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Nova/Den | 11 Aprile | Ufficio di Nova Bishop

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    # caiden crain
    È incredibile come anche nella merda più totale, certe cose colpiscano lo stesso. Anche se è quasi ironico, davvero, che Morgan mi stia accompagnando al Brakebills. Quasi tre anni dopo. Quasi precisi. Inquietante, ma si è anche capito che la vita ha quell’ironia un po’ del cazzo, a cui piacciono proprio cose del genere. Mettersi lì, a infilare il suo maledetto ditino nella piaga. Assurdo anche pensare come, tre anni fa, non avessimo una cazzo di neanche vaga idea di cosa stesse succedendo, e tutto quello a cui pensavamo era come trovare il Wendigo che aveva ucciso papà. Il Wendigo, ah, fa quasi ridere. Neanche quella storia era così semplice, perché sia mai, Grande Spirito, Dio o chiunque, che una cosa, una, possa essere facile. Neanche reggere le battute di Morgan senza alzare gli occhi al cielo è facile, ma per amor di cronaca, ci ho provato il più a lungo possibile. Non dirò che penso anche che sotto sotto, è un modo perché questa cosa, è strana anche per lui. Possiamo cestinarla nelle cose da non dire, non pensare, non menzionare. Ma è strano, cazzo, strano forte. Un po’, mi sembra di star letteralmente rivivendo tutto al contrario, come se avessimo riavvolto il nastro e stessimo tornando passo dietro passo all’inizio. Ma è un pensiero del cazzo, e mi fa venire il giramento di stomaco. Non aiuta pensare cos’è che sto andando a fare, e ad essere onesto, sono anche ancora un po’ incazzato per tutta questa storia. Posso dire che sinceramente, Nova era l’ultima persona al mondo che volevo coinvolgere in questa storia, fin dal maledetto inizio. Non che sia servito, ovviamente, ma a maggior ragione, a maggior ragione è difficile. Il problema, nell’avere a che fare con lei, è che so che le basta vedermi per capire quanto male, davvero male, sono andate le cose. Quanto sono stato capace di mandare a puttane tutto in soli tre anni. Soli tre anni, non sembrano neanche così tanti, detta così. Sarà che in fondo non sono davvero solo tre, o sarà anche che è abbastanza incredibile rendersi conto di quanto si può sbagliare, in così poco tempo. L’ultima volta che l’ho vista, Edie e Morgan stavano inaugurando l’infermeria, e anche quello sembra una vita fa. Non li faccio i conti, mi farebbe probabilmente solo venire la nausea. Invece, me ne resto un po’ a fissare da fuori il Brakebills. Terra di sogni del cazzo e idee ancora più di merda, le mie se non altro. Il luogo simbolo di quanto posso essere un testardo idiota, quando mi ci metto. E di quanto già di mio, abbia palesemente poche capacità di controllo su me stesso, o forse pure troppe, ma per le cose sbagliate. Lo trovo perfetto, a dirla tutta. Come un contrappasso messo qui, in bella vista. Il fatto di non poter portare armi, in questo maledetto posto, è solo un altro motivo per provare onesto fastidio, o disagio forse è un parola migliore. La cosa è che non ci credo ancora, sinceramente, che abbiamo tutti deciso che sì, fosse proprio il caso di venire da lei a chiederle di entrare di nuovo in questa storia. Senza remore, senza mai averne neanche una, perché so anche che siamo fatti così. Siamo esattamente fatti così, e non so quanto altro Nova dovrà dare solo perché i Crain lo chiedono. Non che voglia insultarla pensando che non sia libera di scegliere quello che vuole, o abbastanza forte da reggere anche questo. È una cosa diversa. Quella cosa che vorrebbe solo che non ci fosse proprio il cazzo di bisogno, di obbligo, di esserlo, così forti. Non ho dimenticato neanche un corridoio, di questo posto. Non un angolo, una stanza, un dettaglio. È tutto schifosamente uguale a come lo ricordo. Mi sbatte in faccia troppe cose, ma faccio finta di niente. Testa bassa, sia mai che c’è ancora qualcuno che bazzicava qui anche tre anni fa. Il che, matematicamente parlando, è certo. Non ho voglia di reunion, di chiacchiere, di una lista infinita di che fine hai fatto a cui non voglio proprio rispondere. Invece, filo dritto verso l’ufficio della Professoressa Bishop, e anche questo ha un ché di strano. Stranissimo. È brutto, ma ci penso al fatto che se davvero mi fosse piaciuta questa vita, le cose sarebbero molto diverse adesso. Io lo sarei. Brutto, ma so anche che in qualsiasi momento, avrei scambiato tutto questo, qualsiasi cosa, per la vita che ho ora. Anche sapendo tutta la merda, lo avrei fatto ad occhi chiusi. Il mio posto è con mio fratello, e lo è sempre stato. Non è neanche una scelta, è istinto. È come sento che siano giuste le cose, per quanto sono sbagliate. Non c’è un altro modo, non c’è mai stato, e non ci sarà mai. Busso poggiando la spalla alla porta, anche se non aspetto davvero che risponda. Lo so che mi aspetta, e lei sa che sono io. Spingo con la spalla per aprire la porta, scivolando dentro la stanza con la faccia più di cazzo che riesca a metter su, perché come altro dovrei affrontare questa storia. È così grottesca che fa il giro, e uno può solo riderci su. «Lo so, ho un aspetto di merda» inutile dire che ovviamente non parlo davvero dell’aspetto. Scontato, e neanche solo perché è cieca e non potrebbe comunque vederlo. Richiudo la porta alle spalle, le mani ficcate nelle tasche della giacca subito dopo. «Ma sono sempre la solita testa di cazzo, questo non lo cambierà mai niente, parola di scout»
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    Ormai quando Caiden si fa sentire, è perché c’è qualcosa che è diventato grave. Si è trascinato a lungo, o è nato così, potenzialmente fatale o anche peggio. E il peggio è molto più presente della morte nella sua vita, ultimamente, da quello che so. Sempre le stesse informazioni frammentate, spizzichi e bocconi di qualcosa che non mi è mai permesso di conoscere nella sua interessa. Mai prevenire, solo tentare di curare quando è già divenuta incurabile. La parte più meschina è che se ne arrivo a conoscere una parte è perché non c’è nessun altro a cui chiedere, è già così complesso e pericoloso che sarebbe soltanto crudele sbattere i piedi e domandare qualcosa in più. Chi avrebbe il cuore di rinfacciare aiuto a un assettato quando quell’aiuto è chiesto proprio per evitare di morire di sete? Io non ce l’ho, non di fronte a lui per lo meno. E quindi eccomi di nuovo qui, ad aspettarlo con i nervi così tesi che mi sembra di sentirli oltre la pelle, vivi e pulsanti disposti lungo tutto il corpo. Mi tormento un ciuffo di capelli che scivola fuori dalla pettinatura, accanto al viso, lo rigiro e rigiro. Poi lo sento bussare e mi drizzo in piedi, ancora dietro la scrivania. Accenno solo un sorriso alle sue parole, non voglio nemmeno indagare su ciò che posso vedere nella sua aura o nella sua anima. Ferite profonde, colori scuri, legami e prigioni. Non l’ho mai fatto prima di avere il permesso e anche questo è stato meschino, vedere e non poter mai guardare. Gli indico le poltroncine poste al centro della stanza «Siediti pure» e giro intorno alla scrivania per fare lo stesso, andarmi a sedere su una delle due poltrone con le gambe incrociate e sfiorando con la mano oggetti di cui conosco l’esatta ubicazione. Inevitabile che la mia espressione sia più seria. «Non c’è bisogno che tu faccia lunghi preamboli, dimmelo e basta.»

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    # caiden crain
    Non è che non mi renda conto di quanto sia strana la situazione, però posso anche dire che ci sono cose che mi preoccupano di più, e che potrebbero renderla molto peggio. In fondo, è il motivo per cui sono qui, circa. Perché il reale motivo per cui sono qui, è che qualcuno ci sarebbe venuto lo stesso, e ho pensato che sinceramente, spettasse a me. Almeno questo glielo devo, a Nova. Anche se sa davvero di una misera consolazione. Ci metto un po’ a muovermi verso già la sedia, e sento già la mancanza di una sigaretta, di qualsiasi cosa fra le dita per trovare loro qualcosa da fare. Invece, le premo contro la scrivania, il suono metallico degli anelli che ci sbatte appena sopra mentre io prendo un respiro. Non è così facile starmene qua, seduto, con la prospettiva di dirle come le cose sono andate ultimamente. Quanto sono peggiorate dall’ultima volta che le ho parlato dei casini in cui eravamo io e Morgan, o almeno, dei casini in cui ero stato io. Poi, è andata peggio. Penso che una come lei se lo possa tranquillamente aspettare che sia andata peggio, e penso che sappia anche che si tratta di questo. Sembra davvero che i Crain abbiano preso ad andare su una strada a strapiombo da quando è morta mamma. Come se da lì ci si fosse rotto qualcosa, e non avessimo più capito quand’era il momento di fermarsi. Io so di non saperlo, ormai è una cosa che accetto. Per quanto possa parlare, dire una cosa o l’altra, ho la terribile certezza che se dovessi risaltare lungo quegli stessi dirupi, per Morgan lo farei di nuovo, anche se adesso saprei sempre a cos’è che vado incontro. Non so se sia una roba da matti, o qualcosa di diverso, neanche importa più di tanto. Abbasso lo sguardo, prendendo a fissare le dita che neanche so quando, hanno iniziato a giocare con uno degli anelli, rigirandolo contro la falange mentre da sotto il tavolo, la gamba batte appena contro un tempo inesistente. Non è mai facile, mettersi a spiegare certe cose. Non lo sarebbe comunque, quando è così ovvio in quanti punti abbia sbagliato e quanto lo abbia fatto, lo è ancora di meno perché ci sono altri milioni di cose che ronzano in testa, e lo fanno da sempre. È solo un po’ peggio adesso. Solo un po’ più brutto. Un po’ più pressante. Alzo le spalle, come se potessi davvero scrollarmelo di dosso. Ovvio, non posso, ma non importa. I lunghi preamboli sono una cosa in cui vado forte, quando non voglio arrivare al punto. Oggi non vorrei neanche sfiorarlo, anche se sono qui per questo. Mi preme un respiro sulle labbra, lo lascio andare con uno sbuffo pesante. Non saprei neanche da dove iniziare. Come iniziare. Cosa mettere in mezzo per primo, se andare direttamente alla situazione finale, quella del disastroso habitat della mia testa. «Okay» serve più a me che a lei, e per un secondo alzo lo sguardo per guardarla appena. Ma non sono il tipo da dire certe cose guardando in faccia qualcosa. A dirla tutta, non sono proprio il tipo da dire certe cose. Vorrei dirle che mi dispiace, ma non lo faccio. Ancora peggio dell’ultima volta, penso che davvero adesso avrebbe poco senso, o nessuno e basta. Ormai inizia a sembrare un’abitudine, quella dell’andare a chiedere scusa alla gente, e non voglio neanche pensare cos’è che dice di me questo. «Cazzo è ancora più assurdo pensando di dirlo» anche se non c’è niente da ridere, sbuffo una risata. Perché sembra davvero ancora più assurdo ora che sono qui e cerco un modo carino per dirle che ho un Dio nel cervello, e che sto completamente uscendo di testa. Piego la testa di lato, concentrandomi ostinatamente contro un punto casuale della scrivania. «Penso di poter tecnicamente dire di essere posseduto» suona così male, così sbagliato. Ma, tecnicamente, è proprio così. Il concetto è quello. «Da un pezzo, un frammento, chiamalo come vuoi. E non posso-» finisco a premermi una mano in faccia. Non è neanche questa la parte peggiore, la parte peggiore e il cosa vive nella mia testa. Lo so, è quella più difficile da tirare fuori. A forza, trascinandola dal fondo della gola, dei polmoni, fino alla bocca. Non posso tirarlo via perché è un Dio, e io sono stato così stupido da dire . Questo dovrei dire, che è già brutta di suo, senza neanche aggiungere quale Dio è, o perché io abbia detto sì, sai cosa, mi sembra proprio una grande idea, Sameanr. Non dovrei fare ironia adesso, ma è più forte di me. Sembra davvero così ovviamente una cosa stupida da fare, perché lo è. «È un Dio. Neanche uno di quelli simpatici, se ne esistono di quelli simpatici. Credo di no onestamente, mi sembrano un po’ tutti dito nel culo. Però probabilmente ne esistono di meno bastardi, questo sì. Lo spero, se non altro, altrimenti mi sa davvero di bella fregatura» lo so che ho preso a parlare più veloce, che ho preso ad andare oltre, cercare di saltare via da quell’unico punto che onestamente, mi fa solo vergognare. Di me, ovvio. Di quello che ho fatto. Di quanto abbia davvero buttato merda su di me, mio fratello, la mia famiglia. Suo Cacciatori in generale. Però alla fine decido di restarmene zitto, continuando a fissare quello stesso punto della scrivania.
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    Posseduto da un dio. Ironico, e infatti lo sento sorgere un sorriso nervoso sulla punta di un angolo. Ironico perché io ugualmente sono il vascello di un dio, e sono certa che Caiden l’abbia fatto per la stessa mia motivazione. Proteggere la famiglia. Però la mia è una dea dimenticata, una dea che non ha forza e una dea con cui ho siglato un patto, anche se convivo con quella perenne sensazione di avere dentro un mostro vorace che mi voglia divorare dall’interno. Per lui non so come sia. Immagino diverso. Immagino anche chi sia, questo dio, perché, sempre ironicamente, so alcune cose di Caiden che nemmeno lui sa e so con chi ha avuto a che fare. Con quali sfere ancestrali si è scontrato e di quali ha subito l’ira. Ma non ne posso essere sicura. «Okay» più un sospiro che una parola, una mano va a premere il polpastrello dell’indice contro l’inizio del setto nasale. C’erano poche cose, dopotutto, che poteva raggiungere dopo il punto a cui è arrivato. C’era poco ancora dopo quel limite che aveva valicato. Non poteva che essere qualcosa del genere. E anche se dubito che l’abbia voluto, allo stesso modo posso dire, questa volta con certezza, che molte cose che Caiden ha fatto in questi ultimi anni, non siano state volute. «Immagino tu voglia cacciarlo via.» Raddrizzo il collo per puntare il volto verso di lui. Sono più informata di quanto immagina a riguardo, perché interessava a me per prima, qualcosa su cui sto lavorando e studiando da ormai più di un anno senza dire niente a nessuno, a parte Chester. Il problema, nel mio caso, è che è stato un patto accettato a portarmi ad avere una dea dentro di me. «Dalla letteratura scientifica a riguardo emerge che non ci sono casi documentati di due anime che sono convissute nello stesso corpo in equilibrio molto a lungo, in sostanza una prende il sopravvento prima o poi. Con un dio questo processo è ancora più veloce. Dipende da quanto questo dio è potente, se ha molti fedeli e così via, considerando che è pure solo un frammento della sua energia allora sarà ancora più lento, ma comunque è questo quello che sta succedendo.» Mi siedo meglio sulla poltroncina, premendo ora entrambi le mani sui braccioli. «Entra in gioco la forza di volontà e altre dinamiche psicologiche, più gli lasci terreno, più lui se lo prende.» Un sorriso amaro sgorga dalle labbra ma è sfuggente, rapido a nascondersi di nuovo dietro la pelle. «Non ti so dire se ci sono casi di persone che hanno espulso un dio con la sola forza di volontà, ma non lo reputo impossibile, di logica potrebbe essere fattibile. Ovvio che esistono altri metodi, anche se sono tutti molto difficili e sperimentali. Dipende da quanto si è innestato, se ha cercato di fondersi con le tue energie, se c’è una situazione di connubio energetico oppure è più un parassita, oppure una simbiosi. Sarebbe importante capire come si alimenta per capire come funziona questa possessione. Se questo frammento prende energia da te, e dipende da come la prende, sarà parassitario o simbiotico. Se invece arriva dall’esterno, significa che tiene aperto un collegamento con l’altra parte di sè, e potrebbe essere pericoloso, perché potrebbe significare che si sta spostando sempre di più dentro di te.» In fondo siamo entrambi fortunati. La mia è dimenticata, il suo è solo un pezzo. «In base a questo comunque si potrebbero provare due strade. Una, nel caso sia parassitario, sarebbe di potenziare le tue energie e spingerle a una sorta di reazione immunitaria che respinga naturalmente il parassita, forzando un’espulsione naturale. Oppure, nel caso abbia un collegamento aperto, si potrebbe provare a chiuderlo così da far deperire quel frammento non essendo più alimentato. In quel caso c’è il rischio che si attacchi alla tua energia, però. O ancora, si potrebbe forzare l’inversione di processo facendolo uscire e poi chiudere il collegamento.» E concludo con un altro fulmineo sorriso, impregnato dello stesso tratto di nervosismo. «Sono cose che mi sono venute così su due piedi, avrei bisogno di pensarci e avere anche più informazioni per darti una risposta più completa.»

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    # caiden crain
    Ad un certo punto devo aver alzato lo sguardo da quel punto inutile del cazzo, e averlo ficcato su di lei. Non so esattamente cos’è che mi aspettassi da lei. Il mio rapporto con Nova è sempre stato incredibilmente complesso, come del resto un buon novanta percento dei miei rapporti in generale, ma questa è un’altra storia. Alla fine, lo so che adesso, qui, non sono poi molto diverso da uno qualsiasi di noi che viene a chiederle qualcosa. La prima parola che mi viene in mente è asettico, ma alla fine non mi sembra davvero quella più adatta. Non mi sembra neanche giusto pensarlo, ad essere onesto. Però questa è una cosa che ormai fa parte della mia vita, un’abitudine pensare che è ingiusto quello che penso. Se ha senso fuori dalla mia testa non lo so, dentro lo ha eccome. Finisco con la schiena più indietro, le mani che si alzano dalla scrivania e finiscono a premermi in faccia. Probabilmente direbbero che semplicemente, non mi va mai bene niente, e avrebbero anche ragione. Se fosse stato diverso, questo, neanche quello mi sarebbe andato bene. Penso che il punto, sia che neanche io so cos’è che cazzo voglio dalle cose, le persone, non so com’è che vogliono che mi trattino. Come dire a Morgan di non trattarmi da bambino, e poi comportarmi da bambino. Quel tipo di controsenso lì, di nonsense lì. Che è un po’ come dire io, non mi stupisco in fondo di avere così tanti problemi. Sono io il primo stronzo di ogni mia situazione del cazzo. Cerco di concentrarmi di più su quello che dice, solo che anche quello non è bello. Non lo è per niente. Non che mi aspettassi che mi dicesse, ma no tranquillo Den che è una sciocchezza, solo che è sempre diverso sentirselo dire così chiaramente. In fondo, avevo già paura che mi stesse divorando. In fondo, avevo già paura che stesse prendendo il mio posto, e che mi stesse sfilettando pensiero per pensiero. «Fantastico» che non vuol dire proprio niente, ma dopo qualche secondo che ha smesso di parlare, ho sentito più che altro la necessità di riempirmi la bocca di qualcosa, qualsiasi cosa. Lascio cadere le mani in basso, sulle gambe, un tonfo sordo mentre punto giù anche gli occhi e prendo a fissare i jeans, senza aspettarmi di trovarci proprio un cazzo lì. Informazioni in più potrebbe voler dire di tutto. Potrebbe voler dire circostanze specifiche di come o perché questa cosa del cazzo è successa. Potrebbe voler dire guardarla e dirle che sì, sono proprio così coglione. Alla fine, fantastico mi sembra davvero la cosa più appropriata da dire. Anche se poi me ne reso ancora un po’ zitto, a fissare i jeans. «Non so se sia parassitario o cosa, ad essere onesto, non so praticamente un cazzo di questa situazione» il che, lo so, sembra ridicolo. Ci convivo da mesi, e non so proprio un cazzo. Non ho neanche fatto niente per sapere quel qualcosa di più. Sarebbe bello se potesse semplicemente dirmi fai questa cosa, e sarà tutto finito. Ma non è mai così. E sa sempre tutto di qualcosa di strano. Come se anche il mio corpo fosse qualcosa di estraneo, in cui abitare per un po’, ma chi sa più ormai quanto bene. Non troppo, forse. Non ne ho idea, ad essere onesto. E non è solo Samenar, è tutto. Lascio andare un respiro, penso di nuovo che vorrei una sigaretta, ma penso anche che non sia il caso. Invece, mi muovo confusamente per sfilarmi la giacca di dosso, lasciandola infilata fra me e lo schienale. «Sinceramente, non so neanche cosa ti possa servire sapere. Non è una bella storia, Nova, al contrario» mi allungo di nuovo sulla scrivania, un gomito che ci si poggia mentre la mano arriva a stringersi appena contro la bocca, l’altro avambraccio premuto sul ripiano. Non le chiederò di non dirlo a nessuno, e non è perché abbiamo passato quello che abbiamo passato, non è per lo stesso motivo che mi rende così difficile guardarla a lungo, anche adesso. È per quello che rappresenta, sopra tutto. È per come funzionano certe cose. «Posso dirti che sono in questa situazione da... un po’. Un anno» sembra strano da dire anche questo. Premo un po’ di più la mano contro la bocca. «Non è che... non è che mi posso accendere una sigaretta?»
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    Non riesco a essere arrabbiata con Caiden per tutto il silenzio e le scelte di esclusione, per quell’angolo in cui mi ha relegata senza sapere. Lo capisco. Ci sono cose che richiedono troppi sacrifici per essere affrontate, quello con cui si sono scontrati loro è una di queste. Sirthareth, Samenar e i suoi soldati, quella storia di cui possiedo soltanto pezzi sparsi. L’ho capito subito, e ne sono stata più certa poco prima di chiedere a Chester di lasciar perdere. Anche Caiden lo sapeva, solo che lui non me l’ha chiesto, l’ha deciso. Se avessi potuto decidere per Chester, avrei deciso anche io, allo stesso identico modo. È la parte marcia dell’amore. Dopotutto, tutti noi siamo cresciuti nel marcio. «Va bene» e allungo la mano verso il cassetto della scrivania per prendere anche io il mio pacchetto, accendendomene una a mia volta. Tiro fuori dal cassetto anche un posacenere per poggiarlo al centro della scrivania. «Bisognerebbe fare delle analisi, non posso dirti granché senza sapere esattamente come funziona.» Ricalco questo passaggio, che immagino abbia ignorato volutamente, altrimenti mi avrebbe detto di procedere con le analisi. Non voglio insistere, non me lo sogno neppure, ma deve capire quali sono i passaggi obbligati per arrivare a una soluzione. «Se non che devi fare qualcosa adesso, o tra poco potrebbe essere troppo tardi. In un modo piuttosto definitivo. La tua anima è già messa molto male, Caiden. Non penso che gli serva ancora molto tempo per prendere il sopravvento e usarti come gli pare e piace.» Prendo un tiro dalla sigaretta, appena accennato, avanzo con l’altra mano a segnare i confini del posacenere per sapere dove far cadere la cenere. Niente di quello che gli sto dicendo è bello, ma non può dire di non esserselo immaginato. È assurdo che abbia fatto passare un anno, ma non mi sorprende neanche così tanto, in realtà, perché Caiden ha preso poche decisioni nella sua vita, da quello che so, e il resto è stato lasciare che le cose accadessero affogando nelle conseguenze. È la maledizione di avere un cervello bloccato nell’inerzia. Manca la forza di scegliere, e allora si lascia che le cose accadono, anche se è la fine di tutto perché in certi momenti proprio non importa che cosa sia. Il mio ruolo, però, oggi, non è di dirgli che lo capisco. «Intanto che si trova una soluzione, però, potrei improvvisare un palliativo.» Un altro tiro più rapido. «Creare una sorta di prigione nella tua testa per bloccarlo momentaneamente, con un vincolo energetico. Cercherebbe comunque di parlarti in qualche modo, ma con meno intensità, per forzarti magari a rompere il vincolo, immagino. E sarebbe solo per un po’, alla fine riuscirebbe a romperlo lui stesso con la forza ma lo depotenzierebbe anche.»

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    Infilo la mano a cercare le sigarette già rollate, infilandone una in bocca per accenderla subito. Non che serva davvero ad un cazzo, ormai non è neanche davvero un gesto che tranquillizza, o che fa qualcosa. Un vizio che sa solo di tenere le mani occupate in un gesto meccanico. Ad essere del tutto onesto, in fondo me lo merito. Questa situazione, come si comporta lei, tutto quanto. Non è che posso girarmi e dare la colpa a qualcuno per la merda che mi è piovuta addosso, me la sono tirata io contro, come ho detto a mio fratello un milione di volte. È solo colpa mia, e me lo merito. Se non si trattasse di un rischio per gli altri, oltre che per me, probabilmente lo avrei lasciato succedere e basta, anche se non so dire davvero se sia perché penso di dover pagare qualcosa, o se è perché non ce la faccio più, e so che non può essere così. Non posso sedermi e dire non ce la faccio più, queste sono quel tipo di cose che non possono esistere e basta. Sono di nuovo stanco di tutto, e non so neanche se questa volta, è una di quelle cose che sanno di tutto quello che cerco di seppellire, o se sia qualcosa di normale. Qualcosa di logico, vista questa situazione del cazzo. Non importa alla fine cos’è che dice Morgan, a guardarla oggettivamente, è proprio che ho fatto un casino immenso. A guardarla oggettivamente, è proprio che ho fatto solo cazzate una dietro l’altra. Non so quante persone ho perso in questi anni, forse tutte, e per forza, come si può avere a che fare con tutti e non far altro che dire balle dietro balle. E sì, non sono uno sincero, ma è diverso. È sempre diverso quando devo. Fossi solo io, ad andarci di mezzo, probabilmente mi denuncerei in pubblica piazza, ma non sono solo io. Il problema è sempre questo. La guardo per qualche secondo, anche questo è giusto. Alla fine, penso anche che sia meglio così, che a star appresso a me si finisce solo in quel circolo vizioso di merda. Lei è passata sotto Sirthareth per questo. Liz è morta per questo. Anche questo, a guardarlo in modo oggettivo, è parte delle cose che ho sbagliato, e non penso che nessuna buona intenzione possa giustificarlo. Premo la fronte sulla scrivania, e per forse la prima volta da quando ho a che fare con lei, penso che tanto non può vederlo. Lo faccio piano proprio per questo, per non fare rumore. È difficile pensare a qualcosa di diverso da quello, da non ce la faccio più. Come un buco nero, un tarlo che morde tutto il resto. Prendo un tiro lungo, lasciandolo andare con un respiro pesante. «Va bene» anche se vorrei dire, ma cosa cazzo va bene, Caiden. Però non è che serva a qualcosa dirlo, anzi. Penso, non importa cos’è che voglio io. Penso, siamo a questo punto proprio perché abbiamo fatto quello che volevo io. Penso, non ce la faccio più. Penso, non importa nessuna di queste cose. Qualche secondo me lo prendo zitto, la sigaretta incastrata in bocca, prima di tirarmi di nuovo su, anche quando avrei solo voglia di prenderla a testate, questa scrivania. «Per le analisi, per il palliativo, per tutto il cazzo che serve» penso, forse sarebbe meglio se a questo punto, mi odiasse. No, neanche. Penso, l’odio è qualcosa di complesso. Disprezzo, indifferenza, forse una punta di ribrezzo. Qualcuno dovrebbe. Penso, qualcuno dovrebbe proprio farlo. Non la guardo, ovviamente. Sono sempre quello che non le guarda le persone, in cose come questa. Non ho mai avuto le palle per cose del genere, e so solo riempirmi la bocca di responsabilità di qua, di là, ma alla fine sono tutte scuse del cazzo per non dire che semplicemente, sono ancora quel bambino che ha paura. Di tutto, non solo più di qualche fantasma che passa a rompermi il cazzo e si attacca, lascia un livido o due. Di tutto. «Non me lo chiedi come ci sono finito in questa situazione del cazzo?» so perché non me lo chiede, non sono stupido. Non lo fa perché adesso, qui, siamo una Bishop ed un Crain, e lei non è il tipo che fa domande. È il tipo che aiuta, si mette lì e fa anche più di quello che dovrebbe. Penso, la mia famiglia l’ha rovinata, e lei è ancora qui a non fare domande anche quando proprio lei, probabilmente avrebbe il diritto di farle tutte. Non penso che essere andato a farle quelle pietose scuse possa bastare. So che non basta. Penso, sono abbastanza stronzo da fregarmene adesso del fatto che è così che dovrebbe essere, che è giusto che lei sia una Bishop ora, e io sia un Crain. «Gli ho detto io di sì» infilo la sigaretta in bocca, e sento il tono secco in gola. Sono stanco. Non ce la faccio più. «Anche se sapevo perfettamente cos’era, e che cosa avrebbe significato» come con il Sangue, come con tutto in questa storia. Con il Sangue, però, posso dire che avevo davvero un buon proposito. Con Samenar, volevo solo che finisse tutto, e non m’importava più di come. Li ho venduti tutti, anche lei, solo perché ero stanco. Senza neanche battere troppo ciglio. «Penso che tu debbia saperlo se vuoi aiutarmi, anche se sì, certo, lo so che è una scelta che non è una scelta perché nessuno vuole un cazzo di Dio che se ne gira comodo nel mondo a fare le sue stronzate» sono io che sto facendo in modo che si tratti di me, anche quando non lo fa.
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    Resto a soppesare il silenzio per qualche secondo. Un a un dio può essere molte cose, di solito tutte orribili, devastanti, fatali. Ma mi sento anche sollevata, una parte più umana che volevo a tutti i costi nascondere sotto il tappeto. Non per ciò che sta dicendo, ma perché me l’ha detto. Forse il mio era un capriccio. Forse è così. Una distanza che imponeva altra distanza per sottolineare un offesa, difficile da digerire. In realtà sono arrabbiata con Caiden, ma non perché ha continuato a nascondermi cose e darmi solo mezze verità quando servivano a uno scopo altro. Sono arrabbiata con lui perché è sparito e ha prese a tornare soltanto quando gli serviva qualcosa da me. E sì, io avrò scelto Chester, e l’avrei scelto a prescindere, anche se avessi avuto davvero una scelta. Ma non l’ho avuta. Neanche questa. Non sono limpida, ho fatto errori anche peggiori, basta riallineare le nostre e le loro verità alla realtà. Concezioni divine in mano agli esseri umani risultano così grandi da diventare poi minuscole quando a ribollire sono problemi che sembrano più veri. Non siamo fatti per guardare all’immensità e concepirla davvero, siamo fatti per guardare una persona che amiamo e pensare che valga quanto tutto il resto del mondo, numeri, miliardi di vite che hanno il peso di una sola. Qualunque sia stata quella scelta, i motivi che l’hanno portato a dire , evidentemente valeva di più di tutto il resto, qualsiasi cosa ci fosse sulla bilancia. Che fosse davvero l’apocalisse di cui si parlava o meno. Sarebbe più semplice per entrambi se lo odiassi perché per colpa di suo padre non ho più la vista, o se per colpa delle loro diatribe con i Banditori ho consumato parte della mia anima, se per essere vicina a mia sorella quando ha deciso di andare nell’aldilà per quella profezia ho accettato di avere un dio dentro di me. Sono certa che sarebbe più semplice per entrambi. Eppure, non ci riesco. L’unica cosa che vorrei fare adesso, sarebbe alzarmi, farmi più vicina a lui, abbracciarlo, dirgli che gli esseri umani non possono fare scelte divine e che va bene così, perché è così che siamo fatti ed è secondo queste regole che l’universo si muove. Che se a qualcuno è stato mai richiesto di porsi più in alto del cosmo, allora è stato iniquo, e se è stato preteso da lui, allora è stato ingiusto. Invece, immobile con la sigaretta sospesa per aria, gli chiedo soltanto «Perché gli hai detto di sì?»

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    # caiden crain
    Neanche adesso la guardo, invece me ne resto a fissare un punto a caso della scrivania. Uno qualunque, senza neanche focalizzarmici davvero, al punto che sono solo macchie di colore spinte negli occhi. Per un po’, finché non mi premo la faccia fra le mani, la sigaretta a traballare incastrata nelle dita che sbuffa al niente, ad un respiro che alla fine non faccio mai e resta un po’ appeso in gola. I perché sono sempre le cose più difficili. Lo sono sempre state, per me. Perché fai questo, perché rompi il cazzo, perché piangi o non piangi quando ti fai male, perché è così importante avere ragione, perché ti ostini, perché molli, perché resti o te ne vai. Perché fai una cosa o l’altra, perché invece non le fai. Perché te ne stai lì fermo a fissare il soffitto. Perché hai detto di sì a Samenar quella volta. Perché scegli sempre di cedere, Caiden, cazzo. Sono cose che scavano e dove scavano ce ne sono altre, e dove ce ne sono altre ci sono valanghe che travolgono e non chiedono mai niente, non loro. Arrivano e basta, e soffocano il mondo macchiandolo, come se non esistesse più altro. E in questo momento sono solo un coglione che piange sé stesso, e si fa pena da solo, ma poi neanche tanto perché stronzo lo sono, e non provo pena per chi nella merda ci si mette da solo e poi, cosa? Non sopporta di essere perdonato. Se ci fosse mio padre mi avrebbe preso a pugni, e a questo giro, onestamente, penso che avrebbe molto più che ragione. Riprenditi, mi direbbe forse, o forse niente proprio. O forse qualcosa come non fare il bambino. O forse sarebbe così deluso da non prendersi neanche la briga di provarci più con me. E questi sono altri pensieri del cazzo, e dovrei pensare che lei questo non lo merita. La rabbia, l’odio, la frustrazione, tutto il resto indefinito che se ne sta lì a mangiarmi il cervello. Il fatto è, che ho bisogno davvero che qualcuno, chiunque, mi guardi e mi dica sì, Caiden, sì cazzo non sei più quella persona che conoscevo, e non c’è proprio niente da fare. Non puoi fare niente per riprenderla, è inutile che continui a sbatterci la testa, perché quella persona l’hai buttata al cesso per niente. Proprio per niente. Per nessun cazzo di motivo. Per trovarti solo più nella mera, per non aver comunque risolto niente, per non aver aiutato né salvato nessuno, anzi, anzi, le cose le hai solo peggiorate e alla grande. Che me lo dica che sì, Caiden, hai rovinato proprio tutto e ora cosa vuoi? Cosa cazzo te ne vuoi fare di quello che resta e non va bene lo stesso? Ma è questo quello che hai adesso, quindi smettila di fare il fottuto bambino e basta. Premo i palmi nelle orbite, con forza, prendendo un respiro dal naso e con la sigaretta ancora lì a farsi fumare dal niente. E che dovrei dirle, che alla fine non sono capace di andare in fondo alle cose, mai. Che non sono capace di alzare il culo e fare qualcosa, o definitivamente sedermi e dire ciao a tutti. Che non potevo riaverla, la mia vita, e allora non ne volevo proprio più nessuna, e non una in cui dover ancora combattere e combattere contro le stesse cose senza mai venire a capo di niente. E che a quel punto, non me ne fregava in quanti avrebbero dovuto pagare perché succedesse. Che ho fallito su tutta la linea, dall’inizio alla fine, e neanche mi merito di definirmi ancora un Cacciatore. L’ho detto, non mi ricordo più quando è stata l’ultima volta in cui, davvero, ho pensato che dovevo aiutare qualcuno. «Perché mi aveva detto che se avessi detto sì, avrebbe fatto finire tutto» ed è una cosa piuttosto letterale. Apocalisse, fine del mondo. Fine per lei, fine per Elsa, fine per tutti. Fine per me, era questo il punto. Lo sputo, prendo un respiro, scosto le mani, infilo la sigaretta in bocca. «E a me stava bene» non c’è un altro modo di metterla, dico sul serio. Uno ci può girare intorno quanto vuole, può costruirci bellissimi castelli e scenari sopra, ma non cambierà mai il nocciolo della cosa. Che è che li avrei mandati tutti all’inferno, letteralmente, se solo avesse voluto dire smettere tutto per me. «Niente di poetico, niente di complesso. Niente che possa essere un motivo valido qualsiasi del cazzo, solo questo»
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    Sembra una cosa enorme, dalle conseguenze sicuramente universali, ma in fondo non è niente di più che una persona che voleva morire e avrebbe accettato qualsiasi cosa pur di vedersi soddisfatto quel bisogno. In questo mondo devono essere davvero in pochi a non aver pensato mai, neanche una volta, di volere che finisse tutto. Io stessa l’ho pensato centinaia di volte. La differenza sta nel fatto che non avevo un dio a dirmi che se soltanto avessi detto quel , tutto sarebbe finito per davvero. È crudele pretendere da un uomo che sia inflessibile, perfetto, impavido in ogni suo momento. È impossibile che accada. È stato raccontato solo in storie di fantasia in cui gli eroi erano macchiette alla stregua di una realtà disegnata per farli vincere. Ma la vita vera non è una storia in cui tutti vincono sempre. Era un tentativo di suicidio, quello di Caiden, e non so quanti se ne siano accorti. Quanti l’abbiano letto in questo modo. Immagino sia più facile guardare all’errore, piuttosto che all’enormità del mostro che l’ha mosso come una marionetta per portarlo a gettarsi da un burrone e porre fine a tutto, ma per lui era la sua vita, non tutto. Spengo la sigaretta da cui ho preso a malapena due tiri. Allungo la mano ora libera al centro della scrivania, aperta e con il palmo rivolto verso l’alto. Non dovrei, so che non dovrei, so che è un gesto che farebbe del male a Chester. Ma penso anche che è molto più sensibile del pezzo di marmo che lo rende la sua rabbia, e in fondo lo capirebbe. Però non mi muovo più avanti, non aggiungo un altro cenno, aspetto solo che se vuole allora sia lui a fare l’altra metà. «Tutti fanno errori.» Un sorriso fugace, ne resta solo l’ombra sulle labbra. «Ti hanno messo nella situazione in cui un tuo errore avrebbe avuto effetto su tanti altri. Non volevi che finisse tutto per tutti, giusto? Volevi che finisse per te.» Questa è la differenza più importante. Non voleva essere l’artefice della fine. Non stava pensando a nessun altro se non a sè e sicuramente molti penserebbero che un uomo in quella situazione ha il dovere di pensare a tutti, ma non è un racconto mitologico. È un essere umano, e gli esseri umani subiscono il magnetismo di un letto, coperte tirate sopra la testa e l’assenza di tutto il resto. A me, in quei momenti, non importava nemmeno di mia figlia. «Penso che nessuno sulla faccia della Terra, in quei momenti, avrebbe la forza di pensare all’umanità intera.»

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    # caiden crain
    Tutti fanno errori. Ha un suono diverso, per me. Probabilmente lo ha sempre avuto, e da qualche parte ha la voce di mio padre. Per ogni volta che ho avuto paura, e deve avermi guardato per davvero come se fossi qualcosa che non andava bene, che era difettosa, non adatta a lui. Probabilmente è solo come alla fine, ho iniziato a vedere e ricordare io certe cose, ma mi resta solo questo. Come mi restano tutte le volte in cui è stato in Morgan che ho visto quando non andasse bene, quanto lo avessi deluso. Lo so che ha detto che non importa, ma per me importa. Penso a quando, da bambino, volevo solo essere alla loro altezza. Quando cadendo, facendomi male, mi sforzavo di non piangere, di tenere dentro tutto, ed essere esattamente quello che avrei dovuto essere. Ci è voluta un sacco di fatica per riuscire ad essere bravo, se mai lo sono stato. Forse molta più energia di quanta ce ne sia voluta a molti altri, perché ero un bambino che aveva troppe paure, ero un bambino troppo fragile, un bambino troppo sbagliato per essere l’erede di mio padre. Tutti fanno errori, ma io avrei dovuto compierne il meno possibile, e ora mi sembra solo di avere errori e nient’altro. Una vita costellata, riempita di quelli. Il punto, è che non posso permettermi di pensare così. Non ho mai potuto, neanche in quel momento. Proprio perché quello che girava intorno a me e Morgan era così grande, e solo noi potevamo decidere, da noi, di tutti. È sbagliato per questo, e non dovrei essere quel tipo di persona che invece, non ci pensa per niente. E resta così, perché ancora, Caiden, cos’è che vuoi? Non sopporti l’odio, il disprezzo, ma poi a startene qui seduto con qualcuno che dice he va bene, non sei contento lo stesso. Il perdono ha la sensazione di una lama infilata storta da qualche parte, non tanto a fondo da uccidere, ma solo da essere fastidiosa nelle viscere. E me ne vado in giro da un persona all’altra e alla fine è questo quello che penso di chiedere: ti prego perdonami, ma non perdonarmi. Ti prego fammela pagare in un modo impossibile, uno che ad un certo punto, mi faccia credere davvero che quello che dovevo scontare l’ho scontato. Lo so che non succederà mai, perché ci sono cose che non vengono via. E questo non verrà mai via. È ingiusto che stia qui, di fronte a lei, e che abbia la pretesa che possa darmela quella botta che non arriva mai. Perché Caiden deve essere compreso, non è colpa sua. È che funziona male, è fatto così, non puoi aspettarti di meglio. Cosa dovrebbero aspettarsi di meglio, da me? Sono quello che ha mollato, che ha mollato sempre. Sono quello che ad un certo punto, non c’è la fa. Non sono come mio padre, non sono come mio fratello. Non sono di quella pasta che anche quando è troppo, lo spazio lo trova per prendersela un’altra cosa sulle spalle. Non importa quanto vogliano che finisca, vanno avanti. Io sono quello che fissa le macchie sul soffitto, e alla fine ci crea dentro facce e mondi interi che sono diversi da questo, non quello che si alza e le cose cerca di cambiarle. Anche ora, sono qui solo perché non c’era altra scelta. Non l’ho deciso, mi ci sono trovato. Lascio andare un respiro, le mai che crollano giù, la sigaretta ancora ferma fra le dita. Penso, non merito tutto questo. Peso, sta tutto qui. Sta tutto in me che non merito questo, ma lo ho lo stesso. Penso, non è giusto. Penso, non lo è stato niente. Ho avuto un milione di seconde possibilità, e le ho buttate tutte di volta in volta. «Non importa» che nessuno ci penserebbe, perché nessuno pensa a tante cose, è per questo che esistono i Cacciatori. Ci credevo così tanto, da bambino. Eravamo noi che proteggevamo chi non poteva, o non sapeva come proteggersi da solo. Dovevamo essere noi, proprio perché nessun altro ci pensava. Adesso cos’è? Cos’è che non mi va bene come non mi va mai bene niente? Ho paura di deludere, ho paura di sbagliare ed essere un peso, ho paura di essere quello che alla fine, fine lasciato indietro. Però, voglio anche che invece, mi guardino e lo dicano, tutti quanti, che no, non va bene. Niente di quello che sono, che faccio, che penso, pretendo, dico, voglio e non voglio. Guardo la mano per qualche secondo, e penso, anche questa è una cosa che non mi merito. Ma cos’è, alla fine, che mi sono meritato mai? Ho abbandonato mio fratello quando ho avuto troppa paura, quando è stato troppo e neanche quella cazzo di luce accesa avrebbe potuto cambiare le cose. L’ho abbandonato, e ha sempre avuto ragione lui. Ancora ed ancora. Perché alla fine è così. Non si può fare affidamento su di me. Non si può e basta. Perché c’è sempre il momento in cui troppo diventa tutto, e mi giro, e non guardo più nessuno. Lo sa Morgan, lo sa Nova, lo sa Liz. Lo sapevano mio padre e mia madre. Lo sanno tutti. Che senso ha, alla fine, chiedere scusa? Nessuno. È solo una cosa che serve a me, ma nel modo in cui servono le cose impossibili. Non mi perdonerò, il punto è questo, e più lo fanno gli altri, più quel debito aumenta. Inutile, disgustoso, deludente, Caiden. Questo dovrebbero dire, ed è egoista. È egoista fin dentro il midollo pensarlo. Muovo le mani verso il suo polso, allungo di più la mano lungo la scrivania, abbastanza da premerci la fronte contro. Respiro quelle due, tre, quattro volte che servono a niente, niente e basta. Fossi quel tanto più egoista, lo pretenderei che mi odiasse. Fossi quel tanto più altruista, non avrei neanche iniziato questo discorso. Ma io sono quello che se ne sta sempre in mezzo, e non va mai davvero da un lato o dall’altro. Quando mai l’ho fatto, con lei? Mai. Avevo paura. Sempre quello. Sempre quello, quella fottuta cosa che mi mangia la testa e mi tiene fisso in un punto che non sa proprio di un cazzo. E penso, sono davvero stanco. Sul serio, ma anche quello mai abbastanza. Mai abbastanza e basta. «È quello che dovremmo fare lo stesso» e in fondo è vero. È quello che siamo stati cresciuti per fare, pensare agli altri e mai a noi. È il cazzo di senso di tutto. Penso, non fossi fatto così male, non lo avrei detto quel sì. Ma lo sono. E sono stanco di non essere giusto, per tutto questo. Penso, lui lo sapeva che non ero giusto, per questo ha scelto noi. L’uomo giusto e il traditore. Anche questo non si lava via. Quante volte ho tradito mio fratello? Troppe. Che importa cosa pensassi? Niente. Un inutile spreco di spazio, di tempo, di fatica, di impegno. Questo sono. E sto ancora qui a piangere su me stesso, ancora qui a volere e non volere le cose, indeciso, su un punto e l’altro senza mai scegliere da che lato stare. Vorrei solo cancellare tutto, prendermi a pugni così forte da dimenticare, e so quanto è sbagliato volere solo questo: dimenticare. Così che non pesi così tanto addosso. Così che non gravi così tanto. «Dovrei essere meglio di così, ma non lo sono» e non so come esserlo, è questo che mi fa ancora più paura di tutto il resto. Non mi fido di me, dei miei propositi. Non più. Forse un tempo lo facevo, adesso so solo che in qualsiasi momento, per qualsiasi cosa, potrei andar giù, e trascinare tutto dietro di me. Che cazzo hai fatto, Caiden? Questo dovrebbero chiedermi. Perché devi sempre fare casino? Perché non puoi comportarti come dovresti? Non lo so. Scuoto la testa contro il suo palmo, una risata asciutta contro le labbra, prima di rimettermi dritto, le mani sulla faccia che corrono dalla fronte al mento. Spengo la sigaretta. Tutto questo è ridicolo, lo sono io. Come se Nova non avesse già abbastanza problemi, senza che ci infili anche la cazzo di bomba che sono io adesso. Che sono io sempre. E anche adesso Caiden, cazzo, smettila di comportarti come se il cazzo di centro di tutto sia tu. Me lo dico, me lo attacco in testa. «Sono un cazzo di casino ambulante, eh?» avrebbe potuto uscirmi meglio, ma non lo fa. Sa solo di uno sbuffo, e di tutto quello che vorrei scrollarmi di dosso.
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    Potrei indovinare da dove prende queste parole. Da dove vengono, chi le abbia cucite nelle sua testa, come poi si siano ingigantite nel tempo. Il paradosso è che chi genera la colpa, è lo stesso che la impianta in un’altra testa prima di tutto, pronta per sbocciare quando non ci sarà più. Come un’eredità da portare avanti, fatta però soltanto di auto-denigrazione. È quel sistema educativo che non funziona da cui mi sono voluta tenere lontana, in fondo è successo anche nella mia famiglia. La legge che crea responsabilità disequilibrate, una bilancia fallata perché mai sarà capace di misurare istantaneamente tenendo conto del tempo. E poi forse è proprio questo il fulcro, che si debba misurare, quando in fondo gli esseri umani non sono fatti per questo. Non quando sono in punti così profondi da rendere ciechi. L’unico vero problema di Caiden è che non ascolta. Che qualsiasi cosa io gli possa dire, sentirà soltanto quello che la vergogna, vuole che lui recepisca. Tutto filtrato. E nemmeno questo è colpa sua, è solo che l’hanno plasmato così. Un umano che non deve essere umano. Un bambino senza giochi, un ragazzo senza adolescenza, un adulto senza gli strumenti per tenersi in piedi ma con l’abilità di trascinarsi avanti all’infinito incastrato nel medesimo ciclo perenne. Gli direi anche che non deve essere meglio di così, che quel meglio è una concezione che si applica in modo eguale su circostanze diseguali, e lo rende uno standard impossibile. Ma è lo stesso concetto su cui si fondano i Cacciatori, è tutto uno standard impossibile, la loro stessa esistenza lo è e soprattutto ciò che gli viene richiesto. A volte penso che la loro breve vita sia un atto di pietà. «Non più di altri, Caiden.» Soltanto che i suoi errori hanno avuto una risonanza più grande, gliel’ho detto, ma lo so che è il principio che non capisce e non capirà mai. Che umano e divino non possono assomigliarsi, non possono equivalere, che l’universo ci ha fatto diversi per un motivo e che tutto ciò che un umano dovrebbe fare contro un dio per sopraffarlo, è esattamente quanto di più umano ci sia, anche sbagliare. E lui l’ha fatto, ma non l’ha compreso fino in fondo. «Quando le divinità ci usano o cercano di manipolarci si affidano alle nostre debolezze o alle nostre qualità, ma divinità e uomini pensano e penseranno sempre in modo diverso. Non saranno mai capaci di prevedere tutto, specialmente l’arte molto umana dell’adattamento, cosa che loro attuano solo quando sono agli sgoccioli. Per ora magari hai commesso errori che lui voleva che commettessi, ma sei un Cacciatore e questo non significa dover essere perfetti. Significa sapersi adattare a combattere contro cose oltre natura. Se lui usa i tuoi errori contro di te, tu puoi usare i tuoi stessi errori contro di lui, questo è il genere di cose che le divinità non si aspettano dagli esseri umani.» Non credo che adesso Caiden abbia le forze di fare alcunché, non più di quanto ne abbia già consumate per venire qui oggi, da me. Ma almeno voglio che questa cosa gli ronzii nel cervello per un po’, che la perfezione del divino non è qualcosa a cui aspirare, ma è l’umanità più umana che deve sfruttare per sconfiggere avversari del genere. E che quindi, in fondo, ha ancora un ampio margine in cui agire per sentirsi un Cacciatore migliore di quello che lui si vede. Per imparare che non esiste uno standard impossibile da raggiungere per forza, e che è e sarà quell’idea a farlo essere un casino ambulante, semplicemente perché sarà impossibile non esserlo partendo da quel punto.

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    E adesso cos’è che vorresti dire? Suona male, ma lo penso che non si può fare un discorso, con me, con Morgan, che possa valere per tutti gli altri. Forse suona come se fossi uno stronzo pretenzioso, e penso anche di esserlo, ma questo è diverso. È un cazzo di dato di fatto. E che dovrei fare, ora? Prendere e lamentarmi, mettere in mezzo tutta la mia vita, pezzo per pezzo, e spiegare come anche se facesse schifo, se ho cercato di togliermela di dosso, alla fine adesso dopo averla davvero buttata nel cesso, vorrei solo tornare lì e riprendermela. Un bambino del cazzo, e passo tutto il tempo a dire a Morgan che non dovrebbe trattarmi così. Prendo un’altra sigaretta, premuto contro lo schienale della sedia, la lascio traballare in bocca prima di uno sbuffo, uno che abbassa la testa. Ne approfitto per accenderla, senza neanche chiedere a questo giro. Il punto, è che penso che sia stato facile con me, affidarsi alle mie debolezze. Guardandola da un po’ più fuori, è palese come mi sia fatto prendere per il culo dall’inizio alla fine. Non mi pento di tutto, ma quella è una cosa strana, complessa. Alcune di quelle cose, un po’ di quella merda, sono quelle che alla fine, mi hanno fatto conoscere Liz. Non voglio parlare o pensare neanche a questo adesso, perché mi sembra assurdo che dopotutto questo, mi metto ancora a prendere e dire sì, avrò mandato tutto a puttane, ma hey, ne ho guadagnato una cosa buona. Un’altra ancora, a discapito di tutti gli altri. A discapito di tutto e basta. Penso, vorrei davvero che lei non capisse adesso. Penso, è questo che fa di me la persona di merda che sono. Lascio cadere la testa un po’ all’indietro, mettendomi a fissare il soffitto. A questo punto, dovrei solo dirle okay, andiamo avanti, facciamo queste analisi, chiudiamo questa storia del cazzo. E invece cosa? Me ne sto qui a rubarle tempo, a pretendere dopo che ho messo quel piede più in là, oltre di lei. Non sono bravo a fare le cose. Anche quando ho un’idea che non sembra così del cazzo, dietro, finisce sempre tutto in vacca. Se dovessi dire cos’è che vorrei adesso, cos’è che vorrei davvero, è dire a tutti cosa ho combinato. A tutti e basta. Prendermi le conseguenze, ma lo so che è la scelta di un vigliacco quella. Perché vorrebbe dire espulsione, vorrebbe dire essere braccato, sicuramente essere tolto di mezzo a tutta la mia vita, quella da Cacciatore. Darmi la scusa di mettermi davvero da qualche parte, e da lì non muovermi più. E davvero, Caiden, davvero siamo ancora a questo? Davvero ancora non hai le palle di alzarti, e di provarci a fare davvero qualcosa in questa storia? Non fosse che rischiano di andarci di mezzo tutti, probabilmente non lo farei. Mi lascerei mangiare la testa, me ne tornerei laggiù, nel Calvario, senza mai più scendere da quella ruota. Ma non posso. Un Cacciatore non può scegliere come vivere, ma neanche come morire. Siamo attaccati alla nostra esistenza come ad una maledizione. Non c’è scampo. Non c’è riposo. Non c’è niente di diverso. «Con me è facile» questo è vero. E non parlo di tutti i punti di me che vorrei azzannare, che vorrei staccare come se fossero i tendini e le ossa da una carcassa, per lasciare solo la carne buona da mangiare. Organi putrescenti da sfilare via, uno ad uno, per lasciare solo quello che serve. No, parlo di una cosa diversa. Ma non roteo la testa verso di lei, neanche ora la guardo. E per cosa dovrei guardarla? Per trovarci cosa? Non so neanche davvero cos’è che vorrei trovare da qualsiasi parte. Non mi va bene mai niente, né un lato né l’altro, e nel mezzo non ci so stare. Non ho mai imparato a farlo. Tutto o niente, come dice Morgan. «Quando si tratta di mio fratello, alla fine dei giochi, faccio sempre ogni cazzata disponibile, anche se sembra una vaccata a mille miglia di distanza. Potrebbero scriverci a luci al neon “non servirà a un cazzo” e io ci proverei lo stesso» lo dico perché in fondo, Nova lo sa. La verità è che se non pensassi che certe cose le sa, non le direi. Perché per quello ci vorrebbe coraggio, e invece ora come ora, sono solo tutti segni del fatto che non ne ho proprio di quello. «Facciamo quello che dobbiamo fare, non è che ero venuto a rubarti tutta la giornata» anche questo è un segno che mi mostra vigliacco. Sono cose difficili, queste. Lo sono sempre state per me. Non ci so stare con le persone, non davvero. Non ci riesco neanche con Morgan. Anche lì è sempre tutto, proprio tutto, o niente, proprio niente. Le cose le dico come le penso, o nel modo completamente opposto. Nel mezzo, l’ho detto, non ci so stare. «E grazie, di farlo» non che non ci abbia pensato prima, di doverla ringraziare. Probabilmente, lei non pensa che io debba. E invece devo. In questo mondo del cazzo, nessuno se le aspetta mai certe cose, in realtà neanche le vogliamo. Per noi sono doveri, i ringraziamenti in questa ottica sembrano anche sbagliati, uno non sa come prenderli. Ma è diverso, con lei lo è per forza. Con lei sono cose che si sono messe in un modo strano, ed è che alla fine, penso davvero che se mi avesse detto no, Den, non voglio proprio saperne di questa storia, lo avrei capito. Forse un po’ ci ho sperato, ma credo anche di aver rinunciato a tenerla fuori da tutto da quando è successa la cosa di Sirthareth. Non è servito ad un cazzo perché sì, l’ho detto, in questa storia alla fine non sono mai riuscito ad aiutare un cazzo di nessuno. «Non è che è una cosa che sei obbligata a fare, e di certo non sei obbligata a sorbirti le mie cazzate nel mentre»
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    Could everyone get off my back? Cut me some slack; I took my shirt off in the arm my shoulders were no longer golden;
     
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