Let's embrace the point of no return

Ardan/Havel | Vecchio maniero del Circolo di Magia Nera

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    havel Lais Rivero
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    ■ ambientata poco dopo aver scoperto di essere un mutaforma
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    ■ 21 anni
    Un grido di sofferenza squarciò la stanza, le pareti scomparvero e così le persone. Il sangue sgorgava dallo stomaco tingendo la canottiera di rosso, mentre la punta della lancia premeva più a fondo trafiggendo lo stomaco. La vista annebbiata distinse Dreadwolf impugnarla, oltre la maschera i suoi occhi risplendevano nel buio che li avvolgeva e nello sfiorarli si macchiava del sangue che li circondava. Lui rideva, affondando la lancia sempre di più nelle carni, la smuoveva perchè maciullasse la pelle e la sua maschera si piegava in un espressione divertita. - Alla prossima. - promise svanendo nelle ombre che avvolsero il suo corpo, gli occhi di Havel presero a sanguinare: lacrime rosse. Poi si accasciò al suolo, con la lancia ancora conficcata nello stomaco e afferrandone l'impugnatura la sfilò con violenza. Un fiotto rosso ne sgorgò e poi divenne sempre più violento, il ritratto perfetto di un film di Tarantino. Quasi lo stomaco lo sputasse via il sangue tinse la camera, sempre più rossa.
    Il cuore palpitava, mille battiti al secondo: la camera era illuminata dalle prime luci dell'alba. Il fiato corto smuoveva il suo petto: su, poi di nuovo giù. Havel si mise a sedere con uno scatto, le mani nei capelli si mossero fino allo stomaco, cercavano la lancia, ma tastarono soltanto una maglietta sudata: "Solo un sogno" si disse e non bastò a calmare quella sensazione, i sensi rimasero all'erta mentre la rabbia montava nello stomaco, proprio dove sentiva il sangue sgorgare. Per quanto tempo fosse passato e per quanto si illudesse che tutto fosse tornato al proprio posto, gli incubi su Dreadwolf non l'abbandonavano. "Fanculo" lasciò che le gambe scivolassero oltre il materasso, i piedi toccarono terra in un brivido che arrivò sino alla nuca. Afferrò i vestiti piegati sul cassettone e facendosi strada tra le bottiglie vuote e i panni sporchi arrivò al bagno, le mattonelle bianche accarezzarono i suoi piedi scalzi come l'aria d'inverno aveva fatto con il volto: ora riflesso nello specchio sopra il lavandino. Le luci dell'alba illuminavano grandi occhi stanchi, da qualche parte nel ghiaccio che erano diventati, la vita stava tornando a scorrere: le occhiaie s'erano affievolite, perchè nonostane gli incubi alle volte riusciva a dormire e le pupille cominciavano a luccicare di furbizia e voglia di riafferrare ciò che stava abbandonando. Eppure, in quegli stessi occhi, brillava la paura: di sé e di quello che era successo. Li tingeva di nero e li macchiava di freddezza e attenzione all'ambiente circostante, nella preghiera silenziosa che nessuno scoprisse ciò che era diventata: da quelle parti i mutaforma non erano ben visti, c'erano specie di ogni genere nel Mondo Magico, eppure loro sembravano meno accetti dei Licantropi. S'infilò i vestiti, stanca di osservare quel riflesso e intrecciando le dita tra i capelli li legò in una coda di cavallo che le accarezzava la schiena. L'acqua fresca sfiorò il viso in un brivido di piacere, bagnò le guance perchè si risvegliassero dal torpore in cui erano immerse, mentre l'alba rigettava la città nella vita. Il sole si perdeva tra i grattacieli contornandone le figure scure, le luci si spegnevano oltre le finestre finalmente sostituite dai raggi, incastrati tra le vie di New York. Havel spalancò le finestre, le tende bianche accarezzarono le sue mani e le nocche distrutte, il Bronx si svegliò insieme a lei e le prime automobili vennero messe in moto. In cucina Mahabato preparava già il caffè, forse non aveva dormito, e il profumo riempiva l'aria. - Ti ho sentita gridare.- le disse seduta sulla poltrona, rughe di vecchiaia solcavano il suo volto gentile. - Scusa Maba, brutti sogni. - Havel scrollò le spalle sorridendo, mentre si versava una tazza di caffè che presto le scaldò il palato. Mahabato era un'anziana sciamana dalle strane abitudini, si erano conosciute una mattina che sfamava i piccioni sostenendo fossero il futuro del mondo: e si erano piaciute da subito, entrambe sopra le righe. Da quel momento si prendeva cura di Havel, quasi fosse la madre che non aveva più da tempo. - Ancora quel Dreadwolf? - nessuna risposta, si limitò ad annuire con una fossetta scavata nella guancia. Mahabato era l'unica a sapere della leonessa che si nascondeva in lei e l'unica alla quale avesse davvero parlato di quella sera, forse l'idea che soffrisse di demenza senile l'aiutava a fidarsi appieno:, per qualche strana ragione, però, non aveva dimenticato il nome del mago nero sin dal momento in cui le era stato raccontato di lui. Posò la tazzina nel lavandino e allacciandosi le scarpe salutò la vecchia uscendo di casa, erano le cinque e mezza del mattino. L'orologio misurava il suo battito cardiaco mentre correndo l'inverno le tagliava il volto come la lama affilata che nascondeva nella giacca. 1 Chilometro, poi due e di nuovo indietro, ripercorreva il Bronx con le cuffie nelle orecchie e le scarpe da ginnastica che vagliavano l'asfalto. nella mente risuonavano le parole di Mahabato sul ritrovo dei maghi neri: immerso nella boscaglia da qualche parte a New York c'era chi l'aveva resa una reietta, chi aveva ucciso gli studenti e forse persino Ardan, magari era quello il posto di cui parlava sul tetto. - Cazzo sto parlando con te!. - Havel rimase immobile, sul ciglio della strada, mentre sfilava le cuffie. - Mi hai sentito? - voltandosi riuscì ad udire il clangore del metallo e il cuore prese a palpitare più violento, l'orologio registrava quel battito così svelto. - Dammi tutto quello che hai. - le ordinò puntando la pistola. Era due ragazzi col passamontagna calato in volto, tutt'intorno nessun altro se non lei e quei ladri di bassa statura. Annuì, sfilando il portafogli dalle tasche perchè dovesse avvicinarsi per prenderlo e quando sfiorò la sua mano gli afferrò il braccio e lo rigirò: l'altro era già pronto e le tirò un calcio dritto nello stomaco, mentre lei teneva salda la presa sul suo amico.
    ...
    Nessun ricordo, sentiva i baffi fendere l'aria inseguendo quell'odore così familiare. il suo corpo possente si reggeva sulle quattro zampe che tastavano il terreno in una corsa furiosa. Non sapeva come fosse arrivata lì, non ricordava il motivo di quella trasformazione improvvisa nè quanto avesse camminato. Il pelo tremava al vento e si faceva strada tra il fogliame e il fango che tingeva il suolo. Forse durante la notte aveva piovuto e l'acqua si era lasciata dietro una scia di pozzanghere nella boscaglia. Seguiva un profumo troppo conosciuto, che le rizzava il pelo sulla nuca, un odore che in quelle condizioni non riuscì ad associare ad alcun volto, piuttosto al pericolo: al dovere di combattere. Corse e lo inseguì, era troppo presto perchè qualcuno l'avesse vista, non che le importasse davvero: era solo il ricordo di un essere umano in quella pelle di leonessa, di Havel restavano soltanto gli occhi azzurri come il ghiaccio e le cicatrici.
    L'odore era vicino eppure ovattato, più il pelo le si rizzava lungo la schiena, più lo sentiva allontanarsi, perso come fosse stato nascosto. Ruggì di rabbia, frustrazione.

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    Edited by Wackadoodle - 16/1/2017, 18:02
     
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    Il fumo della sigaretta era un drago grigiastro che rifrangeva i primi raggi mattutini. Non aveva dormito, era stato seduto con la schiena poggiata al tronco maestro di quell'albero di noce che utilizzava spesso per scendere dal proprio balcone e scappare via dal Manor durante la notte. Quell'albero, seppur fosse solo un punto di passaggio, ormai era diventato un luogo importante per Ardan, probabilmente il suo luogo come prima al Brakebills era stata la tettoia del dormitorio. Non riusciva a capire il motivo, ma ogni volta tendeva sempre a ricostruirsi un rifugio lontano da tutto il resto in cui rimaneva per ore pur di ripulirsi da tutto ciò per cui doveva costringersi a sviluppare una sorta di contatto sociale con gli altri. Ombreggiato dalla foresta antica intorno al manor, la stessa che permetteva alla barriera di sicurezza di estendersi oltre il casolare, il volto di Ardan tendeva verso l'alto, nel punto in cui le fronde più alte del noce s'intrecciavano con le altre degli alberi vicini formando una rete all'interno della quale i pensieri del giovane mago nero s'intrappolavano prima di arrivare al cielo indaco macchiato di una luce pallida. I corvi gracchiavano il loro requiem prima che la notte abbandonasse del tutto quella terra e l'irlandese li ascoltava quieto, come volessero sussurrargli qualcosa.
    Tutto gli ricordava suo padre pur non mostrandosi. Era una sensazione, un suono soffuso che lo invitava a tessere i ricordi che avrebbe voluto proteggere. Come Penelope, Ardan, nella sua piccola casa intesseva, filo su filo, un telo che ogni notte poi distruggeva pentendosene, rimproverandosi per la propria umanità, ma che ogni giorno ricominciava a lavorare come fosse la sua prima opera, con la differenza che l'Ulisse che attendeva pazientemente non sarebbe più tornato...e lui lo sapeva.
    Forse era un tentativo catartico il suo. Non voleva perdere la memoria, la studiava, anzi, per non perdere quel poco che rimaneva di sé, ma era consapevole che fin quando non l'avesse bruciata sostituendola con qualcosa di nuovo, di vivo, avrebbe continuato a morire ogni volta più della prima.
    Non ci sarebbe comunque mai riuscito, né ci avrebbe provato: odiava il fuoco. Il fuoco distruggeva, il ghiaccio conservava, proteggeva nei secoli ciò che era importante.
    Un rantolo profondo, però, lo riscosse dai suoi pensieri. Le labbra strinsero il filtro della sigaretta e ruotando la testa in basso dopo troppo tempo speso ad ammirare ciò che stava aldilà del proprio corpo si ritrovò a fissare negli occhi una creatura che mai aveva avuto l'occasione di ammirare.
    Una leonessa imponente lo osservava dal basso famelica. Ardan schiuse le labbra stupito da quella visione che per un attimo credette di immaginare, da quella forza che lo trasse in inganno facendogliela quasi invidiare. Era sporca, il pelo impregnato e raggrinzito dal fango, le pieghe dei muscoli tesi e tagliati da ferite autoinferte chissà come, ma nonostante ciò riusciva ad ostentare la propria fierezza.
    Lo puntò sfidandolo e Ardan così fece altrettanto, ruotando il busto e alzando una gamba per rimanere seduto con i piedi a penzoloni da un lato, dondolandoli appena e mostrandole una smorfia ferina. Era scappata da qualche circo? Strano come quell'animale fosse riuscito ad arrivare fin lì, tra le strade del Bronx...chissà da dove veniva. Una cosa però era certa: era persa, era totalmente rovinata dall'idea di non avere una destinazione precisa e quella mancanza la esprimeva con rabbia e indignazione, come se Dio si fosse dimenticato un dettaglio importante nel ciclo della sua esistenza.
    "Chissà quanto vale...dovrei avvisare Nik" pensò meditabondo, senza un briciolo di sensibilità. Voleva averla, magari l'avrebbe rivenduta a buon prezzo a qualcuno o l'avrebbe soggiogata per tenersela.
    Con un movimento fluido delle mani richiamò a sé il suo elemento. Lo sentì sotto i piedi dell'animale ribollire impetuoso e lo concentrò lì, lo fece accumulare come un germe che crebbe sempre di più fino a formare una densa fanghiglia con l'intento di immobilizzarla. Alzò le mani davanti al petto, articolò le dita in una danza che conosceva bene e sussurrò solamente: « Durus »
    Se l'incantesimo alchemico fosse andato a buon fine l'animale si sarebbe ritrovato intrappolato con tutte e quattro le zampe in un ammasso indurito simile al cemento.
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    Edited by »Annah.Belle« - 21/1/2017, 18:34
     
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    Ruggì all'aria contorcendosi mentre la rabbia piegava i fili d'erba, come il vento in una tempesta. Squarciò più volte il riflesso nel fango, che schizzando le macchiava il muso e seccava il pelo già sporco, intriso di sangue e melma mentre i rovi la graffiavano. Affamata inseguiva un odore e quanto più le sembrava d'essere vicina, tanto più quella flebile scia si faceva distante, persa nel profumo di brina e pioggia invernale: che stonava con il Bronx quasi quanto quella fiera leonessa poco distante dal cemento.
    Le sue orecchie vibravano al vento, si muovevano ritmicamente ad ogni rumore, e quel quadro insolito sembrava immagine di libertà: una bestia altrimenti destinata alle gabbie dello zoo che vagava solitaria, senza branco o domatore, tra la boscaglia di New York, ruggendo la propria rabbia e quell'istinto famelico alla ricerca di una preda abbastanza grande. Si acquattò nel fango, con i muscoli tesi che tagliavano un profilo già ben definito e la coda diritta: le orecchie seguivano una fonte di rumore tra i cespugli, che la leonessa aveva già identificato come topo. Svelto si muoveva tra i fili d'erba, piegandoli a vista d'occhio, poi si fermò e gli ultimi fili si torsero sotto di lui rivelando una posizione così volubile. Havel, o quel che rimaneva di lei, scattò velocemente: le zampe posteriori si sollevarono in una corsa animale, selvaggia, e immediatamente lo strinse tra i denti sbattendolo contro il terreno più volte per fracassare anche l'ultimo ossicino di quel corpo minuscolo, prima di mangiarlo. Con i canini intrisi di sangue e le zampe sporche di fango camminò nella boscaglia , le prime luci del mattino illuminavano finalmente il pelo sudicio e si stagliavano contro alberi che emergevano dalle erbacce. Si avvicinò ad un tronco possente e graffiando la corteccia tentò di affilare gli artigli, con quel portamento regale del predatore che sa d'essere re indiscusso. Per questo motivo, quando intravide un altro animale penzolare dai rami dell'albero più vicino, non trattenne un ruggito raschiando la coda al suolo, che schizzò fango tutt'intorno. La fissava dritto negli occhi, come solo i predatori più feroci azzardavano: un'occhiata che rasentava la spavalderia mentre le iridi ghiacciate sfidavano il suo orgoglio di leonessa. Ma nella savana si uccide per fame, o per proteggere i piccoli: Havel era sazia e di un branco neppur l'ombra. Ruggì ancora e con i canini sporchi di sangue in bella vista sperò di spaventarlo mentre s'avvicinava al tronco, graffiando nella sua direzione, con la coda che ancora dondolava nel terriccio bagnato, che presto si solidificò attorno le sue zampe posteriori perché le due anteriori erano ancora sollevate, sull'albero. Si voltò a guardarle, con la coda finalmente immobile e le orecchie che, senza seguire il corpo, continuavano a puntare nella direzione di lui: ruggì più forte, di rabbia sta volta, mentre tentava di saltellare sul posto e il fango sempre più duro le immobilizzava le zampe.
    Graffiò ancora il tronco, sembrava cercasse di arrampicarsi, senza mai distogliere lo sguardo dal nemico con gli occhi chiari: lo fissava perché non credesse mai d'essere il più feroce o di aver vinto, mentre già bramava di azzannarlo, stringere il suo collo tra i denti o perforare i polmoni prima di mangiarlo. E quella rabbia diventava fame e poi ruggiti, l'unico modo che conoscesse per esprimersi.
    Havel Lais Rivero [ sheet ] Voy libre come el aire, no soy de ti ni de nadie.
    [ code by psiche ]
     
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    Il problema era che Ardan credeva di perseguire una logica in tutto ciò che faceva, ma alla fine il destino sembrava divertirsi a far crollare i tasselli l'uno sull'altro come un domino, e più ogni cosa si realizzava in modo contorto e sbagliato, più lui continuava a camminare in quel sentiero sconnesso, in quel valico roccioso su un monte in bilico in mezzo al precipizio.
    Ogni volta che un altro viandante lo incontrava per sbaglio Ardan lo vedeva arrivare dalla parte opposta della strada, ma come se quella fosse troppo piccola per far passare entrambi sbrigativamente il ragazzo lo spingeva oltre il burrone. Qualche volta li osservava a cadere, altre non riusciva neanche a rendersene conto.
    Sorrise quando vide quell'animale intrappolato e aggressivo allo stesso tempo. Era ironico come qualsiasi essere davanti ai propri limiti cercasse in qualsiasi modo di superarli, anche a costo di danneggiarsi irreparabilmente. La belva lo guardava furente dal basso, cercando di salire su quell'albero per cercare in qualche modo di ribaltare la situazione, ma Ardan era più in alto di lei e la guardava con un divertimento misto a compassione. Per un attimo si sentì quasi una divinità e per l'ennesima volta provò l'idea di quanto fosse piacevole manipolare l'esistenza degli altri, per poi pensare a Gregory, al fatto che uno dei suoi più fedeli compagni aveva compiuto lo stesso crimine contro suo padre e contro di lui. L'aveva segnato così a fondo con estrema facilità, tanto che confusionariamente si chiese se quel sentimento che provava fosse giusto o sbagliato, e se ancora davvero provenisse da lui o dagli eventi che lo avevano portato dov'era in quel momento.
    No. La corrente l'aveva solo portato lì, tutto il resto era opera sua, solamente sua. Non era controllato da nessuno.
    Quasi con irritazione il sorriso sfumò per concentrarsi su ciò che avrebbe fatto a quell'animale come fosse l'incarnazione di tutti i suoi dubbi, ancora pesenti come un'ombra nonostante tutto.
    Alzò di poco una mano e muovendo le dita come un domatore mirò ai liquidi interni dell'animale. Li animò come fosse un serpente che con le sue spire cominciò a risalire la gola e a soffocare la belva che si dimenava, che con tutte le proprie forze cercava di reagire. Tutto inutile. Il suo sguardo, i suoi sentimenti erano più forti di tutto il resto e lo invitavano esplicitamente a proseguire.
    Era resistente, passarono minuti interi. Quasi Ardan si spazientì a un certo punto, per poi finalmente vederla accasciarsi a terra. Stava quasi per lasciarla lì e andare a chiamare Nikolaus, quando un'allucinazione lo costrinse a stringere le palpebre più volte.
    La figura della leonessa, distesa nel terreno umido cominciò a tremolare. Ardan dovette passarsi un braccio sugli occhi per cercare di rimanere lucido, perché probabilmente tutta quella reazione ingiustificata e ciò a cui stava assistendo erano solo gli effetti della sua perenne insonnia...eppure l'animale continuava ad essere sempre meno visibile, sempre meno, finché non si dissolse quasi come neve, lasciando il posto a un corpo, a un volto che conosceva fin troppo bene.
    Per un attimo non riuscì a respirare, come se l'incantesimo che aveva lanciato su quella creatura fosse rimbalzato su di lui. Un brivido freddo gli partì per tutta la schiena tanto che quasi giocò a sbilanciarlo in avanti.
    Non pensò neanche un attimo che quella poteva essere una trappola, un'illusione di Chaos o qualsiasi altra cosa, era entrato totalmente nel panico e non sarebbe riuscito comunque a ragionare lucidamente.
    Un'altra morte. Un'altra morte si sarebbe accatastata sulle altre, un'altra per colpa sua. Troppe perdite, troppe mancanze, troppi punti fermi che sparivano come sabbia tra le dita troppo aperte per riuscire a cogliere qualcosa di buono in quell'assurda esistenza.
    Le aveva detto di andarsene quella volta, non avrebbe dovuto abbassare le proprie difese, non avrebbe dovuto. Tutti, tutti quelli che entravano in contatto con lui, con la parte inedita di lui, finivano per esserne uccisi o cambiati radicalmente.
    Dal Dio quale si era sentito adesso il mostro che era in lui l'aveva fatto rinsavire. Non c'era più il piacere che aveva provato di fronte ad Alaska o ad Alexis, lì la rabbia furente aveva in qualche modo contorto giustificato le proprie azioni trasformandole in puro piacere distruttivo e calcolatore...ma Havel?
    Havel rifuggiva da quegli schemi. Havel era un pericolo orrendo, ma Havel era anche lì, chissà come, nuda, bellissima, fragile, spenta.
    Forse morta, uccisa per mano sua.
    Buttò un fiato corto, Ardan, e con un salto toccò terra senza neanche curarsi di fare piano, di attutire in qualche modo la caduta. Non gli importava, sapeva solo che doveva correre alla base del tronco e sconfiggere il timore di toccare il polso di quella ragazza per sapere la verità.
    Strinse le labbra, i capelli che gli caddero davanti alla fronte in un'espressione sconvolta che lo fece inginocchiare a terra, macchiando di fango i pantaloni. Con una mano, esitante, sfiorò di poco il collo di Havel, un punto impercettibile tra la base della clavicola e la vena. Il tocco freddo si mischiò con il caldo della pelle e con un ritmo a cui il proprio ci si sincronizzò subito, rallentando drasticamente e permettendogli di far sfuggire un fiato tra i denti ancora irrigiditi.
    Era viva. Semi cosciente ma viva.
    « Cristo, Havel... » sussurrò più a se stesso che a lei, la voce che gli uscì fioca in un misto di terrore e sollievo.
    Per un attimo si rivide di fronte ad Alexis. Si rivide come quella volta in cui l'aveva quasi uccisa e non era riuscito per niente a curarla, perché una delle sue benedizioni e maledizioni era quella di essere fisicamente e moralmente impossibilitato ad accettare una tecnica così meschina e priva di significato come la magia bianca.
    Nuovamente, il fantasma di Callaway si materializzò tra lui e la sua ennesima vittima, ma Ardan, fuori di sé, reagì furente. Ancora una volta era solamente in grado di scaricare la colpa su un contenitore, su un ricordo per riuscire in qualche modo ad esorcizzare le proprie paure e andare avanti più forte che mai. Era una delle poche cose di cui era capace, quella di giudicare e colpevolizzare gli altri, come un arcangelo dell'Apocalisse, ma se solo avesse visto il riflesso dei propri errori...
    Era successo un volta sola, era successo quando suo padre era morto e lui era stato costretto a fare a pezzi il suo cadavere, e da quella volta non era più tornato in sé.
    « VATTENE VIA! » urlò inferocito alla materializzazione di Callaway nei suoi pensieri, più vivida e atroce dello stesso Chaos. Troppe persone nella sua testa, lui aveva il comando, lui aveva lo spazio, lui e solamente lui poteva decidere.
    I corvi tutt'intorno gracchiarono rumorosamente, spaventati dalle sue urla e spiccarono il volo tra i rami intricati.
    Seriamente provata, l'espressione di Ardan era totalmente mutevole. Passava dal timore alla furia, poi attraversò la reverenza nei confronti di quel corpo che non meritava di stare lì, rannicchiato in quel modo, in mezzo a tutto quello sporco.
    Frettolosamente, a scatti, si sfilò la giacca dalle braccia e gliela poggiò dalle spalle in giù, cercando di coprirla in qualche modo. Non sapeva neanche lui cosa fare, era bravo a distruggere gli altri, non a salvarli.
    Preso da un impeto rapido e dettato solamente dall'istinto la prese delicatamente dalle braccia sollevandola e caricandosela sulla schiena. Raccolse la stretta di Havel intorno al proprio petto e l'afferrò con le mani sulle cosce. Avrebbe voluto guardarla di più così, e le forme che sentiva premere sulla sua schiena insieme alle sue gambe unite ai propri fianchi e il suo fiato sottile e calmo che gli toccava lievemente il collo erano una meraviglia che non sentiva da troppo tempo. Cercò di non farsi prendere anche da quello, come da tutto il resto e di camminare semplicemente verso la propria stanza.

    Non passò neanche un secondo in cui i suoi occhi ghiacciati riuscirono in qualche modo a distogliersi da Havel. Silenziosamente aveva fatto in modo che nessuno si accorgesse di quell'intrusione, aveva chiuso la porta a chiave e l'aveva adagiata, malamente coperta dalla propria giacca, sul letto per poi coprirla con le lenzuola fin sopra le spalle. Una parte di lui avrebbe voluto vestirla, l'altra si sarebbe agitata per quel contatto, l'altra ancora avrebbe malamente nascosto la propria eccitazione toccandola ancora. Non poteva, doveva stare calmo e seduto sulla scrivania in legno.
    Fortunatamente l'agitazione e tutto ciò che ne era conseguito se n'era andata poco per volta, perché i lineamenti di Havel l'avevano mandata via soppiantando l'attenzione di Ardan verso altre fantasie e pensieri. Addormentata in quel modo, seppur sporca in alcune parti, Havel sembrava una scultura composta da un legno scuro e ambrato. Le ciglia erano così lunghe che si stupì di non averle notate prima, ma la prima notte in cui si erano incontrati nuovamente dopo anni Ardan non era stato molto attento a quei dettagli. Ora che stava avendo tutto il tempo del mondo per guardarla bene, notò quel particolare e lo impresse nella mente, chissà per quale motivo...no, un motivo c'era.
    Anche le sopracciglia erano folte. Havel, anche esteticamente, era un contrasto, un contrasto che però non disturbava ma anzi la rendeva ancor più interessante. Aveva gli occhi grandi e le labbra morbide e piene, ma allo stesso tempo aveva quelle particolarissime sopracciglia e quei lineamenti così spigolosi da fare invidia a qualsiasi uomo. Poi però aveva quel fisico magro e delicato, e quel particolare restava solo circoscritto, un dettaglio ombreggiato in un panorama pieno di luci e colori.
    La luce si era fatta via via più intensa con l'avanzare del mattino. Ardan si era solo alzato a un certo punto per coprire i vetri delle finestre con le tende e inclinare di poco le imposte. La luce lo infastidiva, non ci era più abituato perché dormiva di giorno preferendo uscire la notte, abitudine che di conseguenza gli stava debilitando la vista, ma riusciva ancora a sopportarla a piccole dosi. A un certo punto spezzò quel placido silenzio quando nervosamente comprese che quando Havel si fosse svegliata forse quello sarebbe stato distrutto da una sfilza di domande, di discussioni, di incomprensioni.
    Non ne aveva voglia...era stanco. Era stanco di perdere tempo, ma sapeva che sarebbe successo.
    Tirò fuori dalle tasche il pacchetto di sigarette e l'accendino, fece scattare rapidamente la fiamma accostandola alla sigaretta che teneva tra le labbra e inspirò lasciando andare una nuvola che si perse nella stanza.
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    MUTAFORMA - LEONESSA - 21 ANNI - PSI BETA ZETA
    La natura le aveva insegnato a non arrendersi. Non c'era voglia di vendetta nei suoi ruggiti, né cattiveria, quei sentimenti appartenevano agli esseri umani e a loro soltanto. Il suo era istinto di sopravvivenza, la muoveva freneticamente e premeva sulle zampe perché si liberassero: pulsava in tutto il corpo, negli artigli che graffiavano il tronco dell'albero come nel tentativo di tirarlo giù e nel muso spalancato in ruggiti feroci. Non c'è vendetta in natura, solo il bisogno di proteggere se stessi e la specie e quel ragazzo sul ramo era un pericolo per il branco che Havel credeva di avere. Corrugò il muso, i baffi sottili fendevano l'aria, e i canini rimasero sporgenti, minacciosi mentre saltava goffamente al suolo per liberarsi. Una visione così triste, eppure maestosa: anche nel tentativo più impacciato di scappare, col pelo sporco e incrostato di sangue e fango, la leonessa ruggiva come la regina di quella boscaglia desolata da sempre, quasi quella palude di erbacce le appartenesse, senza accorgersi di quanto il nemico fosse per la prima volta il più forte.
    Non esisteva vendetta, ma la rabbia era forte nel suo sguardo e nel muso aggrottato, nel pelo ritto dalla schiena alla nuca. Non si arrendeva, continuava a scuotere la coda lentamente, in una calma piatta così in contrasto con i suoi ruggiti furenti: la scuoteva e non la teneva ferma tra le zampe posteriori, perchè non riusciva ad immaginare di dover temere quel nemico all'apparenza così fragile e lento. Forse esisteva anche la frustrazione, quasi si potesse leggerla nei suoi movimenti svelti come fossero ormai disperati: la sensazione di impotenza nel non riuscire a muovere le zampe posteriori, così importanti in uno scontro e nella vita stessa di un leone. Non poteva scattare e ci sarebbe voluto del tempo prima di abbattere quell'albero, ma qualcosa nel pelo sempre più dritto sulla schiena spiegava che non si sarebbe arresa, affilando gli artigli su quella corteccia anche tutto il giorno se necessario.
    Un altro ruggito ruppe il silenzio, soffocato dall'interno, dalla gola stessa, morì sul nascere prima che i corvi e le cornacchie potessero volare via mentre il sole si faceva sempre più alto all'orizzonte. Tentò di muoversi, di ringhiare più forte, ma i liquidi del suo corpo s'arrampicavano lungo la gola in una scalata letale e lentamente smise di muoversi. Finalmente la coda si strinse tra le zampe posteriori, mentre in sottomissione s'accasciava al suolo: non era più regale quella bestia, il fango contornava il quadro disperato di una bestia destinata a morire senza capire il perché. Poggiò la pancia nel terreno, mettendosi sdraiata come la sfinge, col muso tra le zampe mentre lo strofinava ovunque. Ruggiva ancora e ancora, ma dal muso fuoriuscivano solo rumori indistinti, lamenti, finché non lo diventarono e la rabbia si trasformò in gemiti e narici dilatate e lentamente si sdraiò sul fianco, con le zampe lunghe davanti a sè. Ci erano voluti troppi minuti d'agonia, col liquido che premeva contro la gola e il freddo che finalmente riusciva a sfiorare il suo pelo sporco, ma era finita. Finalmente. Smise di lamentarsi, nessun rumore se non i passi dell'umano che la superavano, tutt'intorno si faceva più scuro mentre le palpebre si chiudevano sull'orizzonte. Intravide le ciglia scure frammentare il paesaggio, poi nulla più.
    Bum. Stava tornando dall'apnea. Bumbumbum: il cuore palpitava sempre più veloce e le ossa cambiavano. Non aveva più la forza di gridare, nè di muoversi, ma sentì il dolore avvolgere il suo corpo nudo, infreddolito e dimenticato nel fango. Il sangue circolava a riscaldarla, concentrato allo stomaco, al cuore. Tossì soltanto, sputò via il liquido denso che le le bloccava la gola, prima che gli occhi si chiudessero di nuovo in un brivido violento, uno scossone a tutto il corpo. Riuscì solo ad intravedere qualcuno che la fissava, mentre una lacrima calda sfiorava la guancia. Non riconobbe il posto, nè il volto troppo sfocato di quel ragazzo, e mentre sveniva riuscì soltanto a chiedersi come fosse finita lì, mentre le prime luci del mattino illuminavano il suo corpo nudo e bagnato.
    Ogni immagine era il frammento minuscolo di un puzzle troppo grande, fatto di ombre e profumi sconnessi tra loro: l'odore del fango, il bagliore del metallo e una melodia veloce, poi solo il legno e la frustrazione. La sua era una dormiveglia: sentì il corpo nudo rimbalzare contro qualcuno mentre veniva sollevato, sentiva i rumori e percepiva delle sensazioni, ma non riuscì neppure ad aprire gli occhi. Si rese conto del calore che improvvisamente l'avvolgeva, ma non tremava più già da tempo e capì quando venne sdraiata d'essere su un materasso, ma erano solo percezioni di sottofondo, mentre gli occhi cercavano di ricordare fondendo quel giorno a mille altri.
    C'erano due ragazzi, sul pontile in legno della Psi Beta Zeta, sotto si stagliava la skyline di New york in un paesaggio confuso, quasi il legno fosse sospeso sulla città. Poi Ardan la spingeva contro il muro in un vicolo abbandonato e lei sentiva un liquido denso premerle contro la gola, poco prima che persino gli occhi freddi di lui divenissero quelli di Chaos. I suoi capelli rossi e la risata folle, poco distante il cadavere fatto a pezzi di Dulcinea reggeva tra le dita una sigaretta.
    - No. - non riuscì a riconoscere i frammenti, a capirli per quello che rappresentavano, perchè parevano così reali che per qualche istante fu costretta a credervi. Cercava di liberarsi, graffiava il volto di Chaos troppo resistente per appartenere ad un essere umano. Dulcinea era morta, forse. - No. - boccheggiò e l'aria invase i polmoni, graffiando la gola. L'ossigeno arrivò violento al petto che in un istante si gonfiò fin troppo, sollevando le lenzuola già sporche del fango che lei aveva incrostato addosso. Spalancò gli occhi velocemente, il cuore pulsava di nuovo e quel luogo non era solo una sensazione, così fece per mettersi a sedere. Era nuda, il corpo così dolorante da non riuscire a sollevarsi, in una stanza che non conosceva. Si voltò a cercare la luce che s'infiltrava tra gli spiragli di una finestra chiusa, era mattina, poi si girò e vide Ardan: stava fumando e sembrava calmo, nitido e reale. - Ardan? - strinse gli occhi per guardarlo meglio al buio. Per la prima volta il suo era un tono dubbioso che forse lui non aveva mai sentito uscire da quelle labbra. Sollevò leggermente il capo, voleva riconoscere quel volto, godere per un istante dei suoi occhi chiari nel buio delle finestra chiuse, ma presto ricadde sul materasso: la gola bruciava e l'istinto le suggeriva di godere di quell'istante d'ossigeno. - Che è successo? - domandò chiudendo gli occhi nel tepore della stanza.

    Havel lais Rivero [ sheet ] VOY LIBRE COME EL AIRE, NO SOY DE TI NI DE NADIE.
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    ardan ciaran morley Dark Magician voice role song
    A
    ppena vide la sua bocca schiudersi e il corpo agitarsi nella veglia Ardan spalancò gli occhi agitato. Per un attimo non aveva collegato il significato di quel "no", aveva pensato che fosse sveglia, che se la stesse prendendo con lui per quello che le aveva fatto. Sentiva la fronte calda, ma appena si rese conto che i suoi occhi erano ancora chiusi si rilassò nuovamente sul bordo della scrivania e prese un tiro di sigaretta per evitare di pensare troppo. In quelle situazioni era deleterio, ma Ardan non poteva mai farne a meno.
    Havel si svegliò comunque dopo pochi attimi. Stavolta la vide davvero schiudere le palpebre, sbatterle un paio di volte mettendo a fuoco la sua figura. Ardan cercò di rimanere impassibile, pronto alla furia e alla confusione che avrebbero generato le sue azioni passate, violente e incapaci di cogliere il valore di una vita, ma con sua sorpresa Havel sembrava non ricordarsi nulla. Ancora non aveva neanche avuto la capacità di pensare al fatto che lei e la leonessa fossero la stessa entità, e solo in quel momento riuscì a fare un breve sunto mentale della situazione, anche se sapeva che sarebbe stato perfettamente inutile.
    Havel...cos'era esattamente? Da quanto era così? Da sempre? E soprattutto, perché?
    Non era l'animale a preoccuparlo, anzi, quel lato inaspettato lo portava a incuriosirsi ancora di più riguardo la natura di Havel. Era il suo moto inconscio e autodistruttivo a spaventarlo...se non ci fosse stato lui su quell'albero, chi avrebbe pensato a lei?
    Bloccò quella massa di dubbi all'istante. Era così stupido e ilare ciò che aveva appena pensato...lui aveva appena rischiato di ucciderla. Lui e solo lui era la persona peggiore che Havel avesse potuto incontrare sulla sua strada, lui era il suo principale carnefice. L'aveva portata a lottare nelle celle, l'aveva poi spinta contro un muro in un vicolo di New York e poi ancora adesso l'aveva fatta svenire soffocata...e lei adesso era lì, proprio davanti a lui, anzi, nel suo letto, tra le sue coperte, quasi incapace di muoversi e difendersi, nuda, senza alcuna arma.
    Sarebbe stato così facile...
    No Ardan, a cosa cazzo stai pensando.
    Sentì dentro le sue membra il sangue nero ritirarsi in un angolo dopo aver tentato di allagarle. La fonte attuale del suo potere era così tanto una droga da fargli desiderare anche ciò che non avrebbe voluto davvero, da isolare l'eccitazione e il brivido dell'uccisione e distaccarli dal volto della vittima.
    Si passò una mano sulla fronte, mentre con l'altra avvicinò nuovamente la sigaretta alle labbra.
    Un altro tiro.
    Calmo, sta' calmo.
    La fragilità di Havel in quel momento era un'illustrazione inedita di lei. La conosceva bene, si era sempre comportata come una ragazza estremamente determinata e forte, anche se al suo interno nascondeva molte insicurezze, ma non le aveva mai palesate di fronte a lui. La vide lottare contro di loro, cercare di reagire per poi crollare nuovamente giù, la guancia spigolosa che premeva contro il cuscino.
    Con uno scatto Ardan toccò terra e a passi rapidi e leggeri si diresse verso il capezzale del letto. Si abbassò e si mise per terra, in ginocchio, proprio accanto al volto di Havel, i gomiti premuti contro il bordo del materasso.
    Cos'era successo? Non era successo niente. Non importava, davvero, non gli interessava né voleva parlarne. La cosa migliore adesso era che Havel era lì, nuda, nel suo letto. Se solo non l'avesse respinto Ardan l'avrebbe baciata e avrebbe voluto possederla in quel preciso momento senza starci a pensare troppo, ma durante l'ultima sera in cui si erano incontrati per puro caso le aveva silenziosamente fatto una promessa, ovvero che non avrebbe più tentato di intromettersi nei suoi spazi, nelle sue scelte, e il ragazzo l'avrebbe mantenuta perché infondo sarebbe stato tutto più semplice, perché in quel modo nessuno l'avrebbe più fatta soffrire senza alcuna ragione valida.
    « E' tutto finito »
    Non era vero.
    « Sei al sicuro adesso »
    Le sorrise per poco guardandola negli occhi scuri come terra bruciata, un increspatura appena accennata sulle labbra.
    Non era vero.
    « Che ne dici se ti preparo un bel bagno? »
    Che razza di frasi sconnesse e assolutamente non da lui. Quello lo agitava più di tutto il resto, non riusciva proprio a gestirsi, perciò chiedeva a lei il da farsi, come se avesse la risposta abbastanza convincente.
    « Sì, è meglio » si rispose da solo borbottando piano tra le labbra corrucciando la fronte e distogliendo lo sguardo verso il basso, meditabondo. Era così serio in tutta quella confusione da sembrare quasi comico.
    Si alzò, prese un ennesimo tiro di sigaretta, la spense su un posacenere accatastato sul comodino accanto al letto e a passo svelto si diresse verso il bagno interno della sua stanza chiudendosi piano la porta dietro le spalle e poggiandoci contro la schiena. Per un paio di minuti stette lì, in quella posizione, lo sguardo perso nell'intrico di mattonelle bianche di fronte a lui. I rapporti con quel genere di persone erano troppo strani per uno come lui, aveva bisogno di prenderli a piccole dosi o avrebbe rischiato di impazzire. Si passò una mano tra i capelli, sentendo la consistenza delle ciocche bionde scoprirgli la fronte, buttò un respiro pesante e poi si avvicinò alla vasca da bagno aprendo il rubinetto. Il rumore dell'acqua lo calmò drasticamente, e in quel momento capì che più che ad Havel l'idea del bagno serviva a lui. Quando era agitato o nervoso l'acqua, il suo elemento, lo prendeva e lo trascinava in una dimensione sicura in cui tutto era ricoperto da quel liquido trasparente che gli tappava i timpani non facendogli percepire alcun suono spiacevole.
    Sfiorò l'acqua con le dita, poi uscì fuori da quel rifugio. Havel stava ancora dove l'aveva trovata, rannicchiata in un bozzolo bianco. Ardan aprì le ante dell'armadio e ne tirò fuori un accappatoio, poi si avvicinò a lei...e quella sarebbe stata, di nuovo, la parte più difficile.
    Si piegò sopra il suo volto, i capelli che caddero nuovamente sulla fronte, l'espressione calma e placida come un lago che al suo interno invece nascondeva enormi mostri assetati di sangue, di passione, di sensazioni forti e devianti.
    « Havel, ci sei? Provo a tirarti su, ok? » la richiamò e prendendola delicatamente da entrambe le braccia la fece sedere. Era abbandonata a se stessa, era così tremendamente diversa dalle altre volte che quasi non la riconosceva, e anche lui era altrettanto diverso. Quel dettaglio lo stava spaesando e non poco.
    Le passò l'accappatoio e non si voltò neanche per darle un po' di intimità...sarebbe stato ridicolo farlo, l'aveva vista anni prima e fino a pochi minuti prima aveva toccato il suo corpo inerme, ma comunque cercò di non fissare troppo in basso. Si trattenne davvero, perché la forma delle clavicole sotto le spalle lo invitava ad abbassare lo sguardo. Havel era sporca, stanca, consumata dal corso degli eventi, ma restava pur sempre una ragazza bellissima.
    Dopo che si fu coperta Ardan scostò le lenzuola e l'accompagnò mettendole un braccio sotto le spalle e facendola alzare in piedi, a piccoli passi. Prendersi cura di lei in quel modo era un'azione che non aveva mai fatto con nessuno, stonava come una mano ossuta che graffia una lavagna, ma allo stesso tempo gli riusciva così naturale da farlo perdere in se stesso.
    Aprì la porta del bagno e in mezzo ai vapori Ardan le fece scavalcare il bordo della vasca. Il ragazzo tergiversò appena quando le sfilò l'asciugamano, sfiorandole le spalle e facendo un passo indietro per poggiarlo a terra. Havel era nuovamente nuda e il ragazzo rallentò i movimenti, lo sguardo che non riusciva proprio a staccarsi dal suo corpo.
    Maledizione.
    Non appena Havel si immerse nell'acqua calda Ardan si sedette sul bordo della vasca e prendendo una spugna la strofinò sul sapone e delicatamente si piegò sulla schiena della ragazza, passandola sulle spalle e sulla nuca, per poi scendere piano piano per tutta la schiena. In quel momento Ardan notò i suoi nei, piccole costellazioni in un cielo scuro. Provò a contarli, ma non ci riuscì, non perché fossero troppi, ma perché quel momento era così intriso di silenzio e tranquillità da fargli capire che era proprio quello di cui aveva realmente bisogno.
    Un po' di semplicissima normalità.
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    Scusa, ho mosso Havel come un manichino praticamente, più che altro era per non perderci in mille botta e risposta...sorry c____c </3


    Edited by »Annah.Belle« - 3/2/2017, 16:43
     
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    Scusami se è un po' lungo tvb


    Mutaforma - Leonessa - 21 anni - Psi Beta Zeta
    Ardan rifletteva la bellezza del primo degli Angeli caduti, che di quello schifosissimo buco sotto terra ne aveva fatto l'Inferno e dell'Inferno casa propria. Le sue iridi brillavano nella penombra ed Havel riuscì a sentirle fisse su di sé anche ad occhi chiusi, col capo sprofondato in un cuscino troppo morbido per quegli zigomi così taglienti. Ardan aveva afferrato ciò che gli era rimasto della propria vita, lo aveva stretto tra i pugni perchè nessuno dimenticasse che finalmente regnava sull'Inferno che tanto credeva di meritare, ma forse le fiamme lo avevano soltanto atteso fino a quell'istante, chiamando il suo nome come con Lucifero prima di lui. Era dipinto dei tratti delicati ed armoniosi e i capelli biondi del migliore tra gli angeli, ma la superbia e l'oscurità di tutti quelli che Dio aveva bandito dal Paradiso, lui non s'era dannato come le anime tutt'intorno, ma aveva accettato il calore dell'Inferno dentro di sé ed era riuscito a renderlo proprio. Havel invece latitava sull'Acheronte e tentata ammirava l'Inferno guardandolo dalla distanza, da lì era una visione oscura e per questo molto più interessante della calma piatta che l'avrebbe attesa in Paradiso. Gli occhi grandi e scuri riflettevano le fiamme e la sofferenza dei peccatori, ma Caronte lasciava passare solo chi apparteneva davvero a quel posto e lei non era mai riuscita ad averne la certezza. Perciò s'era relegata ad un eterno Limbo, la dannazione la spaventava, ma nel Paradiso che immaginava c'erano soltanto cose che le avrebbero concesso un biglietto di sola andata per l'Inferno. Forse l'attendevano già nel girone dei Lussuriosi, perchè anche se ferita e piena di domande, con la gola graffiata che bruciava ad ogni respiro, non riuscì a frenare il ricordo della prima notte con Ardan, mentre nuda si rigirava tra le sue lenzuola e forse ne aveva portate altre lì o erano troppo lontani da qualsiasi focolare di civiltà. Era quello il problema: "Dove siamo?" si chiese frenando ogni fantasia d'improvviso. Ardan non rispose alle sue domande, ma lo sentì camminare velocemente e per un secondo la paura irrigidì ogni muscolo nella consapevolezza di non poter reagire a dovere ad un'aggressione. Era sola, stanca e nuda: sapeva che in un istante avrebbe potuto ucciderla, eppure gli si accostava sempre di più ammirandolo come faceva con l'Inferno, oltre l'Acheronte, una visione terrificante e stupenda al tempo stesso. Ardan era la beatitudine dell'essere il re dei Dannati dipinta su di un volto, con quel sorriso irriverente che però quel giorno venne meno. Così Havel capì che era successo qualcosa d'irrimediabile, lo vide nel suo atteggiamento premuroso e lo sguardo agitato, perciò quando lui fu inginocchio di fianco il letto si voltò su di un fianco per guardarlo meglio e mise le mani sotto la guancia. Non domandò nient'altro perché sul momento quella reazione la spaventò più di ogni altra, persino se l'avesse minacciata come quella vota nel vicolo non avrebbe avuto così tanta paura. Il cuore palpitava agitandosi nel tentativo di ricordare, le immagini erano troppo sfocate lasciando solo due possibili ipotesi: qualcuno l'aveva drogata o s'era trasformata. Non le era capitato abbastanza da averne piena dimestichezza, perciò ricordare era difficile e sentiva di doverlo capire in fretta: sapere se aveva rischiato di fare del male ad Ardan e come. - Non ser... Morl... -provò a chiamarlo ma si era già chiuso la porta alle spalle e lei scoppiò in una serie di fragorosi colpi di tosse che scossero tutto il corpo.
    Poteva finalmente guardarsi attorno senza sembrare sospettosa, con la finestra chiusa non riuscì a capire dove si trovassero ma provò a mettersi seduta, con la schiena contro la spalliera del letto e gli addominali arrossati che tremavano per il minimo sforzo. "Mi casa es tu casa..." si disse osservando le lenzuola che aveva colorato di fango, macchie scure sulla stoffa candida: quasi fosse una metafora dell'animo di Ardan. Quindi era quello il posto di cui aveva parlato, la sua nuova casa: una stanza buia da qualche parte nel mondo, il suo Inferno. Oltre la porta riuscì a sentire l'acqua scrosciare sulla ceramica della vasca, ma quel rumore non la calmò come avrebbe sperato: per un istante un brivido ripercorse svelto la schiena sino a drizzare i peli sulla nuca, un riflesso dell'animale che si nascondeva dentro di sé e che sentiva ruggire al vento. Doveva sapere, chiedere ad Ardan cosa avesse visto e anche se non ci fosse molto da dire a riguardo avvertiva il folle bisogno di giustificare quel suo sentirsi un mostro, perché sapeva che i Mutaforma non fossero ben visti nel Mondo Magico. Si rimise distesa arrendendosi a quel dolore che non poteva spiegare, sempre più convinta d'essere reduce di una trasformazione perchè le ossa restavano sempre indolenzite quando tornava umana e allora socchiuse gli occhi, era stanca di quelle domande. Nel buio delle palpebre serrate riuscì a rivivere il ballo di Natale del quinto anno a Beauxbatons: erano solo due ragazzini viziati all'epoca, cercavano una vita più interessante e il Mondo li aveva accontentati infrangendoli contro gli scogli come onde in un'alta marea, destinate a fermarsi solo per volere altrui. Voleva fuggire, scappare via nuda con la sua giacca sulle spalle e non tornare mai più, cercarlo nell'Ade perché certa che lì si sarebbero rincontrati in un mondo che non poteva più ferirli, dove solo gli Dei li avrebbero giudicati, ma scappare era la più codarda rimostranza di viltà e non avrebbe risposto alle sue domande. Rinunciò all'idea ben presto, forse però un giorno si sarebbe lasciata andare alla guida di Caronte e l'avrebbe raggiunto nell'Inferno di cui era Re. Tenne gli occhi chiusi ed ogni respiro risuonava troppo rumoroso, accompagnato da colpi di tosse. Nel silenzio dei suoi pensieri riuscì a riascoltare l'acqua e quella volta la calmò, mentre aspettava.
    Ardan venne a prenderla dopo pochi minuti, afferrando un accappatoio senza nemmeno voltarsi mentre se lo infilava. - Di solito mi portano prima a cena fuori. - provò a scherzare ma aveva il sorriso incrinato in un'espressione di dolore mentre infilava le braccia nelle maniche. Lo lasciò aperto, l'accappatoio, perché non c'era un singolo muscolo di quel corpo che lui non avesse già visto e quando fu davanti la vasca lo lasciò cadere dalle spalle.
    Il calore avvolse violento il primo piede, poi il secondo e tutto il corpo, mentre circondata di vapore si metteva a sedere nell'acqua così calda da sembrare torbida. Ben presto sciolse il fango che s'era seccato sulle gambe e lo trasse a sé diventando marroncina, stava bevendo lo sporco che sentiva annidato nel cuore e col sapone lo trascinava via. Era distratta, si mise a schizzare acqua contro le pareti come una bambina e sorrideva, perchè non aveva una vasca da anni e le mancava fare il bagno, ma quando sentì la spugna sulla schiena sussultò. Non era un brivido d'imbarazzo, né si sentiva, ma quella premura le ricordò che qualcosa era andato storto rubandola ai suoi giochi di bambina spensierata: per qualche secondo lasciò che lui le sfiorasse la schiena, perché in fondo le mancava sentire le mani di una persona che non le fosse indifferente, di qualcuno a cui teneva, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Poi delicatamente gli sfilò la spugna dalle mani e se la passò intorno il collo, sul seno e le braccia: aprì il rubinetto e con l'acqua che ne uscì cercò di pulirla, prima di bagnare i capelli. - Oye. - cominciò, quando era nervosa lo Spagnolo precedeva ogni pensiero per quanto si sforzasse sempre di ragionare in Inglese - Immagino tu abbia visto cosa sono... - era una scommessa col destino, un azzardo, perchè non poteva averne la certezza e se tutto quello fosse stato solo un malinteso avrebbe dovuto spiegare cosa intendeva. - Io non so se ho provato a farti del male. - lo faceva sempre, prendersi ogni colpa: ma quella volta non aveva modo di sapere non fosse esattamente come credeva - ma non sono Io quell'animale, non pensa come me. - non ricordava nulla eppure sentiva di dover spiegare. - Perciò se è così dimmelo, giuro che non mi uccido. - lo disse sorridendo, ma negli occhi era dipinta una preghiera. - Intanto dammi una sigaretta. - al diavolo la gola graffiata e i polmoni dolenti, aveva bisogno di fumare. Era affascinante come nella sua ingenuità credesse ancora di poter fare del male ad Ardan, lei che a stento aveva difeso se stessa in quelle celle.
    Havel Lais Rivero [ sheet ] Voy libre come el aire, no soy de ti ni de nadie.
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    ardan ciaran morley
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    You always seem to come my way, come and take your shape out on the stars. How did ya find me? How did ya find me? What are you looking for, are you looking for?
    Non appena la toccò le spalle di Havel s'irrigidirono. Per un attimo aveva davvero pensato che potesse andare bene così, che non ci sarebbe stato un dopo, invece quello era arrivato troppo presto e aveva ucciso tutto. Perché esporsi così tanto? Ne valeva la pena?
    "L'hai appena vista per terra, prima quando era quasi morta ti andava bene, vero? Non sarebbe stata in grado di comportarsi nel modo in cui non avresti voluto"
    Distolse lo sguardo mentre le sue riflessioni lo colpivano più volte. Non riusciva a prendere una posizione in tutto questo, se davvero ce n'era una...forse avrebbe dovuto non esporsi affatto, ma ormai il danno era fatto. L'aveva presa, l'aveva portata lì dentro, e la cosa che più lo metteva in crisi era il fatto che non riusciva a pentirsene. Per un attimo immaginò di poter riavvolgere il tempo e tornare su quell'albero, ma avrebbe rifatto esattamente le stesse stupide azioni.
    Lui che per mesi era stato tremendamente attento a non rapportarsi con nessuno, lui che per mesi aveva distanziato tutti nel modo peggiore adesso ci ricadeva di nuovo. Stava bene nella solitudine, era un toccasana, e la compagnia non l'aveva mai voluta da nessuno perché nessuno aveva fatto in modo di meritarsela e a lui era andato sempre bene così, benissimo.
    Con Havel invece non c'era alcun tratto sbagliato che lo portasse in qualche modo a disprezzarla. Forse era la sua sincerità in qualsiasi cosa, dall'azione più piccola a quella più complessa. Ardan riusciva a leggerle tutte, una dopo l'altra, come se lei gliele stesse in qualche modo dettando ad alta voce...ma non era una voce lineare.
    Erano contraddizioni. Contraddizioni su contraddizioni l'animavano, la lasciavano inerme, poi felice, poi delusa, poi distaccata. Erano un intrico fitto di rovi, e mentre lei ci camminava all'interno sinuosa come un felino, non permettendo che essi la toccassero, Ardan non riusciva a fare altrettanto. La guardava dall'inizio della boscaglia, fermo nella neve che ammantava la radura e la guardava allontanarsi dal modo in cui si erano conosciuti tanti anni prima.
    Ardan era totalmente differente, era assetato di potere, di distruzione, ma la figura di Havel nella sua mente era rimasta immutata. Ora però si rese conto che non era affatto così, e un pugno allo stomaco glielo fece rivoltare nella delusione e nella frustrazione, nel rancore che lo animò dentro e che lei non vide mai, perché di spalle.
    L'espressione del volto irrigidita era persa nelle onde dell'acqua create da Havel. Se non fosse stato a casa sua, in quel momento se ne sarebbe andato in silenzio, invece adesso, con le mani ancora umide e imbrattate di sapone si alzò dall'angolo della vasca e sedette sul pavimento, dalla parte opposta a quella di Havel così da poterla guardare in faccia, proprio al lato del bordo che li separava. Distese le gambe a terra, le fece scivolare sul pavimento nero e non c'era più alcuna ombra di cordialità né sorrisi, solo un'espressione seria e pensierosa, posata come un equilibrista su un filo sospeso. Quando Havel cominciò a parlare Ardan spostò finalmente lo sguardo su di lei e si chiese davvero se fosse in grado di capire.
    Era una ragazzina, dopotutto. Non si spiegava come mai sentisse quella sorta di legame verso di lei, e un po' gli dava fastidio. Dopo il momento di perdizione e di affetto, adesso era subentrata di nuovo quella fastidiosa lucidità che gli diceva che ad Havel piaceva giocare, mentre per Ardan il momento dei giochi era finito da quella notte. Era diventato adulto, era cresciuto sulle proprie enormi sofferenze e ora aveva altri obbiettivi, degli obbiettivi labili come sabbia...ma lei?
    Lei si sarebbe fatta male. Lei non sarebbe riuscita a tenere il passo...ma forse neanche le interessava dopotutto, quindi perché farsi tutte quelle enormi palle?
    Stava pensando troppo...cristo, perché stava pensando così tanto?
    Il suo accento spagnolo lo risvegliò dal turbine di pensieri. Per un attimo la guardò quasi bruscamente, scordandosi dov'era, con chi stava parlando, poi se ne rese conto e cercò di sciogliere i nodi del viso.
    Da quella posizione anche il volto di Havel sembrava lo stesso, ma più incerto. Non erano mai stati così, loro che correvano fuori dal Ballo d'Inverno e si immergevano nella notte sentendosi Dei, ridendo in faccia a tutti quegli esseri che non facevano altro che volteggiare sopra le loro stupide esistenze.
    Per un attimo rivide l'Havel con il vestito rosa a sbuffo, quella che l'aveva preso dopo che lui l'aveva baciata facendo altrettanto con una totale mancanza di senno. Gli mancava infinitamente, l'avrebbe voluta indietro...ma d'altronde neanche lui poteva tornare quello che era, ed era meglio così.
    I capelli le si erano fatti più scuri da bagnati. Adesso sembravano quasi neri, mentre lasciavano gocciolare l'acqua sopra le sue spalle e i seni. Forse non se ne rendeva conto di quanto potesse essere affascinante anche in una situazione come quella, con mille problemi a farle capolino sulla fronte sottile...o forse lo sapeva fin troppo bene.
    Alla fine di tutte quelle frasi confuse Ardan fece correre un lungo momento di silenzio. La fissò impassibile, neanche un'emozione tangibile sui suoi occhi cerulei, come stesse ascoltando una nuova canzone cercando di capirne gli accordi...poi, di punto in bianco, cancellò tutto. Sbuffò di poco facendo tendere un angolo delle labbra in un impercettibile sorriso incredulo, abbassò lo sguardo inclinando il volto da un lato mentre le spalle si abbassarono lievemente. Trovò l'accendino e il pacchetto di Marlboro nella tasca dei pantaloni e si mise una sigaretta tra le labbra. Fece scattare la fiamma ed aspirò una volta per poi piegare la schiena in avanti e tendere il braccio verso Havel, passandole la sigaretta accesa.
    Si risistemò nuovamente con la schiena contro il muro e trafficando per risistemare tutto dov'era prima scosse di poco la testa, come se la ragazza se ne fosse uscita con una battuta ampiamente sarcastica e irriverente: « Pensi davvero che mi servano giustificazioni da parte tua? »
    La guardò dritta e bruscamente negli occhi, trafiggendola come avesse avuto tra le mani una stalattite di ghiaccio, eppure non avrebbe voluto. Ormai era nel suo comportamento mostrarsi in quel modo, non riusciva a farne a meno, non riusciva più a dosare le emozioni, a stabilire un rapporto realmente sano con qualcuno. Anche con Nikolaus aveva difficoltà.
    In realtà quello avrebbe voluto dimostrarsi solamente come un tentativo di farle aprire gli occhi sulle cazzate che stava dicendo.
    « Ho torturato, ho ucciso delle persone, Havel » scandì fermamente, poi lo sguardo si placò di nuovo e ci fu solo una richiesta di comprensione. Inclinò di poco la testa e alzò le sopracciglia: « E tu ti preoccupi davvero di cosa potrei pensare dell'animale che c'è in te? »
    Era lui l'animale. Lui era il distruttore, quello che non andava, e anche se ci pensava non riusciva a provarne realmente rimorso. Aveva visto, aveva provato ogni singola morte sulla sua pelle durante le due settimane di agonia in cui era scappato dal Brakebills, ma dopo esserne uscito l'unico pensiero era andato nuovamente a se stesso...e forse era proprio quella la spinta che ancora non l'aveva fatto cadere nel baratro della pazzia.
    Concentrandosi su di sé eliminava gli altri e ciò che lo circondava, innalzandosi al di sopra...ma quando guardava in basso e vedeva una leonessa regale che avrebbe voluto nascondere le proprie sofferenze non poteva fare a meno di volerla raggiungere, di cadere verso il suolo cercando in qualche modo di prenderla senza farsi male.
    Il volto si raddolcì di nuovo ma mantenne la propria severità, la schiena si piegò di poco in avanti e lo sguardo accarezzò di poco quel volto così particolare e familiare, nonostante tutto: « Io ho visto chi sei. Ti ho vista dalla prima volta in cui ti ho conosciuta e continuo a vederti ancora adesso...ed è quello che conta. Non cambierò mai idea »
    Aveva enfatizzato volontariamente il "chi". Non avrebbe mai potuto trattarla come un animale o un oggetto.
    « Eri...qui intorno. Stavi cercando qualcosa, non so cosa, mi hai trovato ma te l'ho detto, non è successo niente »
    Bugiardo.
    La sua espressione era così credibile e veritiera perché anche lui si era convinto di quello. Non era successo niente.
    « Non voglio che tu ti senta...costretta » mormorò poi, deviando lo sguardo e facendolo rimbalzare da una parte all'altra della stanza come stesse inseguendo la propria voce: « Non voglio che mi parli di niente se non vuoi, ma...da quanto tempo...? »
    La frase gli si fermò tra le labbra.
    "No, Ardan, no. Non interessa a nessuno dei due, le stai facendo del male ancora una volta".
    Alzò frettolosamente una mano come se stesse scacciando ciò che aveva tentato di chiederle prima: « No ok, senti, fà nulla...l'importante è che sei tutta intera »
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    Lamentati ancora una volta della lunghezza dei tuoi post. Fallo, ti prego, che rido.


    Edited by » avalanche. - 6/2/2017, 01:49
     
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    Malgrado tutto, quello non era l'Inferno e Ardan non aveva alcun potere, perchè sulla Terra non c'erano corone né fiamme ardenti, lì dove al destino non importava dei suoi peccati e di quella sete di potere. Il vapore avvolgeva lentamente le mattonelle, rivestendole di una patina umida che rifletteva la luce in ogni goccia, mentre l'acqua della vasca si tingeva del fango scuro. Sulla Terra non esisteva perdono e persino l'idea di dannazione era solo una fantasia degli uomini, ma Havel non credeva in quelle favole da bambini e non sussultò quando Ardan ammise di aver ucciso e torturato. - Recita qualche Ave Maria, Gesù ti perdonerà. - gli disse stringendo la sigaretta tra le labbra, mentre la bocca si piegava in un sorriso irriverente, lo stesso di quand'era bambina che dipingeva il riflesso del suo viso in quella notte a Beauxbatons. Havel non era mai cresciuta davvero, non poteva immaginare quanto la morte portasse sofferenza e non si lasciava spaventare dall'idea che Ardan avrebbe potuto ucciderla, che in quel bagno nessuno l'avrebbe mai trovata, perché non c'era posto per la paura in quella vasca stretta, nell'acqua calda: pur non sapendo dove si trovasse. E forse non era cambiata poi così tanto dai tempi della scuola, dietro quegli occhi scuri si nascondeva lo stesso sguardo curioso, mentre le iridi riflettevano Ardan come uno specchio, abbandonato al suolo poco distante. Havel si era nascosta dietro l'illusione di una se stessa più matura, di una che il mondo lo conosceva, ma tra le vene scorrevano ancora l'irriverenza, la spensieratezza di un tempo e forse non avrebbero mai smesso, neppure nel dolore. Lui invece era cambiato troppo nel profondo ed Havel si era persa nel tentativo di scavare alla ricerca dello stesso Ardan che l'aveva afferrata per un polso e trascinata via dal ballo della scuola, con una canna nelle tasche e tanta voglia di mandare tutti a farsi fottere. In quegli occhi chiari era dipinta la stessa irriverenza che li aveva avvicinati, prima che diventassero lo specchio freddo di un'anima ghiacciata proprio da quell'elemento che gli apparteneva, lo stesso di cui gli piaceva avvolgere i nemici e che prima di ogni altro aveva stretto il suo cuore. Havel invece era il fuoco, le fiamme dell'Inferno cui Ardan apparteneva, e in fondo sperava ancora di poter sciogliere il ghiaccio: bastava solo lui s'avvicinasse ancora un po' e ingenua non poteva capire che non l'avrebbe mai fatto, non abbastanza. Alla fine, avrebbe dimenticato anche quel fallimento se necessario.
    - Non mi ricordo mai un cazzo di quello che succede, fa davvero schifo. - lamentò spegnendo la sigaretta nell'acqua della vasca perchè rimanesse a galla con lei, tra il sapone e il sudiciume che cominciava ad avvolgerla. Si lasciò andare, posando la schiena al marmo e affondando nello sporco, con le orecchie e il viso appena fuori dall'acqua. Sdraiata il dolore s'attenuava e i polmoni non graffiavano, persino le ossa sembravano lasciarsi cullare da quel calore e i muscoli non erano più tesi, non le importava d'essere nuda: sarebbe stato ipocrita fingersi intimidita, quando Ardan era stato il primo a vederla e l'unico a raccoglierla dal fango, senza vestiti. Anche sporca e indolenzita, nuda, era regale come la leonessa che nascondeva in sé, senza imbarazzo quasi il peccato originale avesse dimenticato di macchiarla e leggera come potesse volare via. Ardan invece lottava contro la voglia di guardare e l'idea che fosse sbagliato, sentiva i suoi occhi sulla pelle a volte e non le importava: non si vergognava del seno troppo piccolo, della cicatrice ancora incisa a fuoco sulla spalla destra. - Non lo so bene, la prima volta ero più cosciente, ho capito cosa fosse successo. - si sollevò e con lei degli schizzi d'acqua, mentre i capelli grondavano gocce. - Ma non so come sia iniziata. - forse un'idea se l'era fatta riconducendo tutto al circo degli orrori, in quella notte: ma non lo avrebbe mai ammesso, né raccontato a lui, perchè ancora cieca nell'idea di poterlo ferire. Invece pur volendo non sarebbe stata in grado neppure di atterrarlo, perchè le cose erano cambiate da Beauxbatons e lei era solo un ricordo sbiadito, che Ardan avrebbe potuto distruggere con quella sua forza ritrovata. - E sono tutta intera, mi è capitato di stare peggio. - sorrise, aveva risposto nonostante non fosse un obbligo, perché non era più un segreto. - Mi piacerebbe almeno sapere cosa cazzo stessi cercando. - scrollò le spalle, doveva farci l'abitudine perchè quella Leonessa non aveva bisogno di lei, che era solo un corpo. Eppure c'era qualcosa che non la convinceva, una titubanza che nascose nel sorriso, perchè i polmoni e la gola non avevano mai bruciato così tanto dopo una trasformazione. Le ossa e i muscoli erano la normalità, ma sentiva dolori che non avrebbe associato al tornare in sé. Eppure non c'erano dubbi sul volto di Ardan, doveva essere la verità perché non vide altro nei suoi occhi. Si sollevò e l'acqua schizzò fuori dalla vasca, mentre scivolava sul suo corpo che scavalcava il bordo toccando le mattonelle. Infilò l'accappatoio senza chiuderlo e quei movimenti bruschi per più di un attimo contorsero il volto in una smorfia di dolore, prima che si lasciasse andare sedendosi affianco a lui. - Non male questo posto... - fece con la vista annebbiata dal vapore - non per uno come te. - gli diede una spallata leggera che a stento lo smosse. Non aveva idea di cosa raccontare, da dove iniziare e non sapeva se a lui interessasse, se si sarebbe raccontato di rimando, ma stava bene anche nel silenzio, col volto arrossato dal calore e la pelle in bella vista.

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    La seguì con lo sguardo. Si chiese come non fosse riuscito prima a chiedersi come mai la consistenza della pelle umana fosse così morbida. Anche lui era rinchiuso in quella stessa pelle, ma non aveva mai prestato molta attenzione alla fisicità, quanto al contenuto. Ironico per uno come lui, uno che utilizzava il proprio fascino in modo così inconscio e naturale da non rendersi neanche conto di quanto potesse riuscire ad ammaliare gli altri. Di norma la sua estetica dava una precisa impressione, che poi veniva smentita da tutto il resto, ma mai come allora si era chiesto perché gli esseri umani si fossero formati proprio così.
    Non erano affatto resistenti, erano così fragili come lo erano all'interno, ma in Havel era diverso. C'era una tranquillità nei suoi gesti, come se tutto ciò che fosse accaduto non fosse importante, e in realtà Ardan si chiese, perché lui invece dava così tanto importanza agi eventi? Ne valeva davvero la pena? Si era più felici se si era come Havel? Avrebbe voluto scambiare la sua anima con quella della persona che aveva di fronte solamente per un giorno pur di scoprirlo.
    La sigaretta fu sommersa dall'acqua con entrambe le dita che delicatamente riemersero come tutto il fisico esile. Ardan era amante dell'equilibrio in tutte le sue forme, e c'era un equilibrio in Havel, nella sua estetica che faceva da contrappeso alla personalità eccessiva tanto quanto lo era quella di Ardan.
    Aveva alcuni tratti marcati nel volto, ma altri erano delicati. Aveva delle forme lievi, quasi accennate, di cui con altre Ardan si sarebbe lamentato, ma poi aveva quella magrezza ugualmente contrapposta alle spalle spigolose ma impostate.
    Sentì il vapore accarezzargli lievemente le guance, ma continuò ad ascoltare nella foschia la voce di Havel. Era altalenante, Ardan, un minuto prima era teso, si preoccupava, un minuto dopo era trascinato dalla leggerezza di Havel come riuscisse a portarlo in alto allo stesso modo in cui si era alzata, un movimento deciso che lo strattonava in una direzione completamente opposta da ciò che si era prefissato.
    - Recita qualche Ave Maria, Gesù ti perdonerà. -
    Arricciò un sorriso furbesco, irriverente, schiudendo di poco le labbra. Il suo primo sorriso spontaneo dopo secoli che gli illuminò il volto in un'umanità che non sarebbe riuscito mai a vedersi bene, tanto che alla fine si distrusse bruscamente.
    Era tremendamente bello il modo in cui lasciava che l'accappatoio le scoprisse il corpo. Era tremendamente bello averla lì accanto. Era tutto così tremendamente bello dopo tanto tempo che bloccò le parole lasciando che lei le dicesse al suo posto.
    Si era seduta tutta bagnata, la spalla che lo scosse inumidendogli la camicia e facendolo ondeggiare di poco, tanto che Ardan alzò un sopracciglio in una smorfia silente e sarcastica inclinando il volto verso di lei e trattenendo una smorfia.
    - E sono tutta intera, mi è capitato di stare peggio. -
    Sì. Certo che le era capitato.
    Il divertimento si spense e lo sguardo di Ardan, chiaro come il cielo terso e albeggiante a poco spazio da quello scuro e profondo di Havel la trapassò con serietà, concentrazione, come se la stesse studiando prima di attaccarla in qualche modo. L'impassibilità del volto di Ardan stonava con l'irriverenza della spagnola quanto le loro storie, quanto le loro personalità che però in qualche modo riuscivano a comunicare più di tutto il resto.
    Era un rapporto malsano il loro, tremendamente instabile, tremendamente assente quanto presente allo stesso tempo e vivido in entrambi, Ardan lo sapeva, ed egocentricamente era anche sicuro di cosa, o meglio, chi avesse cercato quella leonessa persa nella boscaglia, ma non glielo disse mai.
    La testa di Havel perdeva liquidamente vapore. Vedeva il calore lasciare poco a poco la ragazza come se lui lo stesse mandando via con lo sguardo.
    "E sono tutta intera, mi è capitato di stare peggio".
    Ardan scostò una mano dal bordo della vasca. Roteò la spalla in direzione di Havel in modo tremendamente lento e scostante, come stesse andando a scatti e con la punta dell'indice, delicatamente e in modo quasi intangibile scostò di poco il bordo dell'accappatoio dalla spalla della ragazza. Sfiorò quella cicatrice, ne disegnò il rilievo con cura. Abbassò il volto nel guardare quella spaccatura bianca tra la pelle olivastra.
    « Lo so » mormorò solamente. Lo sapevano entrambi, ed era pesante, quella consapevolezza.
    Se solo avesse saputo. Aveva messo l'uno contro l'altra le uniche persone a cui teneva davvero. Nikolaus e Havel avevano lottato per lui, per la sua causa, avevano rischiato tutto,e lui in cima a quei rischi comuni era morto ed era rinato nuovamente.
    Le aveva promesso che avrebbe rispettato i suoi spazi, ma proprio non ce la faceva.
    Lasciò andare la cicatrice e sospirando ruotò il volto premendo forte la fronte contro la tempia della ragazza, chiudendo gli occhi e stringendo le labbra. Stette così, in quella posizione, la spalla che aderiva contro l'accappatoio totalmente umido di Havel, la sua gamba che toccava quella scomposta della ragazza, la sua fronte e parte dei suoi capelli che vennero invasi dall'acqua che colava per terra.
    « E' un posto come un altro » minimizzò con un filo di voce, gli occhi ancora chiusi in quel buio che sapeva di pioggia, di oceani lontani.
    « Ogni luogo lo è. E' tutto così tremendamente uguale...ma alla fine, ci hai mai pensato ad andartene? Ad andartene lontano, intendo, a mollare tutto. Lo so, alla fine non riuscirei mai a farlo, non è da me e neanche da te, ma sarebbe bello »
    Fece una pausa. Si corresse. Ci riprovò. Era complicato.
    « Se per un attimo io non fossi io, e se per un attimo tu non fossi tu, sarebbe bello »
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    Fa un po' cagare, però ciao.


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    Non esisteva difesa contro quell'attrazione che Havel sentiva: Ardan avrebbe potuto allontanarsi, smettere di guardarla e non toccarla mai più, non sarebbe bastato. Seguiva i suoi movimenti lenti, freddi come l'elemento che gli apparteneva, e non poteva fare a meno di ammirarli in ogni sfaccettatura, quando quei sorrisi così rari spazzavano via il dolore, o al contrario i ricordi gravavano sulle sue spalle giù bagnate. Erano agli antipodi, loro due: Ardan così distante, Havel sempre troppo vicina a spezzare quelle difese che lui stesso tentava invano di costruire. I movimenti lenti di lui facevano a pugni con la fretta che avvolgeva il corpo di Havel, dal modo svelto di parlare a quello impacciato di muoversi sempre troppo velocemente. Persino nei modi di pensare erano perfettamente distanti, perchè lei non rifletteva mai: affrontava ogni cosa con una leggerezza quasi disarmante e non le importava di passare per un'idiota o un infantile, lui invece pensava troppo, soppesava ogni idea e lasciava che la più piccola delle frasi spazzasse via il primo sorriso genuino del suo volto. O forse erano più simili di quanto potessero immaginare, entrambi dei ragazzini viziati che il dolore aveva marchiato a fuoco al chiaro della stessa luna, erano poco distanti quella sera: combattevano entrambi per la propria vita. Per un istante soltanto Havel benedisse "la notte degli orrori", che le aveva fatto ritrovare Ardan quando credeva che la noia l'avrebbe uccisa. Perchè al contrario di Morley lei viveva lasciando che le emozioni la trascinassero ovunque, perciò riusciva a vedere del bene in quella sera e nel loro incontro: che l'aveva salvata dal baratro di monotonia in cui stava cadendo, anche se non l'avrebbe mai ammesso. Ed è proprio dai contrari che molti filosofi dell'antica Grecia dicevano fosse nata la vita, che li avesse generati un soffio d'aria o un vortice: il caldo ed il freddo, il ghiaccio e il fuoco. Nel loro eterno scontrarsi si trovavano, generando il mondo.
    Ardan le sfiorò la spalla, scostando l'accappatoio, persino le sue mani fredde stonavano sul corpo troppo caldo e umido di lei. Detestava le si chiedesse della ferita, ma Ardan non fece domande perchè conosceva già quella storia, l'aveva vissuta e forse sapeva anche chi fosse stato a ferirla. Quando i polpastrelli ghiacciati di lui la toccarono le sembrò di sentire la punta in ferro della lancia che l'aveva trafitta, tremò: un brivido che ripercorse la schiena. Ogni volta che ci ripensava sentiva i peli dritti sulla nuca, per quanto le piacesse fingere di essere tornata come prima, i ricordi la spaventavano ancora. Più degli eventi stessi di quella notte, erano state disastrose le conseguenze: il regime di terrore nel Brakebills, la trasformazione in mutaforma, la scomparsa di Alaska e quell'esercito di ragazzini che volevano così tanto trovarla, che odiavano Ardan come fosse satana. Lei invece non c'era riuscita e non si spiegava il motivo, aveva rischiato di morire e comunque non poteva riconoscergliene una colpa: era troppo diversa dagli altri, persa in quella leggerezza di cui tanto andava fiera e che Ardan non sembrava comprendere appieno, nel suo costante incolparsi.
    Lo sentì accostarsi, poggiare la testa sul profilo sgraziato di lei e bagnarsi delle gocce d'acqua che colavano tra i capelli. Il calore fuggì in grandi nubi biancastre, come l'avesse scacciato lui. Havel rise, Ardan sembrava un bambino in quella posa, col suo farneticare del fuggire via e il lasciarsi andare al calore umano. Allungò il braccio destro e gli cinse il capo con la mano bagnata, erano intrecciati in un' armonia silenziosa che Havel quasi temeva di spezzare, mentre si riscoprì a provare qualcosa nel contatto fisico. Un'emozione che non avrebbe mai ammesso le fosse mancata davvero nel fare sesso senza alcun sentimento con i ragazzi della confraternita. Essere sfiorata, provare qualcosa di diverso dalla totale indifferenza nei confronti di chi le stava affianco, l'idea di poter apprezzare quella persona senza bisogno di sbronzarsi: sembrava quasi una novità. Si distaccò di poco, la solita Havel che non pensava mai abbastanza, girando il viso verso di lui. Mentre con la mano gli accarezzava ancora la guancia si avvicinò baciandolo. Aveva chiuso gli occhi e scacciato la voce che dentro di sé la rimproverava per la scelleratezza. Era stata lei ad allontanare Ardan sul tetto e lei a baciarlo in quel bagno: soltanto l'ennesima contraddizione. E se lui l'avesse respinta se ne sarebbe fatta una ragione, ma era nel contraddirsi così facilmente che Havel si dimostrava una persona coerente, nel non pensare davvero al da farsi.
    Le mancava il calore umano, quello dettato da un sentimento e non dall'alcol e allora si lasciò andare come aveva fatto lui poco prima.
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    Le mani di Havel erano umide e di un piacere immenso. Ardan avrebbe voluto rimangiarsi quello che le aveva appena detto: non voleva esporsi in quel modo, lo rendeva nervoso, eppure le parole uscivano fuori da sole senza alcun controllo davanti a quella ragazza. Non sapeva come, non sapeva perché, ma era tremendamente difficile evitare di renderle conto sinceramente. Sicuramente Havel non era un'estranea o una ragazza qualunque, ma era pur sempre una persona, e come tutte le persone quelle accanto a lui erano estremamente pericolose. Se da una parte le dita di Havel lo trascinavano verso una pace momentanea e folle d'altra parte la lucidità gli imponeva di guardare oltre Havel e di scorgere Chaos, suo padre, la distruzione che aveva seminato e che adesso, da qualche parte lì fuori lo stava cercando. Prima dell'attacco al Brakebills Ardan era sempre stato un ragazzo amante del presente, di ogni momento colto in un attimo, ma adesso non era più così. Adesso non si poteva più permettere quel lusso, adesso guardava davanti a lui e sentiva già sulle spalle il peso di quelli che avrebbero tanto voluto torturarlo, ucciderlo, ballare sul suo cadavere come lui aveva fatto con suo padre...ma prima avrebbero dovuto prenderlo.
    Havel lo prese con facilità, lo rubò ma senza altri fini. Ardan non si attardò neanche ad osservarla, a dubitare delle sue azioni...era qualcosa che sentiva a pelle, la sentiva dal primo momento in cui si erano rincontrati e lo sapevano entrambi, ma quei bisogni erano seppelliti dall'accaduto. Aveva avvertito il brivido di Havel quando aveva toccato quella cicatrice, era passato pochissimo tempo dalla fine di quella tragedia, eppure per Ardan sembravano passati secoli, mentre per lei, forse, era differente.
    Però alla fine chi se ne importava. Havel l'aveva baciato sorridendo, e quella era una buona conferma...ma non si sarebbe limitato a quella. Havel aveva infranto la regola che gli aveva imposto, e Ardan non si sarebbe fatto nessuna remora a reagire di conseguenza, non gli importava di cosa avrebbe pensato Havel, non gli importava se non era ciò che voleva, era da troppo che Ardan seppelliva la voglia di manifestare ciò che provava per una persona tra mille precauzioni, mille pensieri, mille tormenti e fino a quel momento era andato tutto bene, era riuscito a controllarsi, a misurare i propri gesti, ma d'altro canto quanto avrebbe dato per un po' di libertà, quanto avrebbe dato per poter scegliere di fare davvero ciò che voleva.
    Come le aveva detto prima l'avrebbe portata via da lì, sarebbe fuggito insieme a lei, ma nell'impossibilità di quel desiderio almeno quella mattina l'avrebbe fatta sua, perché in quel momento non vedeva altro che lei di fronte a lui, lei che con quell'infantilità adesso poggiava le labbra sulle sue seduti ai bordi di quel bagno nero, lei che lasciava colare le gocce d'acqua sul suo viso solleticandogli il naso.
    Ardan, nonostante nessuno l'avrebbe mai immaginato, era un amante delle piccole cose. Gli piacevano le ciglia chiuse di Havel, umide e incollate tra loro, gli piaceva la ruvidità delle dita increspate dall'acqua che continuava a sfiorargli la guancia...e quel bacio, in tutto ciò, fu particolarmente spontaneo e improvviso da parte di Havel, così tanto che sulle prime Ardan si bloccò nel lasciarsi toccare, ma poi senza neanche darle tregua si sporse su di lei, roteò il busto e continuò a baciarla schiudendo le labbra. Il tempo fuggiva veloce, aveva una premura dettata dal proprio corpo e dalla propria mente che guidò le mani a poggiarsi sulle spalle di Havel, a far calare l'accappatoio e scendere toccando le braccia finché non passò ai fianchi e al seno. senza smettere di toccarla si separò solo un attimo per potersi sistemare in ginocchio a carponi davanti a lei, a lato delle sue gambe, e piegare la schiena in avanti e baciarla ancora, e ancora aggrappandosi con le braccia alla schiena della ragazza e facendola distanziare dal muro per farla avvicinare a lui.
    Si rese conto che quegli anni avevano cambiato tutto e niente. Si rese conto, nelle più minime reazioni di Havel, che loro due fisicamente erano rimasti uguali e che quella connessione Ardan l'aveva sempre cercata in altre fallendo miseramente. C'era qualcosa, nel modo in cui Havel lo toccava e lo incitava a distruggere le barriere che avrebbero dovuto mantenere, di vero, qualcosa di non costruito che spontaneamente si liberava ogni qualvolta Ardan lo voleva e lo chiedeva. Era soddisfacente.
    Da quella posizione le labbra si allontanarono di poco, giusto lo spazio che gli concesse di guardarla negli occhi seriamente. Era tranquillo in quel momento, ma tacitamente la stava informando di ciò che avrebbe fatto. Informando, non chiedendo. Non avrebbe accettato una fuga, non gliel'avrebbe permesso, era stanco di vederla scappare e se la prima volta in cui si erano rincontrati Ardan aveva lasciato decidere a lei adesso avrebbe dettato lui le regole.
    La prese con entrambe le mani da sotto le braccia, si alzò facendola alzare a sua volta e le sfilò totalmente l'accappatoio che cadde a terra mischiandosi al pavimento nero. La guardò giusto un attimo, la guardò e vide la donna che in quel momento voleva tremendamente e non poté che esserne soddisfatto. La prese per mano e senza smettere di guardarla la portò nell'altra stanza, tra le pieghe di quelle coperte macchiate già della sua presenza. Si tolse la camicia bianca, lasciò che cadesse a terra mentre parte del suo fisico cereo gli esaltava i lineamenti del viso, in netto contrasto con quelli di Havel, scuri e bruni come la terra profonda.
    Si adagiò su quella terra e si accorse di essere nudo. Si accorse che in quei mesi aveva avuto tremendamente bisogno di quello ma non ci aveva mai dato attenzione. Si accorse che tanto tempo era passato, ma lo stesso tempo adesso si era fermato...e si rivide su quel pontile, a terra, mentre la tempesta fuori smuoveva presuntuosamente i mari.
    Che urlasse pure. Per il momento tutto il mondo gli sembrava un minuscolo punto sperduto nel corpo di Havel.

    "Caro padre,
    è la prima volta che ti scrivo dopo mesi e stranamente non ne sono né terrorizzato, né preoccupato. Non so se saresti fiero di me, del resto non lo so neanch'io. Non so cosa sto cercando né chi diventerò, e se questo mi innervosiva fino a poco fa adesso davanti a questa pagina bianca ho capito che va bene così.
    Va bene così, perché le persone cambiano e dentro di me ce ne sono ancora tante da scoprire. A volte quelle che preferivo mostrare prima si ribellano violente, mi intimano di ricordarle, e fanno male. Fanno male perché so che non sono in grado di dare loro quello che vogliono, non sono in grado di tornare come prima né mai lo farò, e questa è la mia unica sicurezza: non voglio tornare sui miei passi, perciò ti scrivo. Ti scrivo perché non ho ancora chiarito con te, e probabilmente questo pezzo di carta non servirà a nulla perché già da domani mi sarò rimangiato tutti i miei buoni propositi del cazzo, ma domani è lontano. Ti posso dire solamente ciò che penso oggi.
    Penso che mi manchi. La tua assenza è una voragine che mi consuma, mi logora e mi devasta ancora, fortemente. Mentre ti scrivo sento una fitta al petto, ma d'altro canto mi ripeto e riscrivo ancora che non voglio tornare sui miei passi...e il mio passo più importante eri tu.
    Voglio costringermi a ricordarti nel modo giusto, voglio costringermi a vedere i pochi momenti che abbiamo passato non con rabbia o stupido disprezzo, ma con orgoglio, e con questi piccoli accorgimenti otterrò la mia rivalsa a qualunque costo. Non la tua, la mia. La mia che parte da te per andare oltre, la mia che mi porterà ad uccidere, a torturare, a distruggere senza pietà ogni cosa che mi impedirà di raggiungerla.
    Mi hai sempre insegnato ad andare avanti da solo, senza alcun aiuto, e questo è il valore più importante che mi è rimasto di te.
    Voglio tornare ad essere un uomo libero, quando questa storia sarà finita...e se la morte sarà la mia libertà, allora non mi fa neanche più così tanta paura".


    Il sole cercava ancora di entrare dalle finestre. Ardan, ricoperto per metà dalle lenzuola, era sdraiato supino, le gambe piegate che reggevano il dorso del suo taccuino. Dalla morte di suo padre non aveva più avuto voglia di scrivere, ma adesso curiosamente si sentiva diverso. Poggiò il taccuino sul comodino accanto al letto e osservò di sottecchi Havel con una strana calma a muovergli gli occhi ghiacciati.
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    Ok ho fatto di testa mia XD ho lasciato la bombata molto generica, fai pure, sbizzarrisciti e aggiungi pure cose che io non sono brava in queste parti :'DDDD
    Anche l'after bombata, ho lasciato tutto in general, fai te :') - e poi si scopre che Havel non voleva dargliela e lo ha castrato ma intanto lui la lettera al papà morto la scrive comunque.


    Edited by » avalanche. - 3/3/2017, 13:53
     
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    E più Ardan cadeva, più si arrendeva all'oscurità, più lei sembrava inseguirlo: disposta a toccare il fondo per respirare soltanto una volta quel calore, sfiorare la sua pelle quasi diafana e le vene bluastre sui polsi. Stringergli i capelli sulla nuca ed arruffarli senza rispetto, accennando un sorriso irriverente piegato alla forza dei baci, sottomesso, in quel momento e in altri mille. E con i baci distruggevano la distanza tra loro, i segreti e le disavventure. Con i baci si riavvicinavano e nulla sembrava cambiato nel seno poco accennato di lei, nelle ferite di Ardan, nelle sue ciocche umide e spettinate che Havel strinse quasi cercando un sostegno. Con l'accappatoio cadde ogni frammento di quella parete che avevano eretto a separarli, cadde tutto ciò che Havel non gli aveva raccontato, ogni dubbio ed incertezza che aveva tenuto stretti a sè: Ardan s'era preso il loro posto mentre i corpi si sfioravano e le mani intrecciavano verso il letto.
    Non c'era imbarazzo nel suo modo sinuoso di camminare, nei fianchi stretti e il corpo troppo minuto. Si muoveva quasi quella stanza le appartenesse e nessuno a guardarla avrebbe potuto dire il contrario. Quel suo modo di fare era magnetico, la sua illusoria sicurezza, l'eleganza dei tratti spigolosi e scuri come il terreno che facevano a cazzotti con quelli troppo chiari di lui. Si avvicinò di nuovo, per la seconda boccata, mentre Ardan toglieva la camicia. Lo aiutò a sbottonarla con frenesia, le dita si mossero sulle sue quasi a ripetere un gesto memorizzato con l'esperienza. Eppure si sentì impacciata come lo era stata la prima volta, mentre gliela sfilava via dalle maniche, spingendola lontana per sfiorare la sua pelle. I loro cuori sembravano battere all'unisono, palpitavano senza sosta l'uno contro il petto dell'altra, contro le costole sporgenti e il seno mai abbastanza morbido. Gli mise le mani sulle spalle e lo spinse verso il letto, sorridendo con le fossette che facevano capolino dalle guance e lo stesso sguardo furbo di quando erano soltanto adolescenti. Poi velocemente si mise su di lui e ne cercò presto la bocca, i baci, il corpo che si era scaldato sotto le sue mani. Havel non lasciava mai le redini con le persone, a volte neppure si accorgeva di tenerle così strette, ma dirigeva sempre ogni danza. Non poteva rinunciare, perdere il potere: con Ardan quasi ci riuscì, non fosse che era pienamente d'accordo, quando mettendole le mani intorno ai fianchi la rovesciò di scatto. Sembrava una lotta la loro, uno scontro animale coreografato nel migliore dei modi e dipinto di una grazia selvaggia che la natura poteva soltanto sognare. Così vicini tutte le loro differenze si riassumevano in un contatto sempre più famelico, in quella guerra di potere destinata a morire tra le lenzuola. Cedette lei per prima, non era abbastanza forte da rovesciarlo ancora, e nell'istante esatto in cui sentì che stava entrando smise anche di provarci. Con un gesto, quello che potenzialmente avrebbe potuto essere il più volgare: un bisogno carnale di contatto umano e nient'altro, Ardan aveva finalmente azzerato ogni distanza concettualmente e praticamente. Havel si lasciò sfuggire un gemito, poi un sorriso e affondò nel collo di lui, baciando sino alle orecchie e combattendo la voglia di mordicchiare.
    Era abituata al sesso, quello senza nessun sentimento, invece a combattere con quelle sensazioni sentiva quasi il bisogno che lui le desse il permesso per qualsiasi gesto, ma presto il suo essere impacciata divenne intesa e poi qualcosa di più carnale. Con le dita e le unghie che lasciavano un segno arrossato sulla schiena di lui, prima che riuscisse a girarla senza chiedere. I loro copri si muovevano perfettamente all'unisono, era un ritmo scandito dai cuori e da respiri affannosi.

    Havel precipitò con la faccia sul cuscino. Non disse una parola perchè non era abituata alle "coccole" del dopo sesso. Non stava troppo tempo tra le lenzuola degli altri. Finse di addormentarsi, o quantomeno di riposare, e gli diede la schiena: con le vertebre sporgenti che potevano quasi essere contate. Si sollevò solo quando sentì che lui era fermo, quando la sua penna non marchiava più il foglio. Si voltò e poggiò il gomito sul cuscino, sorreggendo il capo con i capelli che cominciavano ad asciugarsi. - Mi dici dove siamo, o vuoi tenermi qui in ostaggio? - suonava brusca ma la tradiva un sorriso in volto. Il cuore palpitava ancora violento dalla foga, ma con la luce che cercava di entrare dalle finestre e la stanza avvolta ne buio, cominciò a rendersi conto che quel quadretto felice era soltanto una bugia. Che presto gli studenti avrebbero dato la caccia all'uomo davanti i suoi occhi, che si era schierata con loro durante la riunione e avrebbe dovuto tradire uno dei due. Ardan o il Brakebills. Havel non si schiera mai, stava soltanto con Havel, eppure la costringevano a scegliere.

    Havel Lais Rivero [ sheet ] Voy libre come el aire, no soy de ti ni de nadie.
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    You always seem to come my way, come and take your shape out on the stars. How did ya find me? How did ya find me? What are you looking for, are you looking for?
    La sua schiena tempestata di nei era un cielo che solo lui si convinse di aver esplorato, dalla prima all'ultima volta, solo e unicamente lui. Voleva tenersi quell'illusione addosso, almeno per quella mattina. Chi se ne fregava con chi Ardan avrebbe speso il suo tempo per divertimento, chi se ne fregava anche di ciò che avrebbe fatto lei, non gli importava. Per lui quel cielo sarebbe rimasto sempre suo, suo e di nessun altro.
    Aveva cercato ironicamente le stelle sopra la sua testa quando gli sarebbe bastato voltarsi per poterlo osservare per l'ennesima volta, uguale a com'era in Irlanda. Gli venne in mente tutto il tempo che aveva sprecato dentro le mura di casa, convinto che fuori non ci fosse nulla di interessante. Non gli piaceva il sole neanche allora, ma allo stesso tempo neanche la notte. Era piccolo, gli bastavano i corridoi, gli bastavano quelle luci tremendamente soffuse che creavano ombre per lui gigantesche oltre le armature. A volte si arrampicava sui loro piedi, gli prendeva la spada dalle mani, troppo pesante per lui. La teneva a due mani, la faceva strisciare sul legno lucido che s'incrinava al suo passaggio in solchi bianchi e lievi, ma causati dal suo poco tatto e prepotenza.
    Cressida lo rimproverava spesso. Per lei l'ordine della casa, come il suo ordine estetico era fondamentale, e ancora Ardan aveva presente la sensazione di rabbia che già a cinque anni provava riguardo quelle maniere che a lui tanto stavano strette, proprio come quelle scarpe mai troppo abbondanti, perché non era educato trascinare il passo, si doveva camminare alzando il tallone con cadenza, in piccoli movimenti eleganti.
    Gli era rimasto solo quello, di Cressida. Quelle stupide lezioni impartite per caso, prima che suo padre potesse scollarlo dalla sua presa.
    Guardando la schiena di Havel Ardan quasi fu sicuro che sarebbe stato in grado di camminare senza far rumore anche sul bordo della sua colonna vertebrale, proprio come Cressida gli aveva insegnato dai cinque ai sette anni. Camminare in linea retta era fondamentale, gli altri avrebbero avuto sempre l'impressione che nulla fosse in grado di turbarlo, glielo diceva sempre...che ipocrisia. Come se una passeggiata dal capo all'altro di una stanza potesse decretare quanto un uomo fosse forte.
    Il suo sguardo serio, ghiacciato, non si scostò neanche quando Havel si voltò e lo guardò seduto con la schiena contro la testiera del letto. Si era svegliata dopo quelli che gli sembrarono anni, e Ardan non ebbe neanche la capacità di chiedersi se quell'occhiata così sostenuta e senza alcun sentimento tangibile le potesse dare fastidio dopo ciò che era avvenuto. Ardan era solito comportarsi sempre in quel modo: osservava a lungo gli altri concentrandosi su piccoli dettagli, come li stesse sfidando a mostrarsi a lui senza pudore per poi essere distrutti dai suoi comportamenti irriverenti e dispotici.
    In realtà Ardan non se ne rendeva neanche conto. Era un processo ormai naturale, portato da tempo immemore sulle spalle anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, non in una situazione del genere. La squadrò tra le coperte senza un sorriso, mentre i capelli mori di Havel ricadevano sul cuscino come ricami umidi e gentili. Li aveva sentiti sul suo corpo, freddi, durante quell'istante di intimità che ancora sentiva addosso, che ancora sentiva scuoterlo anche se da un lato quasi ne era impaurito. Non sapeva cosa fare con lei, lei che con quei modi aveva cercato di dominarlo come la leonessa che era. Gli era piaciuta, quella presa di posizione, come se nonostante tutto lei, davanti a lui, non volesse perdere. Quella mattina non aveva vinto nessuno dei due, si erano scambiati in una sfida silente e passionale, Ardan aveva chiuso gli occhi solamente quando i gemiti di Havel erano diventati tangibili e prepotenti e un nodo allo stomaco si era sciolto mentre, come lei gli aveva graffiato la schiena lui l'aveva morsa con una fame vorace, come se avesse voluto nutrirsi di lei, consumarla finché non sarebbe rimasto altro che cenere.
    Invece eccola lì, resistente a tutto. Alla fine non era neanche così tanto fragile, Havel, e con quell'osservazione Ardan continuò a guardarla, la pelle scura che creava ombre sotto le lenzuola bianche, la guancia incollata al cuscino, le labbra schiuse in piccoli respiri ancora troppo giovani.
    Immaginò di vederla in quel modo sulla sabbia di qualche deserto, in mezzo al nulla. Forse c'era già. Quello non era altro che un luogo prosciugato dai rimorsi e dai fantasmi di Ardan, che rifugiandosi sotto il letto e dentro l'armadio trovavano la loro casa.
    Senza rompere quell'esame silente, Ardan si voltò verso di lei ruotando il busto. Piantò entrambe le mani sul materasso, si affossarono accanto a lei e con un gesto ne sollevò una per scavalcare il corpo di Havel. Poteva sentire il suo calore che si disperdeva tra le lenzuola che lui aveva violentemente scostato mettendosi sopra di lei, circondandola totalmente con il suo corpo, mettendola in soggezione con la sua espressione instabilmente impassibile.
    « Mi sembra una buona idea » mormorò, la voce lievemente roca e pensosa: « Tenerti qui fin quando voglio »
    Si bloccò, sollevò una mano, con la punta del pollice tracciò una linea trasversale sul collo di Havel, lentamente lo carezzò di una brutalità che lo fece rabbrividire, il volto che si avvicinò a quello della spagnola. Così da vicino quel naso quasi poteva sfiorarlo: « E se scappi ti uccido »
    Rimase immobile a fissarla negli occhi, quegli occhi enormi, limpidi che probabilmente meritavano qualcuno che non fosse Ardan, qualcuno che non avrebbe torturato la leonessa nel bosco, qualcuno che non si fosse poi poggiato sulla sua testa bagnata farneticando una fuga e che ancora si divertisse a giocare in un modo così subdolo e ingiusto.
    Era bellissima con quell'espressione spaesata.
    Il volto di Ardan mutò in un attimo: le labbra si arricciarono in un sorriso che poi si schiuse apertamente, gli occhi lo accompagnarono prima ingrandendosi e poi assottigliandosi in fessure contornate da linee accennate, linee che decorarono anche il naso che si sollevò appena come le guance, non più scavate. Quasi le occhiaie non si notavano più, in tutta quell'espressione anomala di colori. Quasi Ardan, colto in quella reazione, avrebbe spaventato più che nel peggiore dei suoi momenti.
    Si abbassò prendendo possesso delle labbra di Havel, le torturò con i denti come non ne avesse avuto abbastanza, con una foga che non era nei suo ordinario carattere, non manifestata in quel modo. Quel corpo nudo sotto di lui, avrebbe voluto stare in quella posizione e guardarlo per sempre.
    Si scostò lentamente, avvicinò le labbra a un orecchio: « Avresti dovuto vedere la tua faccia »
    E ancora una lievissima risata, un pizzico profondo appena accenato a smuovergli i denti che le morsero il lobo per poi lasciarsi cadere sopra di lei, raccoglierla con entrambe le braccia, insinuare le mani tra la sua schiena e il materasso, stringerla forte, più forte che poté per evitare che si ribellasse. Poggiò la testa contro la sua guancia, la fece scivolare dentro il cuscino quasi soffocandosi tra l'incavo del collo e la spalla spigolosa di Havel.
    Prese un enorme respiro. La sua pelle profumava solo e unicamente di lei...e quel profumo era da anni che lo conosceva e lo cercava disperatamente.
    « Puoi andartene dove vuoi » mugugnò assorto in quell'attimo in bilico tra passato e futuro.
    « Però non adesso »
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    Edited by » avalanche. - 29/3/2017, 03:02
     
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