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Nirvana/Eså | 10 Novembre 2020

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    Non mi ero ancora abituato a quella città, ma in realtà era una bugia. La verità, quasi inconfessabile a me e ciò che rappresentavo, era che qualcosa me lo ricordavano quelle guglie geometriche, quei palazzi grigi di specchi e cemento, dove il verde aveva così poco spazio da sembrare soffocare fra le sue stesse membra. Perelera esattamente così. Se n’era lamentata Calien, continuamente. Lei così abituata alle sue foreste, alle sue distese verdi, sentiva che la presenza di tutta quella sostanza senza vita, inerte, fosse inquietante. New York mi ricordava Perel, forse in un certo senso il luogo peggiore in cui approdare dopo tutto quello che avevo vissuto in quel mondo di specchi e cemento, così simile a questo. Eppure sapevo perfettamente come e quanto il destino fossero grovigli, nodi che era possibile spostare , ma che pur sempre erano nodi che tendevano fra sé fili che correvano e venivano da ogni direzione. Non mi sarei forse mai abituato a New York come non mi arei abituato a nessun posto che non fosse Al Sura, l’unico luogo che fossi stato capace, in quel momento ed in futuro, di chiamare casa. Quell’hotel mi stava stretto per quanto detestassi ammetterlo. Quanti anni lo avevo cercato, seppur inconsapevole? Quanti mondi avevo perquisito solo per trovare ciò che era custodito lì? Non ne ero più neanche così sicuro, ne avevo perso il conto. Avevo perso Calien per questo, quando avevo scelto di non fermarmi e continuare a cercare, così come Saida Zayirah aveva in un certo modo predetto. Eppure ero grato, immensamente grato, per tutto ciò che lì avevo ritrovato. A volte per trovare qualcosa di cui hai bisogno perdi qualcos’altro, così come Sharji aveva perso aveva perso i suoi occhi, la vista, ma aveva ottenuto in cambio i suoi ricordi. All’epoca non mi ero reso davvero conto di come quella parabola parlasse dello scambiare il presente, il futuro, per il passato, e di quanto fosse un avvertimento dalle labbra di Saida Zayirah. Ero un ragazzo, avevo romanzato quel pensiero perché mi era caro, perché ero partito pensando che tutto ciò che volessi, che mi servisse, fosse ritrovare la mia famiglia, il mio passato. Quel giorno di novembre ancora non mi ero reso conto di quella narrazione sospesa sulle mie spalle come un presagio e vivevo solo felice di aver ritrovato anche solo un pezzo di ciò che per anni avevo inseguito in quella moltitudine infinita costituita dal cosmo. Sì, era stata solo mia madre, ma era pur sempre stata mia madre. Avevo già visto abbastanza distruzione da sapere quanto fossi stato fortunato ad aver afferrato almeno lei. Ed ero stato felice, nondimeno, di scoprire come mia madre avesse trovato altri a colmare quei vuoti che, come i miei, le erano stati imposti; poco alla volta là dove per me era stato uno strappo netto. C’era stato Ethan, e poi c’era stata lei. Per quanto avessi vagato ovunque, nel cosmo, nel creato, in ogni punto immaginabile ed oltre, sapevo ancora così poco del semplice essere umano. Era stata la mia pecca fin da Idur, da quando quella stessa umanità mi era stata strappata. Non avevo gli strumenti, all’epoca, per capire tante e tante cose, sopratutto di quel mondo che come uno specchio mostrava tutto ciò da cui disperatamente cercavo di allontanarmi. Eppure, era stata vicina a mia madre. Qualcosa che per forse altri sarebbe apparsa come un’inezia, a me appariva immensa. Conoscevo la solitudine, e la ricerca della sua assenza, e quanta una e l’altra ferissero. Ero grato a chiunque avesse alleviato questo a mia madre, in un modo che anche oggi non potrei davvero spiegare. Era stato con questo pensiero nella mente che mi ero accostato alla sua porta, a così poca distanza dalla mia. Le stanze che occupavamo perché forse entrambi non avevamo dove altro andare; perché rifiutati, sempre estranei, o semplicemente non a nostro agio nella nostra stessa pelle, o forse nessuna di quelle cose. Non avrei potuto dirlo. Di lei avevo colto delle immagini che come singhiozzi mi avevano dato solo frammenti del suo volto, i suoi occhi. Pezzi che avevo ricamato dal poco che mia madre dicesse di lei o di chiunque altro, troppo dentro alla politica di quel luogo per essere davvero sincera con me. Era il periodo in cui mi rifiutavo di ammettere che io e mia madre ci volevamo bene, ma non sapevamo nulla l’uno dell’altra. Eravamo semplicemente due estranei. Una verità troppo dura da buttar giù contando ciò che avevo già dato, scambiato e barattato per averla. Tutto. Forse era stato quel pensiero alla fine a spingere i miei piedi fuori dalla stanza e verso la sua, pigiati a terra con una concezione ultraterrena. Ne contavo ogni millimetro, come fosse una misurazione scientifica. Fra le mani avevo il liquore che avevo recuperato ad Al Sura quando finalmente ci ero tornato per farla vedere a mia madre. Elmar Asad e Saida Zayirah dicevano sempre che non ci si dovesse mai presentare a mani vuote, e io con me avevo imparato a portare sempre poco. Bussai tre volte, un ritmo conciso che era diverso da quelli che bussavano per le pulizie, così che non potesse confondersi. «Sono D... Eså, il figlio di Tiâra» la voce era stata bassa. Dėlïshk avrei detto, automaticamente. Il Nomade. Ciò che ero stato e ciò che, in fondo, ho continuato ad essere.
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    Avevi il potere di mettere sotto i piedi una città sporca, questo era il tuo mantra e presidio, ma è la tua natura vigliacca a vincere sempre. Non ti sei erto tra le ombre perché erano le tue lenzuola di seta, non hai scelto il segreto perché era la tua parola. Fuga è il tuo vessillo, le ombre il luogo dove non avrebbero visto la dilaniata carne dei tuoi difetti, segreto la lingua di chi proferisce bugie nella convinzione di poter essere all'altezza delle sue promesse. Un uovo vuoto che si è passato lo smalto sul guscio per scrivere che contenesse una vita mai realizzata. Si dibatte ancora come un feto prematuro cascato sul pavimento, si affoga nella saliva della sua stessa paura. E non c'è costante maggiore della tua assenza.
    Sono rivoli vuoti di un passato che si scanna nel sangue. Lacrime di bile che brucia le guance e le scava fino al teschio. La tua mano è morte, perché non hai mai saputo come dare la vita.
    Era una carcassa truccata per la bara aperta quella che hai salvato dalla strada. Nessun volto che fosse la sua immagine reale, una costruita menzogna per assumersi la colpa della sua esistenza quando ha già teso la bandiera bianca il giorno della sua nascita. L'hai paragonata a un virus, perché ti aveva infettato, bruciato di una fiamma che aveva all'inizio il nome di giustizia. Ora è solo un batterio, che si nutre dei cadaveri disseminati sulla strada. Questa è la vita che avresti dovuto prendere. Finalmente nella morte la sua pace. Tu lo sapevi che non ce ne sarebbe stata altra. Siamo nati dannati dai nomi che ci portiamo in petto, fra una costola e l'altra, lasciando lo spazio necessario per afferrare il torace e scavare nelle sue interiora. Tu lo sapevi che era una scintilla fragile e le hai voltato le spalle.
    Lo senti anche tu il suonare alla porta? È la realtà di un mondo che non si stanca mai. Chiede, e chiede, e si merita solo altre bugie. Non possiamo dirgli che siamo stanchi di dover fingere la realizzazione, di non aspettare una lama ficcata nel costato che ponga fine alla recita incancrenita di un musical in cui si balla fino a mozzarsi i piedi sul palco.
    La porta bussa, anche se non viene mai nessuno qui. Non tu, dimentico delle promesse, cuore maldestro. Guerriero rintanato nella trincea che non soffre dei morti che gli sfilano accanto, che hanno trovato il coraggio e per questo sono stati crivellati di colpi. Noi ci facciamo male solo per quel nome stampato fra le costole. Noi respiriamo bitume ed espiriamo veleno. Non c'è carne che non sia intrisa della loro vendetta.
    Non c'è un essere umano, in questa stanza, che possa mostrarsi con il suo volto, per quello che è. Sarebbe un cranio dissezionato per cercarne il cuore schiacciato ad ogni movimento del trapano sempre più sotto, colato nelle meningi, liquefatto insieme a materia fecale.
    Ci sono solo io qui, con troppa verità incisa addosso. Fossi stato tu, il volto sarebbe stato diverso. Sarebbe stato il terreno delle cicatrici e dell'indifferenza, sarebbe stata la pelle che ha vissuto dell'assenza di amore. Ma dopo pochi passi non sei tu oltre la porta, non è l'ennesimo salvatore che ha portato avanti la leggenda di quest'atroce menzogna. È solo un ragazzo in un posto dove l'identità non si vede dal volto, ma dalla pila di schiene accoltellate che si tengono alle spalle.
    Così è un altro che apre la porta. Una persona che ha l'età giusta per avere questo aspetto trasandato, quest'accozzaglia incoerente che tu non lo sai, ma è l'abito di chi è stato più vicino agli angeli caduti dal paradiso per stare qui fra noi. È questo che porta la loro pietà candida sul cemento del nostro mondo: pazzia e un veleno più forte di ogni promessa.
    Eså il figlio di Tiâra. Una spia inviata con uno scopo che tu diresti non esistere, ma solo perché nei giorni in cui ti mostri alla luce del sole devi fingere di avere un'anima più limpida di quella che ci è rimasta.
    Io di anima non ne ho più nemmeno un goccio. Né una faccia, che non sia un sudario tirato fino allo scalpo.
    Il mio aspetto è sempre stato un punto debole e tu lo sai. Lui, non lo dovrà mai sapere. Per questo la porta si apre su un corpo appena più piccolo, un viso ripulito che racconta una storia impossibile, ma sono tante le scuse a cui appellare la svista. Lui in faccia non mi ha visto mai, nemmeno in quella faccia cangiante che parla di una mediocrità che non posso abbandonare.
    «Ti manda lei?».
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    Edited by tippete - 23/4/2024, 21:04
     
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    Non era il volto che mi ero aspettato, è vero, ma mi ci abituai in fretta. Del resto già a quel tempo avevo passato gran parte della mia vita a convincere il prossimo di non esser solo un ragazzo, seppure sia la mia età che l’aspetto dicessero esattamente questo. Ero lontano da Al Sura ormai da anni, da quelle terre che consideravano l’essere adulti come qualcosa aldilà di quanti anni si era vissuti sulla terra. Sapevo poco di lei, e di meno ancora avevo chiesto. Ai miei occhi quelle persone erano state dei doni per mia madre, dopo che anche lei era rimasta sola a vagare fra mille mondi che non potessero mai ricordarle il suo, quello che ormai aveva perso. Ai miei occhi, erano ciò che Saida Zayirah, Elmar Asad, Urjec, Sabid... ciò che Calien erano stati per me. Un’ancora nell’oscurità, e forse non avrei mai avuto le parole per dirlo. Io, che per anni avevo vagato su Al Sura non avendo altro da fare che parlare, far scivolare la lingua in lunghi discorsi, avevo in quei giorni poco da dire, forse però tutto da ascoltare. Era del resto un periodo di assestamento, di quelli a cui ero abituato ogni qual volta una nuova realtà mi si affacciava negli occhi, e tutto ciò che dovevo fare era ascoltare. Prestare attenzione, consapevole che c’era sempre qualcosa che andava assimilato in ogni istante della nostra vita. Non ero al mio meglio, eppure intuii che anche lei non dovesse esserlo, per quanto ancora estranei mi apparissero i costumi di quella dimensione. Era forse più una stanchezza nascosta negli occhi a parlare, più di qualsiasi altra cosa, ma m’imposi di non osservarla troppo. Immaginai che se così poco mi fosse stato detto, e così poco avessi avuto modo di sperimentare la sua presenza in quelle mura che erano ormai una sottospecie di casa per me, dovesse essere perché per un motivo o per un altro non era una persona incline a condividere sé stessa. Avevo tutta l’intenzione di rispettare questo, di lei, come tutto il resto. «No» ero sincero come lo ero sempre. Il pensiero che mia madre potesse mandarmi a fare qualcosa era, in quel momento, estraneo: non fastidioso, più il rimasuglio di un passato che non era stato davvero concesso a nessuno dei due. Non era tanto l’imbarazzo di essersi ritrovati, estranei, dopo tutto quel tempo; né io né lei provavamo qualcosa del genere. Era più la consapevolezza di come le nostre vite si fossero evolute, sapevo che mia madre aveva compreso che non fossi un bambino, e non si sarebbe messa lì a mandarmi da qualcuno come fossi solo un fantoccio. Eppure, doveva essere esattamente questo che la gente si aspettava, a primo impatto, da me. Mi scoprii invidioso di non essere intrinsecamente uguale a quelle stesse aspettative, di essere invece completamente opposto. «Anche se le ho detto che mi avrebbe fatto piacere conoscerti» aggiunsi sempre per amore di onestà, una peculiarità che a quei tempi mi rendevo conto essere quasi singolare, e che forse a maggior ragione mi era ancora più cara. Ormai stanco di tutte le macchinazioni che avevo visto muoversi fino a prosciugare i mondi, tutto ciò che volevo era la quiete di quella vecchia radura ormai inesistente, divorata da qualcosa di antico ma mai dimenticato. Non potevo esattamente dire di essere solo, avevo ritrovato mia madre, avevo Aalina, eppure sapevo anche che il tipo di vita che mi apparteneva, quel vagare che non era riuscito a placarsi neanche quando avevo ritrovato quelle radici a lungo disperse, non concedeva poi troppo a nessuno. Avrei dovuto forse rassegnarmi a quella stessa esistenza che conduceva Urjec in quelle radure, a quella di Sabid su quei colli che correvano a picco sul mare e con solo le dune del deserto alle spalle. Cos’è che davvero cercassi a quei tempi era per me un mistero irrisolvibile: appena fatto un passo più avanti mi rendevo solo conto di quanti altri si manifestassero da fare sotto il mio sguardo. Eppure, avevo sentito il bisogno di conoscere quella ragazza, così come mi ero sentito grato di aver conosciuto Ethan. «Siamo, com’è che dite? Vicini di casa, o qualcosa di simile» Calien sarebbe stata più brava di me in quello, come lo era sempre stato. Lo pensavo nel modo in cui un destroso per tutta la vita continua a ripetersi come qualsiasi cosa produca sarebbe stata meglio se solo l’avesse fatta con la mano destra, ormai monca. «Perdonami, mi è spesso stato detto che sono forse troppo curioso delle volte, ma volevo davvero conoscerti»
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    Sembri una persona che non nasconde molto di sé, non è così? Con quel tipo di ingenuità che non si crede tale, perché non è immaturità, non è non aver scoperto ancora cosa la vita ha in serbo, è solo non essere ancora caduto in ginocchio. Ma è questo che ti verrà chiesto, e perderai tutto quello che ti è caro senza poter accettarlo. Non esiste un mondo che possa salvare la tua anima naïve, chi sopravvive è chi è disposto a spezzare prima di imparare come si aggiusta, chi non lo fa per segnare un punto, ma per atterrarti fino a non lasciarti più neanche un respiro.
    Ti ha tradito il desiderio, quello di conoscere qualcuno che vive in un posto come questo, senza che la consapevolezza del lerciume che trasuda da queste pareti potesse anche solo farti balenare l'idea di fermarti. Premura, quella che dimostri, e che non ti verrà ripagata se non tirando la mano che porgi e mangiandola fino alla spalla, lasciandone solo un osso lucido di saliva.
    Non è solo curiosità. Quella non uccide finché hai lo spirito pronto a fermare la lama che ti viene calata sulla nuca quando ti abbassi a guardare più da vicino, la curiosità può farti forte se sai come infilarla negli iati di uno sguardo, nella fenditura di una frase in cui si apre lo squarcio del respiro. La curiosità ti avrebbe dato una conoscenza affilata che avresti già potuto usare come arma.
    Ma tu non lo fai. È questa la tua ingenuità. Uno spirito buono che si divertiranno a guardare creparsi. Ti aspetta una vita fatta di una forza testarda, fatta di una perenne adolescenza in cui trattenere le tue convinzioni e renderle ogni giorno più salde finché non lasceranno spazio ad alcuna flessibilità. Se io conosco la fluidità cangiante dell'acqua, tu al contrario devi avere familiarità con qualcosa che non si piega davvero mai, ma che del liquido deve avere l'aspetto, o non sapresti camminare fra questi corridoi come fossero incapaci di corromperti.
    «Mi sa che non c'è molto da conoscere» e per questo che puoi guadagnare una risposta che ha in sé tutta la diffidenza di chi invece di questi corridoi conosce gli occhi affacciati dagli spioncini, che sa senza guardare dalle serrature cosa avvenga nelle stanze prima che arrivi una cameriera a ripulire tutto e fingere non ci sia stato uno sporco più indelebile di quello raccolto nel cestino, uno che cola fra le ossa e si fa sangue, e avvelena finché anche dalla più piccola ferita non esca che pece.
    Anche in queste vesti disfatte ricordo cosa sia la pietà e perché può ucciderti lentamente. Come una pugnalata che non ha mai smesso di sanguinare, e stiamo qui in piedi a vederla macchiare la moquette e impregnarla di morte, questo è l'effetto della tua presenza. Perché di pietà ce n'è ancora abbastanza da sapere che sarai l'ennesima persona da dover sacrificare soprattutto se ha avuto solo buone intenzioni, saresti dovuto essere un passante a cui dare un bacio innocente su una guancia immacolata, e non uno di cui pensare quale sia il veleno più efficacie.
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    Non avevo ancora fatto miei molti degli usi di quei luoghi, seppur il tempo passato a casa di Aalina me ne avesse fatti sbirciare alcuni, nel fervore di vite quotidiane che si erano svolte sotto il mio sguardo. Sarei voluto restare lì, ma il mio era stato figlio di un bisogno che ancora sapeva dello spazio vuoto lasciato da Calien. E poi in quell’hotel c’era mia madre, non avevo passato forse più un decennio a cercarla? Lei e tutto ciò che, infine, non avrei potuto recuperare. La guardai però incuriosito, non perché fosse la prima persona diffidente con cui avessi a che fare, ma perché ricordava in qualche modo quelle creature rare che abitavano nel Sarsham, e imparavano a convivere con le sue arsure, e con tutte le difficoltà che un deserto ha in serbo per ogni creatura che respiri. Non credevo al non c’è molto da conoscere, al contrario. Credevo a qualcosa di opposto, qualcosa di talmente polare a quel pensiero che si estendeva infinito verso ogni stella che avesse mai brillato nel cosmo. C’era sempre qualcosa da conoscere, dal più piccolo granello alla più immane montagna. Non esisteva qualcosa che fosse privo di una storia, o della sua intrinseca importanza. Ne ero ancora più convinto da quando avevo iniziato davvero i miei viaggi e avevo in quel modo toccato con le dita, le mani, e tutto, la vera espressione immane dell’infinito. Un concetto annichilente ed in qualche modo talmente confortante, da essere un contrasto che teneva in piedi ogni cosa. Non mi sarei, però, mai imposto su nessuno. Rispettavo la riservatezza, rispettavo tutto ciò che desse dignità alla persona, totalmente incapace di azzannare confini che avrebbero dovuto essere considerati sempre sacri. Ma neppure mi sarei tirato indietro così in fretta, consapevole che esisteva sempre un tempo per indugiare e tentare, prima di arrendersi di fronte a qualcosa. «Vorrei dissentire» avevo ancora quel tono, pacato e quasi lento, come i primi fiati su un mondo nuovo di cui si saggia la grandezza, e la diversità. «Ho imparato che c’è sempre qualcosa, molto, da conoscere in ogni cosa» nel mio intimo mi rendevo conto di come, nell’improbabilità di mille e mille mondi, mille e mille luoghi, mia madre fosse finita lì. In quella casualità, aveva incontrato lei. Una serie di coincidenze ci avevano portato esattamente a quel punto, fra scelte e momenti imprevedibili che si erano egualmente evoluti sotto i nostri occhi. Il Destino per me era un concetto complesso, una moltitudine composta dalle scelte del caso, e quelle ponderate dall’essere. Era una forza, ma una forza che pure poteva essere piegata. Ed ero ancora convinto, in fondo, di ciò che le avevo appena detto. Non avrei potuto credere, mai, che esistesse qualcuno che non avesse nulla che valesse la pena di essere raccontato, fosse stata anche solo una minuzia che ai propri occhi appare insignificante. Ogni persona mi appariva, al contrario, alla stregua di quei mondi che avevo visto, e di tutti quelli che forse non avrei incontrato mai; incognite indissolubili nella storia, punti che avrebbero potuto essere egualmente bivi o conferme di una o l’altra cosa. «E che ogni esperienza nasconde sempre qualcosa di cui far tesoro» era così che diceva Saida Zayira, sempre e comunque, e io le credevo. Non avevo motivo di non farlo, non quando in fono ogni suo insegnamento, fino a quel momento, si era rivelato essere vero. «Ma non voglio imporre la mia presenza, è solo che per quanto possa sembrarti forse strano, in realtà ti sono grato» forse non era davvero giusto dirlo, nei confronti di nessuno, eppure era pure qualcosa che sentivo talmente tanto intimamente da non poterne fare a meno. Avevo immaginato mia madre restare sola, in quel modo che conoscevo così bene che mi era stato insopportabile, avevo poi immaginato mia madre lentamente lasciar spazio ad altri nella sua vita, per non sostituire i suoi vuoti, ma neanche tenerli così terribili nei suoi giorni. Era quello che Cailen era stata per me, quello che Saida Zayirah ed Elmar Asad, che Urjec, erano stati per me, e ne riconoscevo quel valore indissolubile che non può essere svilito mai.
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    Il problema è quando quello che conosci non ha più nulla da insegnarti. E tu non hai idea di cosa significhi. Devi essere qualcuno che al turbamento reagisce con l'azione, con quei moti dell'animo che ti spingono in avanti e non a imputridire in una palude di recrudescenza e violenza. Vorrei sapere quali dolori hai provato, quanto devono apparirti profondi come un abisso, ma soprattutto affilati, che si conficcano nella carne e non vi si sciolgono dentro. Tu non devi conoscere il significato di un luogo che ti tenga prigioniero nello spirito, ogni giorno, in una cella eterna da cui non c'è alcuna via d'uscita.
    Hai provato sofferenza, di quella che però si trascina nel passato, dopo che hai fatto un passo per andare oltre. In quanti posti ti sei fermato? Perché hai l'animo di chi va via quando pensa che qualcosa sia concluso, che abbia già dato quello che aveva da dare, l'attimo prima di scoprire che dopo non resta più nulla. E tu quel nulla l'hai vissuto in storie a cui trovi sempre un significato e una legge.
    Non sono gli altri ad averti lasciato indenne, ma tu che sei sempre bloccato in un futuro in cui tutto ti sta dietro, e quello che non trova spazio in una storia già scritta è solo avanti, ancora da esplorare. In te non vedo così tanto di tua madre, di quello spirito in sottofondo che costruisce con pazienza.
    Tu hai ancora occhi che sanno trovare tesori, senza renderti conto che l'oro è solo oro, e quello che lo muove è sangue versato sul cemento.
    «Grato per cosa?» grato per qualcosa che non è stato intenzionale e di questo posso esserne sicura. Non è stato grato nemmeno chi ha voluto essere l'uomo che vestiva unicità, che attraeva e non veniva solo attratto, ha trovato solo bile rigurgitata ad ogni frase che doveva portare sollievo, e invece di quello ha conosciuto una sofferenza che calpestava il suo passato, quello che ha lasciato morire all'addiaccio. Tu hai mai lasciato morire qualcuno solo perché eri troppo vigliacco? No, tu hai attraversato città come fosse niente, hai lo spirito del viaggiatore ma non il peso di chi è rimasto un solo giorno di troppo. Tu non lasci irrisolto, pensi a ciò che hai fra le mani e vuoi rispettarne la natura. Lo fai persino con chi davvero non ha niente da far conoscere perché è rimasta in piedi cava, con ossa fatte di farina, e la carne che non è mai stata altro che la sacca dei veleni degli altri. Eppure devi aver lasciato più morte tu alle tue spalle di quanta non ne abbia fatta io. Una morte diversa, che non aveva maledizioni e strazio strappato dalla carne tirandolo su per le vene. La tua morte è l'unico suono che si sente quando compi l'ennesimo passo verso un oltre che a te è sempre chiaro: il totale silenzio.
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    Aveva qualcosa il modo rapido con cui si esprimeva, non tanto affrettato quanto misurato per essere nel suo minimo, soppesato perché non vi fosse né un granello di più né uno di meno; aveva qualcosa che portava con sé il prurito di un ricordo, uno che per quanto volessi cancellare dalle mie membra era sempre lì in attesa, esattamente come lo era il marchio a fuoco che ne rappresentava il passaggio. Mi ricordava alcuni schiavi di Idur. Non quelli ormai ingrigiti e così simili all’ambiente da diventare davvero, alla fine, invisibili presente che erano ovunque, ma che nessuno avrebbe notato mai. Non gli schiavi più piccoli, come lo ero stato io, portato lì con troppa paura perché potessi anche solo considerare l’idea di alzare il capo e mormorare un no che avrebbe condotto ad una fine qualunque, certo, ma che forse avrebbe potuto anche conservare di me un frammento che invece era decaduto per sempre. Mi ricordava invece quegli schiavi più grandi, quelli che a schiena china spostavano massi e qualsiasi cosa gli venisse ordinato, ma che avevano quella scintilla negli occhi che, di tanto in tanto, osavano alzare contro i padroni. Era vietato, ad Idur, guardare i padroni senza permesso. Si riconoscevano anche così gli schiavi di lunga data: il loro collo era ormai ingobbito, la schiena ricurva, le loro ossa erano mutate per obbedire al volere del padrone. Anche lei mi sembrava avesse qualcosa che forse poteva essere decritto solo con divisioni di disperazione e resistenza che non lasciano mai lo spazio ad una o l’altra per emergere del tutto. Come quei mondi che vagano sulla linea di confine, che pulsano ancora vita seppur siano così tremendamente vicini alla fine da apparire come distese virulente. Ero sicuro, a quel punto, che spiegarle il perché sarebbe stato difficile. Non era solo per via di quei frammenti opposti che sembravamo essere in quel momento, in qualche modo legati e distanti allo stesso tempo, come pianeti che gravitano intorno alla stessa stella ma non possono mai arrivare a sfiorarla, o toccarsi fra di loro. Sarebbe stato difficile perché forse non sarei mai riuscito a spiegare, a lei, cosa per me rappresentasse la vastità, e cosa allora fosse l’esistenza di minuscole coincidenze che muovevano passi uno di fronte all’altro. Non sarei stato capace di farlo perché non sarei stato capace di spiegarlo a nessuno di quegli schiavi, non sarei stato capace di spiegarlo ad Ath. Restai comunque a sorridere, immaginandola per qualche strano motivo nei deserti di roccia di Kirn Nardirth, fra l’olio
    denso dei motori e quella musica dissonante data dal battere metallo contro altro metallo. «Lo troverai stupido» non avevo modo di saperlo, eppure ne avevo la sensazione, ma non avevo smesso di sorridere lo stesso. Era stato una sorta di avvertimento, un dato di fatto che avrei potuto tenere per me, ma non ero fatto così. In un certo senso, era stato proprio il mio viaggiare a rendermi quasi impossibile il senso di chiusura. Forse erano state le dune del Sarsham, invece, ad insegnarmi l’assenza dei confini e quanto in là ogni cosa può estendersi per sfiorare tutto. Proprio come i granelli delle sue sabbie volavano per depositarsi fin anche nel cuore più stretto di Hillaj, sui volti e i tessuti delle vesti, anche io avrei potuto muovermi e non essere più cucito e ristretto in un punto che avrebbe finito per schiacciarmi. Forse erano entrambe le cose e tutte le altre che avevo collezionato di volta in vola, di mondo in mondo, di persona e persona. «Ma sono grato del fatto che esisti, che le strade del caso ti abbiano condotta qui» era un modo incredibilmente semplice di porla, ma il suo essere così precisa con le parole mi faceva sentire che anche io non avrei dovuto disperderle come forse avrei fatto in qualche altra situazione. Non avrei dovuto lasciarle fluire una dopo l’altra senza tenerne in conto la lunghezza e l’estensione. Era anche quello una lingua, in fondo, per quanto le parole fossero le stesse sapevo bene come anche le paure, i silenzi, e ogni lettera che componeva ogni verso avrebbero significato qualcosa. L’atto di esistere era una concezione che nessuno avrebbe mai potuto spiegare nella sua interezza, e così neanche io sarei mai riuscito a dispiegare i sensi del muoversi della casualità, del tempo, delle scelte e dei Destini disseminati come strade da scegliere ed intraprendere. «Devo sembrare una persona piuttosto bizzara, o almeno così mi è stato detto»
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    Sei grato di qualcosa che non vuoi dire o di qualcosa che è stupido davvero, perché è la speranza che ogni persona possa portare qualcosa di più in una storia fatta per essere letta dai tuoi occhi voraci. In questo non sei mai cresciuto, hai solo accumulato anni senza perdere quello spirito infantile, quello che non si aspetta coltelli nascosti dietro la schiena, anche se sono quegli anni a dirti di come esistano e possano conficcare ogni strato di carne e lacerarlo fino a fargli piangere sangue. Ma nel mio mondo non esiste alcun caso, solo un piano studiato per ottenere il prezzo effimero che si crede valga qualcosa più del sudore sulla fronte o degli sforzi più biechi che si è disposti a fare. Solo un'illusione, quando la vita rilancia sempre più in alto, colora le carte per farti sentire la vittoria così vicina da poterla toccare, e poi le brucia dandoti l'unico imprevisto che mai avresti potuto aspettarti. Questo è almeno quello che accade ai fortunati, a chi almeno per un momento ha avuto la speranza e non si è accorto troppo tardi che la speranza è un privilegio scaltro, che si tira indietro appena ti racconti la bugia di meritarla.
    Ai miei occhi non sembri bizzarro perché ho conosciuto altri come te, come te nel modo in cui si semplifica tutto, cercando solo le chiavi che possano essere lettura e buttando quelle che invece non servono abbastanza. E come ogni persona sei diversa da tutti, abbiamo tutti gli stessi pezzi incastrati in un modo diverso ed è questo a rendere unico ciò che invece è sempre stato intriso di banalità. I tuoi occhi non devono essere mai andati abbastanza vicino da cogliere i graffi fra un tassello e l'altro, quelli incastrati con meno grazia e spinti a forza in una cavità di una forma così diversa da amputarne gli angoli. Tu non puoi conoscere l'intimità se non del tipo che è fatta su misura per te, hai bisogno di una precisa distanza che non si faccia mai né più vicina, né più lontana. Ma non puoi avere una vita vuota. Scommetto che se ti mettessero una bocca per ogni cellula di epitelio che è stata esfoliata avresti mille parole sminuzzate fra i denti, e ancora non saprebbero raccontare l'interezza di quello che hanno visto i tuoi occhi. Persone che non hanno più una loro identità, che non sono per te dolore, non sono per te le atrocità che vedresti se aprissi le porte che frenano la vera anima riposta all'interno.
    E infatti siamo qui su una soglia, né un passo più interni, né uno più esterni. L'unico cambiamento alla tua immobilità è un corpo che non ti appartiene, che hai davanti, e si preme sullo stipite capace di muoversi più di quanto tu non faccia.
    «Cosa ti hanno detto di me?»
    Ed è una cosa che mi interessa per capire quale storia stai inseguendo, quale nascondi, perché di una cosa sono sicura e me lo dice la tua postura immobile, quando il tempo qui si è sbocconcellato ignorando la vera agonia. Me lo dice il fatto che senti ogni cosa più piccola, che vedi un quadro distante, che evidentemente non sanguini pece, ma acqua di sorgente.
    Sei vittima di una regola di equilibrio, una che non schiaccia la formica che passa, ma ha il gelo dell'anima che può uccidere senza versare una sola lacrima. È il dono della vera indifferenza, che prende dagli occhi e cola tutto intorno allo spirito, che si bea della bugia di sentire ogni granello di sabbia, senza mai farsene bruciare.
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    Non molto, forse niente. Ecco cosa mi avevano detto di lei. Non avevo chiesto a mia madre di allungarsi, fin troppo consapevole di quanto sarebbe stato qualcosa che non avrebbe potuto giovare a nessuno perché ancora, non avevo davvero idea di come fosse il mondo agli occhi di Tiâra. Era per me un mistero, il ricordo di un bambino che avevo smesso per sempre di essere e di getto quando tutto ciò che ero stato mi era stato tolto insieme al mio nome. Non avevo chiesto a mia madre, e dubitavo che in fondo anche nel farlo lei avrebbe risposto. Non mi aveva chiesto di andare lì, conscia probabilmente che le decisioni avrebbero dovuto essere nostre, di chi aveva perso e di chi aveva trovato, senza che la sua mano guidasse nessuno di noi verso alcuna direzione. Ero anche certo, a quel punto, per quanto poco ci fossimo detti su quella soglia, che a lei non sarebbe piaciuto se fossi arrivato lì con anche la più minuscola informazione su di lei. Al contrario, pensai che lo avrebbe sentito come un’invasione quando era così attenta a tenere tutto a distanza: me fuori dalla porta, le nostre parole bilanciate solo dalle sue immobili domande che si spezzavano come lamiere una contro l’altra. Avevo intravisto le presenze prima ancora che mia madre le citasse, e del resto avevo conosciuto Ethan ancor prima di sapere davvero chi fosse. Il mio era stato un interesse spontaneo che non aveva guardato forme precise, quando più forme che dovevano esser esistite e che forse erano pregne, per quanto ne ignorassi ancora la grandezza. «Niente» le dissi infatti alla fine, la voce ancora bassa senza che la situazione riuscisse a imprimere in me alcun disagio, nonostante fossimo immobili uno di fronte all’altra su un uscio che ci lasciava indenni nello spazio. Avevo la sensazione che al contrario di me, che ero posto di fronte a lei con la sensazione di dover aspettare nell’attesa che fosse lei a decidere se e cosa rivelarmi di lei, io invece fossi fermo sotto il suo scrutino incessante. Neanche di questo sentivo il peso, ero passato sotto ispezioni ben più invadenti di quella e in fondo, non avevo nulla da nascondere. Avevo al contrario una natura che mi aveva reso sempre aperto, perché sapevo che esistevano scambi silenti in tutto; non avrei potuto vagare nelle lande di quei mondi sperando di imparare, di afferrare e sentire tutto in quel modo empirico che avrebbe di secondo in secondo, inevitabilmente, cambiato sempre tutto di me se non ero disposto allo stesso modo ad essere talmente aperto da poter concedere quello stesso flusso. Avrebbe potuto essere un rischio, ma il cosmo mi aveva oramai da anni insegnato quanto i rischi fossero qualcosa di intrinseco nella vita, e che solo uno sciocco avrebbe potuto sperare, peggio ancora tentare, di avere una vita che non ne prevedeva. «La tua stanza, che ti fai chiamare Satine, ma non ho indagato oltre e sono anche sicuro che mia madre, anche se lo avessi fatto, non avrebbe concesso poi molto» doveva essere, in qualche modo, questa la sua tebaj, la sua proprietà su sé stessa, qualcosa di un’importanza devastante quanto intima. «Credo fosse più per avvertirmi che non ero solo che per incoraggiarmi a venire da te» ne ero sicuro, quando del resto in fondo era passato così tanto tempo dall’ultima volta che avevo visto mia madre, che sarebbe stato quasi strano se avesse ripreso senza batter ciglio atteggiamenti di una dinamica che ci era stata preclusa.
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    metamorphomagus
    Non ti hanno detto di me niente, e questo parla di una controparte della tua curiosità forse pure più forte. Da quanto senti di incarnare l'immagine di chi si prende cura di ciò che incontra? E "ciò" è tutto quello che si può dire, perché se non ti radichi mai nel vissuto di una persona stazionaria, allora non puoi avere spazio nel cuore solo per gli animi viventi. Il tuo sarebbe un cuore vuoto, e basta ascoltare abbastanza per sapere che sei convinto che sia così, ma qualcun altro ha visto in te una verità che non senti addosso. Che sei solo, figlio di Tiara, e lo sei al punto da non saper distinguere i confini della tua segregazione, troppo vicino agli iati della maglia di metallo che ti si è dipinta sulla pelle da vedere il mondo lì fuori, e non il fil di ferro. E infatti non sei qui per colmare il tuo isolamento, non cerchi qualcosa che dia alla tua carne, e anzi mi chiedo quanto tu possa sentirla.
    Ti hanno detto che sei curioso, Eså, ma scommetto che non è stato perché volevi addentrarti nel sangue che scorre nelle vene o nel gelo che avanza fra un osso bruciato e un suo gemello, la tua è una curiosità rivolta altrove, verso ciò che per gli altri non conta e sembra irrilevante, e forse non si è nemmeno spinta così oltre da entrare nel pericolo. La tua è una curiosità morta, che difficilmente nasce da chi ha un cuore che batte. Cosa deve fare qualcuno per attirare la tua attenzione? Forse ciò che reputi un crimine o un'offesa, forse l'atollo privo di crudeltà ma pieno di un'inspiegabile indifferenza. E infatti hanno visto in te bizzarria, hanno sentito che eri distante, fuori da una comprensione banale che arriva prima di poter riflettere come mero istinto della pelle. Tu invece non hai pelle, solo qualcosa di fondante che a te pare poter essere più alto e profondo di ogni cellula di cui è fatta la tua materia, e infatti potresti perdere ogni pezzo di te solo per preservare quell'unità santa.
    «E tu come ti chiami, oltre che Eså?».
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    åkerlund
    Non mi sorprendeva quella domanda, quell’attento dettaglio che rivelava quanto raccogliere punti fosse importante, così come lo era lasciare alle domande il compito di una voce che avrebbe spinto la mia sempre più fuori, distante. Era vero che non sapevo nulla di lei, se non quel poco che potevo aver anche io raccolto in quel poco, eppure sentivo che per me era molto più difficile di quanto non lo sarebbe mai potuto essere per lei che, di aperto, aveva solo quello spiraglio contro cui premere e stanziare tutto. Non mi disturbava, non lo aveva mai fatto, anche se fino a quel momento in pochi erano riusciti davvero a premere la mano sul mio animo e tenerla lì, checché io cercassi di non nascondere mai nulla. All’epoca pensavo che fosse perché alcune cose non potevano essere comprese finché non le si avesse vissute sulla pelle, ed io che ero figlio del cosmo e perso fra le sue spire, non avrei mai potuto apportare a parole l’immane immensità di quel coacervo in perenne contrasto. Non mi sorprendeva, eppure era per me qualcosa di incredibilmente delicato, la questione dei nomi. Erano per me una rappresentazione, la manifestazione di un concetto che era per me intimo, e che era solo un punto di quel cercare che non si era, in me, risolto mai. Ma affrontavo quello come affrontavo qualsiasi cosa, consapevole di come ogni più piccolo freno che ponevo a me stesso, fosse un ostacolo che pure avrei dovuto imparare a superare. «Ho molti nomi» ed era vero. Ne avevo collezionati così tanti da averne perso il conto, seppur il senso fosse qualcosa che mi accompagnasse sempre. Erano come frammenti, minuscoli pezzi che erano rimasti incastrati in ogni mondo, e ancora non avevo deciso se questo me li avesse fatti perdere o se, invece, avessero aggiunto qualcosa che andava a costruirsi sempre di più dentro di me. «Eså è più un diminutivo, se vogliamo essere del tutto precisi» il mio nome, quello che era stata mia madre a darmi, era l’unico che mi fossi mai strappato di dosso. Erano in pochi a conoscerlo, e molti di loro erano ormai stelle nel firmamento. I nomi, nella lingua di mia madre, erano storie. Era stata lei a dirmelo, ma ancora di più lo sapevo nell’intimità del senso che aveva accompagnato il mio, e che ancora sembrava dipanare e descrivere la mia esistenza: quella prima di me, che avevo ormai superato, e quella che di fronte ancora doveva essermi rivelata. «Nomi che mi sono stati dati, nomi che ho scelto. Nomi che mi sono stati imposti» erano tutti storie, come se nel darmi il primo, mia madre avesse sancito per me un destino che sarebbe stato sempre scritto in ogni sillaba. Sentii solo per un secondo quel bruciore che sembrava tornare ad ardere proprio lì, sotto l’attaccatura del collo, ogni qual volta che ripensavo ad Ath. Ma non la toccai, né quella volta né mai. Invece, continuai a guardarla. «Esålengræknüčak Tiârastrįėlïshk Hölasdot-Varlas. È il nome che mi ha dato mia madre, potrebbe essere tradotto in un: Esålengræknüčak, figlio di Tiara della dinastia Höla, e Valras il cognome di mio padre» anche in quel posto, lo sapevo, i nomi erano importanti. Era stata mia madre a dirmi che in pochi usavano il proprio, e così anche io ne avevo preso uno dei tanti che mi seguivano anche se, ad essere onesto, anche nel dire il mio, reale, nessuno avrebbe mai saputo chi fossi. «Ma sono molti anni che non rispondo a quel nome. Eså appariva più... accettabile per questa dimensione» per quanto anche quello non lo fosse, ed era stata la domanda di Ethan a rendermelo terribilmente noto. Eppure, non sarei stato capace di accettare un altro nome. Me ne sentivo ricolmo, quasi schiacciato. «Satine non è il tuo vero nome, non è così?» non le chiesi di dirmi il suo, in un certo senso ero convinto che anche nel farlo non lo avrebbe fatto, ed avrei scambiato solo un nome falso con un altro.
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    metamorphomagus
    Il tuo nome è una storia, figli odi Tiara, ma a quanto pare è una storia che per te è già conclusa. Sei un figlio che non è figlio, e questo lo so perché conosco chi ti ha generato e le proporzioni del suo impero. Riconosco i confini invalicabili creati dai vostri caratteri, strutture svettanti e immense, che sono cresciute di fianco e non si sono mischiate, che hanno occhi e mani e sguardi, e di fianco su strade parallele allungano dita in iati già visti e perfettamente conosciuti nella distanza, ma che al di sotto nascondono un abisso. È da qui che hai imparato a stabilire il tuo vincolo di prossimità? No, figlio di Tiara, perché non c'è sentimento di umano rancore nella tua voce, non c'è chiusura, il tuo è un colosso di pietra che non si sgretola e segna sempre il confine insuperabile, anche quando ha la dolcezza di un liquido che prende la forma di un contenitore. Ma tu se fossi un liquido non ne rispetteresti la maggioranza delle leggi, saresti uno di quelli che diventa più forte quanto più massiccio è il colpo che gli viene offeso, chi si indurisce e compatta per non avere né buchi né pieghe.
    Ma anche il nome che mi dici non è quello che ti riconosci. Rispondi al nome di Eså perché è la contrazione delle tue radici e sono la solida pianura da cui tu hai tratto la tua origine immota, ma te l'ho detto, è una storia conclusa e non può più farti da contenitore da molto tempo, non può spiegare chi sei più di ogni nome che hai scelto. Ma ce n'è uno, ed è quello che hai iniziato e non finito, che dice qualcosa di te che è ancora vivo, che rivela il tuo proposito fondante o la scheggia del futuro a cui cerchi di arrivare.
    E c'è qualcosa di te, figlio di Tiara, che mi dice che conosci anche la sensazione dei nomi che ti vengono imposti quando non conoscono la forza della tua ribellione, nomi che schiacciano finché possono perché non si può combattere sempre, e a volte l'attesa è la scelta che porta la vittoria. I tuoi nomi sono come i miei volti, e i miei volti sono stati disegnati anche da chi ha le mani del possesso e mi ha resa schiava di un sistema da cui non si può fuggire.
    «Qui nessuno usa i suoi veri nomi» soprattutto chi ha una faccia per ogni progetto, chi si crea un labirinto di specchi che riflettano un'immagine sempre diversa e hanno natura radicata nella nebbia che nasconde la sua atrofia. Non sono i nomi il nostro vero cruccio, ma ciò che nascondono, ciò che è abitudine e non è fatto per essere spiegato. «Neanche tu».
    nirvana tyler
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