Everytime I come back

Errol/Aleksandra| 15 gennaio 2034 | Alaska

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    La prima volta che ho attraversato queste lande desolate ero un ragazzino spaventato e senza memoria. Stavo uscendo dal Brooks Range, abbandonato dalla mia gente e costretto all'oblio. Questa volta, sono un uomo con fin troppa memoria.
    Immagino di sapere cosa mi aspetta. Aleksandra che lascia gli Assassini per un po' e va in Alaska, la mia terra, Nimone che va con lei. Le avevo detto di vegliare su di loro, su Aleksandra più di altri, certo, ma sulla setta in generale. Il motivo per cui sono andato via io non è l'appalesarsi del mio destino, l'arrivo di quella versione così giovane e persa di me, quello è solo il motivo per cui non sono tornato indietro prima. Il motivo per cui ho compiuto questo viaggio è l'inizio della nostra storia, delle sue battaglie cruente. Oggi so che non servirà a niente, che un giorno non lo ricorderò e tornerò da un'altra lei scoprendo che tutto quello che abbiamo fatto, è stato inutile. Oggi lo so già. In me convivono moltitudini di tempi inquieti, e questo, in particolare, non ha ancora trovato la sua pace.
    Sono pietre che non andrebbero posate, e invece si accatastano come la lapide di una tomba. Un passo lontano da Hedy è stata la sua morte. Oggi lei è morta. Non lo è dentro di me, e questa penso sia una delle colpe che mi porterò dentro, impossibili da spiegare. Dovrei riuscire a dire cosa significa per me questa vita, fatta così, e anche se questo è il tempo in cui forse mi è concesso saperlo di più, comunque non conosco parole per descrivere il buio e la tempesta che aleggiano nella mia mente. La scelta è quella di sempre.
    Ogni passo nella neve, lontano da Hedy, un passato già morto. Ogni passo nella neve, più vicino a Nimone che so mi sente come io sento lei, è uno più vicino ad Aleksandra. Un passato difficile da spiegare, perché in tutti questi anni, non lo è mai diventata del tutto. È stata tempi intrecciati, che scorrevano in modi confusi. Da avanti a dietro, il giorno in cui l'ho conosciuta, da dietro a avanti quello in cui l'ho vista per la prima volta. E tutti questi salti, da una sponda all'altra, sempre a vederla fin quasi a poterla toccare.
    Oggi è ancora la mia costante. Anche se io ho il cuore pesante di un'altra vita che mi sembra intera, invece ne è solo un frammento lacerante lasciato nel tessuto del tempo, a incastrarsi per sempre in quello strappo.
    Vedo Nimone che mi aspetta fuori. Un volto implacabile che non conosce freddo. Mi trafigge con i suoi occhi di un azzurro gelato, più oscuri della parte superiore del suo volto di pura antracite. Nimone mi ricorda le mie colpe come il marchio bianco e mai sfocato che le ha ferito la pelle e cucito la bocca.
    Mi accoglie senza una parola. Mi indica la strada. E lo sappiamo entrambi che io so, che ho capito, e che oggi è una di quelle svolte di cui lei ha sempre saputo. Tu mi tradirai tre volte, ma due di più mi spingerai a pensare di tradire te. Ricordo ancora quella profezia come se me la stesse dicendo oggi, con il suo silenzio. Questa è una di quelle due volte di più. Perché non ho tradito lei, bensì un'altra, perché non c'ero quando avrei dovuto. E sospetto che un giorno non molto lontano, non ci sarò di nuovo, perché è quella parte di tempo che non mi si è mai schiusa, e a furia di farmi lì vicino, inizio a tessere un testamento.
    Busso alla porta. Non mi guardo indietro, so che Nimone è andata via. Nella malinconia delle terre innevate. Ci lascerà da soli. Guardo solo avanti. Aleksandra avrà da dirmi molto, solo ora penso che sono due anni che non mi vede. E io sulla bocca ho l'ovvietà più grande di tutte, detta appena ho la possibilità di vedere anche solo uno spiraglio del suo viso così cambiato.
    «Sono tornato».


    Edited by tippete - 18/12/2023, 13:06
     
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    laska era sempre la più curiosa tra i due, con i suoi grossi occhi di un colore che anche dopo un anno non riusciva a descrivere, un grigio che si trasformava in tempesta quando era arrabbiata e piangeva, o si placava in un placido e tenue color nebbioso quando era calma e sorridente.
    A lei piaceva guardare fuori, perdere il suo sguardo fin dove riusciva ad arrivare con la sua vista da bambina. A volte più in lei che in Nikolaj, Aleksandra riconosceva l’anima di Errol. Era ancora presto se una parte del suo carattere avesse lasciato il suo segno nella genetica dei due bambini, ma sicuramente lo aveva lasciato nei loro visi, in quello di Nikolaj, in misura maggiore, mentre Alaska, lei aveva preso da sua madre.
    Il che è un bene, tesoro le mormorò a voce bassa avvicinando il suo viso a quello della bambina mentre la teneva stretta a sé, intenta a contemplare il mondo fuori e stupirsi di ogni dettaglio.
    Sentì una placida stretta allo stomaco mentre qualcosa le suggeriva che quel giorno sarebbe stato diverso, che quel giorno il tassello mancante di quel quadro sarebbe tornato al suo posto.
    A volte si chiedeva se aveva fatto bene ad andare via da New York, a rifugiarsi in Alaska, ma quando guardava quella bambina che ne portava il nome e l’altro che dormiva placidamente tra morbidi cuscini, si diceva che era la sola cosa che aveva senso fare. Anche quando incrociava lo sguardo di Nimone, a volte così freddo da non riuscire a reggerlo, che le ricordava che sarebbe dovuta tornare, che avrebbe dovuto incontrarlo, per dirglielo, perché non era qualcosa che poteva tenergli segreto.
    Due figli, due gemelli. Non era qualcosa che poteva evitare. Ogni volta che li guardava in qualche modo le sembrava che tutto andava al suo posto, che quel continuo perdersi e ritrovarsi, quel cammino sinusoidale in cui loro due si muovevano aveva una costante, un momento in cui si incontravano, le loro vite si incrociavano e lasciavano impronte indelebili come quelle.
    Il suono del tocco sulla porta interruppe quei pensieri, mentre un battito saltava nel suo cuore e Alaska attratta dal rumore guardava la porta incuriosita esprimendo con vaghi suoni il suo desiderio di sapere chi fosse. Aleksandra lo sapeva chi era e mentre da un lato voleva con tutto il suo corpo che oltre quella massiccia porta di legno scuro ci fosse Errol, dall’altra parte non sapeva effettivamente cosa dire.
    “Eh si, ho avuto due figli mentre sei andato via. Si sono tuoi”
    Prese un respiro avvicinandosi, perché non voleva che altri tocchi sul legno svegliassero Nikolaj, già inquieto dalla mattina. Spostò Alaska a sinistra mentre apriva la porta così che inizialmente la bambina non si vedesse, perché in qualche modo voleva che quel primo momento in cui i suoi occhia avessero scorto la sua immagine fosse suo soltanto. Era cambiato, era diverso, il suo viso invecchiato di due anni, ma quella più diversa di tutte era lei, trasformata dalla maternità.
    Le sue labbra si distesero in un sorriso, vago e incerto inizialmente, per poi apparire più ampio dopo qualche momento. Inclinò la testa, Sei tornato… annuì la ragazza. Avrebbe voluto chiedere per quanto, ma era certa che queste domande era meglio non porle ad Errol. Si fece da parte allontanandosi appena così che lui entrasse e vedesse da solo cosa era cambiato. Lei abbassò lo sguardo su Alaska, totalmente focalizzata sulla figura maschile appena entrata, la scrutava e la guardava intensamente. Guardò la madre e poi quello che non sapeva essere suo padre, ma doveva sentire qualcosa, perché sorrise tendendo una mano verso il nuovo arrivato e aprendola e chiudendola concedeva il suo saluto. Lei è Alaska, saluta da brava. Lui è Errol, è….un amico della mamma spiegò alla bambina, neppure due anni e già tanto capace di comprendere che in quella leggera sfumatura c’era molto di più. Come stai…quando….quando sei tornato? domandò avvicinandosi di qualche passo appena, mentre il desiderio di toccare per attimo il suo braccio e sapere se era reale si faceva così forte.
    Ti vuoi sedere… indicò la poltrona che era accanto alla finestra, lei si sarebbe poggiata su quella che era accanto al letto anche per guardare Nikolaj. Lo so…che hai delle domande…anche sul perché io mi sia spinta fino a qui...
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    Il primo pensiero, fu sul perché sentisse di nascondermi qualcosa che dovevo sapere, perché appena ero tornato avevo avuto Nimone nella mia mente. Ma lei lo nascondeva. Dalla porta, potevo vedere le sue braccia piegate sotto un peso che non era troppo, reggere qualcosa che immaginavo essere uno dei due bambini dietro la porta.
    La parte che non sapevo, era se fossero i miei. Nimone lo sospettava, questo non era riuscita a nascondermelo. Trovare Aleksandra lì in Alaska invece funzionava come una conferma per me.
    Ma sul momento, quello della porta che si apriva, capii quanto male potesse farmi il ritorno di una distanza che ovviamente era necessaria, per chi mi stava intorno. Anche Aleksandra, la mia costante. Era stata lì ad aspettare, senza sapere se sarei mai tornato, senza sapere chi sarebbe tornato. Troppo facile ignorare quei dubbi, ma per lei doveva essere stato esattamente l'opposto.
    Poi scoprì la bambina, e qualcosa cambiò per sempre. Lì per lì allontanò il ricordo di Hedy, divenne solo una faglia spalancata che pulsava, un dolore che mi ricordava perché fossi stato via, quanto male mi avesse fatto, quanto no, non avrei potuto dimenticarla. Ma c'era lì davanti a me una mano minuscola che avanzava, senza saperlo mi trascinava in un altro posto da cui non avrei mai fatto ritorno, uno più bello.
    Troppo per un unico momento. Mi si inumidirono gli occhi ancor prima di realizzare cosa avesse detto Aleksandra, in quello stato distrutto e a pezzi che iniziava a sanarsi toccando le dita di quella bambina, quelle che si stringevano alle mie, così deboli e così salde insieme.
    Poi però mi resi conto di quello che aveva detto. «Un amico?» non riuscì a frenare quella domanda, sbottai con tanta ingenuità da far trasparire la paura del tono più di ogni altra cosa. Aleksandra, lei avrebbe avuto tutte le ragioni per definirmi amico e non molto altro, alcune ragioni nemmeno le conosceva perché radicavano in due anni di assenza, in quel qualcosa che mi ero lasciato dietro. Ma per quella bambino, se ero solo un amico di sua madre, significava che non ero altro. Che mi ero sbagliato, senza accorgermi di quanto fossero precipitate le mie speranze, all'inizio solo sospetti, ma poi si erano addensati, fortificati, avevano assunto un peso, erano diventati un sogno struggente che tuttavia aveva in sé quella calma che non pensavo avrei avuto mai.
    Un'altra domanda. Credevo di aver risposto, avevo programmato di dire bene e ieri, ma dalla bocca uscì appena un mugugno confuso che non voleva dire assolutamente niente. Né bene, che diventava una menzogna; né ieri, che diventava un tempo insignificante. Già solo in pochi secondi mi sembrava ne fosse passato uno molto più lungo, quasi infinito.
    Riuscii ad annuire a quella terza domanda, aspettando in modo impacciato che lei si scostasse dalla porta per farmi spazio. In quello stato, sarebbe stato facile non vivisezionare con gli occhi la stanza dove ci trovavamo, ma qualcosa attirò fin troppo i miei occhi. Dettagli della vita di quella bambina, non ero riuscito a non guardarli, non imprimerli a fuoco su quella ferita così fresca, la rottura di quelle speranze ingenue, e fu quel saltare da una cosa all'altra a portarmi lì dove c'era un'altra creatura, piccola come tre pugni messi uno sull'altro.
    Sentii il cuore precipitare. Nimone mi aveva detto che era stata incinta, che si era allontanata per partorire. Aveva lasciato un velo di mistero su tutto il resto, per permettere ad Aleksandra di parlarmene come voleva. E io non riuscivo a staccare gli occhi da quell'altro bambino, lì tranquillo, che dormiva, e mi faceva pensare a come si potesse star tranquilli in un rifugio senza accorgersi della tempesta di neve che imperversa fuori.
    Mi sedetti sulla poltrona accanto la finestra, una posizione scomoda, appena sulla punta per tenere le braccia giunte dalle mani sulle gambe tese. Tanto qualsiasi posizione mi avrebbe fatto sentire fuori posto.
    Fuori dalla vita che si era creata Aleksandra, tanto fuori perché avevamo avuto quell'addio. Due anni di lontananza possono sparire in un attimo per chi si ritrova, ma il nostro addio aveva toni definitivi. Li aveva dovuti avere per forza, perché non sapevamo se sarei tornato, chi sarei stato. Mentre lei mi attendeva qui, io sarei potuto essere solo un ragazzo che nemmeno l'aveva conosciuta, sarebbe stato diverso l'ammontare di nostalgia. Era stato definito senza avere parole di fine. Quella l'avrebbe decretata il caso che mi cambia, ma era inevitabile non prepararsi a quell'eventualità. Soprattutto per Aleksandra. Lei era abituata ad andare avanti, non lasciare a stagnare le possibilità.
    Ora arrivava il tempo delle spiegazioni. Le mie, sarebbero dovute essere più urgenti delle sue. Non potevo certo incolparla di quel modo in cui era andata avanti, solo lodarla. Ma prima di scivolare in qualsiasi scusa si rendesse necessaria, sentivo che quel peso lo dovevo verbalizzare per non farlo affondare solo più a fondo. «Scusa, io... credevo fossero miei» lo credevo, di entrambi a questo punto. E proprio in quel momento guardai di nuovo l'altro bambino, e mi si strinse di nuovo il cuore. «Lui come si chiama?».


    Edited by tippete - 18/12/2023, 13:06
     
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    E
    ra così strano vederlo lì davanti a lei, ancora lui. Ancora l'uomo che era quando si erano detti addio. Era stato il momento più doloroso, come se improvvisamente quella retta costante che erano stati si fosse spezzata improvvisamente. Aveva avuto ragione però. Non sapeva affatto quando e se sarebbe tornato. Eppure lei lo aveva aspettato a dispetto di tutto. A dispetto di quando lui le ricordava che non sapeva esattamente dove la sua vita lo avrebbe condotto. Eppure lei si era resa conto di amarlo anni prima, un amore che a questo punto andava oltre ogni logica comprensione del tempo.
    Potevano essere anche passati quasi due anni, ma la sola vista di Errol la spingeva a muoversi inesorabilmente verso di lui, costantemente. Come in quel momento dove le sue mani stringevano Alaska ma solo per non stringere lui, toccare lui. Erano passati due anni, ma il suo volto ancora era capace di raccontarle i suoi pensieri.
    Come quelli a cui diede voce quando sbottò alla parola amico e per cui Aleksandra lo guardò sorpreso. Lui che non faceva facilmente intendere cosa provasse.
    E poi le parole successive che le strinsero lo stomaco in una morsa, mentre le veniva il desiderio di urlare, perché in quei due anni dove avrebbe avuto più bisogno di lui, lui non c'era stato. Era stato così lontano non solo con il corpo ma anche con il cuore. Perché non poteva sapere che relazioni avesse intrecciato in quel lasso di tempo.
    Però lasciare che lui pensasse che lei fosse andata avanti, non era certa di volerlo fare. Sebbene il pensiero che lui fosse geloso poteva farla sorridere. E forse avrebbe dovuto, ma era troppo il desiderio che aveva nello stare con lui che non avrebbe percorso la via del masochismo.
    Decise di rispondere dapprima alla seconda domanda. Nikolaj... non ci fu bisogno di spiegare il perché. Errol sapeva di suo padre. Scosse il capo mentre si abbassava a guardare il viso del bambino. Possibile che non notasse la somiglianza. Sono nati 8 mesi dopo che dei partito gli confidò lasciando che fosse la sua mente a fare i calcoli su come fosse poco probabile che fossero di qualcun'altro. Poi concesse qualche momento di gioco con Alaska. Prima la mamma ha detto amico, si è sbagliata. Vedi è una persona molto più importante...per me e per te. Lui è il tuo папа (papa) e quella era una parola comprensibile in qualunque lingua. Guardò Errol sulle ultime sillabe e poi Alaska incominciò a ripetere la parola in continuazione in un crescendo di папа папа папа e di Да (da) e affermazioni che avrebbero fatto ridere chiunque.
    Potevo offendermi alla tua idea che fossero di altri. gli confidò guardandolo con un sorrisino che sapeva di sfida. E forse avrei dovuto fartelo credere...ma è da quando sei entrato da quella porta che il mio cervello ha smesso di ragionare, quindi sii comprensivo gli disse sincera, mentre i suoi occhi e le sue labbra non facevano altro che pregare per un bacio. Ma c'erano i bambini, forse era il caso di aspettare o forse no. Ho lasciato New York perché quando sarebbe diventato evidente, non volevano che girassero voci. Tu non c'eri e quindi ho deciso di venire qui. Mi sembrava il posto più giusto per farli nascere. si abbassò a guardare il viso di Alaska che era sul punto di addormentarsi. E le venne spontaneo. Vuoi tenerla tu, deve addormentarsi glielo chiese alzandosi e spsotandosi verso di lui. Tranquillo non si rompe... lo rassicurò, perché lei aveva avuto lo stesso timore, mentre le prime volte badava a loro da sola.
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    Nikolaj. Mi ripetei quel nome nella mente, un nome che era più di Aleksandra, ovvio il collegamento. Un nome che non poteva avere altra madre che lei. Come di Alaska avevo pensato qualcosa di simile, mentre mi dicevo senza dubbio alcuno che doveva essere mia.
    Mi dicevo che non ho mai avuto famiglia da condividere, persino i loro nomi ho lasciato appassissero nel silenzio.
    Onesto e limpido su ogni cosa, su tutto quello in cui potevo esserlo, mi è sempre sembrato il minimo. Tranne che su quei punti che nella mia vita mi hanno fatto provare un dolore difficilmente incasellabile. Uno che non ha smesso di avere un peso su cui passare oltre è diventato semplice solo per quell'oblio.
    Stavo per dirle che anche Nikolaj aveva di lei qualcosa di così ovvio. Non solo nel nome, ma nei lineamenti, alcuni sembravano averla rifatta bambina solo per essere portati da un'altra anima. Un commento che mi si spezzò in gola, mentre Aleksandra continuava a parlare.
    Non credo che sarò mai in grado di descrivere quella sensazione. La differenza.
    Mi sentivo già così sensibile che qualunque parola avrebbe avuto il doppio dell'effetto, il doppio del peso, ma quelle, di parole, sarebbero state triplicate in ogni caso. Mi voltai verso Aleksandra lentamente, lasciando solo momentaneamente Nikolaj con gli occhi. Li posai su Alaska, su Aleksandra, su loro due insieme, sugli occhi di lei che guardavano me e mi chiamavano in causa persino più di quello che diceva. Mi faceva sentire parte di qualcosa di insperato.
    Scoprire di avere dei figli dopo che la preparazione mentale a cui mi ero sottoposto era stata annientata, mi paralizzò. Non stavo pensando a quanto insperato fosse, quanto non avessi mai pensato di poter avere figli, neanche ero arrivato a interrogarmi sul destino che avrei fatto patire loro, persino peggiore di quello che avrebbe affrontato qualunque persona che mi fosse stata accanto, tenendo a me in un modo o in un altro. Non importava il modo. Chiunque mi avesse voluto bene sarebbe stato accomunato dalla stessa tragedia. Dall'estraneità che prima o poi sarebbe arrivata dai miei occhi.
    Ma in quel momento non pensavo a niente di tutto ciò. Montava in me un terrore diverso, quello di un sentimento troppo grande per poter trovare spazio in un solo momento. Qualcosa di gigantesco, che ristrutturava completamente la mia vita. Un motivo per cui avrei fatto di tutto per capire la mia condizione e fermarla, non appena fossi riuscito a pormi il problema. Un motivo anche solo per tremare, in quel breve momento che invece si distendeva in modo infinito, e che aveva il peso del marmo, di una realtà che non riusciva a essere contenuta nei suoi soli confini. Assolutamente spaventoso.
    Aleksandra aveva scelto il posto migliore per farli venire al mondo. E io non mi resi conto di quanto quel dettaglio mi avesse commosso finché non sbottò un respiro più denso, un principio di risata che aveva però alcune fattezze gemelle al singhiozzo. Mi appoggiai alle gambe tese, mi girava la testa, il mondo diventava lucido perché lucido era il modo in cui i miei occhi lo guardavano. Passai una mano sulla bocca senza nasconderla davvero, come a sentirla per capire io che faccia avessi. Un cieco del tutto instupidito che si muoveva in un mondo vivido che lo infilzava con un moto di felicità indescrivibile.
    Anche se non avrebbero mai potuto vedere Nunaliit e le sue architravi di ghiaccio, le grotte che brillavano e non erano mai buie, i pilastri dov'era incisa la nostra storia nel ghiaccio e nella roccia, erano nati nel posto dove la mia vita era iniziata. Dove ero arrivato quando non avevo memoria, dove ero arrivato quando ero troppo piccolo, e il mio potere deve essersi manifestato in modo incontrollato strappandomi via dalla mia vera famiglia.
    Un altro verso che era un accenno di una risata quando ero troppo stonato e instupidito per ridere davvero. Quella volta me ne accorsi, grattò in gola e non mi sorprese venendo fuori diretto dalla bocca.
    «Hai fatto bene» credo che in fondo, Aleksandra avesse avuto bisogno di una rassicurazione. È sempre stata più forte di qualunque persona abbia mai calcato questa ed altre terre, così forte da imporsi come costante nella mia vita persino quando il tempo le remava contro. Così forte da riuscire a conoscermi nelle mie infinite sfaccettature, quelle necessarie, perché soprastanti una persona che era a tutti gli effetti differente.
    Così forte che in ogni tempo, non importa quanto lontano sia e mi porti, mi ha sempre ricondotto a casa. Da lei. La mia unica costante fatta di carne e di ossa e di sangue.
    Volevo stringerla meno solo di quanto avrei voluto prenderli in braccio entrambi, Alaska e Nikolaj. Non mi sentivo bloccato, ma timidamente rispettoso dei loro spazi. Uno dormiva già nella culla, l'altra sembrava più restia ad arrendersi al sonno, e stava fra le braccia di sua madre.
    Non appena Aleksandra fece per invitarmi a prenderla, la spinta a farlo fu così forte che non ci fu un solo secondo di ritardo fra quel permesso e il mio tendere le braccia in modo tremante ma fermo, per accogliere quella piccola creatura. Non appena le mani toccarono il tessuto del pigiama, così piccolo, lei, così piccola, vulnerabile e meravigliosamente reale, cominciai a sorridere senza riuscire a smettere. Il mio sguardo ancora più lucido e sfocato, ma determinato nel guardare i suoi tratti e fissarmeli in memoria uno per uno. Qualcosa che più di ogni altra non avrei mai voluto dimenticare. E sarebbe stata la prima cosa, dopo averla accolta nella mia vita, quella di collezionarne ogni istante in un ricordo che sarebbe stato impresso sulla mia pelle a favore di ogni futuro istante della mia vita.
    Attirai a me Alaska con le braccia. Le sentivo tremare come tutto il corpo, ma più forte c'era il dovere sentito come un fuoco nel sangue di essere fermo, e non farla cadere. La avvicinai piano al petto, piano le avvolsi le braccia intorno, costruendo per lei una casa nuova che avrebbe dovuto conoscere fin dal suo primo respiro, pure se così non era stato. Era già così grande che non bastavano le mie braccia a tenerla, per un attimo pensai a quanto forte dovesse essere Aleksandra per tenerli con tanta naturalezza. Ma ancora non era troppo grande da potermi stare in braccio e addormentarsi lì.
    «Ciao Alaska» non riuscivo a staccare gli occhi da lei, improvvisamente tutto il mio mondo. Mi appoggiai allo schienale della poltrona, non penso avessi mai smesso di sorridere, ma ero più concentrato sul petto dove il cuore batteva all'impazzata proprio contro la sua spalla. Tremai nel toccarle i capelli, senza avvolgerle la testa perché mi sembrava troppo, lo feci con cautela, solo dopo averla toccata abbastanza da sapere che non sarebbe accaduto nulla se non la possibilità di sapere quale consistenza avessero i suoi capelli schiacciati contro le mia dita. «Hai sentito la mamma, sono il tuo papà» sussurravo perché mi sembrava rischioso e impossibile parlare anche solo di un tono più forte, tutto così delicato e insieme immenso che mi faceva sentire minuscolo a confronto.
    «Nana» ripetei la parola che aveva usato Aleksandra, sorridendo per l'effetto che mi faceva. Ancora incapace, come sarei stato forse anche per ore, di smettere di guardarla mentre lottava e insieme si faceva vincere dal sonno.


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    uardò le emozioni scorrere come fotogrammi di un video sul suo viso, mentre la consapevolezza si faceva spazio nella sua mente, prendeva vita, forme e colori e diventava consistente. In qualche modo riusciva a riconoscere nella sua incredulità quello che aveva vissuto lei due anni prima, quando aveva scoperto di essere incinta e lui era andato via da un mese. Si era interrogata così a lungo se avesse compiuto la scelta giusta nell’intraprendere quel viaggio ed evidentemente dentro di se aveva atteso per due una sorta di approvazione da parte dell’uomo che aveva nell’aver fatto nascere i suoi figli nella terra da cui lui veniva, per dargli un legame anche se lui non era presente con loro, affinché fossero indissolubilmente legati a lui. Per questo quando lo senti pronunciare quelle parole lasciò andare una tensione impalpabile che però era dentro di lei, scorreva sotto la sua pelle da due anni, in quel periodo in cui aveva atteso ogni giorno il suo ritorno. Sperando ogni giorno nel suo ritorno, senza sapere quando sarebbe stato e come sarebbe tornato. Ogni volta poteva essere differente, poteva tornare e non essere lo stesso, aver recuperato i ricordi non significava che avrebbe recuperato subito il loro legame. In quei due anni si era chiesta chi le aveva dato la forza di continuare ad insistere, quando tutto poteva andar perso. Era giunta alla conclusione che l’amore che provava per Errol andava contro ogni costrizione di tempo e spazio, che comunque lo voleva esprimere quello non perdeva forza o intensità quando lui non c’era e con l’arrivo dei gemelli tutto si era intensificato, perché anche se lui non era lì, loro erano la prova tangibile che gli ricordava ciò che aveva e ciò che provava ogni volta che lui tornava.
    Gli sorrise mentre lasciava scivolare con dolcezza Alaska nelle sue braccia tremanti per l’emozione, ma ferme e pronte a reggere il peso che rappresentava la bimba che stava stringendo e cosa avrebbe significato d’ora in avanti. Nel trasferirle la bambina, quello fu il primo contatto che ebbero dopo due anni, come a stabilire anche fisicamente che era lì ed era vero, reale, che poteva toccarlo. Si allontanò per concedergli un momento con Alaska, perché potesse instaurare con lei quel rapporto che meritava. Sorrise sentendolo ripetere le sue stesse parole, il modo in cui lo aveva chiamato papà in russo, la lingua con cui a volte parlava ai bambini, perché voleva che la imparassero, anche se nati in America da padre americano e da madre naturalizzata, voleva che fosse chiaro che loro erano l’unione di due nazionalità, custodivano un dualismo che per molti sarebbe stato difficile capire. Si mosse per controllare Nikolaj, che però dormiva ancora tranquillamente, inconsapevole di ciò che quella giornata aveva portato loro.
    Fortunatamente erano piccoli al punto da non aver ancora avuto la razionalità di chiedere del loro papà, sarebbe stato diverso forse quando diventati grandi si fossero confrontati con la società che ancora incastrava la genitorialità nel dualismo maschio femmina. Rimase a guardare Errol dalla distanza, fotografando nella sua mente quell’immagine, perché era la prima immagine di lui con i loro figli. L’idea di scattargli una foto le venne improvvisa, forse perché lo aveva fatto con ogni piccolo momento della vita dei gemelli, accumulando ricordi perché lui potesse vederli e ora voleva che quel ricordo fosse anche per lei. Fu veloce nel prendere il telefono e immortalare il momento, per poi rimetterlo a posto. Forse dopo quando avrebbero avuto modo di parlare gli avrebbe mostrato i ricordi che lei aveva accumulato per lui così che potesse avere qualcosa da imprimere nella sua memoria.
    Lo guardò ancora qualche secondo, accumulando ogni secondo nella sua testa, disegnando i contorni di ogni attimo, consapevole quanto con lui il tempo assumesse tutti altri connotati. Li aveva lasciati tutti a lui, così che ne prendesse le misure, li vivesse e li assaporasse, perché purtroppo aveva perso tanto dei loro primi mesi, dove ogni giorno era una nuova scoperta. Eppure dopo poco non riuscì più a stare lontano da loro, da lei, ma soprattutto da lui, non ora che era tornato. E quindi si mosse silenziosamente per non rompere la magia di quel momento e si accovacciò poi accanto a lui poggiando le braccia sul bracciolo per adagiarci sopra la testa e guardare sua figlia e la sua curiosità, il modo in cui prendeva le misure di quel nuovo volto ma che in qualche modo le era familiare, anche solo a pelle. La vedeva combattere tra il sonno e il desiderio di continuare ad osservarlo e si perse nel sorriso di Errol che non accennava a smettere e a lei sembrava la cosa più bella del mondo in quel momento. E’ difficile vero? Smettere di guardarli… mormorò mentre lasciava scivolare gli sguardo sulla famiglia, per poi tornare su di lui e azzardare seppur timidamente a poggiare una mano sulla sua e restare così, mentre sentiva il palpito del suo cuore attraverso quel semplice sfioramento. Rimase in silenzio, perché era molto meglio godere con gli occhi di quei momenti che a parole.
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    Alaska stava abbandonando la bocca in un'espressione molto più rilassata, non solo distesa ma proprio indifferente a come dovesse apparire. Stava assumendo quella forma perché si stava addormentando e nient'altro poteva prevalere, o contare di più.
    In quei momenti in cui tutto sembrava scorrere più lentamente, qualcosa stava montando dentro di me. Non sono state molte le occasioni in cui sono stato padre, in cui ho potuto godere del privilegio di un tempo che si fermava, e non andava né avanti troppo veloce, né mi strappava da quel mondo.
    Sentire la voce di Aleksandra mi svegliò come da un sonno in cui ero caduto da un secolo.
    Mossi appena la testa nella sua direzione, la guardai per una frazione di secondo tornando subito da Alaska, ma in quella frazione di secondo la bocca andò a incidere un sorriso anche più profondo.
    La prova di quanto difficile fosse smettere davvero di guardarli. Anche se in quel momento era solo Alaska, sarebbe stato lo stesso con Nikolaj. Non pensavo che sarebbe stato così. Non pensavo di poter provare un'appartenenza e un affetto così immenso verso qualcuno a cui ero stato legato solo dal sangue, che non avevo mai visto, mai conosciuto. Non credevo di essere del tutto incapace di tenere conto del tempo, mentre restavo immobile in quella posizione.
    Sentii la mano di Aleksandra sfiorare la mia, timida. Quella che dall'alto si gettava a reggere contro di me le gambe di Alaska.
    Aleksandra sapeva cosa stessi provando. Lo capiva. Era una cosa che ci univa più di ogni altra. L'istinto, mi fece ruotare appena le dita, avvolgendo le sue e tenendole vicine mentre continuavo solo ad aspettare che Alaska si addormentasse.
    Anche in quello Aleksandra era stata una roccia. Dopo aver messo al mondo quei bambini da sola, dopo avermi aspettato, aver pensato a come legarli a me fin dalla nascita, in vista del momento in cui sarei tornato. Sapendo che non avrei rinunciato a loro e a questa possibilità. Sapendo che sarei tornato.
    Anche una cosa così apparentemente scontata, come l'aspettare il mio ritorno sicura che ci sarebbe stato, non era affatto scontato. Era una cosa unica. Non so cos'altro potesse scuotermi in quel momento. Troppe emozioni, per cose diverse. Una gratitudine immensa per avermi permesso di essere lì e basta.
    «Ti dispiace se resto qui ancora un po'?» ritardando il momento del nostro confronto, mio e di Aleksandra, perché sapevo quanto le dovevo. Sapevo quanto avrei voluto chiederle anche io, quante lune avrei passato a snocciolare due anni come fossero mille.
    Ma non riuscivo a staccarmi. Volevo solo restare su quella poltrona, a non fare assolutamente niente, se non tenere mia figlia tra le braccia.


    Edited by tippete - 18/12/2023, 13:06
     
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    iusciva a capire perché non riuscisse a distogliere lo sguardo da loro, come se perderli di vista anche solo per un momento avrebbe significato perdere il contatto con la realtà, perché ad un certo punto erano loro che diventavano il cardine di tutto, il centro di tutto. Non era più la gravità a tenerti ancorata alla terra, ma loro diventavano la principale forza che ti teneva aggrappata a quel mondo.
    Arpionò delicatamente le dita di Errol reggendo con lui il piccolo corpo della figlia. In quel triplice contatto c’era la ragione del tutto, il motivo per cui aveva atteso lì in quel luogo, lontano da tutto e da ogni conoscenza, sola con i bambini. Certo non era da sola nel vero senso della parola, ma aveva dovuto tenere un profilo così basso da tagliare via molti rapporti. Trattenne il respiro qualche attimo, come se anche il solo e flebile soffio di fiato che avrebbe emesso potesse in qualche modo compromettere quel equilibrio. Lasciò andare l’aria bloccata nei polmoni solo quando lui le chiese se potesse restare lì ancora un po’.
    Poteva restare quanto voleva, non voleva dirlo ad alta voce, ma lei avrebbe voluto che fosse per sempre, anche solo per il desiderio egoistico di vederlo ogni giorno.
    Resta qui quanto vuoi, quando si sarà addormentata o comincerà a pesare puoi poggiarla nella culla…io a questo punto approfitto per fare una cosa che faccio solitamente scappando e di corsa.. gli rispose prendendosi qualche secondo di pausa prima di concludere la frase, creando quella suspence inutile seppur divertente. La doccia…, perché effettivamente era solo di sera che riusciva a dedicarsi qualche minuto in più, a volte non lavava i capelli per giorni.
    Si sarebbe aspettata una sua risata davanti a quella necessità così secolare. Si alzò stringendo la sua mano, un secondo prima di lasciare la presa. Poi si chinò a baciare leggera la fronte della figlia e concedere una carezza davvero lievissima sul profilo appena ispido dalla barba di Errol. Si allontanò per prendere le cose dal cassetto, ma prima di entrare in bagno si fermò un attimo per rivolgersi all’uomo. Ci metto pochissimo, tu aspettami qui, ok? gli disse, quasi a voler confermare che lo avrebbe trovato lì, non che scomparisse di nuovo. Aveva sempre quel timore ogni volta che lui tornava o non si ricordava di lei. L’insicurezza che solitamente non traspariva mai dai suoi gesti emerse nel rapido morso che lasciò sul labbro inferiore prima di imboccare la porta del bagno e concedersi qualche momento per riprendersi e lavarsi.

    ***


    Non doveva aver impiegato molto, sebbene avesse speso qualche momento in più sotto il getto d’acqua per lavare via tutti quei pensieri e timori che avevano affollato la sua mente, compreso quello dove avrebbe dovuto crescere entrambi da sola, cosa che forse in un futuro sarebbe accaduto quando lui sarebbe scomparso di nuovo, ma era diverso sapere che però lui avrebbe trovato il modo se non di tornare da lei, di tornare da loro. Aveva speso qualche momento in più anche nel guadare il suo corpo che era indubbiamente cambiato dopo la gravidanza, nei fianchi appena più pronunciati rispetto al punto vita già sottilissimo e nel seno che ancora riportava i segni dell’allattamento. Aveva ripreso ad allenarsi poco dopo il parto recuperando la sua forma fisica ideale, ma era senza dubbio diversa nel corpo rispetto a due anni prima, un fisico cresciuto che aveva accolto la vita di altri due esseri umani.
    Ricomposta tornò nella stanza soffermandosi sull’uscio del bagno nell’osservare la scena pressoché immutata. Se non avesse saputo che Errol era vivo, avrebbe pensato che fosse una statua di sale. Si sporse per controllare Nikolaj, appena più inquieto di prima e per questo con dolcezza mosse la mano sulla sua pancia prima di prenderlo e tenerlo con delicatezza contro il petto. Il suo sonno era sempre stato più inquieto di quello di Alaska, e a quel punto richiedeva l’aiuto e la coccola della vicinanza materna. Era la prima volta che allattava davanti a lui, non che Errol fosse un’estraneo, ma cosa avrebbe pensato nel vedere il suo corpo tanto cambiato. E nel mentre si dava della stupida. Sbottonò la parte alta della canotta che indossava per poter stringere il seno tra le mani e avvicinarlo a Nikolaj che si calmo come sempre subito dopo. Alzò lo sguardo mentre stringeva il bambino tra le sue braccia per guardare Errol. Ha preso sonno? Alaska è quella che ci mette di più ma quando prende sonno non la svegli più. Nikolaj è un po’ più inquieto, si addormenta facilmente ma si sveglia almeno una volta durante il risposino. gli spiegò sottovoce mentre accarezzava la schiena del bambino con movimenti circolari e tranquillanti, si spostò con il bambino in braccio appoggiandosi all’altra poltrona libera, mentre con la mente fotografava quel momento così unico nel suo genere che sarebbe stato forse irripetibile. Così sembravano davvero una famiglia, lui che ne aveva pochi ricordi e lei che l’aveva quasi persa del tutto.
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    Con Alaska in braccio, tutto aveva quell'atmosfera seria, surreale, intangibile. Sentire Aleksandra che rivelava le sue necessità più banali non poté quindi che strapparmi una risata arrochita, dopo qualche attimo di spaesamento. Avrei dovuto pensarci, a come per lei certe azioni richiedessero uno sforzo in più, visto che nonostante il supporto di Nimone, doveva essere stata del tutto sola. In fondo neanche lo spirito avrebbe potuto essere il supporto che cercava, di cui aveva bisogno, più forse una tacita promessa del mio ritorno.
    Nonostante tutti i dubbi che ovviamente sollevasse.
    «Puoi metterci anche tanto» la voce mi uscì addolcita, non solo dal contatto di mia figlia, mia figlia, stretta addosso. Addolcita dalla familiarità che non si era spenta con Aleksandra, con quella sorpresa, con quel passaggio da una vita all'altra che all'improvviso non mi sembrava più tanto doloroso. Non penso fosse solo l'abitudine a scivolare in un presente diverso di volta in volta. Quella tenerezza, quella di uno sguardo che dichiarava quanto realmente intendessi lasciarle il tempo per prendersi cura di sé, ritrovarsi, riposarsi, quella tenerezza non poteva crearsi sull'abitudine. Doveva avere basi più salde.
    Avrei voluto poter dire, nel sentirla avvicinarsi, colto di sorpresa, che ero contento si fosse presa del tempo per lavarsi, rilassarsi, ma la verità era che fra il momento in cui era andata via a quello in cui aveva fatto nuovamente capolino, mi sembrava non ci fosse stato tempo. Nemmeno di un respiro, nemmeno uno che scorreva più lentamente.
    Aleksandra era andata in bagno e solo le guance arrossate dal tepore dell'acqua e i capelli che sembravano più leggeri lasciavano intendere come avesse portato a termine i suoi piani, tornando indietro solo quando aveva finito. Mi venne da sorridere nel vederla così agitata, nervosa, a fare i conti con una quotidianità in cui mi ero insidiato dopo neanche pochi istanti. Non avevo dimenticato però il lungo tempo passato altrove. Non avevo dimenticato quell'assenza cruenta, forzata ma anche codarda, la pazienza, la forza che aveva avuto lei in tutto quel tempo. Quella consapevolezza diventava solo il suolo più stabile su cui posava un'euforia indescrivibile che cresceva nel carpire e collezionare altri dettagli, come chi dormisse prima o meglio, chi si svegliasse di più, chi aveva più appetito. Tante piccole cose che descrivevano già i loro caratteri, li rendevano vivi, meravigliosi, e che io ancora doveva conoscere.
    «Penso si sia addormentata appena hai lasciato la stanza» doveva essere stanca, ma il loro chiacchiericcio la aveva tenuta attiva.
    Feci attenzione, nel metterla al meglio fra le braccia, tenerla ferma e muoverla il meno possibile mentre la avvicinavo al lettino. Una serie di azioni in cui infusi tutta quella dolcezza, quel rispettoso silenzio. Un ultimo sguardo mentre le tiravo su la copertina, mentre la guardavo ancora. Ero sicuro di poterlo fare in eterno.
    Ero sicuro anche di dovere ad Aleksandra una spiegazione e una storia, prima di prendere un posto che era mio per sangue, ma che non mi ero guadagnato in alcun modo. Per questo mi forzai a scostarmi, tornare sulla poltrona solo per guardare Aleksandra, adesso, e aspettare che finisse con calma. Non c'era fretta. Non sarei andato via, non dopo appena qualche minuto. Per questo potevo aspettare, guardare Aleksandra, adesso sembrava divenuta ancora più donna di prima, non per la maternità, ma per quel tempo che vedevo aveva avuto il suo effetto sull'immagine impressa nei miei ricordi. Altri dettagli da collezionare con rispetto, anche se ne ero vorace, perché in fondo Aleksandra è sempre stata la mia costante, e vederla diventare adulta, ogni giorno di più, crescere in quel modo lineare accanto a me che facevo avanti e indietro, era eponimo di quella fermezza che rappresentava per me.
    «Mangiano già cibi solidi?» una domanda di cui volevo davvero sapere la risposta, anche se mi ero detto di non approfondire il discorso, di non infiltrarmi nel quadro che lei aveva fatto con la nostra famiglia, non prima di quel colloquio che avrei dovuto avere con lei. Quella sarebbe stata l'unica domanda, concessa giusto in quel tempo in cui si teneva Nikolaj contro il seno.
    Poi, quando lo rimise a letto con la stessa dolcezza che ero sicuro di avere anche io, già sentita nel sangue come se potessi sentirla, quella somiglianza, quel legame, mi alzai per avvicinarmi a lei, un passo silenzioso dopo l'altro. Fermo solo quando le fui davanti, a scrutare come anche il volto era un po' cambiato. Nei tratti, nel tessuto della pelle, nei colori. Piccoli impercettibili cambiamenti che però testimoniavano il tempo passato, quanto poco fosse, nonostante mi sembrasse enorme. Mi venne naturale posare le dita sui capelli che le incorniciavano il viso, spostarli e rimetterli a posto con delicatezza, come a controllare che fossero asciutti, al loro posto, ricordare come si sentivano al tatto.
    «Mi sei mancata» non in quei due anni, in quel tempo lontano. Aleksandra non mi era mancata nel passato, nella vita che avevo fatto ogni giorno. L'ammontare della sua nostalgia era stato una vastità rappresa che si era espansa in solo momento, con tutta la sua imponenza. In quei pochi minuti avevo scoperto quanto peso avesse, anche se l'avevo dimenticata.
    Mi sporsi verso di lei, appoggiando le labbra sulla sua fronte, lasciando lì un bacio che fosse un solo contatto strappato alla necessità. Non mi allontanai molto neanche per parlare, appoggiai invece la mia fronte alla sua, guardando, nel modo confuso e buio che aveva la vicinanza, la punta del suo naso. «Andiamo di là. Abbiamo molto da dirci, non voglio svegliarli» e forse un po' egoisticamente volevo pure un momento, un contesto, che fosse nostro e basta, quello che mi sarebbe servito a ritrovarla e sintonizzarmi su di lei, quando lì, con Nikolaj e Alaska che si ingigantivano nella mia mente, non ne sarei mai stato in grado.


    Edited by tippete - 18/12/2023, 13:07
     
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    E
    ra un’immagine che avrebbe impresso nella sua mente, nei ricordi più intimi, tatuandola nei meandri della sua memoria. E probabilmente avrebbe fatto lo stesso anche Errol, sebbene per ragioni sicuramente più tecniche oltre che emotive. Guardò Errol sistemare Alaska e si prese il suo tempo per osservarne i movimenti, insiti di quella delicatezza normale che sia aveva nei confronti dei bambini piccoli e anche i primi tempi, quando ogni movimento ti sembrava sbagliato, quando aveva il terrore di fare qualcosa di errato. Sapeva come si sentiva e sorrise facendo appena ok con i pollici alzati visto il successo del pisolino pomeridiano.
    Sollevò lo sguardò appena sentì la sua domanda e annuì. Si hanno iniziato lo svezzamento da un po’. Prendono ancora del latte come “coccola”, ma hanno sia pranzo che cena con cibi più solidi. Certo la pastina che mangiano loro è così piccola da scomparire in un niente. rise la ragazza pensando alle stelline o ai fiorellini che erano soliti mangiare, ma avevano superato la fase della pappa di riso. Però il condimento sono sempre frullati, omogenizzati comprati o li ho fatti io comprando il pollo, il manzo o il pesce fresco… gli spiegò. Da quando erano nati loro la sua vita era dedicata ad Alaska e Nikolaj e per lo più per la Setta svolgeva compiti di ricerca e archivio, mandando avanti l’enorme sapere dell’organizzazione. Sistemò meglio Nikolaj adagiandolo nella posizione che sapeva essere quella in cui non tendeva a svegliarsi. Si mosse leggermente, portò il braccino sulla testa, volto appena il viso e il sonno riprese sereno. Sistemò anche il peluche doudou accanto a loro, era praticamente impregnato nel suo profumo avendoci dormito assieme per mesi durante la gravidanza così che avessero sempre qualcosa che sapesse di lei accanto, mentre sentiva i passi leggeri di Errol avvicinarlo sempre di più fino a quando non fu che a poco meno di un metro e alzò la testa per guardarlo in viso, ricercando le differenze con l’immagine che aveva preservato nella sua testa negli anni per non dimenticarlo, per raccontare di lui ai gemelli, descriverlo mentre li faceva addormentare. C’era qualche linea di più sul suo viso, qualche ruga che impreziosiva il viso rendendolo ai suoi occhi più bello. Aleksandra inclinò la testa in un gesto automatico sentendo la sua mano nei capelli, premendo appena contro la solidità di quel gesto inspirando e guardandolo con intensità. Alle sue parole, un leggero groppo si bloccò nella sua gola, premendo poi per uscire con delle lacrime improvvise che però si affollarono solo ad inumidire i suoi occhi. Anche tu non era certa che la voce non si fosse spezzata sull’ultima parola, mentre il ricordo dei mesi passati da sola con la sola rassicurazione di Nimone che sarebbe tornato, si ripalesava nella sua mente, ma vennero messi a tacere quando le labbra di Errol le sfiorarono la fronte e poi rimase con gli occhi chiusi contro la sua fronte percependo il respiro dell’uomo finalmente non come una mera immagine della sua testa. Annuì, perché non aveva la forza di parlare in quel momento, si trovò ad espirare soltanto. Aspetta solo un attimo gli disse mentre accendeva il monitor e prendeva la piccola webcam collegata da poter portare con sé. Così sappiamo se si svegliano aggiunse mostrandoglielo, come se volesse iniziare a condividere con lui quelle piccole cose necessarie. Aprì la porta della stanza, chiudendola piano alle sue spalle appena usciti entrambi e si diresse verso la cucina dove avrebbe potuto preparare un caffè o un tè, o qualcosa di più forte se voleva. Quando furono lì gli indicò gli sgabelli dove sedersi. Vuoi qualcosa? chiese andando poi a prendere quanto necessario e preparare qualsiasi cosa avesse richiesto e poi tornare verso di lui allungando la mano verso le sue e stringendole appena, accarezzando con cerchi concentrici i dorso delle sua mani. Si erano fatte leggermente più rugose. Chissà cosa aveva fatto, ma forse non voleva davvero saperlo. Quello che succedeva quando andava via erano momenti di una vita diversa. Quando ti sei risvegliato… gli domandò perché ricordava che ogni volta era un momento di profondo smarrimento e dolore, ritrovarsi come una tavolozza bianca. In realtà forse la domanda che voleva davvero fare era.
    Per quanto tempo resterai con me?
    Non la fece, perché lui stesso non lo sapeva, aveva pochi punti fermi nella vita e lei aveva cercato di trasformarsi in una di quelle ancore, seppure a forza. Imponendosi con la sua costante presenza, perché non ne poteva fare a meno.
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    Una webcam, certo. La guardai prenderla e per un attimo dovevo apparire confuso, perché io non avevo sviluppato quell'automatismo, a stento avevo potuto sperimentare decine di minuti attaccato a uno dei due bambini che Aleksandra aveva dato alla luce, i miei bambini, e che ci avrei messo mesi a vedere come tali fino in fondo. Era stato facile sentire un legame con loro immediato, improvviso, come se avessi sentito il richiamo del sangue battezzarmi e lasciarmi cambiato per sempre, ma era una sensazione enorme e fugace. Ci sarebbero voluti giorni e giorni anche solo per capire cosa avessi perso davvero. La quotidianità, la familiarità, la consapevolezza maldestra di cosa fare con loro in ogni momento. Non ne avrei mai avuto la certezza. E Aleksandra avrebbe dovuto insegnarmi anche quello: che non avrei mai potuto avere la certezza di cosa fare, che essere genitori non dava alcuna sicurezza, solo dubbi che lasciavano naufraghi.
    In quel momento mi limitai a sorridere per il solo fatto che mi aveva mostrato quella webcam, come a condividere con me la prima lezione da imparare, ma senza farmene una colpa. Mai lasciarli soli. Ciò che mi riesce più difficile, a volte impossibile. Ma fin da allora ho avuto la bruciante convinzione che non avrei mai smesso di tentare, pure quando il tempo, il mio tempo, si sarebbe fatto avverso.
    Seguii Aleksandra in cucina, sedendomi su uno degli sgabelli con la schiena appena un po' rigida, una posa rilassata e stanca, ben lontana a quella che mi sarei permesso di assumere in qualunque altro posto. Ma non ho mai avuto difficoltà a pensare ad Aleksandra come una casa, anche prima che lo diventasse in modo così innegabile.
    La familiarità fu così facile da ritrovare. Non appena allungò una mano verso di me fu automatico voltare la mia sul dorso, ricambiare quel contatto come se fosse un'abitudine. Anche se erano passati anni, tanti per me, se c'era stata una nuova vita di mezzo di cui dovevo rendere conto.
    «Per me niente, grazie» le risposi, sentivo molto più il bisogno di ricucire le parti sfilacciate del nostro rapporto che di qualunque altra cosa. E il contatto con Alaska mi aveva lasciato una sensazione strana, così rapito che non avrei potuto sentire la sete persino se fossi entrato lì dentro disidratato. «Sto bene così» le sorrisi, aspettando che lei si sedesse a sua volta, con o senza qualcosa da bere. In caso senza, ero già pronto a chiederle se non volesse davvero nulla, dopo la doccia sarebbe stato bello se si fosse presa ancora qualche minuto, la possibilità di riprendersi quando doveva essere stata più che impegnata durante quell'ultimo anno alle prese con due bambini, persino più di prima, quando era comunque sola con la sola compagnia di Nimone.
    Lasciai una mano rivolta verso quella di Aleksandra con il dorso, quando l'altra si stringeva alle sue dita quella le permetteva di ritrovare la familiarità tattile in modo diverso. Era arrivato il momento di affrontare quel discorso, messo fra noi come un iceberg nell'oceano.
    «Non mi sono risvegliato» le risposi subito, sapendo a cosa si riferisse. Quando diventavo un altro accadeva sempre durante il sonno, chiudevo gli occhi ed ero una versione di me, per poi aprirli e non avere idea di dove fossi. Ma non era ciò che era accaduto quella volta. Ero andato via per una missione, via in un altro tempo. «Dovevo compiere una missione segreta anche per molti dei nostri» perché riguardava un traditore, un traditore il cui eco sapevo che si era riproposto negli anni. Sapevo che aveva portato qualcuno fra noi, almeno in una versione della nostra gilda, e che era stato la rovina per una seconda volta di troppo.
    «Sono tornato indietro nel tempo» non avevo intenzione di nasconderle niente a cui non fossi strettamente vincolato, per me non comportava una violazione della segretezza. La mia fedeltà era agli Assassini, ma avevo appena imparato quanto le cose potessero essere più complicate del previsto. In fondo ero stato mandato da Hedy certo che fosse stata lei a tradirci, invece avevo scoperto che si era fidata dell'Assassino sbagliato, persino lei che diffidava di chiunque. Avevo ricollegato l'identità di quella donna che avevo già conosciuto il giorno della sua morte, e che mi aveva parlato della sua discendente. Un altro tradimento, peggiore del precedente.
    Avrei dovuto apprendere di non fidarmi neanche dei miei fratelli. Ma una lezione simile sarebbe stata la vera rovina della nostra gilda. Lo era stata, in quel tempo che ho vissuto una volta sola, e in cui Callum Yaxley aveva pagato con la morte un tradimento che non aveva commesso.
    «Credevamo di conoscere la spia che ci ha venduto ai Templari quando siamo stati quasi del tutto spazzati via, prima della rifondazione» Hedy. «Sam durante una missione ha scoperto che i Templari stanno organizzando qualcosa vicino San Diego, hanno trovato una delle nostre vecchie sedi lì. Stanno usando un cifrario appartenuto a quella spia. Forse una sua discendente è coinvolta, ma la setta non lo sa». A distanza di anni, nemmeno io lo so ancora. La discendente di Hedy che manipola nebbia e illusioni, e in più momenti ho pensato che nessun potere le si addice più di questi. Lo penso ancora oggi, che di lei ho solo questo: nebbia e illusioni.
    «Io so chi sia. Non ho ancora detto niente e non credo che lo farò a breve» sospirai, perché quello che le stavo dicendo era la cosa più vicina a un tradimento che avessi mai contemplato. Nascondere informazioni agli anziani, era impensabile allora. Ora lo è di meno, perché so che è stata la scelta giusta. Ha restituito un padre a Ji, due validi Assassini alla gilda, e un briciolo di verità in più alla nostra storia. Anche se non è ancora finita.
    Eppure il quasi tradimento che le stavo confessando e che implicitamente le faceva gravare addosso il potenziale peso della compiacenza non era tutto. Come se già non fosse abbastanza.
    «Nei prossimi mesi dovrò fare altri viaggi nel tempo. Non noterai la mia assenza, tornerò sempre nel momento in cui partirò, ma non so che effetto avrà sulla mia condizione. Potrei perdere la strada, o cambiare più spesso di quanto abbia fatto finora».
     
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    on mascherò il sospiro emesso quando le sue labbra sfiorarono la sua fronte; il tepore della sua bocca le fece mancare il fiato per qualche secondo mentre la sola vicina di Errol la faceva tremare. Non solo lui gli era mancato fisicamente, ma era la sua anima che aveva sofferto maggiormente la distanza causata dalla sua lontananza. Aveva imparato però che i motivi per cui Errol mancava potevano essere diversi, spesso dovuti ai suoi risvegli, ma dovute a cause diverse. Lasciò che si andasse a sedere prima di prendere dal termos ell''acqua calda per prepararsi una tisana. Lasciò la bustina a bagno qualche minuto prima di raggiungerlo, approfittando di quel tempo per dei respiri profondi, mentre il sangue defluendo dalla testa le causava qualche vertigine. Ora era qui, i due anni passati senza sapere dove e con chi fosse poteva lasciarli alle spalle. C'avrebbe provato.
    Lo raggiunse poggiando il monitor della webcam sul tavolino, così che fosse visibile ad entrambi, e mentre con la sinistra stringeva la sua mano, la pelle ancora calda dopo aver toccato la tazza, tendeva la destra verso di lui, sfiorando appena le falangi della sua mano e le vene appena rialzate sul dorso. Lo ascoltò in silenzio mentre le raccontava ciò che poteva dirle, mentre delle sue vicende le narrava fotogrammi e ricordi che narravano solo una parte della storia vera, celata dalla segretezza che la loro vita richiedeva. Stava contravvenendo a molto nel dirle anche solo quelle poche frasi. Il fatto che fosse tornato indietro nel tempo dava a quelle parole un retrogusto amaro. Non aveva ricominciato la sua vita, altrove, consapevole di chi fosse lei ma senza possibilità di ricongiungersi, ma aveva continuato la sua vita attuale, semplicemente in un altro tempo, con altre persone, con altre vite che si erano intrecciate alla sua. Annuì ogni tanto durante il suo racconto bevendo a piccoli il sorsi la tisana, guardando il monitor per assicurarsi che fosse tutto apposto. Notava come gli occhi di Errol a momenti alterni si poggiassero sulle figure addormentati dei bambini, acquisendo per imitazione un meccanismo naturale. Non perse le fila del discorso fino ad arrivare a rivelarle che conosceva l'identità di chi avesse compiuto il tradimento. Ciò che hai appresso nel passato è quindi stato utile. Mi fido del tuo giudizio, sono sicura che il fatto che tu stia aspettando a rivelare quanto sai abbia le sue ragioni, a volte ci sono verità che è meglio non rivelare, o comunque farlo nel modo e momento giusto e altre volte è meglio farlo poco a poco. C'è un grande potere nella verità e non c'è nessuno meglio di noi che possa capirlo lo rassicurò mentre continuava a stringere la sua mano, i suoi polpastrello sfioravano appena la pelle calda e leggermente callosa del suo palmo, ripercorrendo le linee un po' più evidenti sulla sua carne. Fece un altro cenno con il capo, segno che aveva capito. Tornerai indietro nello stesso tempo in cui sei stato adesso o....dovrai andare altrove? chiese Aleksandra guardandolo negli occhi, il capo leggermente inclinato e un sorriso leggero sulle labbra. Sapeva che c'erano parti della sua vita che non avrebbe mai conosciuto, che avrebbe avuto momenti che si infilavano nel loro vissuto e mentre lei sarebbe rimasta lì ferma come un'ancora, la costante presenza di quella linea temporale, lui avrebbe deviato dal loro percorso assieme. C'era qualcosa che ora però cominciava a preoccuparla, che le faceva rigare la fronte. Tutti questi viaggi non ti faranno nulla, essere sottoposto a questi salti continui... e lì la preoccupazione era percepibile nel tremolio della sua voce, che fermò subito dopo un respiro più profondo e un sorso caldo della tisana. Comunque non ti preoccupare noi saremo qui ad aspettarti., non era più un io, ma era diventato un noi, non era forse quello che aveva creduto di avere nella vita, una famiglia, ma in qualche modo ora lo erano. Se c'è qualcosa che posso fare me lo devi solo chiedere. Nel momento in cui le aveva raccontato tutto ciò poteva considerare che quel peso non fosse solo suo, ora era custodito nel segreto della sua mente, una mente che non era mai stata violata. E forse era su questo che Errol contava, che da Occlumante qualunque cosa lui le dicesse, sarebbe finita con lei.
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    Ricordo ancora il retrogusto dolceamaro delle parole di Aleksandra. Quanto profondamente mi sentii sollevato, perché sapevo che lei aveva capito quanto sofferta fosse stata quella decisione, perché in un momento così traballante, sapeva darmi un'immensa saggezza. Non avevo dato il nome di Nirvana Tyler agli Assassini, perché loro erano impazienti in quel momento, volevano il nome del prossimo bersaglio prima che li facesse crollare. La mia concezione del tempo era molto diversa, più che mai da quando avevo forzatamente rimosso il blocco della mia abilità, ed ero tornato indietro. Non avrei dato loro quel nome prima di sapere se fosse davvero colpevole o meno, e il tempo era un privilegio che io solo possedevo. Non avrei potuto consegnargliela quando sapevo io per primo quanto facile fosse diffidare di persone come Hedy, e giungere a conclusioni affrettate. Chi mi diceva che non sarebbe stato lo stesso con la sua discendente?
    Volevo più di tutto che fosse quella la ragione per la mia cautela. E non che significato avesse quel nome per Hedy. Un desiderio, l'ultimo, che non avevo il coraggio di portarle via.
    Dolceamaro, per l'appunto. E l'amaro arrivava come un macigno.
    Avevo passato quegli anni lontano dalla setta come un eremita. Non avevo avuto contatti con nessuno, la mia vita era stata solo la missione. Tranne che per una notte.
    Mi accorsi di stringere la mano di Aleksandra perché in quel momento quel contatto mi sembrava un tradimento. Non avrei dovuto, non prima di dirle cos'era successo. Soprattutto sentite le sue parole e che mi avrebbe aspettato, come io in quel momento ero pronto a fare con lei. Prima però quel viaggio era suonato come un addio che non avrei dovuto dare.
    «Non tornerò mai più a quel momento» sentii la mia voce bassa, ma con una convinzione ferrea. L'avevo detto anche a Hedy che non sarei mai tornato indietro. La mia vita non è mai stata laggiù, con lei. E ora nel monitor vedevo qualcosa che ancora di più avrebbe spazzato via un'eventuale indecisione.
    «Indagherò su questa ragazza, la discendente» tranquillizzava me, ma Aleksandra non sapeva ancora perché.
    Non sciolsi le dita intrecciate alle sue, ma girai il palmo perché la sua mano potesse essere in alto, più libera di districarsi qualora avesse voluto.
    «Per me sono due anni che non ti vedo» suonò nostalgico perché mi era mancata, avevo pensato a lei più spesso di quanto avrei potuto ricordare. L'avevo fatto per il lavoro, per lei, per quello che c'era tra noi prima di partire. Ma suonava anche alle mie orecchie come una giustificazione immeritata. «C'è un'altra cosa che devo dirti» cominciai, guardandola in modo più diretto, perché il minimo che potevo fare era raccogliere qualsiasi reazione, cercare di essere un sostegno perché non dovesse trattenere niente. «Sono stato con un'altra donna» un ricordo ancora vivido, perché per me era passata appena una settimana.


    Edited by tippete - 17/4/2024, 09:52
     
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    on era consapevole di star trattenendo il fiato fino a che non sentì Errol assicurarle che non sarebbe tornato indietro a quel tempo. Non sapeva neppure perché, ma c’era qualcosa che gli suggeriva che quel viaggio fosse stato diverso dagli altri, che avesse segnato in modo differente l’uomo che aveva davanti. Non ne era sicura, ma lo riusciva a leggere nei suoi occhi, che era accaduto qualcosa in quel passato che avrebbe portato con sé in qualsiasi tempo fosse andato. Lo scorgeva in fondo alle sue iridi scure, che si animavano di storie nascoste mentre le parlava. Quelle storie che aveva vissuto nei due anni che aveva passato lontano da quel mondo. La vita era fatta di momenti, dopotutto, e ne bastava anche uno per cambiare tutto o niente. Annuì in silenzio, anche solo per fargli capire che lo stava ascoltando, che non era persa nei suoi pensieri. Strinse appena la sua mano intrecciata alla sua, perché in quel momento la tangibilità del suo corpo era la sola cosa che le ricordava che ora era lì con lei, che non era la presenza fantasma che la sua mente aveva formato nella sua testa in quel periodo di assenza, che ora era lì con lei e non in qualche luogo dove la sua mente poteva rapirlo. Prenditi il tempo che serve commentò le sue parole. Hai fatto un viaggio lungo e non ha senso sprecarne i frutti a causa delle fretta. Se devi indagare ancora fallo lo rassicurò mentre le sua labbra disegnavano un sorriso. Lo percepì nel modo in cui la sua mano stringeva la sua e le sue parole le fecero scorrere un brivido lungo la schiena, mentre chiudeva gli occhi per controllarsi appena. Non era una ragazzina in preda agli ormoni, ma come aveva detto lui erano due anni che non si vedevano e in quei due anni non c'era stata una notte in cui lei non avesse pensato a lui e non avesse desiderato di averlo accanto a lei. Mi sei mancato anche tu gli disse slegando la mano dalla sua per andare ad accarezzargli il volto, ora che poteva vederlo e toccarlo, le sembrava uno spreco di tempo non farlo, non sentire sotto le sue dita il calore della sua pelle. Ed era proprio vicino ai suoi occhi, così scuri e sinceri, preoccupati da quale sarebbe stata la sua reazione, quando Errol le confessò di essere stato con un'altra donna.
    Il fiato, questa volta, davvero le si spezzò in gola, mentre la sua mente cercava razionalmente di processare la cosa. Il suo cervello cercava di tranquillizzare i suoi pensieri, perché non venisse travolta dall'ondata di disperazione che poteva facilmente scaturire dalla confessione di un tradimento. Lo guardò per un momento come se lo vedesse per la prima volta. La sua mano era ancora sul suo viso e quando se ne accorse, scosse la testa come destandosi da quel momento, facendola scivolare verso il tavolo, ripoggiandola accanto alla sua ancora aperta a palmo in su in attesa che lei la prendesse. Annuì per assorbire l'informazione, cercando di comprenderla anche dal suo punto di vista, di quella di una persona andata via due anni prima, quando il loro legame era diverso forse, sicuramente non sapevano ancora di diventare genitori. E mentre lei era cresciuta con quel pensiero, lui era stato altrove, rischiando la vita, inconsapevole. E se fosse morto nel passato senza mai conoscere i suoi figli. Non conosceva le circostanze e forse non le avrebbe mai sapute, non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederle. Voltò il capo ancora in silenzio. Non aveva ancora detto una parola da quando aveva parlato lui. Prese la sua tazza oramai fredda e si alzò per andare a riempirla di nuovo. E vicino al tavolino prese un paio di profondi respiri, stringendo il bordo del tavolo fino a far sbiancare le nocche. Si versò da bere, l'acqua calda e una bustina di tisana per rilassarsi. La portò verso di lui e tornò a sedersi, la mano si allungò di nuovo verso la sua rimanendo lì ferma immobile. E' anche per questo che hai deciso di non tornare indietro... domandò, la voce manifestava l'insicurezza che solo una dichiarazione come la sua poteva aver scaturito. Lanciò uno sguardo al baby monitor, i bambini sempre presenti nella sua testa, prima di guardarlo. Hai mai pensato...di non tornare indietro. Eri felice in quel tempo con.... non sapeva come chiamarla, non conosceva il suo nome o chi era. Non era mai stata la persona da lanciarsi in giudizi affrettati. con Lei.. decise di apostrofarla così, in modo semplice e neutrale. La mano di Errol ancora lì accanto alla sua sul tavolo, ne percepiva chiaramente il calore come un richiamo, ma aveva bisogno di qualche istante in più prima di tornare a stringerla, in una promessa di fiducia.
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    Non sapevo cosa aspettarmi nel confessarle ciò che era successo con Hedy. Quello che io avevo fatto con Hedy. Non ferirla, questo di sicuro. Ma ho sempre pensato che non fosse possibile.
    Solo non sapevo quanto. Quando me ne sono andato, ho pensato sinceramente che Aleksandra mi avrebbe messo da parte, aspettando il momento in cui sarei tornato. Ora mi rendo conto che probabilmente non sarebbe stato così neanche se non avesse messo al mondo i nostri figli. Ha sempre avuto una fedeltà particolare. Come una persona che ha continuato ad attendere che arrivasse qualcuno a cui dare quella parte di sé per sempre.
    Se solo avessi messo da parte il senso di colpa che c'è sempre fra noi, quello di costringerla a una vita che non si merita, dietro i miei salti nel vuoto, me ne sarei accorto. Ma non l'ho fatto.
    Ricordo il momento in cui ha tolto la mano dalla mia guancia. Quando si è alzata. Mi sentivo sui tizzoni ardenti. Non c'entrava niente il perdono o meno, ma sapevo che in quei gesti c'era tutta la sua sofferenza.
    Dovevo aspettare. Con lo stomaco torto e una sensazione di nausea, ma dovevo aspettare. Aspettare che prendesse una tazza. Che bevesse. Che mettesse la bustina della tisana nell'acqua bollente.
    Che bevesse.
    Un nodo allo stomaco prima che parlasse.
    Poi lo fece. Solo sentire la sua voce mi rianimò il cuore. Che poi restò teso come una corda di violino, al punto che quasi pensavo che i miei pensieri potessero avere un rumore. Sì, è anche per questo che non voglio tornare indietro. Non posso farlo perché sarebbe una scelta, e a prescindere dai bambini che ci sono oltre il monitor, questa è la mia vita. Non quella.
    Il panico quando le sentii chiedere se avessi pensato di non tornare qui, di restare laggiù con Hedy. «Neanche per un secondo» risposi senza neanche pensare, istintivamente mi sporsi anche verso di lei sulla sedia, ritraendomi solo dopo qualche istante per lasciarle il suo spazio. Tornai indietro, lasciando una mano sul bancone, la stessa su cui avevo appoggiato il peso per farmi avanti. «Non ho mai pensato di non tornare. Questo l'ho detto anche a lei dal primo momento» ero incerto sull'usare il suo nome o meno. Non dirlo me lo fece apparire quasi più spaventoso, ma allo stesso tempo non volevo darle più informazioni di quante me ne chiedesse. C'erano casi in cui sapere faceva più male e diventava indelebile, per questo avrei atteso che mi desse lei un'indicazione. «Non so dirti se ero felice. Non ero a casa. Se anche con lei fosse stato perfetto, tutto il resto non avrei potuto accettarlo. Ma in ogni caso, non ho mai immaginato la mia vita con lei».
     
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