Sometimes words have two meanings.

Tristan & Dulcinea.

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  1. saeglópur
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    tristan lucifer ivashkov 23 YEARS OLD ♔ II YEAR ♔ CHARACTER SHEETVOICE
    So all that I’m trying to say I’m looking for a better way;
    some days it just gets so hard, and I don’t wanna slip away.

    L'acqua scendeva sul suo corpo, le gocce che non facevano altro che disegnare la sua fisionomia: quelle goccioline, presenti in particolar modo sul ventre, sembravano, attraverso una danza imprecisata e sconosciuta, ricalcare i suoi addominali ad uno ad uno. Ne percorrevano ogni singolo lembo con molto affanno, quasi sperassero di ricongiungersi alle loro sorelle; un po' come facevano gli affluenti di un fiume che, giunti ad un certo punto, si incontravano e facevano sì che le loro acque, benché reduci da dei percorsi diversi, si unissero senz'alcuna distinzione; senza se e senza ma, andando incontro alla medesima fine. Il petto continuava ad alzarsi ed abbassarsi seguendo il ritmo del respiro, gli occhi erano appena socchiusi e leggermente arrossati per via del vapore sprigionatosi dall'acqua calda, ed i muscoli, a poco a poco, non facevano altro che rilassarsi sempre di più, godendosi appieno quei pochi istanti di rilassamento che, nell'ultimo periodo, erano diventati sempre più rari. Un nuovo anno accademico, infatti, era cominciato al Brakebills; e benché i mesi precedenti non fossero stati esattamente una passeggiata di salute, Tristan era ancora lì, all'interno di quel prestigiosissimo College che ospitava maghi e maghe provenienti da tutte le parti del globo terrestre. Francesi, Russi, Americani, Italiani, Cinesi. Erano tutti lì, residenti nel medesimo edificio, costretti ad una convivenza che forse, in gran parte dei casi, non sarebbe stato nemmeno del tutto errato definire forzata: stili di vita differenti che si scontravano tra loro, folklore che incontrava altro folklore, abitudini che si miscelavano con altre abitudini del tutto diverse. E poi c'era lui, Tristan, "il sanguesporco" (così era stato chiamato, una volta), che se ne stava ad osservare il mondo, apparentemente senza prenderne parte; in realtà relazionandosi ad esso soltanto in determinati momenti della giornata, o, ancora meglio, quando gli andava sinceramente di farlo. E quello, credetemi, era il momento giusto.
    Uscì dalla doccia, sul pavimento una scia di goccioline cadute dal suo corpo durante il brevissimo tragitto che lo riportò in camera; piccoli schizzi d'acqua che furono la prova più concreta ed evidente del suo passaggio, che lo portò fin davanti l'armadio. A differenza di molte persone, il guardaroba di Tristan non vantava chissà quanti vestiti: qualche t-shirt qua e là, qualche camicia, qualche paio di pantaloni, ed ecco che il suo stile poteva essere descritto ben poche parole. Tendenzialmente, mirava perlopiù a vestire abiti che lo facessero sentire comodo; ma quella sera, se lo sentiva, sarebbe stata diversa dalle altre: estrasse la sua nuovissima camicia bianca, semitrasparente, e la indossò; lasciando tuttavia sbottonati i primi tre bottoni. Da quell'apertura, dunque, era possibile vedere una piccola parte del suo petto e la catenina da cui penzolava il suo catalizzatore, perennemente a contatto con la sua pelle, quasi facesse parte del suo stesso corpo; mentre i tratti decisi e candidi di quel tessuto mettevano in evidenza le sue ampie spalle. Le gambe, invece, poco dopo vennero fasciate da un paio di jeans blu scuro che sottolinearono la magrezza delle sue gambe; mentre i piedi vennero infilate all'interno di Frau nere come la pece. Diede poi un'occhiata allo specchio e, osservando il suo riflesso, capì: era pronto.

    La strada si consumava sotto il suo sguardo distratto, mentre, attimo dopo attimo, finiva sotto le ruote della decapottabile di Hisaki, quello strano tipo che lo aveva letteralmente introdotto a New York attraverso una semplice scommessa, salvo poi far trasformare il tutto in un qualcosa di più... profondo, in un certo senso. Non erano amici, ma non erano nemmeno estranei. Si guardavano, si scambiavano sguardi, ma in realtà non si conoscevano per niente; o meglio, Hisaki non conosceva assolutamente nulla di Tristan: con la parlantina che aveva, era più facile che si perdesse all'interno dei suoi stessi discorsi, piuttosto che si rendesse conto del fatto che il suo "fratello" (così aveva preso a chiamare Ivashkov dopo una mirabile serata passata all'interno di una sala da poker) non lo ascoltasse minimamente, o che comunque non partecipasse più di tanto ai suoi monologhi. Anche in quel momento, le cose non stavano di certo andando diversamente: Hisaki, parlava, parlava, parlava; e tutto ciò che diceva, si confondeva con il suono della versione live di Stairway To Heaven, che adesso veniva riprodotta dallo stereo della macchina, donando quindi una piccola nota di dolcezza a quell'interminabile tortura. Non chiudeva mai la sua bocca, l'asiatico, se non, ogni tanto, per deglutire un po' di saliva. Guidava in un modo un po' scomposto, il tasso alcolemico che sicuramente superava il limite previsto dal codice stradale; mentre Tristan se ne stava lì, seduto al posto del passeggero e con l'avambraccio poggiato sull'estremità superiore dello sportello. Gli occhi erano perfettamente spalancati, sebbene un po' assonnati per via della tarda ora (dovevano essere, su per giù, le due del mattino), ed il viso veniva costantemente solleticato dalla dolce, fresca brezza notturna. Un piacevolissimo odore ferroso galleggiava nell'aria, segno che avesse da poco smesso di piovere, e sull'asfalto, i riflessi dei lampioni e dei vari edifici, apparivano come dei disegni piuttosto grossolani, dai contorni non ben definibili; quasi come se qualcuno avesse infilato un dipinto ancora fresco all'interno di un secchio d'acqua e poi l'avesse tirato nuovamente fuori, palesando un mix di colori indefinibili e forme a dir poco inesistenti.
    Con nonchalance, portò il bordo della bottiglietta di Tennent's alle labbra, e quando piegò il capo all'indietro, di modo che la birra potesse scorrere all'interno della sua bocca, scivolò soltanto un'insulsa gocciolina: indispettito, dunque, allontanò il recipiente e lo osservò con i suoi occhi, per poi scuoterlo appena; realizzando così che, in effetti, la birra fosse finita. Eppure, fu proprio attraverso quel gesto apparentemente innocente ed irrilevante, che una nuova realtà gli si parò davanti agli occhi: la città scorreva proprio lì, attraverso quel vetro verde scuro; e gli edifici, a quel punto, cominciarono ad apparirgli talvolta tremendamente piccoli, altre volte, invece, sorprendentemente enormi. A quel punto, dunque, la domanda che irruppe nella sua mente e che uscì inconsapevolmente dalle sue labbra, fu piuttosto ambigua. «Hai mai pensato a tutte le cose a cui non abbiamo mai fatto caso?» Biascicò senza distogliere lo sguardo dalla bottiglia, incurante che avesse appena interrotto il lungo monologo di Hisaki. «Ai dettagli, intendo. Oppure alle cose apparentemente più insignificanti. Ci hai mai pensato, Hisaki?» E a quel punto, gli occhi verde-azzurri si posarono sulla figura dell'asiatico, constatando che egli avesse distolto per un attimo lo sguardo dalla strada. «Sei ubriaco.» Disse, secco, sicuro di sé, come se quella fosse la realtà dei fatti. Ma non era così, affatto: Tristan era fin troppo lucido, quella sera. La sua temperatura corporea era salita per via dell'alcool che aveva ingurgitato, vero, ma era ancora in grado di ragionare e di reggersi in piedi. «Guarda che sono molto più lucido di te, coglione!» Ribatté lui, per poi passare la bottiglia di birra alla sua mano destra, la quale, subito dopo, si allungò oltre il finestrino e, con una certa noncuranza, lasciò cadere l'involucro di vetro come se nulla fosse. Tutto quello che udì, fu solo un piccolo tonfo. «Ah sì? E cosa te lo fa pensare?» Domandò Hisaki, scettico, spostando per un attimo lo sguardo dalla strada. «A parte l'aver imboccato una strada contromano? Beh, il fatto che tu stia guidando da tre ore con il freno a mano alzato, se proprio lo vuoi sapere.» Un sorrisetto beffardo si palesò sul suo viso, mentre l'Asiatico batté le palpebre ed abbassò lo sguardo, constatando che Tristan avesse ragione. «Ecco perché cammina più piano del solito!» E con queste premesse, il sanguesporco cominciava quasi a pensare che non sarebbero mai riusciti ad arrivare vivi al locale. Ebbene sì: lo show doveva andare avanti anche se tra qualche ora sarebbe sorta l'alba; a costo di non tornare al Brakebills!
    Fortunatamente, però, andò tutto bene: tra frenate brusche, sterzate improvvise, sorpassi pericolosi ed altre cose che avrebbero violato il codice stradale, i due riuscirono miracolosamente a giungere presso il posto prestabilito: Hisaki sembrava piuttosto frastornato (probabilmente tutte quelle curve avevano messo a dura prova il suo stato psico-fisico, che al momento non era dei migliori); Tristan, invece, per poco non baciò l'asfalto. Niente di tutto ciò, tuttavia, impedì loro di entrare all'interno del locale. Si trattava di uno spazio più o meno ampio, situato nel cuore di New York, dove la movida era quello che era; e le luci, al suo interno, erano soffuse: un gioco di blu e rosso s'impossessava di tutta la stanza; un connubio che non recava particolare fastidio ma che, al contrario, riposava appena gli occhi, per quanto gli riguardava.
    Hisaki sparì immediatamente, probabilmente troppo impegnato a fare la corte a qualche giovane del posto.
    Tristan, invece, si guardò intorno: dei divanetti di pelle poggiavano contro le pareti; nel centro del locale erano posti alcuni tavoli con sedie annesse; mentre, appena alla sua sinistra, era presente un tavolo da biliardo. Di fronte a lui, un bar. E fu proprio lì che si diresse: si avvicinò al bancone piano piano, facendo un passo alla volta, e prese posto su uno sgabello. «Un Black Russian.» Sibilò senza alcuna esitazione, prima che il barman annuisse e si cimentasse nella preparazione del drink appena ordinatogli. Nel frattempo, dunque, il ragazzo estrasse tutta la sua attrezzatura e si prodigò di rollare una sigaretta: si portò un filtro alle labbra e, senza staccarlo dalle labbra, sistemò il tabacco su un pezzetto di carta rettangolare. Fece dunque convergere quel tripudio di nicotina al centro, per poi posare il filtro all'estremità e leccare la cartuccia con la lingua, facendola richiudere su se stessa. Furono tutte azioni meccaniche, quelle, dettate da tutta l'esperienza che aveva acquisito nel corso degli anni e che, ne era sicuro, non l'avrebbe mai abbandonato. Le mani, allora, s'infilarono nuovamente nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca di un accendino, ma quando le dita cominciarono a tastare quella zona circoscritta, tutto ciò che poterono sentire sotto di loro fu soltanto il tessuto. Nient'altro. Si guardò a destra, poi a sinistra, e fu in quel momento che individuò una figura femminile seduta ad uno sgabello di distanza da lui; una ragazza che doveva avere su per giù la sua età. «Dolcezza, avresti per caso un...» Il suo sguardo, a quel punto, si assottigliò, e per la prima volta riuscì a cogliere dei dettagli cui inizialmente non aveva nemmeno fatto caso. Quei capelli color oro, gli stessi che aveva visto di sfuggita poco prima, incorniciavano un viso sì giovane, ma anche un po' più adulto rispetto a quanto si ricordasse e perfettamente roseo; mentre gli occhi cerulei, né troppo piccoli né troppo grandi, sembravano possedere una sfumatura leggermente diversa, rispetto a quella che avevano qualche anno prima. «... accendino.» Completò la frase con fare distratto, quella parola che gli sembrava tremendamente lontana, come se non fosse stato lui a pronunciarla. «... Dulcinea?» A quel punto, pronunciare il nome, quel nome, fu inevitabile. La sua voce era un po' roca, l'espressione particolarmente stranita e disorientata, ma la sorpresa che traspariva da essa era palese. «Cristo, ne è passato di tempo!» Esclamò poco dopo con le sopracciglia aggrottate; come se, effettivamente, avesse pensato a ciò proprio in quel momento: insomma, quanti anni erano passati? Due? Tre? Qualunque fosse la risposta, tuttavia, forse non era poi così rilevante. «Che ci fai, qui?» A quel punto, la domanda gli venne quasi spontanea, ma di certo non la pronunciò con fare molto sorpreso: Dulcinea era sempre stata uno spirito libero, una persona che seguiva il proprio istinto, senza badare a ciò che gli altri si aspettavano da lei. Esattamente il tipo di ragazza che più intrigava il giovane Ivashkov, che era entrato a far parte della sua vita dapprima come spacciatore (all'epoca, difatti, era solito viaggiare per via del suo lavoro), e poi come un vero e proprio amante.
     
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