Ineffable

Alastor & Azrael | 5 settembre

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    E' martedì. Un normalissimo giorno dove succede nulla di particolare, come tutti gli altri giorni infrasettimanali del resto. L'intero quartiere sembra essere scivolato in un vago dormiveglia, dal quale si sveglia solo nel fine settimana per cedersi alla sete di vizi e piaceri, veri flagelli, che rendono misero l'uomo nell'abbondanza stessa di ogni cosa. So che sono le cinque in punto grazie alla campana della chiesa poco distante dal locale, l'unica ad essere rimasta consacrata, che scandisce il tempo, chiamando con i suoi rintocchi alla preghiera pomeridiana quei pochi fedeli la cui devozione non conosce ostacoli. Per quanto ascoltino la parola del Dio sbagliato, non smetto di nutrire ammirazione nei loro confronti. In un certo senso mi ricordano la cieca fedeltà che ripongo in Aaos, nonostante tutto.
    Nella mia Just A Cup of Tea non c'è molto movimento, tutto sembra essere immobile, fatta eccezione dei pochi clienti abituali che consumano pigramente il proprio tè prestando scarsa attenzione al mondo che li circonda. In fondo al locale, seduto vicino l'ampia vetrata che si affaccia sulla strada, c'è l'Earl Grey al bergamotto con gli occhi bassi sul giornale che sfoglia languidamente. Seduta al tavolo accanto, c'è la coppia dei tè orientali che tristemente non si degnano neanche di uno sguardo. La signora Matcha latte e suo marito Tè verde al gelsomino sembrano essere troppo indaffarati con i rispettivi smartphone per stabilire un minimo di contatto visivo. Dallo stomaco mi sale l'impulso di raggiungere il loro tavolo, rovesciare accidentalmente l'acqua sui vestiti del Signor Tè verde al gelsomino affinché l'incidente faccia mettere da parte quegli insulsi aggeggi elettronici e far riportare gli occhi dell'uno sull'altro. Al costo di rivedere un pò di umanità in loro, la loro connessione risvegliarsi, anche se debolmente, avrei messo a rischio la reputazione della tea room. Un impulso che però la mia logica affretta a soffocare.
    Piuttosto, mi costringo a riempire la testa con altri pensieri. Sollevo distrattamente lo sguardo sul soffitto e mi irrigidisco quando noto un piccolo dettaglio che, agli occhi di chiunque, può risultare innocuo, banale, superficiale, mentre ai miei viene identificato come un pericolo che va assolutamente eliminato.
    Senza aspettare un secondo in più afferro la scala in legno consumato e l'avvicino al mobile, sopra al quale penzola il nemico del giorno.
    Ignorando le ginocchia di Michael, il mio vecchio buon tramite, che gemono mentre salgo uno scalino dopo l'altro, mi avvicino alla cima dello scaffale come un predatore con gli occhi puntati sul bersaglio. Devo prestare attenzione, essere delicato tanto con il mobile che custodisce i più antichi e disparati set da tè quanto con l'involucro umano nel quale convivo con l'uomo che anni addietro ha affidato la sua vita, la sua anima, il suo tutto, alle mie mani.
    "E tu cosa ci fai qui?" Le parole mi escono come un soffio dalle labbra, gli occhi socchiusi costretti dalla fronte corrugata. Infilo lentamente le dita nel taschino esterno della giacca a coste, alla ricerca dell'arma di cui mi sarei servito per porre fine a quella che è ormai diventata tra noi una sorta di battaglia personale. Un gesto di sfida che la ragnatela di polvere non può ovviamente cogliere ed interpretare. Mi chiedo come possa essermi sfuggita nell'accurata e minuziosa pulizia che ho eseguito recentemente al locale. Forse a quest'ultimo ci tengo più di quanto abbiano mai tenuto i vecchi proprietari. Forse quando si tratta della Just A Cup of Tea tendo a diventare un pò troppo protettivo, ma per me è fondamentale che ogni cosa presente all'interno delle quattro pareti sia in ordine, pulito, al suo posto.
    Con un moto di stizza che mi agita lo stomaco, noto che il taschino della giacca è vuoto. Il solo pensiero di scendere la scala, procurarmi del fazzoletto o del necessario per sbarazzarmi della ragnatela ed infine risalire nuovamente mi sconfortava. O per meglio dire, non era una proposta allettante per il corpo nel quale ero ospite.
    Ma poi qualcosa nell'aria cambia.
    Per i miei clienti tutto sembra essere uguale eppure io lo percepisco.
    Lo sento e lo percepisco chiaramente, come quando avverti un alito di vento accarezzarti dolcemente il volto.
    Non ho bisogno di voltarmi per identificare l'ombra che è alle mie spalle, ai piedi della scala. "Ciao Alastor." Le rughe si distendono parallele sulla fronte e gli angoli della bocca si arricciano in un sorriso a labbra giunte. "Arrivi proprio nel momento giusto. Potresti cortesemente passarmi la scopa?" Senza voltarmi protendo la mano verso la direzione dell'altro, il palmo aperto nell'attesa di percepire il familiare contatto con il manico della scopa di legno. Una parte di me, tuttavia, si sta psicologicamente preparando a quello che si prospetta come il primo di una lunga ed inevitabile serie di battibecchi della giornata.
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    Vorrebbe dire che è diventato più difficile. Cosa? Vivere in un mondo di umani, ovviamente. Troppo complesso. Nah, lo è sempre stato, ogni secolo vive delle sue complicazioni, tutte personali e adeguatamente tarate, bilanciate alla propria elettiva sfortuna, ma la matrice è rimane sempre la stessa. Cos'è allora che rende le cose più difficili? Sapere di avere mille occhi indagatori addosso, sì, certo, ecco, deve essere proprio quello. Non sono più difficili gli uomini, gli uomini restano sempre gli stessi, benché si dicano tra sé il contrario. Non esiste qualcuno che abbia vissuto abbastanza per essere in grado di tracciare una retrospettiva perfetta sulle complicazioni derivate dall'"umanità", e se esiste, beh, non è umano. Ad un certo punto la comprensione si ferma; no, non si tratta di comprensione - quella è parte del raziocinio - si tratta più dell'empatia. Ad una certa l'empatia muore, e lo fa prima delle ossa e della carne. Dunque, tornando a noi, non sono gli uomini che sono diventati più complicati e hanno reso, per questo, ancora più complicato il mondo in cui vivono. È tutto il resto, è la macchina che muove i fili dietro il fondale del palcoscenico. Almeno una delle macchine, quella di Alastor, come pure quella di Azrael: per quanto e ne dica quelle due hanno certi meccanismi che funzionano solamente assieme. Si è complicata quella macchina lì, e di rimando si è complicato il modo con cui loro, denti dei meccanismi, hanno scelto di vivere in questo posto.
    Il sunto è che da quando Samenar e Aaos si sono ritrovati rinchiusi insieme nella gabbia tutto si è paurosamente incasinato. Come? Perché ci sono dei cazzi di Banditori che cercano tutte le teste di quelli che hanno disertato o hanno approfittato della semplice anarchia dovuta dall'assenza del loro dio. Per fare cosa poi? Cosa immaginano di fare? Mettersi loro a comando del Calvario? Ma non diciamo idiozie. Ah, perché Alastor non fa parte di nessuna di queste categorie, non ci si sbagli. Alastor da sempre, prima ancora che scoppiasse il caos, è fedele alla causa dell'"ognun per sé". Però un Luogotenente è pur sempre un cazzo di Luogotenente, e il Vuoto è una prospettiva sempre così vicina, ora ancor di più. È bene tenerseli stretti i propri vizi e i propri vezzi, e cercare magari, sì, di tenerli per sé, il più possibile, senza troppe pubblicità.
    Entra nel locale, guardandosi come sempre attorno, circospetto, ma, al solito, non c'è nulla di preoccupante. La gente a malapena alza lo sguardo quando la porta si richiude alle sue spalle con un tintinnio. Sente la presenza di Azrael, beh, ovunque, questo posto ha l'impronta evidente del suo proprietario. O forse no, forse Alastor si è abituato troppo alla sensazione di Azrael, per cui non si tratta della semplice presenza di una Scintilla, ma solo di quella particolare e specifica entità. Non ha perso certo smalto però: lo riconosce un Emissario quando se ne ritrova uno davanti. In questo caso il suo è in cima a una scala.
    «Victor. È Victor, ti sei già bruciato il cerv- non importa lascia stare.» perché tanto nessuno ha minimamente alzato lo sguardo dal suo tè o dalla propria macchinetta infernale.
    Ripercorre con lo sguardo la scala fino ad Azrael in cima ad essa, e alla mano che gli tende aspettando che la sua richiesta venga soddisfatta. Alastor guarda a destra, poi a sinistra velocemente, e infila le mani nelle tasche dei pantaloni.
    «Hai preso quello che ti ho chiesto?»
    Ogni giorno è un buon giorno per tentare di radere al suolo questo negozio. Sì, anche questo fino a un certo punto, poi Alastor ha dovuto trovare il modo per divertirsi nella noia di un luogo così poco alcolico. Un paio di settimane fa ha sentito parlare di tè "psichedelici"; roba allucinogena, cose così. Diventa noioso pure continuare ad annacquare il tè con l'alcol ad una certa.



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    Mi è sempre stato detto che la sola presenza di un Banditore è un grosso rischio per la mia esistenza. Che avere a che fare con loro significa gettare ombre sulla propria Scintilla, esporla, renderla vulnerabile, a causa della loro natura che tende a rendere marcio tutto ciò che gli circonda, come un cancro che ti corrode poco a poco e che ti logora la carne, riducendoti a un essere putrefatto con un solo grosso foro dove vi è spazio unicamente per l'agonia e l'odio, esattamente come un figlio di Samenar.
    Ho sempre fatto come mi è stato detto, ho evitato quanto più possibile i Banditori e chiunque facesse parte dell'esercito di Samaner, finché non ho incontrato Alastor.
    Dire che tutto è cambiato dal primo giorno in cui le nostre strade si sono incrociate è a dir poco riduttivo.
    Mi è bastato semplicemente conoscerlo per spingermi a mettere in discussione tutto l'indottrinamento che ho subito sull'Isola, per iniziare a sentire strette le imposizioni che mi sono state cucite addosso. A scanso di equivoci, stare con lui, bearmi della sua compagnia non ha piantato in me il seme della ribellione: contrariamente da ciò che potrebbe pensare un Emissario o un Banditore guardandoci trascorrere del tempo insieme, non ho abbastanza coraggio per mettermi contro quella che, malgrado l'esilio, continuo a definire la mia famiglia.
    E posso affermare che, almeno dal mio punto di vista, nonostante l'uno sia trincerato nella propria ostinazione, nella forma in cui è stato plasmato, volente o nolente trova sempre il modo di amalgamarsi armoniosamente all'altro.
    Devo però ammettere che neanche una singola volta nella mia intera esistenza avrei immaginato di intrattenermi con uno di loro, di familiarizzarci e perfino considerarlo l'unica entità a cui affiderei la mia, eppure in questo preciso istante lo sto guardando dritto negli occhi attraverso i vetri scuri dei suoi immancabili occhiali da sole che indossa anche laddove non sono necessari.
    Come immaginavo, la mia mano è rimasta vuota. Mi sono dovuto quindi voltare per fargli presente dello sguardo colmo di rassegnazione che tendo ad assumere quando le mie richieste non vengono da lui assecondate, ossia quasi gran parte delle volte.
    Viceversa Alastor, Victor, mi fa puntualmente presente della mia intramontabile abitudine a chiamarci con i nostri veri ed immutabili nomi, anziché con quelli con cui gli umani ci conoscono sulla carta.
    "Oh non preoccuparti di loro." Muovo la mano in un gesto evasivo, alludendomi agli unici clienti presenti nel locale. Non solleverebbero lo sguardo neanche se Aaos dovesse fuggire dalla gabbia in cui è ingiustamente imprigionato e apparire davanti ai looro occhi nella sua più pura e potente forma, la Luce fredda che inesorabile li renderebbe sordi e ciechi.
    A ogni modo, so della ragione che l'ha spinto a varcare la soglia del mio locale e non mi prendo neppure la briga di chiedeglielo. Eppure Alastor lo puntualizza, come se i suoi pensieri della giornata ruotano solamente attorno a quello, al bisogno di svagarsi e di ingannare il tempo lasciandosi abbindolare da vizi che personalmente non approvo.
    Ma mi piace credere che ci sia dell'altro. Che sotto sotto anche lui non riesce a fare a meno della mia compagnia, quanto io non riesco a rinunciare alla sua.
    In tutta risposta non gli dico niente, benché i miei pensieri possano tranquillamente essere letti ed interpretati nella sottile ruga che mi increspa la fronte: quella, non è una richiesta da prendere a cuor leggero.
    Al contrario, riporto l'attenzione sul mucchio di polvere che mi fa innervosire sempre di più, soprattutto ora che non ho un mezzo per spazzarlo via.
    Tuttavia, sono consapevole che Alastor avrebbe insistito sulla cosa, che avrebbe trovato il modo di rendermi ardua l'impresa di ignorare i suoi desideri e soprattutto che non sarebbe uscito dal locale a mani vuote. Ci sono giorni in cui il suo impegno, la sua determinazione nell'ottenere ciò che vuole mi strappa un sorriso di stima e giorni in cui invece mi fa sentire esasperato.
    "Vieni, voglio mostrarti una cosa." Scendo le scale non senza aver prima scoccato un'occhiata minacciosa alla ragnatela di polvere promettendo che di essa me ne sarei occupato più tardi.
    Gli faccio cenno di seguirmi e di raggiungere il bancone che si trova dall'altra parte del locale, diametralmente opposto alla vetrata. Il bancone si presenta abbastanza modesto e umile, di legno intarsiato così liscio che ci si può far scivolare sopra una tazzina. Cosa che mi auguro fortemente nessuno lo faccia, giacché ogni oggetto presente nella teeria ha un inestimabile valore.
    "Finalmente è arrivato." Gli dico appena sollevo lo sportello di legno che delimita il mio piano di lavoro, oltre il quale nessun cliente - eccetto Alastor perché lui fa sempre quello che vuole ecco - ha l'autorizzazione di accedervi.
    E no, non mi riferisco a quello che lui vuole. E questo Alastor lo sa bene.
    Da sotto il bancone caccio una vecchia scatola nera che non tardo ad aprire e..."Tadaaan!" con un sorriso alquanto soddisfatto gli mostro il mio ultimo acquisto che, solo a guardarlo, mi riempie di orgoglio. Un rarissimo e originale set di cucchiaini da té con pinzetta da zucchero, colino da teiera e dosatore che risalgono alla Parigi di metà 1800, un secolo dopo che ci siamo conosciuti. Procurarmelo non è stato affatto facile.
    "Il collezionista che me l'ha venduto mi ha garantito che questo set è stato un dono di Charles Baudelaire a Jeanne, la sua musa ispiratrice di allora. Non è incantevole?" Sorrido alternando lo sguardo dalla scatola al viso del banditore. Non mi sento più nella pelle. Riesco a stento contenere l'entusiasmo di un bambino che riceve le caramelle. Ho tra le mani un nuovo pezzo di storia da custodire gelosamente. Le uniche mani a cui avrei permesso di sfiorarlo ora sono decorate da accessori di argento, in contrapposizione al suo look che sembra essere ripescato dagli abissi più profondi dell'oceano.
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    Dimmi solo di sì o di no, per amor del cielo.»
    Oh, ma è difficile pretendere una cosa del genere da Azrael. L'incisività non è mai stato il suo forte. Come l'austero trattenersi dai vizi e dai piaceri mondani. Un conto è Alastor, che umano è stato e si ricorda perfettamente come era essere umani, senza dover pretendere ogni volta di inscenare una parte. Si ricorda quando è nato, si ricorda dove ha vissuto la sua infanzia e la sua giovinezza, i suoi genitori, le sue passioni, le amicizie, le discordie, sì.
    Essere umano, dunque? Gli è sempre venuto divinamente naturale.
    Ma è come convinto che da qualche parte Azrael la tenga quella parte di sé vecchia di millenni, quella che al posto dell'emozione ha lasciato spazio alle certezze perché, beh, funziona così quando si è vecchi quanto l'universo. Si comincia (in realtà si dovrebbe essere quantomeno a metà dell'opera, quantomeno) a perdere interesse per le cose del mondo, perché semplicemente muoiono, non sopravvivono. Non è corretto, in fondo, nemmeno questo: solo alcune muoiono, poi altre si evolvono, ma resta il fatto che spesso lo fanno diventando meno interessanti. Quello è un altro tipo di problema.
    In ogni caso, alla noia bisogna imparare a sopravvivere, e forse è questa la chiave per rompere e decodificare l'apparente ingenuità di Azrael, il suo stupirsi spesso per cose così tanto banali. Ad Alastor non è mai riuscito capirlo fino in fondo, del resto, probabilmente, è solo la longevità ad accumunarli, e il fatto che i loro rispettivi "padri" sono legati da una consanguineità abbastanza scomoda. Se non fosse per quella Banditori ed Emissari si ritroverebbero a fare un gran bel girotondo intorno al mondo, prima di stritolare a proprio piacimento ogni singolo umano che incontrano. Ah, cosa sono Banditori ed Emissari senza un tramite? Per carità, ce ne sono centinaia a cui piace solo e solamente il Calvario (gente noiosa per lo più), ma il vero parco giochi è la Terra, indubbiamente. E allora forse qualche vezzo lo si può pure giustificare.
    Il fatto che un Banditore vada a spasso con un Emissario, quello, ecco, in qualunque modo lo si voglia interpretare, resta un fatto dalle notevoli problematicità. Definire "vezzo" qualcosa di così potenzialmente pericoloso per entrambe le parti, pare in questo caso eccessivo. Il "brivido del rischio"? Sì, forse, in un certo senso, anche se in realtà Alastor ci pensa solo di rado al fatto che Azrael sia fatto di pura e mortale Scintilla. Se si fossero scelti diversamente la loro carta dell'immortalità se la sarebbero potuta spassare anche di più, ma Azrael comunque non possiede per natura nessuna parvenza di umanità. La sua sì che è una parte da recitare, ma una che, da piacergli abbastanza, sembra ora entusiasmarlo anche troppo.
    Molleggia, masticando un lamento, finendo per seguirlo dietro il banco. Abbassa appena gli occhiali sopra il naso, ma no, nessuno si è davvero interessato al loro scambio. Ma che ci viene a fare la gente in posti del genere? Forse proprio perché non vuole essere disturbata e vuole sentirsi in diritto di non dover per forza mostrare attenzione. Geniale e diabolico insieme.
    Per un attimo ci spera quasi che dentro la scatola ci sia il famoso tè che lo ha sottilmente obbligato a reperirgli, già solo pungendo il suo orgoglio di impeccabile "maestro delle cerimonie" nel dimostrarsi all'altezza di una richiesta tanto ardua da soddisfare.
    Ma la delusione arriva velocemente.
    Si sfila gli occhiali solo per guardare il servizio senza il solito filtro nero, così… giusto per provare a mostrare un certo interesse. Ci rinuncia al voler rovinare l'entusiasmo di Azrael. Si aggrappa al bell'ornato dell'argenteria, ci prova con quello, ma l'espressione non ce la fa a non tradire la spessa insoddisfazione.
    «Cucchiaini.» niente.
    «Dell'amante di Baudelaire?». La musa, non l'amante. Meh, praticamente sono sempre state la stessa cosa.
    Una smorfia gli appende il labbro alla guancia, mentre la gola gli comincia a grattare per l'inizio di una delle sue risatine.
    «Pessima idea comprare gli oggetti di una vecchia coppia di amanti. Oh, oh
    La musa, non l'amante, è quasi come se potesse già sentirgliele in bocca queste parole.
    «Non sai quante cose fantastiche si possono fare con un cucchiaino.»
    E si rinforca gli occhiali continuando a guardarlo e a sfoggiare il sorriso sghembo e appuntito.



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    Non ho idea di quanto sia passato dalla prima volta che ci siamo incontrati, ma senz'altro è tanto, troppo tempo perché intere generazioni di umani possano contarlo. Eppure l'inesorabile scorrere del tempo non smussa, neanche per un pò, la sorprendente capacità di Alastor di lasciarmi senza parole, nel bene o nel male. Potranno passare altri anni, secoli, e il banditore non smetterà di cogliere l'occasione di rovinarmi l'atmosfera laddove io, stupidamente, e forse anche consapevolmente direi, gliela servo su un piatto d'argento. Smorzarmi l'entusiasmo, in quello Alastor non perderà mai smalto.
    Apro e chiudo le labbra più volte, senza riuscire a emettere una vocale. Mi costringo a credere che le parole mi siano bloccate sulla lingua perché non so esattamente cosa dirgli di rimando, quando in realtà una mezza idea ce l'avrei però non posso pensarci su, non ne ho il permesso.
    Ha a che fare con il sorriso sardonico che gli dipinge il volto, lo stesso che gli ho visto addosso sul primo tramite che indossava quel lontano giorno a Roma, tra i quadri ancora freschi e le sculture che prendevano forma.
    Lo scintillio dei cucchiai mi richiama alla realtà, al presente dove nulla c'è e mai potrà esserci tra un emissario e un banditore, se non una confidenza che ha il sapore di un'amicizia durata troppo a lungo.
    Le parole che mi pizzicavano la gola tornano giù, in fondo al mio stomaco, nel rifugio così familiare nel quale sono rimaste per tutti questi anni di conoscenza.
    "E' la sua musa, non amante." Ci tengo a precisare per riaprire l'abissale differenza tra i due termini, ma l'espressione sul volto dell'altro mi suggerisce che sono stato prevedibile.
    Guardo i cucchiai, poi Alastor e infine di nuovo i cucchiai. Ora che l'ha detto non riesco più a guardarli come prima.
    "Per l'amor di Aaos, Victor, puoi assecondarmi una sola volta?" Lo dico di getto perché mi sento punto nel vivo, anche se in realtà non riesco mai ad arrabbiarmi con lui. Se non in qualche sporadico caso in cui ci scontriamo a causa della pasta di cui siamo fatti, della nostra vera natura a cui non possiamo sottrarci neanche volendo.
    Chiudo la scatola e la rimetto al suo posto per tenerla lontana da ulteriori commenti oltraggiosi. Mi appunto mentalmente che appena ne avrò l'occasione dovrò chiedere maggiori delucidazioni al tizio che me l'ha venduta.
    Volente o nolente, è questo che mi fa Alastor.
    Si insinua nella mia testa, vi striscia silenziosamente e vi pianta le sue strane idee a cui non posso che restarne influenzato.
    Se Aaos mi vedesse in questo momento, mi direbbe che sono debole.
    Perché, in fin dei conti, non si tratta solo dei cucchiaini.
    Gli volto le spalle per nascondere il mio turbamento, la mano occupata dallo straccio con cui ripasso la superficie del bancone.
    Alastor è libero di fare quello che più gli aggrada: restare o andarsene. Di sicuro non avrà quello che mi ha chiesto.
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    Alastor sa di aver fatto centro. Ci riesce sempre, e gli genera ogni volta una forma tutta sua e particolare di soddisfazione, che gli tiene appesi gli angoli della bocca sotto gli zigomi in un sorriso grattato che alla lunga diventa come una maschera, una boccaccia dipinta come da un bambino inquieto. È un gioco che va avanti da secoli, e che, tuttavia, si è fatto via via meno cattivo, meno realmente dannoso. La prima volta uno scherzo del genere è costato caro ad Azrael, veramente caro. "Non si sarebbe dovuto fatto mettere nel sacco in quella maniera" è la giustificazione che si dà Alastor quando non ci vuole pensare più di tanto. Forse - anzi, no, sicuramente - la riprova della superiorità della sua razza, o, quantomeno, il difetto di quella nata da Aaos. Anche se non è mai certo di cosa pensa Azrael quando riesce a bruciargli le parole e costringerlo al silenzio. Non è certo che, così come gli umani, dietro la sua lingua che incespica ci sia veramente un groviglio di pensieri appena ingarbugliati da una mossa imprevedibile. Possono davvero lasciarsi prendere alla sprovvista creature come Azrael? Deve pur tenerne di conto, Alastor, che Azrael cammina su questo suolo da decisamente molto più tempo di lui. Forse allora si tratta di una farsa, di un personaggio costruito ad arte, o semplicemente di non voler ingaggiare più di così una battaglia.
    «Sì, ne ho avute anche io di muse. Credici ancora a questa storiella.»
    Non si tratta poi, in fondo, di semplice dispetto. Una verità c'è eccome.
    Funzionava così, del resto: si trovava una musa, una vera, una bellezza rara, incarnata, o anche soltanto una forma, una fattezza da ricalcare e poi perfezionare, portare alla massima rifinitura, lucidatura. Poi era quasi sempre inevitabile che succedesse qualcos'altro con la modella, e non c'era mai da preoccuparsi in fondo: non erano certo gran signorie, per quelle c'erano solamente i ritratti cortesi ufficiali. Ma per uno scultore anche una Allegoria o una Virtù poteva avere il volto di una meretrice, qui risiedeva il grande fascino: una donna da niente immortalata per l'eternità da guardare, e riguardare, e pensarla incorruttibile, sì, immortale. È una delle beffe del mondo, gli ultimi saranno i primi, forse non nel regno dei cieli, ma in quello della memoria imperitura sì.
    «Non per "l'amor di Aaos", decisamente no.» continua a ridacchiare, mescolando all'espressione anche una nota di disgusto rivolta verso il dio nemico.
    Ma dura poco, basta che lo si ignori. E allora passa qualche secondo che Azrael ostenta seriamente di volerlo ignorare, e Alastor se ne risente, e comincia a ricordarsi quello per cui è venuto. Un puro pretesto, se si vuole, uno dei tanti.
    «Allora?»
    Ma niente, non trova risposta.
    Gira il bancone, non gli va bene che gli dia le spalle, né tantomeno che continui ad ignorarlo.
    «Oi, scintilla
    Schiocca le dita di fronte al suo viso, benché sappia quanto sia fastidioso.
    «E dammi questo cos-» gli strappa poi lo straccio di mano, appallottolandolo e gettandolo dall'altro lato del bancone.
    «Ti avevo fatto una richiesta. Ce l'hai oppure no?»



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    Ricordo bene la prima volta che mi chiamò in quel modo. Accadde non molto tempo dopo il nostro primo incontro, all'alba di quella che vide il terreno francese innaffiato dal sangue blu degli aristocratici, che oggi i libri di storia riportano sotto il nome di Rivoluzione Francese. Indossavamo allora tramiti dai connotati non molto diversi di quelli i cui corpi ora ci ospitano, i miei tratti morbidi e pieni che cozzano contro i suoi, scavati e affilati. Se prima Scintilla era solo un appellativo che Alastor mi aveva appioppato addosso per beffeggiarsi dell'essenza di cui sono fatto, della sostanza con cui il sommo Aaos mi ha plasmato, ora farmi chiamare in quel modo qualcosa si scalda nell'animo. Per quanto possa suonare frivolo, irrilevante, e forse anche sciocco, quel soprannome dà uno spessore alla mia esistenza, che scorre lunga, impermutabile, ma senza essere veramente vissuta. E' un qualcosa che appartiene solo a me e non invecchia, non muore, non si cancella. Niente e nessuno me lo può togliere, neppure la volontà di Aaos stessa.
    E' anche cambiato il modo in cui lo pronuncia, ora somiglia più a una carezza che a un ago per pungolare o provocare, custodendone un significato diverso.
    O perlomeno, mi piace credere che sia così.
    QUesti pensieri, comunque, cerco di tenerli relegati negli angoli più remoti della mia mente.
    Le mie mani un attimo prima impugnano lo straccio e un attimo dopo il vuoto. Al che sono costretto a sollevare lo sguardo dal bancone e incastonarlo nel suo. Che siano scuri, chiari, a mandorla, affossati, raggrinziti, nei suoi occhi eterno è l'ardore che guizza come una fiamma viva, bruciante.
    So di non poterlo ignorare a lungo: sentirsi messo da parte è forse una delle cose che Alastor non può proprio a tollerare.
    Mi volto verso il tavolo che affianca la vetrata per restituire lo sguardo al Signor Earl Grey, probabilmente attirato dai nostri movimenti al margine del suo campo visivo. La curva delle mie labbra si solleva in un sorriso posato, come farebbe un allievo per mascherare all'istante il disinteresse per la lezione nel momento in cui l'insegnante dà nuovamente le spalle alla lavagna.
    Il cliente non sofferma più di tanto gli occhi su di noi e il giornale torna ad essere meritevole della sua attenzione.
    "E va bene." Lascio andare un lungo sospiro, con una traccia di risentimento nella voce. "Accomodati, ovunque tu voglia." Apro un braccio e gli faccio cenno di prendere posto, sebbene io possa prevedere quale tavolo il banditore adocchierà. Il solito. Un posto lontano dall'entrata, lontano dalla finestra, dove neppure la luce più viva e folgorante possa raggiungerlo.
    "Dammi giusto cinque minuti e torno con il tuo ordine speciale." Aggiungo sfoderando un sorriso che Alastor saprebbe immediatamente associare a una maschera per impedire che l'immagine della mia tea room s'incrini, o che venga macchiata da ricette che farebbero rivoltare nella tomba Shen Nong, l'imperatore cinese a cui la scoperta del tè viene attribuita. Cerco di non cacciare la mia Just A Cup of Tea fuori dal suo alveo, allo stesso modo con cui mantengo con cura la patina originale dei mobili che la riempiono.
    Nessuno deve, quindi, venire a sapere delle eccezioni che concedo solo e unicamente ad Alastor.
    Benché le mie parole suggeriscano quella direzione, le mie intenzioni sono tutt'altro che arrendevoli. Alastor è come un bambino irriverente, impaziente, che va intrattenuto con nuovi modi e mezzi di ammazzare il tempo. Mi tocca solo improvvisare un nuovo giocattolo per per tenere a bada i suoi capricci.
    Qualche minuto più tardi, dopo aver trafficato con gli utensili celati dal bancone e qualche fugace occhiata al tavolo di Alastor, torno da lui. Tra le mani il vassoio d'argento che regge una tazza di porcellana dal manico dorato, in armonia con il piattino che l'accompagna, accomunati da una bellissima e raffinata stampa toile de jouy che tanto ricorda l'epoca in cui ci siamo conosciuti. Sulla superficie del tavolo gli appoggio l'ordine, i movimenti di chi è consapevole di avere tra le mani un oggetto particolarmente antico e prezioso.
    Le mie labbra restano sigillate, ma il mio sguardo dice molto più di quanto possano farlo le parole. Non fare casini, non qui.
    E no, non è quello che crede che sia.
    Il liquido ambrato che ondeggia impercettibilmente nella tazza non è nient'altro che un conosciuto, ma esaltato, Long Island. Il fatto che si confonde, per via del suo colore, con il tè, permette di consumarlo senza che ci si accorga della sua vera natura, il che conduce alla ragione per cui fu creato nel periodo del proibizionismo.
    Una soluzione che trovo perfetta per placare chi cerca costantemente l'ebbrezza nell'alcool e nelle bevande più generose, senza dare troppo nell'occhio. Almeno per il momento.
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    A volte - ma anche senza giustificarsi, non serve veramente - Alastor finisce per dimenticarsi da che parte della barricata si trova. Più realisticamente, Alastor dimentica proprio dell'esistenza di una barricata, di due fazioni in guerra, una guerra millenaria, cosmica, universale, non uno screzio, una cosuccia da niente, tra due fratelli che litigano per la stessa eredità senza aver imparato nulla da quel memento mori connaturato nella psiche e nella carne umana stessa.
    O almeno, Alastor lo dimentica quando si trova con Azrael, perché invece con tutti gli altri Emissari lo fa eccome, oh sì. Non esiste Emissario che non gli susciti un profondo senso di odio e di naturale - sì, in questo caso sì - istinto quasi omicida. Più in alto sono nelle gerarchie, con la loro coscienza e autoconsapevolezza di creature millenarie, e più lo fanno desiderare ardentemente che Samenar faccia il suo ritorno con suo fratello come trofeo solo per sterminarli tutti quanti e cancellare dall'universo la loro saccenza e ipocrisia. Anche se poi ci sono i casi come quello di Azrael. Non è un caso che sia stato bandito: non ha niente dell'Emissario canonicamente definito, insomma, ortodosso. Non ha nemmeno un vero modo per definirlo, Alastor, pur di aggirare la contraddizione. Ha senso farlo, dopotutto? Dovrebbe, considerato che anche il suo si potrebbe considerare un tradimento. "Ma non sto tradendo nessuno, signori, avanti", direbbe, e non sarebbe una completa falsità: non sta semplicemente da nessuna parte, Alastor, quando si tratta di sè stesso, e ormai Azrael fa parte di una serie di vizi "umani" dei quali difficilmente si sente in grado di separarsi.
    «Che brava.» gli mostra un sorriso con i denti, gongolando sui suoi stessi piedi, prima di scivolare, ondeggiando di nuovo con passo disequilibrato, verso i tavolini della stanza alle sue spalle. Si concede persino di indugiare nella scelta, ma alla fine si sente a suo agio, perfettamente incorniciato, solo in un angolo senza finestre, con lo schienale della seggiola intarsiata, nell'angolo forte tra una parete e l'altra.
    Si butta pesantemente sulla sedia, e azzarda... no, appunto, nessuno è veramente attento a quel poco che gli succede intorno. Si sfila per un istante gli occhiali scuri. A volte non si preoccupa nemmeno di mascherare la sua presenza estranea, parassitaria, dentro il tramite di Victor Callaway: occhi gialli disumani che saettano, lucidano la patina scura della nebbia sulfurea del Calvario. Dura poco, tuttavia: il tempo si passarsi una mano tra le sopracciglia, tirando appena le nuove rughe, e rinforcare le lenti.
    Osserva Azrael fare ritorno e servirgli il té con tutti i crismi del caso che gli si addicono. E poi, come volevasi dimostrare, portata la tazza con garbo alle labbra, ha un sapore troppo familiare per appartenere a qualche sconosciuto ed esotico tè psichedelico da vertigini e orologi che si sciolgono.
    Mastica una mezza lamentela.
    «Perché sei così intrattabile?» e rituffa il naso dentro la tazza, sebbene l'alcol, nonostante gli anni, ancora faccia una certa fatica - assolutamente negata - a digerirsi. Si passa un sorso tra i denti e le gengive prima di buttarlo giù: non esattamente il modo più cortese per degustare del té-non té. Forse un po' a sprezzo, o per puro divertimento cocciuto, forse pure soltanto per una questione di stile, di personaggio, ecco.
    Batte il palmo della mano appena sul tavolo, un paio di volte: un cenno per chiedergli di restare e sedersi al tavolo. Si guarda per un istante attorno, ma no, di nuovo, a nessuno interessa veramente quel nulla che sta succedendo tra quelle quattro mura assolate e "minimal rococò".
    «Allora.» Prende giusto un altro sorso per bruciarsi un altro po' la gola.
    «Ultime novità dal fronte? Come stanno i cuginetti?»



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    "Sai benissimo che quando si tratta di questo..." Non un gesto evasivo della mano, le mie dita con fare abbastanza teatrale indicano il che Alastor sorseggia, i mobili che ci affiancano, i tavoli che aspettano solo di accogliere "...non scendo a patti con nessuno, men che meno con un Banditore." E non un Banditore qualsiasi. Ho davanti forse uno dei migliori della sua specie. I figli di Samenar, nati da un'oscurità sempre terribilmente intensa, se non quasi ogni volta più grande, vertiginosamente incrementata con l'inesorabile trascorrere del tempo. Il Calvario, una terra marcia dove ogni flebile speranza viene inghiottita dal buio ancora prima di nascere e affoga con la sua immensa portata ogni cosa che possa solo vagamente somigliare a un bagliore di luce. Vermi che strisciano nel fango...aveva detto uno dei miei fratelli con una smorfia che trapelava tutto il disappunto che gli annodava le viscere. No, mi correggo: non vorrei offendere quelle minuscole creature terrene che in confronto ai Banditori valgono pur qualcosa.
    Non metto in dubbio le affilate capacità di Alastor nel corrompere anche l'animo più puro e virtuoso di questa città, sussurrandogli qualche infima parola all'orecchio e lasciandolo con uno sguardo acceso da una nuova luce che indica nulla di buono. Benché non mi piaccia ricordare che è proprio la sua bravura a stipulare patti ad avermi infilato in questa posizione, eternamente relegato in questo angolo della Terra, vedendo innalzare sempre di più il velo tra le due realtà che un tempo scivolarci dentro mi veniva naturale come respirare.
    Non c'è bisogno che me lo chieda: ancora prima che Alastor batta la sua mano ossuta sul tavolo allontano la sedia dal bordo, già intenzionato a sostare al suo tavolo per tenergli compagnia. Prima di sedermi pizzico i pantaloni all'altezza delle ginocchia e mi assicuro che il gilet non abbia alcuna piega sulla schiena, non volendo trovarmelo stropicciato una volta rialzato.
    Sedendomi, le ginocchia di Michael mi ringraziano.
    Lascio vagare lo sguardo sull'ambiente che ci circonda, soffermandolo un poco sui tavoli occupati per sincerarmi che gli unici presenti, oltre noi due, non abbiano bisogno dei miei servigi. Ogni pezzo di legno, ogni dettaglio intarsiato, ogni centimetro della carta da parati, perfino l'aria satura dell'odore secco e speziato delle foglie originarie delle mie miscele, è a me incredibilmente, inscindibilmente, caro.
    Alastor mi ha portato via già abbastanza e non gli permetterò di fare altrettanto con questo luogo che considero un rifugio dove ritemprarmi, e che tuttavia lascio condividere con gli umani sia per osservarli da vicino sia per avere qualcuno a cui la parola "té" non faccia sbuffare e roteare gli occhi al cielo, come invece accade a qualcuno in particolare.
    Quel qualcuno ora è piuttosto impegnato a sorseggiare il Long Island sotto copertura facendo gran rumore. Un atteggiamento recitato che, col tempo, controvoglia, ho finito con l'abituarmici.
    Un guizzo mi attraversa la mascella quando nomina loro, i miei cuginetti. Abbasso istintivamente lo sguardo sul tavolo, fingendo che sistemare il vassoio d'argento e il tovagliolo di carta sia una priorità uscita all'ultimo, nonostante la consapevolezza che ad Alastor di avere gli ornamenti perfettamente allineati, a una calcolata distanza che non sia né troppo vicina né troppo distante dal bordo del tavolo, non importa granché.
    "Sai com'è" Dico a un certo punto con un sospiro, non potendo più reggere lo sguardo incalzante del banditore su di me. Per quanto possa evitare l'argomento, rimandarlo a più tardi, Alastor trova sempre il modo di rigirare il dito nella piaga. "Resto sempre sintonizzato, ma non posso comunicare con loro, non più." Alle ultime parole distolgo gli occhi dai suoi occhiali scuri come la notte, le mie parole non sono intinte nel fiele dell'astio ma nell'amaro sapore del risentimento. Non ce l'ho con lui per quel che è successo, ma non posso nemmeno fingere di essermelo lasciato alle spalle.
    Sono grato che Aaos sia abbastanza clemente nei confronti di noi esiliati da lasciarci la possibilità di restare costantemente aggiornati sulla Città dorata e su chiunque l'abiti, tramite l'esclusivo e speciale canale di comunicazione innato in ogni Emissario, a cui però posso assistere solo da impotente e passivo spettatore. Senza quello, non avrei saputo che l'equilibrio sull'Isola è gravemente minato dalle piccole fazioni che l'assenza di nostro Padre ha causato.
    Conosco Alastor da così lungo tempo da essere sicuro che quella domanda non me l'abbia posta per scucirmi informazioni o per ricavare qualcosa che possa tornargli utile in quanto banditore, ma davvero non ho niente di utile da rivelargli. Niente che non sappia già.
    "Dicono solo che la guerra è sempre più vicina e che dovremmo tutti essere pronti per quando accadrà." Non ho bisogno di dirlo, il cipiglio che mi corruga impercettibilmente la fronte descrive la mia confusione a riguardo. Cosa significa con quel tutti? Saranno coinvolti anche coloro che sono stati disconosciuti, cacciati, dimenticati?
    A quel pensiero non so bene se provare sollievo o preoccupazione, ma poi la realtà, come un lampo di luce, mi ricorda che non sono creato per provare emozioni.
    "Scommetto che anche dalla tua parte non ci siano grandi progressi." Il mio tono di voce è basso, ma ben modulato, ed è difficile che giunga ad orecchie indiscrete.
    Comunque, ormai che l'argomento è stato sollevato...Mi sistemo sulla sedia come se d'improvviso mi sia diventata scomoda. Inclino leggermente il busto verso di lui. "Se dovessero tornare a prendermi?"
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    Certo che no.»
    Dispettoso. No. Testardo. Per una pura banalità, un vizio, un semplice vezzo tutto umano. Ci sta tutta l'umanità lì dentro, pensa Alastor, da parte di uno che uomo non è stato mai neanche per sbaglio. Eppure l'inamovibilità, l'irreprensibilità non è mai stata una caratteristica umana, ed è allora proprio lì che Azrael si tradisce. Nella banalità di una semplice fissazione per spezie e tè, ci stanno tutti i codici si può dire genetici della costruzione, da parte di un Emissario - o meglio di una creatura ultraterrena - del suo personale concetto di umanità. Ed è divertente da guardare, da leggere tra le righe, oltre il semplice dettato di una semplice tazza. Alastor lo guarda e sorride sornione sul bordo affilato della ceramica, come se avesse scoperto quel suo segreto, avesse aperto a sua insaputa il suo libro e, nel silenzio, gliela stesse spiattellando in faccia questa trionfale vittoria. Allunga le gambe sotto il tavolo, diagonalmente per non scontrarsi con quelle dell'Emissario che ha acconsentito - senza troppa fatica a questo giro - a sedersi davanti. Ormai lo dava scontato: funziona così quando smettono di fare le bizze e punzecchiarsi a vicenda. Da sempre, più o meno. E quel più o meno sta nell'intervallo di tempo che va da un imprecisato punto malamente circoscrivibile al generico XIX secolo, fino ad un punto altrettanto imprecisato teso, anche solo potenzialmente, all'eternità. Ma si sa, la guerra è guerra, anche per chi decide di non voler imbracciare veramente delle armi e scendere sul campo di battaglia. Oh, ad Alastor in realtà non va proprio, solo che è meglio non dirlo ad alta voce. Meglio farlo piano, sussurrando, di fronte ad una tazza di Long Island, con qualcuno che ha la sua stessa voglia di rimanere neutrale, o almeno indisturbato. Ecco.
    Che poi sia stato Alastor a questa sorta di scelta obbligata è un altro discorso. Ognuno ha semplicemente fatto il suo dovere, chi meglio e chi peggio. È così che va la vita.
    «La guerra...» enfatizza «... è l'ultimo dei problemi».
    Lo è per i Banditori almeno. Ai Banditori non importa poi molto adesso degli Emissari. Non che non ci pensino, no, sono sempre gente da cui guardarsi, nemici naturali del fronte opposto contro cui va sempre tenuta la guardia alta e le armi cariche puntate. Solo che i problemi istituzionali premono di più, e casa sporca non piace.
    «Perché prima bisogna pensare a rimettere insieme l'esercito
    E il loro è un casino, obiettivamente. Non torna nel Calvario da parecchio tempo, Alastor, ma le notizie arrivano, sì, ed è un casino. Farà più paura l'ecatombe e la purga della guerra stessa.
    «E poi che ne sai, magari gli farà bene ai nostri cari papà starsene un po' insieme, costretti a farsi quattro chiacchiere.»
    E questa è detta tanto per dire, una stupidaggine che intervalla le serietà. È più probabile che si annientino a vicenda, anche se, immagina, non sarebbe un bene neanche loro in quanto figli e creature da essi generate.
    La domanda lo coglie però un attimo in fallo. Abbassa la tazza, senza prendere alcun sorso.
    «A prenderti?»
    Forse per il tono, forse perché la domanda suona inaspettata. Fragile? Di fronte a lui? Sembra strano, disorientante, quantomeno. È preoccupazione la sua? E gli sta chiedendo cosa? Conforto? Non è abituato a questo.
    «Vorrebbe dire che siete messi male, ma parecchio male. Buono a sapersi.» gli dice per rompere il silenzio dei pensieri, portando di nuovo la tazza alle labbra pur di non mostrare tentennamenti.
    «Potresti, che ne so… fargli un balletto e intonargli un "no, grazie"? Altrimenti vai e porgi i miei saluti.»
    Scopre che non sa bene come rispondere alla sua domanda, se non cominciando a sentirsi scomodo sulla poltrona.
    Beve ancora, l'alcol brucia la gola, e lo costringe per un attimo al silenzio, al fare i conti con la domanda in sé, che rimane comunque lì, senza che gli abbia ancora dato una risposta. E allora ad essa non può che rispondere con un'altra domanda.
    «Non vorresti tornare tra le tue schiere, nelle grazie dei tuoi superiori?»
    In fondo, sta servendo il "tè" proprio a quello che lo ha costretto invece alla Terra e all'esilio.



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    "E se dovessero tornare a prendermi?"
    Pronunciare quelle parole era stata una spiacevole sensazione sulla lingua.
    Avrei dovuto tenerle per me. Avrebbero potuto continuare a essere soltanto un pensiero, un serpente che si contorceva confinato nella mia testa, e invece avevo scelto di dargli concretezza.
    Avevo scelto di farlo diventare realtà e non si poteva più tornare indietro.
    Non sapevo bene cosa aspettarmi da lui, eppure lo fissai, trattenendo l'impulso di allungarmi sul tavolo e sfilargli via le maledette lenti scure che gli schermavano gli occhi, impendendomi di leggere ogni minima traccia dei suoi pensieri, pur essendo consapevole che, occhiali o non, quegli occhi da lucertola non lasciavano trapelare niente.
    Come immaginavo, Alastor intinse la lingua nel fiele dell'ironia. L'idea di fare un balletto ai miei fratelli superiori e rifiutare con cortesia la loro offerta era allettante, se soltanto non fosse così complicato ribellarmi a loro.
    Un figlio di Aaos si sarebbe guardato bene dal sedersi a tavolino ed esporsi a un Banditore, specialmente in un periodo critico come quello, ma la mia certezza che Alastor non avrebbe usato quelle informazioni a suo favore era solida come pietra.
    Alastor era fatto della stessa sostanza dell'oscurità, in lui si riversava una sostanza melmosa che spogliava il mondo di gioia e di speranza in una lenta agonia, eppure non avrebbe messo in serio pericolo la mia incolumità, neppure sotto le più inaudite, inimmaginabili torture che avrebbero perfino intimidito la mente più violenta. O almeno, di lui mi piaceva credere questo. Che sotto la sua scorza da serpente a sonagli ci fosse ancor una parte di lui, umana, che il Calvario non era riuscito a strappargli via.
    "E se dovessero tornare a prendermi?"
    La domanda rimase sospesa come una spada sopra le nostre teste.
    No, anzi, Alastor me la rilanciò indietro come un boomerang.
    Tornare sull'isola dorata? Questa domanda me l'ero posta un sacco di volte ma, come la prima, non aveva ricevuto una vera risposta.
    "In realtà…" mi schiarii la voce, abbassando gli occhi sul tavolo che ci frapponeva. Accarezzai il legno consumato dalla storia di innumerevoli conversazioni, che aveva assistito a chissà quante confessioni e addii prima di noi. "…non lo so." Riuscii lla fine a dire, buttando fuori un respiro che non mi ero nemmeno reso conto di aver trattenuto.
    Tutto ciò che vidi fu un enigma indecifrabile. Un classico. Il nostro destino, avvolto nelle nebbie dell'incertezza, oscillava tra la speranza e la disperazione, mentre il passato minacciava di gettare ombre su un futuro già incerto.
    Il silenzio si fece denso tra noi due, interrotto solo dal leggero brusio proveniente dagli unici due tavoli occupati. Alastor continuava a sorseggiare il suo Long Island mascherato da tè bianco, come se le mie parole non avessero importanza. Ma dietro quelle lenti scure, mi auguravo, c'era una scintilla di emozione nascosta, forse.
    Quando sollevai di nuovo lo sguardo di lui, non ero più Michael, l'umano impacciato che boccheggiava e si guardava intorno per assicurarsi che i clienti non avessero bisogno di lui, bensì un altro essere, il mio vero essere, aveva preso il suo posto.
    La mia mascella era così tesa da mostrare le linee dei muscoli. Nei miei occhi aleggiava il riverbero della Scintilla.
    Obbligai qualcosa a uscire fuori da me, non dalla mia lingua, ma dalle mie viscere. Continuai a parlare basso, ma non troppo da non essere udito, con una leggera incrinatura nella voce perché quello che stavo per dire non era facile, nemmeno per un essere ancestrale come me. "Tornare sull'Isola dorata e giurare fedeltà a Mïriquāel significa solo una cosa…"
    E c'era davvero il bisogno di descriverlo a parole?
    Deglutii, la teeria avvolta dal gelo della frase sospesa.
    La paura di essere strappato via da tutto ciò che avevo costruito in questo mondo, le tazzine e zuccheriere collezionate, il tavolo sotto le mie dita, il filo segreto che mi legava ad Alastor, qualcosa di più profondo di quanto io stesso potessi immaginare.
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    Domanda semplice, risposta spinosa, non giustificata. Inaspettata, ma non troppo, onestamente. No, non è corretto: la risposta non è scontata, non lo è nemmeno per Alastor. Forse perché piuttosto che la sincerità si aspettava la solita smorfia, l'orgoglio vissuto di chi vuole tenere sotterrato un altro tipo di pensieri. Ma questo è Alastor; non dovrebbe essere Azrael, un Emissario, che delle macchinazioni umane non dovrebbe né avere ricordanza, né residui, né - soprattutto - nostalgia. Un certo tipo di titubanza dovrebbe essere più giustificato in creature come Alastor, anche se (bada bene) resta sempre un certo fastidioso difetto di fabbrica del Calvario; dell'ingranaggio, dell'estrusore che dalle ossa umane ne modella Banditori. Un residuo genetico, se vogliamo chiamarlo così. Ma tutto questo non dovrebbe esistere in un Emissario, nato direttamente dalla Scintilla di Aaos, dalla fonte prima, diretta promanazione di quella del padre.
    Eppure quello che ha davanti è una creatura che trema. E non lo fa la sua maschera umana; lo fa l'intera Scintilla, ed è questa l'anormalità.
    Azrael come un Emissario, creatura antica, che non voleva far ritorno a casa. Rimanere piuttosto aggrappato a qualcosa di così poco importante. Dire che non lo capisse, Alastor, tuttavia non è corretto: lui per primo doveva il suo "difetto di fabbrica" dall'attaccamento alle cose umane che lo avevano definito in vita. Unica ancora di salvezza di fronte alle follie deliranti dei Luogotenenti che chiedevano sangue e purga dell'intero Calvario. Sì, in fondo poteva capirlo.
    Ma non poteva capire la sua natura.
    Aaos aveva fallito. Aaos poteva fallire, e non perché aveva condannato il suo figlio alla stoltezza, ma perché quella stoltezza gli era per prima costata la protezione del padre. Il difetto di fabbrica imprevisto. Oh, se sarebbe piaciuto ai suoi conoscere i punti deboli dei fratelli reietti. Come, nella stessa proporzione, non avrebbero invece gradito questa sorta di simposio illecito che ormai si consumava da troppi, davvero troppi anni. Troppi persino per non aver cominciato a destare sospetti.
    Alastor non tradì alcuna espressione dietro gli occhiali neri. Portò la tazzina alla bocca solo quando sentì che l'angolo della bocca poteva incresparsi in modo indesiderati e incontrollati. L'alcol scivolò giù facendogli stringere i denti: il giusto stimolo per deviare una domanda a cui non avrebbe saputo dare uan vera risposta senza sembrare… senza sembrare nulla, in fondo; non ce l'aveva una vera risposta per Azrael. Forse perché semplicemente le cose, anche a lui, stavano bene così. Perché c'era troppo da perdere nel Calvario, perché era peggio della Terra, degli uomini, perché non era abbastanza divertente, stimolante, quello che volete, semplicemente non era a combattere tra le schiere di Samenar che si figurava. Lo stesso doveva essere per Azrael, accettando che la sua natura fosse ancora tanto inspiegabile quanto plausibile.
    «Ah, ho capito. No, certo, Mïriquāel è una vera stronza. Stronza? Stronzo? Bah, è uguale. Chi te li tiene d'occhio dopo i tuoi cucchiaini?»
    Che non sapeva in che altro modo dirglielo.



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    "Ah, ho capito. No, certo, Mïriquāel è una vera stronza. Stronza? Stronzo? Bah, è uguale. Chi te li tiene d'occhio dopo i tuoi cucchiaini?"
    Alastor si rifugiò nel suo innato bisogno di sdrammatizzare la situazione. Una necessità in cui ci sguazzava dentro per non offrirmi una risposta diretta e concisa.
    Avrei dovuto aspettarmelo, eppure fino a questo momento una parte di me era sicura, o almeno ci sperava, che non l'avrebbe fatto.
    Ma sarebbe stato come chiedere al sole di smettere di brillare.
    Alastor continuava a darmi la sensazione che si fosse murato in mondo tutto suo, un mondo che si era costruito per necessità che gli permetteva di affrontare e accettare la quotidanità di quella che ormai era diventata la sua lunga e amara vita da Banditore. Un mondo a cui non permetteva a nessuno di entrarci, nemmeno in punta dei piedi.
    Il mio mondo, invece, presentava delle sottili crepe che gli sussurravano dolcemente di passarci attraverso, come la luce che entrava nella stanza attraverso gli spiragli della persiana.
    "Sai benissimo che, se le cose dovessero andare male, io ti affiderei tutto questo." Con un vago gesto della mano gli indicai il locale che ci circondava. Negli ultimi anni, con i suoi mobili perennemente tirati a lucido e con i suoi tavolini di legno caldo, il Just A Cup Of Tea aveva rappresentato per me un rifugio e una consolazione, più di quanto volessi ammettere.
    Un legame che ero costretto a recidere nel caso in cui i miei fratelli dovessero reclamare la mia presenza in guerra, ad occupare la prima schiera dei fanti da sacrificare. Perché, ecco, questo accadeva a chi veniva bandito dall'Isola dorata. Si diventava automaticamente una pedina nel gioco, da estinguere quando l'interesse superiore della specie lo richiedeva.
    Ero sicuro che prima o poi qualcuno dei miei superiori si sarebbe preso con la forza la mia Scintilla, se non Mïriquāel in persona.
    Questo presentimento era come una spina conficcata nel cervello, di cui non riuscivi a sbarazzartene e di tanto in tanto con la sua punta acuminata ti pungolava.
    Alastor, invece, sarebbe sopravvissuto alla guerra, se non perfino venire promosso a Luogotenente. Lui era fatto per distruggere, come le sue sottili battute che corrodevano come veleno.
    Abbassai lo sguardo sulle mie mani, scivolando nella dolorosa consapevolezza che non potevo confidargli niente di tutto questo. In momenti come quelli, avvertivo la lucida rassegnazione che non eravamo diversi da un cane che si morde la coda: tutto si ripeteva da capo, senza alcuna via d'uscita. Il massimo che potevo esternargli era l'ennesima battutina.
    Ci conoscevamo da un'eternità eppure a volte avevo l'impressione di avere davanti uno sconosciuto.
    Mi chiusi in un silenzio che poteva significare tutto e niente. Poteva avere la parvenza dell'indifferenza e che invece era delusione. Si allungò tra noi come un abisso incolmabile, interrotto dalla bocca dell'altro che s'abbeverava rumorosamente del tè, nel quale perfino gli altri clienti sembravano delle presenze immobili e distanti che si confondevano con l'amalgama di legno stretta intorno a noi.
    La teeria sembrava più fredda, il calore del tè ormai dissipato. Il fumo dell'incenso si dissolveva nell'aria, lasciando dietro di sé solo il ricordo di un momento che avrebbe potuto essere, ma che ora sfumava come un sogno infranto.
    "E comunque, insisto che i cucchiaini siano stati davvero un meraviglioso dono di Charles alla sua musa." Le mie labbra si tirarono pigramente verso l'alto, provando a fare da eco al suo bisogno di sdrammatizzare.
    Ma non ero bravo a farlo quanto lui.
    Dei rumori alla nostra sinistra mi costrinsero a distogliere lo sguardo dagli occhiali di Alastor, due specchi oscuri che rigettavano ogni forma di luce, e di indossare tempestivamente la maschera di Michaeal.
    Mai come in quel momento fui davvero grato al mio vispo involucro per celare le mie…sofferenze?
    La Signora Matcha latte e suo marito Tè verde al gelsomino stavano indossando i cappotti e sembravano pronti per andarsene.
    Mi alzai a mia volta e, senza fretta, mi mossi per raggiungerli, ma prima di fare ciò, mi voltai lentamente verso Alastor.
    "Il tè lo offre la casa, come sempre."
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    Lo sentì come era cambiato il tono, l'atmosfera, quasi l'aura - se fosse stato in grado di percepirla - attorno ad Azrael. Si era spento, un poco. Ci provava a tenersi su, a tenergli testa come era solito fare, ma ad un certo punto è come se il gioco finisse, per il semplice fatto che lui ha deciso di cambiare le regole e Alastor finisce, all'improvviso, per trovarsi con il giro di carte improvvisamente sbagliato in mano. Un bel colpo da maestro, una partita a tennis perfetta rovinata dal fatto che l'altro giocatore è stanco, fiaccato troppo, mentre l'altro ancora vuole giocare con il suo degno avversario. Un po' come il gatto con il topo, quando il topo è abbastanza veloce da riuscire a sfuggirgli. Ed è così a volte che va tra Alastor e Azrael, e ad Alastor piace, fin tanto che sa di poter trovare dall'altra parte qualcuno in grado di rispondere ai suoi servizi e a tutte le sue palle curve infingarde e ingannatrici. Da un lato, pensa pure, deve essere questo il motivo che ha spinto lui, Banditore, a sorseggiare , seduto davanti alla poltroncina di un Emissario, versato dalle sue stesse mani, quando ci sono invece i suoi simili che sputerebbero o a cui striderebbero i denti alla sola idea di avvicinarsi così tanto a sfiorare una Scintilla. Forse perché quella di Azrael non è più quella di un tempo, forse perché proprio Alastor gliel'ha fiaccata all'epoca con una stoccata davvero, davvero crudele, di una crudeltà assolutamente gioiosa, e da allora le cose, tra i due, sono diventate più tollerabili. Però non si è mai chiesto, Alastor, come potesse essere dall'altra parte, dalla parte del giocatore stanco, affrontare sempre qualcuno pronto a pungere, pugnalare, ed è forse ora il momento in cui, tra le fenditure della sua torre rossa, qualcosa la scopre o la intuisce. Ma non può farci nulla, si dice, lui è fatto così, niente può pensare di cambiarlo, neanche Azrael. È perché è così che siede al suo tavolo, è perché è così che gli muove pure la compassione di non spegnere definitivamente la Scintilla di un nemico. Così è fatto Alastor, non lo si può cambiare, si dice.
    «E faresti male, molto male. Non riuscirei a farci niente.»
    Pensare veramente di affidargli il Just A Cup Of Tea suonava veramente come una mezza follia. Togliendoci pure il "mezza": una completa follia. Lui, lì dentro, a fare ciò che ad Azrael e al suo tramite riusciva così bene, con lo stesso tipo di attenzione, di delicatezza.
    Ma al di là della pessima idea di affidare un negozio tanto raffinato ad un Banditore come lui, c'era un pensiero diverso dietro a quel testamento, uno a cui Alastor non voleva pensare, perché non lo voleva fare e basta, perché era difficile ammettere qualcosa, scoprire un nervo, spalancare le fenditure, affacciarsi direttamente sulle proprie mura. Certe cose erano troppo, e basta. Ma lo capì, lo sentì, e decise di allontanarsene, come se fosse stato punto da qualcosa di troppo serio, troppo reale da poterlo accettare come possibilità.
    Sollevò le mani in aria. Era praticamente una partita persa questa storia della musa e di Baudelaire. Gliela poteva concedere questa vittoria, più per sfinitezza che per altro - si diceva. Forse perché davvero una vittoria, ad un certo punto, era felice di dargliela. Forse perché ancora ripensava a quella frase, al modo con cui era suonata, alla serietà con la quale l'aveva pronunciata e poi infine al silenzio con cui l'aveva sigillata e consegnata a lui, come notaio del futuro incerto. Forse perché non aveva altro modo per rispondere a quelle parole, se non questo: sollevando appena la tazza e allungando le gambe sotto al tavolo.
    «Ringrazi il proprietario, come sempre



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