, non volevo strapparmi via. Non volevo cancellarle, non tutte. Non potevo scegliere, però, cosa tenere e cosa buttare via. Quindi, quindi ho semplicemente tenuto tutto. Ho perso in partenza ogni proposito che potevo essermi fatto in testa. Un altro respiro, prima di premere un po’ il braccio contro il muro, l’avambraccio pressato contro lo stipite e la testa appena inclinata, lo sguardo basso. Non so neanche cos’è che dovrei dire, ad essere onesto. Per quanto possa sembrare assurdo, sono successe mille cose da quando l’ho vista in quel bar ad ora. Solo che non è così assurdo, considerando la mia vita. Una barzelletta, ma fatta da un cinico bastardo, decisamente ubriaco e impegnato a vedere quanto la può sparare grossa senza scadere nel ridicolo. Anche se penso che nel ridicolo ci siamo finiti già da un po’, io e l’ubriaco della barzelletta cinica. Alzo un po’ la testa quando sento il rumore della porta che si apre, cercando solo di rilassare i muscoli del volto. Non è davvero così difficile, perché c’è davvero qualcosa che sa di sollievo, in tutto questo. «Hey» esordisco così, come il personaggio di un romanzo rosa di bassissima qualità che, sono sicuro, farebbe scalpitare il cuore di ogni ragazzina dodicenne con una scarsa autostima. Peccato che lei non sia una dodicenne, e penso di autostima ne abbia abbastanza da poterne regalare a pacchi, e trovarsene comunque una riserva infinita.
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    Poggio il libro sulla pila di altri libri accanto alla poltrona. Attraverso la biblioteca e tutte le altre stanze stringendo la vestaglia di velluto solo con le braccia, senza annodarla. Sento la pelle uscire da sè stessa. Mi erano mancate queste sensazioni coraggiose, quelle di una bambina rinata in mezzo a mille anni di vite diverse, adulte e vecchie. Aperta la porta d’ingresso il freddo di Manhattan scivola sulla pelle delle gambe scoperta, ma non lo sento nemmeno. Sento l’angolo delle labbra sollevarsi come spinto da un meccanismo automatico. Un passo indietro, lo squadro con attenzione fittizia e annuisco, un’espressione di finta approvazione che non è del tutto recitata. «Mh, sexy.» Allungo una mano lasciando la vestaglia libera di aprirsi, lo afferro per il colletto della felpa tirandolo dentro casa, un passo, due passi nell’ingresso. Una mano dietro di lui per spingere l’anta della porta a richiudersi pesante alle sue spalle. Movimenti che mi portano ad avvicinarmi al suo corpo, che sembra sfibrato, i suoi occhi prosciugati. Entrambe le mani le premo sulle sue spalle e mantengo ancora distanza tra le labbra nonostante senta pressione a farle avvicinare, premere, dimenticare che consistenza hanno da sole. «Com’è andata?»

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    Non saprei dire com’è andata. Penso bene. Bene nel modo in cui un problema viene risolto, senza pensare al come, a quanto ci è voluto, cosa è successo nel mentre. Bene nel modo in cui posso dire che quella questione è chiusa, e che quello che stavano cercando di fare è rimasto solo l’intenzione rossa scritta nei ricordi di chi se lo porterà dietro per sempre. Bene nel modo in cui possono andarci le cose. Che alla fine, va bene così. Alla fine, è sempre stato un po’ il modo in cui ha funzionato, anche se mi sembra si sia assottigliato di più anno dopo anno. Ma me lo dico che alla fine, la cosa che importa è che quello che stava succedendo si sia chiuso. Che non possa più ferire, non possa più fare del male. Per quanto mi chieda tutto quello che ancora mi chiedo. Muovo le mani per arrivare ai fianchi, le dita che premono appena più indietro, contro la schiena. Un gesto chela tiene vicina, un pensiero diffuso in mezzo a tutti gli altri, come una pennellata che arriva a coprirli uno dopo l’altro. Li nasconde alla vista. Muovo la testa quel che basta a premere di più contro di lei, il naso contro la guancia e le labbra che scivolano contro la sua pelle, respirano piano un passo alla volta. Muovo una mano fino al suo volto, spostandola contro di lei fino alla nuca in una presa che non si fa mai dura, ma preme un po’ contro millimetri che non esistono. «Bene» lo mormoro lì, facendolo risalire dalla cassa toracica. «Situazione risolta» muovo la testa un po’ più indietro, senza lasciarla con le mani, abbastanza da poterla guardare con uno sbuffo che sulle labbra, le piega appena un po’ nell’angolo. «Dopotutto sono un professionista» un tono che si muove per essere più leggero esattamente in quel modo lì, quello di sempre, quello che cerca di stemperare, togliere colori troppo pesanti trascinandoli fini contro il foglio, fino a farli sparire. In un modo o nell’altro. Muovo ancora il volto, più vicino, una pressione di labbra contro le sue, anche nel tenerla leggera contro quello che invece, adesso, vorrebbe essere più profondo, e scavare come si scava una tana nel fondo della terra, così in basso che nessun altro può trovarla. «A te com’è andata prima che ti affidassi una bambina a caso nel mezzo di una serata?» lo dico piano, con ancora la concezione di tutto. Il senso di quello che sta succedendo, e di quanto possa sentire i muscoli smettere di contorcersi così tanto, smettere di essere così duri come sempre pronti a qualcosa, uno scatto qualsiasi che mi costringa a muovermi. Penso si possa dire semplicemente che mi sto rilassando, ma sarebbe un termine sbagliato. Questo lo so, è qualcosa di diverso, ma che passa anche per quello.
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    Le mani scivolano oltre le sue spalle, sono le braccia che finiscono appese e sospese oltre lui quando c’è il corpo più vicino. Labbra contro labbra e poi solo lo spazio per le parole. “Situazione risolta”, due parole che spiegano un bene che così ne viene riscritto nell’intensità. Bene in quanto situazione risolta, in quanto comportamento professionale; il resto è tutto da vedere. Non so se vorrà vederlo però, o anche solo lasciarlo vedere a me. Ormai ho capito l’inflessione dello sminuzzamento di Caiden, quel modo che ha di sorridere e sdrammatizzare quando le cose sono state più pesanti del previsto. Sminuzza la merda fino a renderla solo coriandoli, fiocchi che nemmeno si poggiano sulla pelle, spore che infestano l’aria e di cui si può far finta di non soffrire. «Mh» allungo il mugugno con la testa che si piega di lato, gli occhi più stretti e un labbro dietro la fila di denti superiore, «Benino.» Complicato definire com’è andata con mia figlia. È complito definire il rapporto con la mia famiglia in generale. E comunque nemmeno ne posso parlare davvero. Rispetto le volontà di Selina, è il minimo che possa fare. Torno con la testa dritta, spinta verso la sua per pressare le labbra senza che sciocchino quando c’è di nuovo la distanza per parlare. «Ti va un bagno?»

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    Penso, non siamo persone che si dilungano troppo. Ma è una cazzata. Siamo stati anche quello, una volta o l’altra. Un momento o l’altro. In situazioni estreme, ma anche in alcune che non lo erano. Lo erano solo nel senso di aver tenuto troppo dentro e allora alla fine esplodi, anche se non era mai esplodere. Più come un piccolo foro in una diga enorme, che lascia scivolare l’acqua poco a poco, a spruzzi, e neanche mai del tutto. Ma c’erano. Me lo chiedo, se non c’è qualcosa di rovinato anche qui. Come quella bambina che per quanto sia salva, sia fuori, stia bene, è rovinata come rovinata è la sua vita, segnata per sempre da una cosa che non ha potuto evitare, in cui è finita solo in mezzo. Nessuno glielo ha chiesto, nessuno si è chiesto se andasse bene o no. Se fosse giusto. No, l’hanno solo presa, e le hanno ficcato la testa sotto terra, a guardare il marcio di tutti gli scheletri, i corpi in decomposizione. È un pensiero davvero del cazzo, e me ne rendo conto. Il problema, è che questi pensieri del cazzo non è che posso davvero gestirli, o controllarli. Anche se mi dico di sì, e dico a tutti di sì, quando sono nelle situazioni in cui non posso negare la loro esistenza. Perché, ovvio, se posso dire che non esistono, è quella la strada che prendo. Non è che non mi fido di lei, è che ho una voce nella testa che mi dice quanto sono un coglione a farlo. Non è che non abbia bisogno di questo, è che mi sento stupido ad averne. Non è che non pensi che sia un posto che può accogliermi, è che ho paura a lasciarlo succedere. Tutta una serie di cose davvero senza senso, ma anche loro se ne fregano. Non mi chiedono se va bene o no. Se sia giusto o no. Ci sono e basta, mi ficcano la testa sotto terra, a fissare il marcio degli scheletri e della carne che muffisce. Se fossi uno di quelli un po’ più sinceri con sé stessi, direi tante altre cose. Però, non sono quel tipo. Quello che probabilmente quelle cose le affronta, e magari alla fine riesce pure ad uscire dai suoi cazzo di tunnel di paranoia e tutta l’altra merda. Anche se non ci credo troppo, mi sembra più un circolo di propaganda. Una di quelle cose che ti dicono per convincerti ad accettare quelle cose, farle entrare e poi farle anche uscire. Troppo. Però sorrido ancora, e anche questo penso che sia stupido. C’era un senso, nell’essere qui. Solo che era diverso, perché era un pensiero. Pensare ed esserci sono due cose molto diverse, perché a pensarlo non ci sono le realtà che implicano sincerità e conseguenze, implicano tante cose molto concrete e reali. Come benino, che vuol dire tante cose e quasi posso contargliele nelle pieghe del volto che si muovono a disegnare ogni lettera di questa parola. Penso, sono stanco. Penso, sono stanco di avere tutto ad una certa distanza. Di avere la sensazione, da mesi, di camminare su una lastra di ghiaccio, di quelle troppo sottili. Di quelle che basta soffiarci sopra male per finire giù, nel baratro. Penso, sopratutto, sono stanco delle bugie. Anche quelle stupide, come dire sto bene, come sentire che lei sta bene, sentire che Morgan sta bene. Quando in fondo lo so io, lo sa lei, lo sa mio fratello, che non stiamo bene. Però, non è che poi faccio qualcosa per smettere questo teatrino, anzi. Sono il primo a mandarlo avanti. So anche questo. Per questo sorrido, ancora, e annuisco. Non sono sicuro di volere un bagno, ma so che voglio qualsiasi cosa con lei. Mi va bene tutto. Anche questo, mi fa sentire stupido. E anche di questo sono stanco. Potessi farlo, cambierei pelle. Come un serpente, farei la muta e ne prenderei una nuova, che magari mi sta meglio di questa. Ma anche questo non posso farlo. Penso, forse ho smesso di sentire mio il mio corpo, me, da quando mi sono posseduto da solo. Ha senso. Un senso intrinseco e logico, così nitido e preciso da sembrarmi davvero una spiegazione per tutto. Anche se è una stronzata pure questa, e alla fine non mi ci sono mai sentito così bene, nella mia pelle. Muovo una mano, cerco la sua. La stringo un po’, con la testa che si abbassa, gli occhi che vanno giù. Vanno da nessuna parte, un po’ per rifugiarsi, un po’ per cercare di uscire da questo loop di pensieri. Voglio essere qui, per davvero. «È un modo per dirmi che puzzo?» altra cazzata, con quello stesso sapore lì. Voglio davvero che non ci sia tutto quello che c’è nella mia testa, adesso. Mi sento stupido anche in questo. «Non mi offendo solo perché so che è vero» mentre le faccio un cenno con la testa, un’assenzo per andare verso il bagno, più un invito in realtà, penso. Ci siamo già passati. Quasi identico. Solo che quella volta ero finito in un garage dimenticato da Dio, trovandoci mio fratello con cui non mi parlavo da troppo, e infilando le mani nella seconda vita di papà. Sono davvero cambiate, le cose? Non è che ne sia troppo sicuro.
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    Stringo la mano che stringe la mia. Si stringono insieme e il sorriso si incurva un po’ di più. Sempre un pochino di più a ogni secondo di tempo che va avanti e non ci sta dicendo che dobbiamo correre perché il mondo finirà, o noi non dovremmo fare quello che stiamo facendo. O sì, questo lo dice, ma lo dirà sempre e se lui è qui oggi, adesso, significa che ha deciso di non far avere più così tanta importanza a quella cosa. Possiamo gestirla; lo penso nel retro di tutti gli altri pensieri, più molli, già sciolti nell’acqua calda. Possiamo gestirla; lo penso e neanche so se lui vuole che sia qualcosa da gestire oppure così, una volta, o solo ogni tanto senza impegno. Non ho mai preteso qualcosa di facile in tutta la mia vita e morte. Non pretendo cose che non esistono, quelle facili. Però, mi accontenterei di avere qualcosa che anche se difficile non è amara quanto tante altre, non ne ha nemmeno il retrogusto così insistente quando l’assaggio. Vivo bene anche senza, è vero, ma è più difficile pensarlo quando lo vedo o quando sono con lui. Lo precedo verso il bagno «Sì, puzzi. Ma è una scusa per vedere se ti devo rattoppare da qualche parte» mi giro a guardarlo di tre quarti, un sopracciglio alzato come già a indagare ma senza farlo per davvero. «E per farti rilassare» a questo mi volto verso la porta aperta del bagno del piano terra. Gli concedo il lusso di non essere guardato mentre dico a chiare lettere che l’ho capito che non è andata così bene come vuole farla passare. Lascio la sua mano per andare ad aprire l’acqua nella vasca a una temperatura media tendente più al caldo che al freddo e poi torno da lui. Le mani subito ai lembi della giacca per aprirla, farla scorrere sulle sue spalle e farla scivolare via per poggiarla sul mobile con i due lavelli.

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    Posso girarci intorno quanto voglio, e lo farei anche, perché sono quel tipo ostinato a cui piace girare intorno alle cose, e prenderla per le lunghe, ma sono stanco. Quindi, non ci giro intorno. Lo so e basta, al contrario, che è ovvio che queste stronzate non se le beva. Ovvio, o non saremmo al punto in cui siamo. Ovvio, o ci sarebbe stata sempre una certa distanza. O non sarebbe così, confortevole in un certo senso. Non sono una persona a cui piace sapere che c’è qualcuno che ci vede in mezzo alla raffica delle mie puttanate, e non si lascia distrarre dalla magistrale quantità di cazzate che riesco a sparare in un solo secondo. Davvero, penso che il mio sia un record. Non sono quel tipo, però, no, anche questo è ovvio. Però è diverso. E non penso che sia quello che ha detto mio fratello, qualcosa che non ti possono togliere. È diverso, in un modo che neanche provo a spiegare, esplorare da solo in quel covo di merda che è la mia testa. Penso, per sta sera ne ho avuto abbastanza, della mia testa. Ne ho abbastanza già da un po’, a dirla tutta. Penso di poter dire con tranquillità che sono decisamente oltre il punto del “mi sono rotto il cazzo” della mia testa. Alzo le spalle, un po’ le scuoto, un po’ le agito, uno sbuffo leggero che trascina qualcosa che neanche io so se vorrebbe essere uno scherzo, o qualcosa che invece lascia andare un perno, un pezzo, un freno. Se dovessi essere ancora più sincero, e decidere di fare ancora meno giri per stare sempre intorno al punto e fingere che non esista, penso che semplicemente, non ho davvero le palle per tutto questo. Non che le abbia mai avute, per cose simili. Direi il contrario, e direi che il mio disastroso registro di storie e simili, non ne sia che una conferma. Imbarazzante, davvero. Però, anche questo è diverso. Probabilmente perché anche se sembra una cosa assurda da dire, a questo giro, a questo punto, non ci sono cose che si piazzano lì, più grandi, o esterne, e dicono non si può. E allora uno alza le mani, gira i tacchi, e lascia che sia tutto qualcosa di passato. Ci sarebbero tutti i presupposti, certo. Tipo il fatto che lei è un Banditore, e io i Banditori dovrei ucciderli. Tipo il fatto che posso serenamente dire che mi ha mortalmente tradito un paio di volte, o di più, e sapere che per una volta non sto facendo il drammatico esagerando le situazioni. Tipo altre cose, che però alla fine non è che sono servite a molto. Non è che mi hanno fatto dire no. Al massimo, ho detto “non ora, passa dopo”, non proprio così ma il senso era quello. Tant’è che sono qui. Probabilmente è proprio questo, in realtà. Che alla fine, nonostante tutto, sono qui ancora una volta. Non in senso negativo, più come a dire che questa cosa, questa cosa è davvero una cosa, ed è una cosa grande, ed è una cosa seria. Una di quelle che ti fa mettere a rischio tutto per essere presa, vissuta e tutto. Tengo le braccia morbide quando si avvicina per sfilarmi la giacca, aspetto solo che sia via prima di afferrare lembi a caso della felpa per tirarla su, con un bruciore che tira dove in effetti so che c’è qualcosa, ma niente di serio. Non qualcosa che riterrei da “rattoppare”. Forse neanche voglio rattopparla così facilmente. Ma anche questo è un pezzo della mia testa che volente o nolente, è rimasto incastrato in quei cazzo di corridoi stile Shining. «Rilassarmi? Con un bagno? Non lo sai che penserò tutto il tempo a quanto sia uno spreco di interi litri di acqua?» però, questa volta, è più uno strascico. A voce bassa. Qualcosa che non vuole davvero più essere quel tipo di cazzate da montare una sull’altra come fossero un muro, o che cazzo ne so io. Sfilo la pistola, il Curdo, che poggio quasi a caso, anche se con sempre quel tipo di attenzione che sì, okay, lo so, denota qualcosa di vagamente maniacale. Sta a vedere che ora è questo il problema, che ho delle ossessioni. Ma magari. Poi, decido che mi interessa molto poco della maglietta, dei jeans. Meno di quanto mi interessi arrivare al laccio intorno alla sua vita, seguirlo per trovare dove si blocca, scioglierlo, trovare l’apertura nella sua vestaglia da altro secolo. Una mano le arriva sul fianco subito, sopra la stoffa della maglietta. Un gesto che la porta un po’ più vicina, mentre l’altra trova lo spazio da sotto per entrare, salire contro la pelle, stringere l’altro fianco con il pollice che si allunga verso l’ombelico. «E poi, penso di poter dire senza sembrare uno sbruffone del cazzo, che ho passato sicuramente di peggio. Non so, per esempio, la morte la metterei abbastanza alta in classifica per quanto riguarda gli infortuni» questo è diverso. Questo sono io che non voglio si preoccupi. Lo ha anche, un tono diverso. Uno che un po’ si spinge sul suo volto, quando premo la faccia contro la sua. Un po’ cantilena, nel modo in cui ci smuovo un po’ a destra, un po’ a sinistra. Penso, anche questo passerà. O non lo farà, ma sarà giù, a fondo. Anche questo diventerà una delle cose che vanno bene, o che si incastrano da qualche parte e stanno lì. Va bene così. Premo le labbra contro le sue, un po’ ce le abbandono, un po’ ci abbandono tante cose. «Qui mi sento meglio» senza il tono cazzaro che la farebbe solo suonare come una delle mie stronzate, perché non lo è. E lo so bene. È una di quelle cose che, lo giuro su tutto, ho provato a cambiare. Ma non lo ha fatto mai.
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    Ho conosciuto tante persone e nessuna è stata mai uguale a un’altra. Però è vero di come ci siano delle trame comuni che non sono poi tanto diverse se non in quei piccoli dettagli che le rendono uniche. Caiden è una di quelle persone che si devono attendere. Nei tempi in cui non deve trovare il coraggio di dire qualcosa, ma è troppo esausto per continuare a trattenerla e alla fine esce così, come un sospiro di stanchezza che scivola via, sperando anche di non essere notato in mezzo a tutto il resto. Io invece, non sono quel tipo di donna che le persone le attende. Non lo sono nemmeno con lui. Se lo fossi, andrebbe tutto a rotoli, instaureremmo un meccanismo che a un certo punto inizierebbe a incepparsi. Con Caiden ho sempre fatto a modo mio, come con tutti. Non lo aspetto, mi limito ad essere nelle sue vicinanze quando anche lui lo è e se succede qualcosa lo colgo, accolgo lui se si avvicina di quei piccoli passi in più. Nella mia vita ai limiti della sua. Anche adesso è così. Non credo che avvallerò mai la sua abitudine a farsi attendere e forse, chissà, potrebbe essere un bene, potrebbe ucciderci definitivamente anziché lasciarci sempre con qualche ferita a cercare il nostro angolino in cui riprenderci da soli. Anche questa è una cosa che, eventualmente, dovremmo imparare meglio. Io soprattutto. Ci si può riprendere anche insieme se non diventa indispensabile la cura dell’altro. Di nuovo spazio tra le labbra, le mani che si fermano ai bordi del jeans agganciandosi lì con le dita appese. «E va bene?» Colgo la palla al balzo, certo, di capire che cosa sta facendo qui. Non che voglia un contratto firmato di assoluta continuazione di ciò che eravamo prima, prima nei momenti belli, ma almeno sapere quali siano le intenzioni non mi dispiacerebbe. «Va bene che qui ti senti meglio?» Sollevo la sua maglietta intanto, e lo noto, il “dettaglio” da rattoppare. Penso che per lui sia proprio questo, un dettaglio trascurabile. Una cosa da niente. Alzo gli occhi sui suoi guardandolo con il cipiglio più severo che posso impegnare nei miei tratti. Non sono un’esperta, non saprei neanche dire se sia il caso di richiudere la ferita o se necessita di un’occhiata più approfondita. Glielo chiedo, immagino lo sappia meglio di me. «La richiudo?»

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    Va bene è una domanda difficile. Non lo sembra, ma lo è. Ha più facce, come un dado che può cadere da qualsiasi lato e avere comunque qualcosa da mostrare. Muovo le braccia, quel tanto che basta a sentire la stoffa scivolare via, lasciarmi solo con la sensazione di muscoli indolenziti. E ci penso, al va bene. Potrei dire che non va bene, pensare a tutti quei concetti che mi hanno infilato a forza in testa, che siano state le mie mani, quelle di mio padre, di mia madre, non importa poi molto. Potrei dire che non va bene perché ci sono promesse, ci sono doveri, ci sono anche troppe cose a tirare e tirare verso un punto che ormai, onestamente, vedo così distante da non sentire neanche più. Neppure un’eco che si rincorre contro pareti fredde. Ma anche quel non va bene è distante. Anche quello è ormai solo il suono di metallo che batte contro le pareti, una forza che preme, ma non sa attecchire da nessuna parte. Penso, semplicemente, di essermi disilluso. Di aver smontato pezzo per pezzo tutte quelle certezze che avevo addosso, e che erano lì perché era comodo averle. Era facile. Spezzava il mondo in due, e nel farlo spezzava anche tutto il resto, senza pezzi che incancreniti restano appesi alla pelle per farla marcire poco alla volta. Anche quello è ormai solo un punto distante, così indietro da non poterlo vedere neanche girandomi. E non ci sono più passi che si muovono lì, né mani che si protendono. Ma va bene è difficile, ed è una porta che si spalanca ancora verso qualcosa in cui mi sono infilato, e che ha bruciato, ha rotto, ha sminuzzato. Ma quella porta, so anche di non averla mai chiusa. Al massimo, l’ho appena appoggiata contro la parete, quel tanto che bastava a dirmi che sì, l’avevo ormai sigillata. Che non c’era più modo di tornare indietro. Penso, una parte di me probabilmente avrebbe voluto davvero trovarla chiusa. Che se non ero io quello incapace ad andare avanti, almeno avrebbe potuto esserlo lei. Penso, un po’ avrei voluto che per ogni scusa, ci fosse dall’altra parte un no. Un punto fermo che non si scioglie mai, ma consuma. Com’è in fondo con tutto quello che conosco, com’è in fondo anche con mio fratello. Cose che restano e non se ne vanno, e alla fine a furia di restare finiscono solo a rovinare tutto. Un’altra parte di me, probabilmente la più grande, invece no. Non avrebbe voluto questo. Quella parte di me probabilmente a trovare quella porta chiusa, avrebbe voluto sfondarla. Abbatterla, ridurla in polvere così tanto da poter negare che fosse mai esistita, così da poter dire che quella via, questa via, fosse sempre stata aperta. Sempre, dall’inizio alla fine. E per questo, è una domanda difficile. Vorrei chiederle, sinceramente, per chi. Per chi va bene, per chi dovrebbe andar bene che mi senta meglio, qui. Penso, non va bene neanche per lei probabilmente. In un senso complesso, e non solo perché ho quello che ho nella testa. Penso, mi chiedo cosa ne penserebbe, a saperlo. In fondo, so anche che questa cosa, è un rischio per lei, che se davvero alla fine dovessi soccombere, che se davvero alla fine ci trovassimo senza nessuna strada da battere, anche lei finirebbe sotto il maremoto che ne verrebbe fuori. Però, per quanto la conosco, penso che alla fine quel va bene, non voglia che sia il punto di altri occhi, di altri doveri, di altre mani che premono a forza una cosa o l’altra nella mia testa. Che siano le mie, o quelle di chiunque altro. Alla fine, penso, ogni sua domanda del genere, ha sempre e solo voluto sapere il mio, di punto di vista. E a me va bene. Mi va bene che sia meglio, e non è perché è tutto così complesso, appuntito, che anche solo un punto in cui sia meglio è un sollievo. Non solo perché fra ogni secondo ho il bisogno di un respiro che non pesi. «Per me va bene, sì» perché alla fine, non è davvero così difficile. Non lo è, quando tutto si spoglia e resta solo quel centro che è mio, mio e basta. Muovo le mani sui suoi polsi, premo quel poco che basta a farle spostare le mani, solo per poterle sfilare di dosso la vestaglia. Piano, senza il senso di una corsa, più con il senso contrario. Quello del fermarsi dopo aver corso per troppo tempo. Un po’, è perché è così che mi sento. Con il fiatone, i muscoli che fanno male dallo sforzo. La sensazione che li rilassa uno dopo l’altro, e lascia alle ossa il tempo e lo spazio di cedere. Mi muovo solo un secondo, il tempo che serve a slacciare gli anfibi, sfilarli con dei moti sgraziati dei piedi mentre torno dritto. «E questo è solo un graffio» lo indico con un gesto rozzo della mano. Penso, non voglio pensare a quel taglio, per un motivo contorto. Non voglio pensare a quel punto, a quel corridoio, a quello che ho pensato lì. Abbasso per un secondo la testa, gli occhi che si spingono a guardare un po’ a terra, mentre con una mano cerco una delle sue per incrociare le dita. «Per te va bene?» neanche questo è facile. Neanche dal suo lato, anche se ho voluto pensare di sì. Anche questo era facile, pensare che per lei lo fosse. Che per lei lo fosse sempre stato. Ma era solo parte di quelle cazzate di cui avevo bisogno per dirmi che sì, potevo andare oltre. Alzo gli occhi, e anche questo è difficile come lo è sempre quando c’è qualcosa che va a fondo. Però lo faccio, anche se ci vuole quello sforzo in più che mi lascia addosso una sensazione traballante.
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    Lascio le braccia morbide per mettere alla vestaglia di scivolare via dal corpo e toccare il pavimento. Gli va bene. E io sorrido. E non è un sollievo, nemmeno un guadagno, ma una conquista. La conquista di qualcosa che è stato tentato a correre via, è stato obbligato a nascondersi, è stato strappato via e non ho pensato neanche per un secondo che fosse giusto anche se lo capivo. Come non comprendere dopotutto? Lui è nato nel contesto in cui è nato e io sono ciò che sono diventata. Separati alla nascita e alla morte, due mondi in conflitto senza quell’idea romantica di amore impossibile. Solo la verità di occhi che sono stati educati per essere ciechi, un’indipendenza che si è trasfigurata come egoismo nelle mie membra; sono diventati tradimenti. I tradimenti è talmente difficile perdonarli. Eppure siamo qui a dire e vale di più di tutto il tempo passato a tentare di negarlo o a guardarlo portato via. Lo dico anche io, «Sì.» Sempre attraverso quel sorriso che è una pennellata leggera. E quello è solo un graffio. E questo lo fa diventare automaticamente molto di più di “solo” un graffio, lo condisce di significati e mi ci fanno tenere le mani lontane per non privarlo di niente, non macchiarlo di me. L’indipendenza che non è egoismo è restare puri e fedeli a sè stessi senza permettere ad altri di scrivere sulla pelle, sulla vita, cambiarla. Non gli lascio la mano ma muovo l’altra per andare alla chiusura dei suoi jeans e aprirla con la lentezza di un arto solo. Guardo lì, a tratti sollevo solo lo sguardo e lo punto su di lui da sotto le ciglia. «Ma dovremmo parlarne meglio di così, lo sai vero?» Un sussurro, come se stessi avvicinandomi a un cervo spaventato sul ciglio della strada. «Cose pratiche, tipo come gestire le nostre esistenze conflittuali, assicurarmi che tuo fratello non mi uccida di nuovo. E un altro genere di cose pratiche, tipo paletti, necessità, bisogni, aspettative, tra di noi intendo.» Cose che prima non avevo neanche pensato di mettere sul tavolo perché ero convinta, seppur con la speranza subdola, che sarebbe finito tutto e mai ricominciato. «Ma dimmi tu quando vuoi parlarne» il sorriso si affila «Ti concedo una settimana.» E gli lascio la mano per fare pressione sul bordo del pantaloni così da abbassarli.

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    Lo so. Lo so che non può risolversi così, con due cose che per quanto vogliano dire tanto, molto più delle poche parole che le compongono, non bastano per tutto quello che c’è in ballo. Anche se penso di essere un’esperto delle cose irrisolte, di quelle che ci si trascina dietro per anni e dove ti giri ti giri, sono sempre lì a fissarti e ricordarti che esistono. Fosse uno sport, avrei una decina di medaglie d’oro olimpiche, ma so anche che non è che mi abbiano portato tanto lontano. Non è neanche che mi abbiano fatto tanto bene, comportamenti come quelli, anche se continuo a perpetrarli come se fossero un meccanismo perfetto. «Lo so» non che pensi che non sappia che ne sono consapevole, ma neanche posso continuare a vivere di sottotesti e pretendere che bastino. «Ma apprezzo che tu mi dia l’avvertimento con anticipo» lo lascio scivolare, un soffio appena. Serve a distendere i muscoli in quel modo, a non sentire quell’aggrovigliarsi automatico che penso di avere sempre quando so che ad un certo punto, arriverà davvero quel momento in cui non mi posso più nascondere dietro tutte le mie stronzate. «Mio fratello sa dove sono ora» lo dico dopo un po’, abbassando solo per un secondo lo sguardo, per poi tornare su di lei. Anche questa è una di quelle cose che vuol dire molto, in quel sottotesto che esiste e racconta nel modo più complesso possibile le cose più semplici possibili. Solo che non direi che lo sono, semplici. Almeno, non penso di poter dire che lo sia mai stata questa storia, semplice. Al contrario, e questo vuol dire solo che è una di quelle cose che sono importanti per davvero, perché altrimenti mi sarei defilato come faccio sempre. Non sono il tipo di persona che si può dire coraggiosa in cose come questa, al contrario, quasi come se ogni problema lo prendessi come una palla al balzo, una scusa comoda in cui infilarmi per allontanarmi. Non che non lo sappia di essere un casino, e di essere una persona difficile. Morgan ha detto che gli sta bene, più o meno. Ma non posso smettere di pensare, un po’, che sia anche perché non posso fisicamente deluderlo più di quanto non abbia già fatto. Non posso davvero far star zitta quella parte del mio cervello che insiste nel dire che è perché non si aspetta più che io faccia qualcosa di giusto, giusto per quel mondo che non prevede niente di tutto questo. Giusto per me e per lui. «Penso gli stia bene, e almeno possiamo togliere questo problema dalla lista» non ci scherzo davvero, anche perché non penso sia una cosa di cui riesco a scherzare sul serio. Ma so anche che se ne parlassi sul serio, mi bloccherei e basta. Troppe cose in un solo discorso, troppe che sono state troppo, e alcune che anche adesso non sono ottimali. La verità, è che voglio parlarne con lei, di queste cose. Vorrei anche essere quel tipo di persona che riesce a farlo meglio, senza sforzi, senza niente. Di questo, e di qualsiasi altra cosa. Muovo le gambe, lo faccio per togliere del tutto i jeans e scostarli oltre le caviglie, prima di prendere i lembi della sua maglietta per tirarla su, scostare anche quella. So anche che ci sono mille cose nella mia testa, e che non se ne andranno da sole. Lo so perché mi conosco, e ho dimostrato in mille modi diversi, a me stesso, di essere uno che rimugina, e rimugina, e rimugina ancora finché i pensieri non diventano cisti e s’induriscono come macigni. E non voglio questo, con lei. Nonostante tutto, e forse proprio per via di quel tutto che è successo, anno dopo anno. «Quello che so, è che voglio che funzioni, questa cosa» anche questa è una di quelle cose che richiede uno sforzo, per quanto pensi che sia scontato. Perché sono ancora qui, e sono tornato ogni volta, e ogni volta ci ho provato ancora. Male il più delle volte, so anche questo. «Quindi va bene parlare di cose pratiche, e cose che non sono davvero pratiche» penso quanto sia stupido, io. Passo la maggior parte del tempo a dire che non voglio essere trattato con i guanti, e allo stesso tempo so anche che poi, finisce che quando qualcuno non lo fa non reagisco bene. Un paradosso su due gambe.
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    Suo fratello sa che è qui. Una cosa che mi lascia interdetta e per un attimo lo guardo con il dubbio negli occhi, una domanda sospesa a cui però non miro a dare una risposta. Almeno per ora. So che capire la sua famiglia è importante per capire lui, ma anche io come lui penso di voler fare un passo alla volta e non chiedere troppo dal mio intuito. Non sono qui, con Caiden, per psicanalizzare suo fratello e dare un senso a tutto quello che succede tra loro. Anche questo è un paletto, uno che devo mettere con me stessa: non posso essere in controllo di qualsiasi cosa. Un primo passo importante per avere una cosa che funzioni, sì, che funzioni. Abbiamo un obbiettivo in comune. Un buon punto da cui iniziare a camminare insieme e non più con armi nascoste dietro la schiena pronti ad azzannare al primo momento di guardia abbassata. Mi lascio sfilare la maglia da dosso sollevando le braccia e riabbassandole poi per poggiarne una sul suo fianco e l’altra sulla spalla. Gli sorrido ancora, come fosse ormai diventato un riflesso spontaneo dei muscoli facciali «Bene.» Prendo qualche passo per allontanarmi, facendogli scivolare sopra le mani finché non sono troppo lontana da dover staccare. Alla vasca chiudo il rubinetto e sfioro l’acqua per saggiarne la temperatura. Mi giro a guardarlo, non del tutto, ma abbastanza affinché la coda dell’occhio lo colga in periferia, quel sorriso ancora ne contagia tutti i lumi «Siamo sulla stessa lunghezza d’onda.» Per una volta lo siamo davvero. È… emozionante. Lascio la vasca per tornare da lui e cercare i lembi di ciò che gli rimane addosso facendo scendere anche quell’ultimo pezzo di stoffa. Gli premo il dito indice sulle labbra prima di fare qualsiasi altro movimento, «Ora dimmi, vuoi parlare di qualcosa o preferisci il silenzio?»

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    Mi piacerebbe pensare che questa volta, sarà diverso. Che sarà più facile, per un motivo o per un altro. Che sarà all’opposto di tutte le altre volte. Ma non è così. Non per lei, non per noi. Perché ci sono io, in mezzo a questa cosa. Io che già da solo, senza complicazioni, sono una grandissima testa di cazzo, un cagasotto di prima categoria, di quelli che ogni tanto, lo sentono il bisogno di chiudere tutto fuori e starsene da qualche parte, intoccabili. È più o meno quello che ho sempre fatto fino ad ora. E già così, non promette bene. Ma ho ancora in testa quello che ci siamo detti io e mio fratello, ho ancora in testa quello che la testa se la mangia da fuori, quello che se la mangia da dentro. La verità, è che normalmente non saprei dire quando o come morirò, so che sarà prima di quanto dovrebbe perché è così che finiscono i Cacciatori, ma adesso, adesso posso anche dire che è un’incognita diversa, più reale. Non come quando aspettavo che arrivasse il mio no, e poi i Mastini. Diverso, sì, ma in qualche modo, opprimente allo stesso modo. Mi piacerebbe, anche, chiedere che se mai succedesse una cosa simile, se davvero si arrivasse a tanto, se davvero non ci fosse altra soluzione perché lui è arrivato a pretendere troppo, mi piacerebbe davvero chiedere che lascino stare. Non lei, ma Morgan sì. Che mi lasci stare dove devo stare, e penso proprio che a questo punto della mia vita, sia decisamente il Calvario. Però, non penso che sarà così diverso. Anche se vorrei, perché in fondo resto quello a cui sì, cazzo, sì che gli piacciono le cose semplici. Anche se non sembra, visto che tendenzialmente, pare che mi piaccia incasinarmi l’esistenza in ogni modo possibile, e in tutti quelli che posso inventare, perché pare che ci tengo abbastanza da impegnarmici del tutto. Un coglione, una testa di cazzo, appunto. Mi piacerebbe ancora di più per lei, perché non ho dimenticato neanche tutto quello che ci siamo detti dall’inizio ad oggi, e neanche quello che mi ha scritto dopo, l’ultima volta. Però, penso che se dice bene, lo dice sapendo che sono quello che sono, e che non è che sia esattamente la persona migliore con cui avere a che fare. Lo so che lo sa, perché per quanto ci possa girare intorno, Liz è la persona che probabilmente, mi conosce meglio. Meglio di Morgan, perché lei non lo ha quel filtro che ha mio fratello, quello che vuole vedermi diverso, non colpevole di tutto quello che invece, è proprio una mia colpa. Meglio di lui, perché c’era nel mio peggio, e c’era nel modo che non mi faceva trattenere un pensiero sbagliato o l’altro, cercando di interpretare una parte che mi è sempre stata stretta. Però, penso anche che non voglio più essere quel tipo di persona che accampa scuse e ci si nasconde dietro, quel tipo di persona che dice solo di essere un casino e allora si giustifica in tutto. Non che abbia mai voluto esserlo, e ho detto anche mille volte di essere pronto ad affrontare le conseguenze. Solo che erano tutte stronzate, come sempre. Non le so davvero affrontare, le conseguenze. Penso di dirle che la amo. Per tutto, anche per il male. Perché è qui a concedermi tempo, anche dopo tutto. Perché è qui e basta, anche dopo tutto. Penso di dirglielo, e di dirle che non ho mai smesso. Di dirle che provare a smettere è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto, e di cose complesse ne ho fatte. Ho imprigionato delle Divinità, mica niente. Però lo so che tanto non lo dirò. Non le dirò questo, non le dirò che mi è mancata. Mi è mancato parlare con lei, paradossalmente, più di tutto il resto. Il che la dice lunga, visto quanto risaputamene a me non piaccia parlare. Invece, muovo le gambe, finisco di sfilarmi tutto, muovo le mani e le premo su di lei, sui fianchi, con la testa che si muove un po’ avvicinandosi per strusciare il viso contro il suo, premercelo contro con un respiro lento. Focalizzarmi qui, proprio adesso. Premo le labbra contro le sue, un tocco immobile che mi lascia respirare dal naso qualche secondo. Qui, proprio adesso. «Possiamo parlare dopo» perché c’è un dopo. Mi allontano un po’, quanto mi basta a chinarmi di quel poco che mi permettere di muovere le mani sulle cosce, abbastanza da sollevarla premendomele contro i fianchi. Do uno sguardo rapido alla vasca per calcolare le distanze, superarla prima di premere ancora le labbra contro le sue in un modo diverso. Mi muovo senza lasciarla, finendo a farle premere la schiena contro il bordo della vasca, una mano che si poggia lì a stringerlo per non schiacciarla. Direi una cazzata se dicessi che non ci ho pensato, a questo, nell’esatto momento in cui l’ho vista in quel bar. O che non ci ho pensato anche quando non c’era, ed era quel qualcosa da cercare di strapparmi di dosso, dalla testa. Certo che l’ho fatto. Sicuramente molto più di quanto sia disposto ad ammettere. Muovo l’altra mano per premere un ritmo lento, mentre scosto le labbra dalle sue seguendo la linea della mascella, il collo. Focalizzato qui, adesso, dove c’è solo lei.
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    Sì, possiamo parlare dopo. Spero che di tempo questa volta ce ne sia di più. Il suo tempo, il mio di sicuro non ha una data di scadenza fissata a così pochi battiti di ciglia come quello di un mortale che tenta di morire ogni volta che esce da casa sua. Il mio andrà avanti sempre. Anche dopo di lui. È qualcosa a cui penso spesso questo, forse perché sono stata abituata a proseguire con la consapevolezza che in qualsiasi istante sarei potuta restare sola, fino a sentirmi sola sempre e a non odiarlo così tanto. C’è stato un periodo in cui ho temuto la solitudine, poi è diventata parte di me e non l’ho mai più provata a rinnegare. Anzi, l’ho amata e poi, ancora più indipendente, l’ho considerata amica. Ma ci sono voluti quattrocento anni, tempi diversi, dilatati in una concezione dell’esistenza che si muove si un’altra linea molto diversa da quella di tutti gli altri. Non mi dispiace essere su un altro binario se poi ci sono momenti come questo che mi permettono di scivolare giù, insieme agli altri, o in questo caso un altro nello specifico. Guardarmi intorno e assaporare quanto per loro invece sia tutto talmente fugace da essere istinto puro e poca logica. Anche se poi, come Caiden stesso, ho incontrato così tante persone che sprecavano tutti i loro secondi dietro ingarbugli di pensieri. Immagino sia questo, ora, parte del fascino che provo per persone come lui. Il suono che fa il suo cervello quando pensa, si incarta, ci si arrotola e si perde e poi finalmente si concede di non avere nient’altro che il momento presente. Sì, possiamo parlare dopo. Con una mano mi aggrappo a lui da dietro la schiena, dietro la nuca, le dita che arrivano a intrecciarsi nei capelli ricci nel retro la testa. L’altra invece scende sul suo petto, giù fino a prenderlo per muoversi su di lui a un ritmo uguale. Le labbra la lasciano solo per prendere tratti di respiri non necessari e che mi sembrano perdite di secondi preziosi.

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