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Josh/Edie | 1 Ottobre

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    Non è mai successo che ci fosse un tempo così lungo fatto nel silenzio. Quel silenzio che non è mai davvero esistito, non senza un motivo, quel silenzio che, senza nessuna risposta, mi sono sentita crescermi nello stomaco con forza. Alla fine, lo so che c’è sempre una parte della mia testa immobile su Joshua; come invischiata in qualcosa da cui non vuole liberarsi, e non lo fa, non lo fa mai perché tutto quello che riesco a fare, è continuare a pensare e pensare, e restare immobile in quelle attenzioni che, in questi giorni, si sono fatte tizzoni ardenti. Quattro giorni, e li ho contati, uno dopo l’altro, in un background della mia testa che non ha smesso mai di continuare ad andare, non mentre ero a lavoro, non in quella visita che ha spezzato un’altra assenza che è fatta anche lei di una preoccupazione perpetua. Mi sembra quasi assurdo, ora, pensare che sia circondata da questo; che quello che ne è stato, di me, negli ultimi mesi, è cresciuto per diventare apprensione che non si acquieta mai. So, da qualche parte, che sono io il problema, io che non sono mai stata capace di contenere le mie stesse ansie, non davvero, e quelle hanno proliferato, ma conosco mio fratello. Lo conosco in quel modo che ci ha visti sempre stretti, ci ha visti sempre uniti, quel modo che, ancora di più, ha saputo agitarmi i pensieri in questi mesi, con quel moto che mi spinge, ancora ed ancora, a essere io, questa volta, a cercare di capire quello che si spinge nella sua carne e sotto la pelle, correndogli nelle vene con forza. E lo conosco, lo conosco abbastanza, e di più ancora, da sapere che per quanto mi ripeta che è normale sparire per giorni, non è affatto normale. Non è da lui, non quando ci premuriamo sempre, in un modo naturale, di restare in contatto perché abbiamo imparato a non sentirci soli così, io e Josh, e questa cosa ci è rimasta attaccata addosso, e non voglio scrollarmela dalle membra. Per questo alla fine mi sono mossa, mi sono spostata fra queste strade, così poche, che ci separano, per muovere passi rapidi fra gli sbuffi di una sigaretta che ho consumato come fosse una necessità impellente, uno di quegli appigli che ho imparato ad avere anni ed anni fa, e che se anche non hanno mai risolto nulla, mi hanno dato gesti e istanti da riempire con qualcosa che nella sua meccanicità, sa in qualche modo tranquillizzarmi. Anche se tranquilla non lo sono, non lo sono mai e mai lo sarò quando si tratta di lui. Forse sono solo troppo drammatica, ma non so davvero cancellare quella voce che, nella mia testa, recita il peggio che possa esistere, sempre e comunque, e so che il silenzio di messaggi a cui non risponde, non fa altro che aizzare quella stessa voce e premermela contro ora che vorrei solo vederlo e saperlo pelle contro pelle che sta bene. Mi basta sempre solo questo, quand’anche so che lo “stare bene” è qualcosa di così più complesso di un corpo integro, da lasciarmi quasi sempre come sul ciglio di un burrone, senza mai capire se devo ritirarmi o lanciarmi lì, per vedere cosa tiene sul suo fondo. Ma è vuota la casa che trovo, vuota e spoglia, pregna ancora di quello stesso silenzio anche se la percorro tutta, avanti ed indietro, come aspettandomi di non averlo notato per una distrazione, combattendo in un modo così stupido l’ansia che, con più forza ancora, mi risale dallo stomaco alla gola, e qualche respiro non lo fa andare come dovrebbe. Me li blocca in gola, ostruendo la via ai polmoni per darmi solo fiati vuoti, senza nulla che scivoli lì dove serve, ossigeno che possa far funzionare tutto. E li uso tutti i trucchi che conosco e mi sono insegnata per calmarmi: le dita sul polso, il respiro che si dilata cercando di placare quel battito che, quasi, posso già sentire in gola. Questi sono momenti in cui mi rendo così nitidamente conto di come no, non sarei capace di sopportare che gli succeda qualcosa, o peggio ancora, di perderlo nei meandri di un mondo che anche nel doverci tutto, e dovergli tutto, continua a negarlo e andare avanti, lasciando in dietro tutto ciò che, ancora, non si è ripristinato sulle sue gambe. Non so quanto ci metto a sedermi sul divano, passandomi le mani su un volto che sento bagnato sotto le dita, premendole poi nei capelli per scostarli mentre, immobile, non faccio che fissare un punto indistinto pregando Divinità inesistenti, a cui non credo, che arrivi un rumore, uno solo, che annunci il suo ritorno, la sua presenza che è tutto quello di cui ho un bisogno violento nelle vene. E non so quanto tempo passi prima che lo sento entrare in questa casa che mi è sembrata farsi più piccola e più grande insieme, ma sento il mio corpo schizzare, mettersi in piedi, muoversi fino a trovarlo con gli occhi e fermarmi, per un secondo che trattiene un fiato, a guardare com’è che sta. Male. Distrutto. Come se fosse riemerso da qualcosa che ha provato a divorarlo vivo, e ne fosse uscito a stento, e lo so che c’è qualcosa che mi si blocca nello sterno, lo stomaco, e per qualche secondo mi lascia solo a guardarlo con troppe domande, ma anche, ancora, quel misero bisogno di sentirlo. È per questo che alla fine mi muovo, e lo faccio a grandi falcate senza nessuna cura, senza preoccuparmi del suo stato mentre prendo il mio spazio contro di lui in una stretta che me lo porta vicino, facendomi chiudere gli occhi per un secondo. «Non devi mai più farmi una cosa simile, hai capito? Mai più» lo lascio andare come un fiato stentato, prima di scostarmi senza ancora lasciarlo, ma guardandolo per qualche secondo con respiri che cerco di controllare a fatica. «Che diamine è successo?»


    Edited by .florence; - 13/10/2020, 19:03
     
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    Non sento le ossa, non sento la pelle, non sento più niente. Faust è stato distrutto, Josh è stato distrutto e tutto quello che mi rimane sotto uno sguardo che, cazzo, almeno spero sia soddisfatto, di Slater, è la capacità di tornare a casa. E la sfrutto tutta mentre mi appello all'onice e le chiedo di non fare la stronza e permettermi di tornare sui miei piedi quanto basta a non sembrare come so di sembrare adesso. Me la devo trascinare nelle ossa questa concentrazione, l'ultima prima di crollare per giorni, come io mi trascino sulle scale reggendomi a stento al muro incrostato che uso come guida, non credo di essere mai stato così stanco in vita mia. Anzi, "stanco" è riduttivo, non esiste un termine che possa definirmi stasera e penso di non avere la capacità di trovarlo. Respiro a fatica, non connetto, ho avuto balle migliori e mi sono fatto di cose che non mi hanno mai portato così, ad essere questo ameba che si issa a fatica su due gambe troppo lunghe. Drenato di ogni sentimento, di ogni forza fino ad una pietà che spero sia sopraggiunta con un briciolo di orgoglio perché il mio è andato a fanculo, smantellato insieme ai Nalusa e quegli altri mostri dimensionali che conosce solo lui e che ogni volta mi riservano sorprese. Dovrei essere talmente a pezzi da sapere di non avere spazio per niente in petto che non sia un battito così lento da sembrare inesistente, ma in realtà ho un peso sul cuore enorme. Edie. Non lo so quanto a lungo sono stato via, non le capisco ancora tutte queste dimensioni e come funzionino, non lo capirò mai - almeno non stasera - e lo so, lo so come è fatta... è fatta come me, mi avrà chiamato un sacco di volte ed il mio telefono è rimasto a casa con metà della mia roba. Riesco solo a pensare che devo mandarle un messaggio, qualcosa che le dica che sono vivo seppure un merda, che le basti per oggi. So che se mi facesse lei una cosa del genere le piomberei in Bar o a casa come un falco, incazzato, frustrato e spaventato a morte perché non me lo sono tolto questo pensiero fisso. Non accadrà mai, non voglio succeda, siamo stati abituati ad esserci sempre e così frequentemente da aver ormai un filo così stretto che ci lega e ci fa stare bene solo se siamo totalmente sicuri che ognuno di noi respira ancora, che vive la sua vita come deve. E quindi sì, siamo stati di merda praticamente sempre, ma mai tanto distanti se non per gravi motivi, ed io non so che cazzo di giorno sia oggi. Sono una merda. Dovevo dirle di Slater, dovevo avvisarla che si sarebbero potuti presentare momenti come questo, ed invece non ce l'ho fatta: codardo come pochi. E poi non voglio conosca Faust adesso che mi sembra ancora un'entità separata da me anche se so che diventeremo presto un tutt'uno che potrà trarla in salvo solo... solo non stasera. Anche pensarci è troppo perché io sappia connettere, quando è un miracolo che io infili la chiave nella toppa senza barcollare al punto da spezzarla dentro. Ho bisogno di dormire, di collassare sul divano perché nemmeno ci arrivo al letto in queste condizioni e dimenticarmi di avere una cazzo di vita finché il mio corpo non si sarà ripreso. Sto diventando più forte, sì, più controllato, certo ma sono a pezzi comunque. Mai però niente sa prepararmi sul serio allo sguardo che incrocio appena alzo la testa che ciondola verso di lei. C'è Edie in casa mia e per un secondo mi sento così fottutamente in colpa che mi tremano perfino le pupille perché lo vedo quanto si è preoccupata. E se ora mi prendesse a calci ne avrebbe tutte le ragioni perché adesso, adesso sì che ho il sospetto che sia passato un tempo insopportabile da quando sono sparito ad ora. Ti sei spaventata, merda! Ed è tutta colpa mia. «E-Edie.. » Lo sussurro perché davvero la mia voce è un fiato che non regge più e che esce così lentamente che me la ritrovo tra le braccia prima ancora di aver detto tutto il suo nome. Non ho mai rifiutato un abbraccio che venisse da lei e, Dio, non lo faccio neanche adesso quando può sentire che mi manca la forza di stringerla come al solito e posso solo circondarle il corpo con braccia che mi ricadono presto al fianco. Sento lo sterno lamentarsi perché la spinta con cui mi si è gettata addosso oggi è quasi insopportabile e lo so che qualche soffio di dolore glielo lascio trai capelli che mi ricordano quanto cazzo mi sia mancata. Troppo, sempre troppo. «Quanto..? Quanto tempo?» Chiedo perché non lo so e non faccio nemmeno altri passi avanti perché barcollo così tanto che mi devo appoggiare alla porta con un paio di passi indietro. Pensare è impossibile, vederla così è straziante e sapere che non riesco ad essere niente adesso per lei, inizia già ad pugnalarmi l'anima. Il mantello scivola a terra, ed io lo seguo quando lentamente sento cedere anche il controllo delle gambe e la mia forza di imporlo...
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    Non mi piace il modo in cui barcolla, in cui traballa, in cui mi guarda con quel guizzo che rende così ovvio, ancor prima delle parole, che non sappia davvero quanto è passato. E adesso, adesso che ho superato quell’istinto che è un bisogno viscerale, posso prendermi quei secondi per constatare tante cose. Cose come un mantello, una stanchezza scritta sul suo volto e fra i suoi occhi, in un connubio che mi da una sensazione che sembra quasi nausea nello stomaco. Si stringe, si fa una morsa dura, e non so se respirare o fermare il mondo, pregarlo di farlo almeno per un secondo, un istante appena che mi serva a guardarlo e cercare di capire. Mi sembra di farlo sempre meno, come se togliendomi la Maledizione, il mondo fosse cambiato tanto, ai miei occhi, da rendermi impossibile tradurlo nel modo in cui così semplicemente mi riusciva prima. Ma l’ho detto, sono un paradosso, e se prima non volevo cogliere nulla e mi trovavo a farlo, adesso mi sembra che qualcuno, invece, mi abbia messo tutte e due le mani sugli occhi, rendendomi così difficile vedere dove mi trovo, da farmi sentire spaesata. È una cosa che, in realtà, mi sembra normale, quando onestamente nella mia vita ho sempre avuto solo tutto quello che non ho chiesto, e sono rimasta invece lì ad implorare tutto il resto che non è mai arrivato. Non importa poi molto, Maledizione o non Maledizione, alla fine, posso dire adesso che ci sono così tante cose impuntate al contrario, con quel pungolo acuminato verso la carne, che non fa nessuna differenza mai. Ed è che lo so che no, non posso essere davvero essere felice, tranquilla, o qualsiasi cosa quando poi, sempre, ho questo pensiero che corrode tutto il resto, e porta sempre e solo il nome di Joshua. Non sono fatta, nata e cresciuta, per essere capace di guardare la vita senza tenere, nello sguardo, un filtro che parla di lui, e di tutto quello che no, io non ho mai smesso di sperare, anche se sono fatte di sangue quelle speranze, sangue che cola e non si ferma, e mi fa solo pensare, nel chiudersi oscuro della mia mente, che non c’è nessun Destino diverso per noi. Che, alla fine, è di questo che è fatta la nostra esistenza. Perché non esiste mio o suo che non sia anche nostro, e allora in ogni tratto di fiato he gli si fa pesante, anche uno del mio lo segue, naturalmente, perché è questo che siamo. E penso, ancora, che Josh si è preso cura di me per tutta la mia vita, tutta la sua, anche se quella più grande sono io, anche se avrei dovuto essere brava a fargli sentire di come, nell’impossibilità di tutto, avremmo potuto avere i nostri giorni e i nostri ricordi: il nostro tempo. Ma no, non sono stata capace di questo, sono stata in grado solo di spingere quella stessa angoscia che provavo io verso l’esterno, colpire anche lui, senza mai liberarlo davvero. E ora, ora dovrei essere io a prendermi cura di lui, eppure so di non sapere come fare. Di non sapere come prenderlo, afferrarlo e tirarlo via con tutta la forza che ho, quella che non mi potrà mai servire a niente di più importante, ma che so pensare solo non sia abbastanza anche ora, mentre lo guardo e lo guardo, e so solo vedere come ci sia ancora un segno per me indecifrabile, la traccia di un trascorso che io, onestamente, non conosco. Gli passo una spalla sotto il braccio, facendomelo girare intorno al collo, anche se non sono così forte, ma posso aiutarmi con un po’ di magia a guidare i suoi passi fino al divano, dove lo lascio cadere per raggiungerlo in uno spazio che mi ritaglio, tanto vicina da potergli premere una mano sul volto e guardarlo cercando di trattenere quei tratti di preoccupazione negli occhi. Ma so quanto straripino, ancora, insieme a lacrime che anche nell’essere diventate silenziose, ancora si trascinano sulle guance una dopo l’altra. «Quattro giorni» glielo mormoro appena, asciugandomi con il dorso della mano libera i solchi bagnati sul volto, imponendomi di trattenere tutto e di pensare che, semplicemente, è qui. Ma è qui in un modo che racconta di troppe cose che gli sono successe, troppe che non sanno placarmi davvero, ma agitarmi nel fondo di quelle stesse preghiere, a cui mai nessuno ha risposto. Quelle di un po’ di pace, per lui, un po’ di tutto che non fosse quella vita storpiata a cui è stato così ingiustamente condannato. «Devi dirmi che è successo, e se sei ferito» glielo dico che ancora sto sussurrando, senza scostare le dita dal suo volto, né gli occhi che restano su di lui senza trovare mai nulla che possa essere altrettanto importante. «Lo sai che sono brava con Alchimia, posso rimetterti in sesto in men che non si dica, ma tu devi dirmi tutto, va bene?»
     
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    Merda, merda, merda. Mi sorregge poco prima che io tocchi il pavimento e mi unisca al mantello come massa informe e inerte.. ed è esattamente quello che non doveva succedere. Lei che si fa avanti per me. Sono io che mi prendo cura di Edie, io quello che non può darle motivo di preoccuparsi perché non sopporta di farla soffrire, è così che funziona e non va bene che io ora la stia costringendo a vedermi così solo perché non ho abbastanza forza per fingere uno “star bene” che non esiste. Cazzo sforzati Josh! Si non mi crederebbe comunque ma manterrei una fottuta dignità che adesso è l’ultima cosa a cui penso. La verità è che sospiro quasi di sollievo tra un’aspirazione sofferta e l’altra mentre mi trascina sul divano dove appoggiarmi con appena più forza vuole dire distruggermi le ossa. Ho gli occhi che si tengono aperti a fatica e questo però non mi impedisce di guardarla negli occhi quando sforzo un sorriso che si fa affaticato sulle labbra. Merda, quattro giorni. Quattro fottuti giorni del cazzo in cui non ha avuto un segnale di vita che la tranquillizzasse. Cazzo sarei impazzito anche io, sono troppi. Dio Edie mi dispiace da morire e non so renderlo perché niente del mio corpo adesso risponde come dovrebbe, sono troppo stanco e sono incazzato perché non posso essere troppo stanco adesso. Quest’ombra di un sorriso si fa stanchezza e cazzo mi si stringe il cuore perché la sento piangere prima ancora di sapere che è così, ed è tutta fottuta colpa mia. Sono un idiota. Una testa di cazzo, un dannato imbecille. «Ehi... shhh... no, no» vorrei fermarle le lacrime perché non è giusto che si preoccupi per me in questo modo, non è giusto che io l’abbia fatta spaventare perché quattro giorni sono un'immensità per noi due che con solo un giorno di silenzio ci chiediamo se non sia il caso di passare l’uno dall’altra. Quattro giorni, l’ho fatta preoccupare a morte e sono sicuro che se avessi un poco di forza in più cercherei di toglierle dal viso quell'espressione tanto in pena per me e le mie condizioni atroci, e quelle lacrime che scorrono perché non c’è niente che sappia farmi male più del saperla così a causa mia. «Mi dispiace» sul serio, come mai prima di oggi anche se non so esprimerlo. Biascico unendo lettere che si trascinano sulla lingua che schiocca a fatica con la testa che si appoggia allo schienale finché non chiudo gli occhi qualche doloroso istante. I pensieri si sfaldano tutti prima di ricomporsi in filamenti che non danno un senso a nulla nella mia testa, questo allenamento è nato per non darmi più modo di pensare a niente quando finisce e cazzo, oggi non ci voleva. Oggi questo oblio è un male. La sua mano sul mio volto è l’unica connessione al mondo che sento di avere ma devo sforzarmi, cazzo. Devo perché so che se smettessi di parlare adesso andrebbe in panico, e non voglio succeda anche se ho paura sia tardi anche per questo, la conosco tanto da sapere che un attacco l'ha già avuto, ne ha i contorni negli occhi che guardo a fatica. Andiamo Josh! «Va.. tutto.. bene.» non ci credo anche se ammetto che ci provo a sforzarmi quando sento che neppure la voce insorge in mio aiuto quando è solo roca, distante e stanca. Le labbra si stringono in una smorfia di fastidio verso me stesso e la debolezza che adesso non so superare perché è un decorso che deve avvenire naturalmente ed è solo al principio. Odio che mi veda così, lei non deve avere questo pensiero sulle spalle perché lo so quanto male può farsi se inizia a dirsi che è colpa sua, che sono così perché lei mi ci ha spinto. E sono tutte stronzate, ho fatto le mie scelte con consapevolezza, proprio quella che non ho adesso e non voglio non avere la forza per sottolinearlo quando ne ha un fottuto bisogno. Altri sospiri spezzati da una stanchezza che rende le ossa molli e la testa infinitamente pesante. Continuo senza dare il tono giusto a niente perché non ne sono capace. In realtà ho due costole rotte, ferite lungo tutte le braccia, tendini che si stanno già ricostituendo a fatica ma è la mente che è stata colpita di più. Per quello, Edie, non si può fare nulla. «Vieni qui» Ci provo a raggiungerla con una mano che sappia solo piantarsi sulla schiena per costringermela vicina, quasi addosso se serve, perché è l’unica cosa che voglio e perché non so fare nulla che possa calmarla se non tentare con un secondo tiratissimo. «Sto bene... ok?»
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    Incredibile che in questo momento, anche così, sia lui ad essere preoccupato per me. Me e la mia apprensione, quella così naturale, che ci riguarda e lo farà sempre, in quel modo che ci appartiene perché sì, lo so che nessuno dei due smetterà mai di essere semplicemente preoccupato. So dirmi così facilmente che un po’, molto, è colpa mia, mia e di tutto quello che sono stata, mia e di quell’egoismo che no, non si è mai ritirato, e lo ha lasciato a marciare su quelle terre dove era lui, sempre lui, a doversi prendere cura di me, in quel modo che lo ha consumato e imprigionato, mentre io mi limitavo a starmene chiusa in uno spazio che non sono riuscita a sigillare mai davvero. E per cosa? Nulla, per ritrovarci poi con tutto quel tempo buttato, quel mondo che abbiamo vissuto e per cui lui, e lui soltanto, ha lottato. Continuo a pensare che non merito quel patto che questa maledizione la ha sciolta, così come non meritavo tutti gli sforzi di mio fratello ad andare contro tutto e fin troppo spesso, anche contro di me. E adesso, adesso vorrei dirgli che è il mio turno di preoccuparmi, perché io sto bene, e non ho pagato nulla per stare bene, perché per me hanno sempre pagato altri, lasciandomi immobile con pesi sconosciuti fra le mani e tutto quello che posso fare, ora, è portarmeli dietro in silenzio. Senza un lamento, senza nulla quando sono loro, sempre loro ad aver dato via qualcosa per me. Lo so che, in fondo, era più facile accettarlo sapendo che tanto, avrei fatto la fine che avrei fatto, ed era così terribile, da sembrarmi di pagare così abbastanza. Ma ora? Ora ho solo Josh su un divano, distrutto, consumato, un fantasma di sé stesso che sta arrivando da chi sa quale visione che non conosco, e io invece che ho tutto e non ho mai faticato neanche un giorno per averlo. So di essere orribile per questo e molte altre cose, e so anche che ora, so solo pensare a lui, e cercare quindi di trattenere quei segni che mi mostrano così colpita da tutto, così presa da quest’ansia che cerco di domare per essere più forte. Forte come lo è stato lui per tutti questi anni, forse come si merita che io sia per lui, nel diventare ora quella roccia che è stato Josh per me per tutta la mia vita, senza che io mi fermassi mai a cercare di essere anche solo lontanamente abbastanza come avrei dovuto. Stringo le labbra scuotendo la testa, e anche se vorrei fermare ogni suo gesto perché ho quasi un terrore atavico che ogni movimento porti con sé una conseguenza, non lo faccio, e mi limito a respirare scuotendo appena la testa, perché no. Non dovrebbe mai scusarsi con me, non lui. Non lui. Di tutto il mondo, Joshua è quello che non mi dovrà mai nessuna scusa, l’unico che mai dovrà pensare di dover cercare perdono in me, perché io sono qui per lui e basta, a prtescindere da tutto. «Non fa niente, l’importante è che tu stia bene» lo dico avvicinandomi appena, per qualche secondo, assecondando quel suo muoversi per qualche istante, prima di allontanarmi ancora un gesto leggero, cercando di tenerlo fermo con le mani in una posizione che sia stesa. «Adesso però, per piacere, lasciami fare qualcosa» e il punto è che no, non smetto di pensare, e pensare, e chiedermi che cosa è successo. Dov’è stato per questi quattro giorni, dov’è stato per tornare così, ridotto in questo stato. Dov’è stato per non essere altro che silenzio, per ore ed ore, quando noi non abbiamo mai attimi che siano muti, ma sempre pieni di quel comunicare che è il bisogno semplice di saperci sempre in piedi, sempre qui, uno di fianco all’altro. Mi prendo il tempo di un respiro profondo, uno che imprimo nei polmoni concentrandomi a smetterla con lacrime che non serviranno ad altro che agitarlo, farlo scivolare più in là in una colpa di cui l’ho già spogliato, perché non ne debbano esistere mai, non fra di noi. Aspetto qualche secondo ancora, prima di spostare le braccia per legarmi i capelli alla ben in meglio dietro la testa, sfilando l’elastico che tengo sempre al polso per stringerli lì e non farli essere un disturbo mentre, invece, ho occhi che già si concentrano sul suo volto, con quel tipo di tranquillità che ha domande, ha quesiti, ha quel senso che non sa allontanarsi da questo lasso di tempo che lo ha sputato così malconcio in questa casa. «Cosa sta succedendo, Josh?» mi scappa dalle labbra, come se avesse una volontà sua, e si infilasse ovunque, diventando un respiro che scaturisce dai polmoni come un vento ribollente che brucia, e non so trattenere come vorrei.
     
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    Mi scivola tra le dita in un battito lento di ciglia che è un profumo familiare che si allontana da me e mi strappa l'ennesimo respiro tirato. Non è la prima volta che mi riduco così, è solo quella in cui ho aspettato troppo per tornare, per sfinirmi e dovrebbe essere un vanto aver aumentato la mia resistenza ed invece non so prenderla bene nemmeno per il cazzo. L'ho fatta spaventare, è colpa mia. Se ne avessi la forza imprimerei una verità più profonda in quello che provo a dirle, perché basti a convincerla che starò bene, che va tutto bene e che - soprattutto - niente di tutto questo è colpa sua. Io lo so cosa pensa, lo sempre anche quando credo non sia possibile, è una connessione che non si sa spegnere neppure a distanza di dimensioni, quando ora tenerla al sicuro è l'unica cosa che conta. «Tranquilla» è l'ennesima parola che prova ad uscirmi in un senso di sfinimento che mi abbatte sul divano senza troppe cerimonie. Le articolazioni non seguono il mio volere, le ossa scricchiolano e gemono, e gli occhi li devo tenere chiusi per potermi dare abbastanza respiro da aprirli solo quando serve. Vorrei chiederle di non spaventarsi ora che sollevo piano la maglia e saprà notarli da lei gli ematomi lungo il fianco, ma ho paura di non poterlo fare, che mi esca solo mezzo respiro aspirato che ancora di più la farà dannatamente preoccupare come una pazza. E lo so perché io sarei così, se non peggio. Saprei incazzarmi come uno stronzo, e poi correre da lei con la preoccupazione ad agitare ogni passo in avanti, implorandola di dirmi cosa posso fare per farla stare meglio, perché si riprenda. Quindi quando io dico che la capisco non è una frase fatta, è così e basta. Nessuno potrà avere questo con lei, nemmeno quel fottuto Morgan Crain. «Non è male come sembra..» è l'ennesimo modo che ho per sussurrare qualcosa che possa provarci a tenerla tranquilla prima che si spaventi, prima che la prenda quel senso di impotenza con cui io ho convissuto anche troppo. L'ultima cosa che voglio è che lei viva ciò che ho vissuto io, anche se lo so che ora le parti potrebbero sembrare inverse ma non lo sono, non lo saranno mai. Solo... solo oggi. Spiegarle cosa sta succedendo è difficile, e non solo perché sono mentalmente sfinito, ma perché implica dirle tante di quelle cose che non è giusto sappia ora, che vorrei poter solo fermare il tempo per non rispondere. Lo sento che se sdrammatizzo adesso, mi ammazza. Ci sono argomenti su cui non possiamo scherzare e lei ha visto il mantello, quindi sappiamo entrambi di cosa stiamo parlando. Mi prendo un tempo lungo di respiri ed occhi che si aprono appena verso il soffitto, di mandibola che tira e denti che stridono. Un tempo che non renderà leggero niente di quello che dirò, neppure se sento che molto dovrò ometterlo pur non avendone la forza o la voglia. «Ho un mentore» modulo ogni parola ed ogni frase come farebbe Faust. Però poi non so come continuare, non so cosa dirle, quanto dirle e fino a dove, perché la cosa più importante non l'ho ancora messa in chiaro e devo farlo compiendo lo sforzo immane di guardarle negli occhi anche se ho il collo che invoca pietà nel girarlo così lentamente. «Non provare a sentirti in colpa, è chiaro?» So già che non sono minaccioso come vorrei e che quel tono di ammonimento che saprei rivolgerle è solo un blando accento che è quasi più sfinito di me. Saprei riconoscere una sua balla anche adesso, per questo la fisso, perché devo accertarmi che almeno riesca a capirlo, non dico che lo accetterà e so che dovrà impegnarmi più di così perché accada, ma lei deve credermi. Lo faccio perché diventerò migliore e se diventerà migliore allora non dovrà temere di avermi fatto niente di male. Ho voluto tutto io.
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    Guardo tutti questi segni che si imprimono uno dopo l’altro, svelandosi nel gesto che compie nello scostare una maglietta per renderli noti sotto i miei occhi. E lo so quanto ci provo a trattenere quel suono che così naturalmente, dovrebbe uscirmi da labbra che invece restano sigillate, chiuse con occhi che si fermano su ematomi che mi sembra quasi di poter inspirare uno ad uno, come se si scrivessero nel mentre anche sulle mie, di costole. Un maestro e Dio solo lo sa, quando Dio è più un modo di dire, quanto so che ci sia voluto, che sia servito, ma non sa calmarmi. Non lo fa quando è così diverso da quello che pensavo io, che non so a cos’è che pensavo, so solo che no, non era questo. Non era mio fratello riverso su un divano, con troppi segni che si premono sul suo corpo, e tanti altri ancora che stanno sotto, chi sa dove, nascosti nel suo sguardo che quasi me lo grida che sì, ci sono tante altre cose e sono peggio di lividi che, già, minacciano di spezzarmi il fiato in parti così piccole che devo costringermi, invece, a compiere movimenti di polmoni regolari. Continuo a chiedermi, incessantemente, se è davvero questa la vita a cui dovevo aspirare, quella che ho rifiutato tanto credendola impossibile, e che in momenti come questo, vigliaccamente, sa quasi sembrarmi una condanna più che altro. Fino a qualche mese fa, non era così. Fino a qualche mese fa, andavamo contro un destino che conoscevamo bene entrambi, io e Josh, ma adesso vedo solo tante di quelle incognite che mi spiazzano, mi lasciano la gola secca, e lo so che è semplicemente parte di quel concetto che no, non ha un limite fisso entro cui tutto si svolge e scade, ma si apre nelle possibilità più ampie che non posso prevedere, e ne sono semplicemente terrorizzata. Come un cieco che impara a vedere, e fra tutti quegli angoli che ancora, ostinati, nascondo qualcosa agli occhi, sa inventare pericoli che si ammassano come bestie pronte a lacerare. Un mentore, e so anche io come no, non abbia mai pensato ad altri sentieri quando sono troppi i rischi, ma anche questo, quanto sa essere egoista? Sono per me quei rischi quando è la vita di Josh che minaccia di spezzarsi per togliergli la Corruzione dalle vene, e sono io che non sono disposta a tanto, con quella giustificazione che dice, così dolcemente, come è lui a non meritarsi una fine simile. Ma sono io, e lo so. Io che no, non posso neanche pensare di affrontare una vita senza di lui, non ne sono capace, come so che non sarei capace di superarlo. Sposto gli occhi sul suo volto, senza sapere cosa dicano, davvero, di tutto quello che mi si preme nelle costole ed è fatto di respiri che sanno essere regolari perché io li rendo così, con ogni mio sforzo che si anima per non diventare peso su di lui, non un altro ancora quando già ne ha sopportati anche troppi, e troppi ancora che non meritava. Annuisco appena, come se cercassi di ritagliarmi uno spazio per infilare queste consapevolezze nella testa cercando, disperatamente, di pensare che non ci sia niente di male. Ma non ci riesco. Non posso farlo davvero quando è qui, di fronte a me, più rottame che altro, e tutto quello che so pensare, così distintamente, è che no, io non voglio che sia così. Non voglio che questa sia la sua vita, non voglio che questa sia la sua strada, non voglio e basta. Non posso sopportarlo, non quando ci sono segni così evidenti di come gli faccia male tutto questo. Ma sposto le mani, premendole sui lividi per iniziare ad agire e cercare, almeno in questo, di essere per una volta qualcosa che sa alleviare le sue pene, e non crearle. Il problema della vita di Josh, sono proprio io. «Un mentore» lo mastico ignorando tutto il resto che ha detto, cercando solo di non sentirmi in colpa, come dice, o almeno di non sembrare che io mi senta in colpa. Ma sono egualmente due obbiettivi complessi da raggiungere. «E a parte ridurti uno straccio, che altro fa?» ho un tono che diventa duro, sarcastico, ma non per lui. Per quella figura ignora che non so disegnare nella mente, ma che so istintivamente di odiare come ho saputo odiare poche cose nella mia esistenza. «E il mantello, poi? Cos’è c’è una divisa ufficiale questo lo dico allungandogli un sorriso, con più dolcezza, come se fosse uno scherzo, anche se lo so quanto anche questo sappia preoccuparmi e stringermi lo stomaco in una morsa che non sono capace di sciogliere.
     
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    Ho talmente poca forza di oppormi che sto facendo il possibile per muovermi veramente il minimo indispensabile. Dio, sono uno schifo e l'ultima persona che volevo mi vedesse così è Edie, cazzo se solo potessi tornare indietro non aprirei nemmeno la porta. Voglio dirglielo che non va male, che nonostante quello che si vede e che non è il massimo, io sto bene... sto meglio, in qualche modo, ma a chi cazzo voglio darla a bere quando mi presento in queste condizioni? Non a lei, non alla mia Edie. Sto di nuovo fallendo in qualcosa che dovrebbe essere semplice e non mi rincuora quando trattengo a stento altri gemiti di dolore perché porca puttana fa male, fa male in tutti i sensi. Sono tanti i modi in cui vorrei avvicinarmi a lei, sfiorarla, calmarla quando lo so benissimo che tutto quello che la rende "tosta" fa parte di un trattenere sempre in angoli più remoti i veri momenti di debolezza. Non so da dove iniziare a spiegarle di Slater, anche se so che poco è tutto ciò che dovrò dire per non metterla ora a rischio, io la devo salvare ancora da tutto ciò che non sa esistere. Dovrei dirle tante cose, ognuna di esse è un fottuto peso che di incastra tra le costole e mi sfida a camminare lo stesso con la consapevolezza che da lì non si sposterà tanto presto, eppure l'unica domanda che vorrei farle è se ancora si vede con Crain. Anche questa però scivola via e basta perché non ho spazio che sappia contenerla che regga più del vedere Edie più tranquilla, del calmarla davvero come dovrei fare. Strapparle di dosso la sua preoccupazione sarà difficile, lo so cazzo, lo so! Però vorrei saperlo fare, vorrei capisse che andrà bene anche se non lo vede e se non può saperlo. «No-Non è stato lui.. » questo glielo devo, almeno oggi non è stato lui a ridurmi così, è stato molto altro ed in parte sono stato io. Come lo posso fare in discorso serio quando mi piange il cuore e basta nel vederla reggersi così su di me e sapere che è colpa mia, ancora una volta colpa mia. Cazzo me le ricordo le parole di Morgan e, Cristo, forse in parte aveva ragione, forse oggi sono di nuovo un fratello di merda che aggiunge preoccupazioni dove non devono essercene. Tengo gli occhi chiusi quando le parlo di nuovo. «Devo imparare a controllarla.. la corruzione.. sto.. mi sta insegnando» Ormai non so più a cosa possano servire le parole che sussurro come se l'avessi a due centimetri di distanza perché la forza non ce l'ho per renderle stabili o forti e so che potendo ora lascerei la presa sui lacci che mi stringono per portarmi in un oblio silenzioso a cui non sono pronto. Ma non posso, non posso e devo resistere sveglio il più possibile perché lei non tema quello che io ho sempre temuto ogni volta che il Maledictus prendeva le sue giornate e le rendeva bestiali. Sto bene, Edie. Non vorrei doverle dire niente altro, eppure lo soffoco un sorriso a metà quando mi chiede del mantello e, Dio, vorrei dirle che la cosa è più complicata di così, ma quello che mi esce è uno strascico di : «... e non hai visto la maschera.» Che vorrebbe essere una battuta ma invece sono serio, troppo serio. Non l'ha vista perché ero al sicuro, e perché non voglio che veda Faust se non è necessario, non voglio che si specchi e non voglio perderla per qualcosa di mio. Non dovrà mai riflettersi sulla superficie, non sopporterei di farle così tanto del male quando so che già ora gliene sto facendo rimanendo qui, distrutto, davanti a lei. «Edie...» la chiamo perché ho gli occhi ancora chiusi e non so quanto vicina sia davvero, anche la mia pelle sta iniziando a diventare insensibile. «... so quello che faccio.. fidati di me»
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    Vorrei chiedergli come ci siamo ridotti così. Come abbiamo fatto a finire in questo punto, fra questi sentieri, strade, pareti, realtà così contorte e complesse quando tutto quello che volevamo, era un po’ di pace. Solo quella, non è vero? Ma quanto la sta pagando Josh per aver chiesto qualcosa di così semplice, qualcosa di così dovuto a persone che, come noi, non avevano fatto niente di male nella loro vita. Eravamo innocenti, tutti noi, ma questo non ha significato nulla per la Maledizione, la vita, per nessuno. E adesso, adesso ci sono spazi così estesi, che si nascondono dietro ogni livido, ogni segno scuro, ogni respiro mozzato da un male che posso conoscere solo così, guardandolo, ma so anche che va più a fondo, fra l’intricarsi di vene e pensieri che non posso guardare. Prendo un respiro, sento le sopracciglia corrugarsi nella concentrazione che metto, ancora, nel far ritirare lividi che non sono altro che un segno, e per quanto vorrei poter dire di essere capace, con questo, di cancellare anche tutto il resto, so che non è così. La speranza non mi ha mai portato niente di buono, ed è quasi stupido che io pensassi che bastasse aver tolto quella macchia dal mio futuro per poterla afferrare di nuovo e stringerla, sperando questa volta di non sentirla fatta di spine. Invece lo è, come lo è stata ogni volta, e mi sembra solo che siamo finiti in un circolo vizioso, in cui il prezzo si fa sempre più alto, irrimediabilmente. E io? Io che ancora non ho fatto niente, non ho ancora gettato neanche una moneta in quel pozzo, posso davvero pensare di andare avanti così, sempre senza farlo? Prendo un respiro spostando gli occhi su di lui quando sono abbastanza certa che quei segni stiano svanendo, anche se continuo a pensare, ancora ed ancora come una litania infestata, che non è tutto. Non sono solo una stanchezza stremata che gli si dipinge in volto e contusioni di una lotta che sì, va a fondo. La Corruzione. Lo so che è importante che impari, anche se le cose le sto imparando poco alla volta, una per una, ma so quanto questo sia vitale, fondamentale, perché ci sia sempre lui, Josh. Josh e nessun altro a prendere con fermezza questi muscoli, queste ossa, ed indossare la pelle di mio fratello come fosse un abito comodo. Sono così stanca di patti, Maledizioni, anime vendute e martoriate, e ancora so chiedere se davvero, davvero, ci meritiamo tutto questo. Non credo, onestamente per quanto possa sembrare il capriccio di una ragazzina, io penso che no, non ci meritiamo niente di tutto ciò. Niente di quello che ci è successo, quando anche questo, questa Corruzione, è una conseguenza per il suo aver cercato di strappare qualcosa che gli sarebbe stato dovuto. Ma se sono certa di una cosa, nella mia vita, è che io mi fiderò sempre di Josh. Sempre e comunque, non importa cosa accada, non importa nulla. Mi fiderò di lui, e sarò sempre ferma al suo fianco, qualunque sia il futuro che è stato scritto per lui, è stato scritto anche per me. Ma ci penso a quel mantello, e la maschera, e tante di quelle cose che mi piovono in testa che, per un secondo, abbandono la cura per passarmi le mani sul volto e lasciarle lì qualche istante, a premere contro la pelle e il cranio prima di scostarle, respirare a fondo nel tornare a guardarlo. «Lo sai che mi fido di te» e sono seria, seria in quel modo che no, non vuole che possa lasciare anche solo un dubbio, in merito, nella sua mente. Mi fido di lui, a prescindere da tutto, e ancora più a prescindere, saremo sempre io e lui, noi due. «È degli altri che non mi fido, Josh. A cosa ti serve una maschera? Che c’entra il tornare a casa ridotto così con il controllo della Corruzione?» non mi sto opponendo, ho solo un tono che è quasi una supplica, quella di capire, registrare, comprendere, poter semplicemente essere lì, con lui, ovunque si trovi adesso. «Voglio solo capire cosa sta succedendo» lo mormoro appena, trovando una sua mano per stringerla fra le mie e guardare, per un secondo, quella stretta, prima di tornare a premere i miei occhi contro i suoi. «Qualunque cosa sia, sempre, io sono con te. Questo lo sai vero?» lo so quanto bisogno ho che sì, lo sappia, ne sia tanto consapevole da non poterne dubitare neanche per un più piccolo istante, ma stringerselo al petto perché diventi quella consapevolezza eterna che può portarsi ovunque.
     
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    Fidati di me. Quanto stronzo posso essere a chiederle ancora una cosa del genere sapendo che per tutto il tempo in cui l'ha fatto io non ho saputo realizzare nulla? Sì avrebbe dovuto fidarsi quando le ripetevo che aveva senso sperare di non finire come nostra madre e condividerne così tanto il destino... ma alla fine dei conti, io non ho fatto proprio un cazzo. Adesso però ne ho bisogno, ho bisogno che Edie si fidi, e lo faccia adesso quando ancora niente si è mosso a tirare i nostri fili, ma presto lo farà e per allora lei dovrà essere al mio fianco, costi quel che costi. Ormai al prezzo delle cose sono abituato, ma al fatto che siano anche oltre la mia portata, no. Devo poter afferrare quello di cui noi due abbiamo bisogno e strapparlo ovunque si trovi come un rampicante velenoso e tenerlo vicino così da non farci mai mancare nulla. Mi chiedo se nostra madre immaginasse che un giorno saremmo arrivati a questo punto, a curarci le ferite a vicenda così profondamente che ogni gesto banale assume sempre più di un significato che non ci diciamo mai finché non è impossibile trattenerlo, ma che conosciamo da sempre. Mi chiedo cosa si aspettasse da noi quando ha deciso di averci e tramandare un gene maledetto. Poi la smetto, però, ogni volta che questi pensieri mi prendono, butto già un sorso di qualcosa e lo dimentico, perché il passato è una merda, il futuro spaventa ed il presente è l'unica cosa che mi resta da non rovinare completamente. «...bene» lo sospiro quando finalmente un po' di quelle fitte al fianco si affievoliscono e riesco a tenermelo un mezzo sorriso cauto tra le labbra tese in spasmi che non posso del tutto controllare. E' un vuoto profondo quello che porto nel cuore quando provo a tirarmi un po' su e mi sforzo almeno di appoggiare la schiena al bracciolo per dare l'idea di potermela cavare anche meglio di così. L'idea, ovviamente, la realtà resta un po' diversa. Un vuoto che sa farsi voragine quando le sue domande allungano mani dove non possono, dove vive l'ombra di Faust, di questo mio essere diverso che ho appreso con più consapevolezza oggi. Nessuno si è mai spaccato in due per salvarci il culo, e chi lo ha fatto ci ha letteralmente distrutti, ma io ci ricostruirò, te lo prometto Edie anche se non sai cosa faremo, sarà sempre e solo per te, per noi due. Tengo la sua mano tra le dita e stringo con la forza che lentamente sta tornando. Non fuggo il suo sguardo adesso quando ne ha più bisogno, perché vorrei darle tutto di me ed ancora più di quanto possa, sempre, a ripetizione per essere quello che avrei sempre dovuto essere: suo fratello, una boa nell'oceano di merda che ci ha sempre travolti ad ondate. So di riservare solo a lei uno sguardo che è dolce nel dolore che non smetteremo mai di provare perché ci ha segnati in ogni passo di questa vita del cazzo. Ma è condiviso, e questo ci dovrà bastare ancora un po'. Vorrei dirle che sono diventato Batman, come le dicevo quando da bambino indossavo un lenzuolo e giravo per casa fingendo di volare per i tetti di Gotham, cazzo mi sono anche tatuato il suo logo su un braccio, ma no, le cose sono ben diverse e non riesco a riderci più di tanto. «Perché sono un Mago Nero, e questo non è legale, né ben visto. Devo proteggere la mia identità, e la nostra.» Non sono il fratello che meriti. Me lo tengo negli occhi questo pensiero che mi assale ora che mi rendo conto che farò cose che andranno ben oltre la nostra morale perché è a questo che mi sono votato quando ho accettato che avrei fatto di tutto per salvarla. "Tutto" è molto ampio come termine e l'ho capito con Slater quando nuovamente ho accordato di seguire i passi che Tharizdun ha tracciato per me in questa storia che è una vita condivisa di dolore. «La corruzione è un problema solo se non la controllo e non riesco a frenare gli impulsi...» mi divora dall'interno, ma non riesco a dirtelo. «Questo, è esattamente il punto. » Lo ripeto, anche se lo sappiamo tutti che ci sto girando intorno e questo ti farà impazzire se non mi decido a smettere di farlo. Quindi prendo un respiro, uno che si piega tra le costole. «E' una allenamento fisico, mentale ed è... Edie non posso dirti che sia facile, né che sia proprio quello che mi aspettavo, perché nessuno mi ha davvero preparato a questa cosa, ma adesso è parte di me e devo tenerla sotto controllo per poter essere sempre io.» Vorrei che tu vedessi che non sono spaventato dall'idea di perdere me stesso, quanto più da quella di ferire te, anche se lo dico con cautela proprio perché tu ti renda conto che non stiamo parlando con leggerezza ma neppure con una pesantezza che non ha fine. In verità se non fosse per Slater sarebbe molto peggio. Allungo le mani fino a tenerle le spalle, e muovere appena un conforto che è dolore alle articolazioni. «Ascoltami.. non mi succederà niente perché sono sulla giusta strada ok? Oggi non è stato un bel giorno, ma sta andando meglio, le cose possono solo andare meglio via via che imparerò e ti prometto Edie» cazzo se te lo prometto «... che mi impegnerò al massimo perché funzioni, non voglio ti preoccupi anche per questo.» Ora l'ho detto
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    Vorrei dirgli di non muoversi, e costringerlo ancora a non farlo, ma alla fine, alla fine non dico e non faccio niente, e lo guardo invece rimettersi più seduto, con quel senso che sa così tanto di impotenza e sì, me lo chiedo. Me lo chiedo e non provo a risparmiarmelo, se è questo che è stato per Josh tutta la nostra vita e, ancora di più, gli ultimi mesi. Me lo chiedo con forza e anche nel non saperlo, e solo immaginarlo, me lo premo contro al petto, contro la testa, dentro i polmoni, per ascoltarlo in fondo, sentirmelo correre nelle vene e riconoscerne ogni sfumatura. Glielo vorrei chiedere se è questo, ma anche questa domanda resta solo un silenzio di occhi che da lui, non si staccano mai, e lo seguono per trattenere ogni sua espressione, registrare ogni respiro, e conservarlo in questi istanti in cui, quasi, mi sembra mi si sia spalancato qualcosa di fronte agli occhi, mostrandomi tutto ciò che, fino a qualche istante fa, non sapevo neanche fosse una realtà. Sì, lo so che il modo in cui mi sento adesso, ha una colpa. Una che mi imputo da sola, nel pensare a quante volte Josh si sia ridotto così, e quante volte invece sia stato così disperato, nella sua condizione, da dire che tutto questo e necessario? E io? Io non c’ero, e non c’è molto altro da aggiungere, e non c’è nessuno da incolpare, se non me stessa. E così lampante, e vorrei picchiarmi da sola per essere fatta come sono fatta, con troppi dubbi, troppi buchi sul pavimento a cui dover sempre stare attenta nel mio avanzare, per evitare di finirci dento e sprofondare. Sono una cretina, e tutto quello che dovevo fare, non l’ho fatto. Mi ero detta che questa volta, questa volta mi sarei presa cura di lui, e che non lo avrei lasciato da solo. Eppure eccolo, lo vedo quanto ho fallito anche in questo piccolo ed enorme proposito, e quanto non sia capace di stringere per bene le dita per tenere tutto quello che vorrei e fare in modo che sia una realtà. Probabilmente sono io, io che ho fatto in modo che in tutti i miei sbagli, Josh sentisse come qualcosa che lo affligge, e che mi attanaglia di conseguenza, sia una sua colpa, e non una mia. È stato un mio errore permettere che arrivasse a poter pensare una cosa simile, quando avremmo dovuto sostenerci a vicenda sempre, e non sentirci in mancanza quando uno dei due, semplicemente, aveva bisogno di poggiare un po’ più di peso sull’altro, perché i passi si facevano più difficili, e le gambe un po’ più deboli. Sono un’idiota, il che non mi stupisce. A dire il vero, mi sembra solo perfettamente logico, quando in fondo dico così tanto spesso che non sono capace di tante cose, perché mi sono sempre insegnata a non esserlo. Ma questo, questo è importante che invece io impari a farlo. Perché Josh è la cosa più importante, e non c’è niente che possa andare al di sopra, e non c’è nulla che io non farei per lui. E questa volta, non posso cullarmi da sola nelle mie giustificazioni inutili, mentre lui è lì fuori, da solo, ad affrontare tutta questa cosa che è nata per colpa mia. Prendo un respiro scuotendo appena la testa, ma stringo la mano contro le sue, poggiandoci anche l’altra sopra, in una presa che non lascio e io davvero, davvero, spero che lo sappia che non lascerò mai. Non m’importa neanche della maschera, del mantello, di niente. A me importa solo di lui, lui e basta, in mezzo a tutto il resto, in mezzo a questo mondo così complesso e contorto che ci è cresciuto tutto intorno, e che io ancora non so capire. La verità è questa, tutti si sforzano e combattono, corrono da un lato e l’altro, e io invece sono rimasta qui, inutilmente, a corrodermi nelle mie inutili cazzate senza mai agire per fare qualcosa lì dove, lo so, per me è maledettamente importante farlo. Eppure, eppure mi rendo anche conto che c’è un mondo nascosto dietro ogni sua parola, come iceberg di cui mi mostra la punta, ma che sotto la superficie dell’acqua hanno costruzioni di ghiaccio che si impuntano ancora più a fondo, e io non posso guardarle, non posso conoscerle, ma so che sono lì. Anche se punta il dito e gli occhi me li tiene lì, su quell’orizzonte screziato di bianco, e io vorrei davvero, davvero sperare che sia solo così. Che per una volta, andrà tutto bene e basta. Ma cosa sta pagando, adesso, perché sia così? Perché questo, per quanto possa saperne così poco della vita, delle cose, ormai l’ho capito. Niente è gratis, e questa è la regola fondamentale e basilare del mondo. Ma sbuffo un respiro leggero, facendomi più vicina, solo un po’, restando a guardarlo con occhi che vorrebbero dirgli tante di quelle cose e, sopra tutto, solo di quanto io, questa volta, vorrei essere con lui. In questa strada, qualunque sia. «Certo che mi preoccupo, Josh. E lo farò sempre» lo faccio scappare con un soffio, un sorriso che trema un po’, fra occhi arrossati e un ispirare lento, ma sempre un sorriso, pregno della volontà di esserci anche fra tutto quello che, ancora, si agita tutto intorno. «A questo dovrai rassegnarti, perché non c’è proprio modo che non lo faccia. Mi preoccuperei anche se ti si spezzasse un’unghia» ci sto provando a scherzare con un tono leggero, ma so anche di quanto poco sia credibile quando poi, alla fine, corrugo le sopracciglia abbassando gli occhi, e cercando solo di non ricominciare a piangere come se fossi una ragazzina debole in balia del mondo. Non è di questo che abbiamo bisogno, non è di questo che ne ha lui bisogno, o io. «Josh, ascoltami. Sei la persona più importante di tutte, okay? Più di papà, sì, più di chiunque altro al mondo. E non posso fisicamente aiutarti in questa cosa, lo so, ma posso almeno esserci per te e supportarti e questo, ti prego, questo me lo devi far fare» lo dico tornando a guardarlo e stringendo un po’ di più la presa alle sue mani, con un tono che so tenere fermo, ma che so potrebbe spezzarsi da un momento all’altro e, quasi, sembra più un respiro che trascina parole con sé.
     
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    Non avrei mai dovuto permettere che mi vedesse così. Non lei, che sa prendere ogni mio lamento e farlo suo come una colpa che non deve assolutamente tenere con sé. Glielo leggo negli occhi anche quando non la guardo direttamente, che questo è troppo per entrambi. Siamo qui eppure le nostre menti non ci sono fino in fondo, quando ogni respiro è un ripercorrere di linee già tracciate come se riguardandole adesso potessimo dar loro un significato diverso. L'ho fatto per una vita, non voglio tocchi a lei adesso. Lo so, come so che adesso potrei dire qualunque cosa per convincerla che sto bene e non ci riuscirei fino in fondo. Anche se forse non sto mentendo, anche se in fondo lo so come Faust sia la nostra unica speranza, più di quanto abbia saputo essere io negli anni, so come questo non può ancora diventare nulla di reale che si infranga tra noi. Non quando vorrei averla con me sempre, anche se so che non posso, almeno finché non sarò pronto a pagare il prezzo di una crescita che è già meccanismo avviato nelle ossa. So che negli occhi ho una certezza, quella che non lo ho mai mostrato fino in fondo anche se tenere un segreto stretto al petto è stato sempre fottutamente difficile con lei. E' già stata una merda la sua vita, senza che mi ci mettessi io a mostrarle la fatica di starle accanto senza produrre nulla che potesse aiutarla, o la frustrazione dell'incertezza dei miei passi quanto il tempo non è mai stato a nostro favore. E so che l'ha sentito, ha sempre sentito ogni variazione di fiato tra le mie parole, anche quando ho creduto di essere abbastanza abile da distaccarmi da lei nei momenti peggiori, quelli in cui l'autodistruzione mi riduceva a qualcosa di inavvicinabile, quando doveva essere Chrys a tenermi in casa perché tutto sembrava pesarmi più della vita stessa. «Lo so..» L'ho detto, so che non posso fare nulla perché smetta di preoccuparsi di me e so che quello che sta vedendo la sta mettendo ancora più in prima linea per una salvezza a cui io ho già rinunciato. Io rinuncerei a tutto pur di saperla in vita, felice, tranquilla... ma non voglio che Edie sappia fare la stessa cosa, non è giusto nei confronti di anni passati a non sapere come rientrare dalla pressione della maledizione che le convertiva le ossa. Ed ora che è qui, con me, vorrei solo saperle dire che andrà tutto bene ed essere così convincente da spegnere il timore che le vedo rivolgermi a lente ondate. Più ci prova a scherzare, più mi rendo conto di quanto a fondo si sia piantata in lei l'immagine che le sto dando e vorrei averlo il potere di rimandarla a casa, lontana da una vista che non è sua, e non è una colpa che deve tenere con sé. Ma non posso, e forse non voglio. Glielo vorrei dire a ripetizione che so quello che faccio e le cose prenderanno la piega migliore da qui in avanti, ma non lo faccio, resto in silenzio nel sentirla stringere ogni corda fino a rendere impossibile non avvicinarmi ancora. "Ma sto bene" sembra la frase più stupida del mondo adesso. «Tu ci sei, Edie..» non posso lasciarle credere che nella lontananza non stia facendo niente per me, quando nel mio cuore non c'è spazio per nient'altro. «Sempre» lo dico che stringo le sue mani tra le mie perché sono serio come non lo sono stato quando provavo a tirarmi sulla schiena con un mezzo sorriso. E' quasi un ringhio basso, masticato trai denti e la sofferenza che mi provoca ancora il solo muovermi in posizioni scomode. Sono mortalmente serio e so guardarla negli occhi come faccio sempre quando le cose si fanno importanti oltre un limite inimmaginabile. «Sei la mia famiglia, sei l'unica persona che ha sempre contato ed anche quando non lo vedi, tu ci sei ed io per questo non smetterò di lottare mai. Per noi, perché questa cazzo di vita non ci tolga altro ancora.» Non potrà seguirmi in tutto, non potrà sapere sempre tutto, ma devo prometterle che non ci sarà più niente in grado di tenerci distanti, non quando è l'ultima cosa che voglio e so, ora, che passi compiere perché si realizzi. «Hai capito? Ci sarai sempre, come ci sarò io» Questo te lo prometto, all'infinito.
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    Lo so qual’è il nostro problema alla radice. Nostro perché nell’essere di uno, è anche dell’altra, e così ci appartiene, indissolubilmente. È lo so che è abbiamo sempre dovuto combattere qualcosa, da che siamo nati, senza mai fermarci. Lui molto più di me perché sì, possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma sono quelli che restano che combattono la guerra peggiore, e non quelli che se ne vanno, in qualsiasi modo lo facciano. Quindi sì, mi rendo conto che abbiamo questo problema, e non siamo capaci, forse, di uscirne; di relazionarci in un modo diverso ad un mondo, che in questo prima e dopo non si è mostrato poi più clemente, ma solo diverso. Diverso perché non mi reclama più così presto, ma finisce lì. Non è gentile, non è docile, è sempre la stessa bestia arcigna che ci tiene sullo stesso filo spinato, anche se cambia la minaccia. Però me lo chiedo se potremmo mai essere solo due persone normali, io e Josh, e in fondo so anche rispondermi di no. No in quel modo che me lo dice già il fatto che anche tolta la maledizione, e quello scadere del tempo, non mi so sentire meno Maledictus di come lo ero prima, nelle ossa, nel vissuto, negli anni. In tutto. Quindi no, penso che siamo andati troppo oltre fra resistenza, per me, e lotta, per lui, per riuscire a fermarci. Ci siamo maledetti da soli nel contrastare un Destino scritto, o accettarlo, e per la prima volta in tutta la mia maledettissima esistenza, mi rendo conto come in realtà, non ci sarebbe stato scampo in nessun modo. Quella vita sognata solo un po’, quando ci provavo, oltre il limite della Maledizione, non era altro che appunto un sogno, qualcosa che non avremmo potuto avere mai, e che infatti non abbiamo. Ci siamo cresciuti male, e ormai quel male e la nostra abitudine, anche se me lo chiedo, adesso, cos’altro deve combattere. Qual’è ora la sua guerra, ora che non c’è più niente a reclamare la mia carne, la mia anima, niente che si ingrossi sul mio destino tanto da richiedere ancora sforzi tali, da lasciarlo stremato su un divano, con tutto questo stretto nella carne. Cosa, Josh? Qual’è la lotta, quale il principio? Alla fine, penso solo che, ancora, non siamo capaci di essere pacifici. Non lo sono io, non lo è lui, e quel senso di sentirci sul punto in cui tutto sta per esserci strappato dalle dita, in un modo o l’altro, nei due opposti che abbiamo sempre rappresentato, non ce lo toglierà mai nessuno. Sono passati troppi anni, alla fine è questo. Troppi anni in cui abbiamo visto tutto scivolare, e scivolare, e scivolare, per poterci abituare a qualcosa di diverso che, invece, ci dice che adesso è tutto risolto, ed ecco possiamo solo vivere le nostre vite. Ma non sappiamo viverle in un altro modo, non è vero? Penso di no, ad essere onesta, e non gliele lascio queste mani, non li lascio cadere gli occhi, e vorrei solo che davvero, davvero, quella pace tanto sognata nel far crollare un limite di sangue nelle mie vene, ci venisse semplicemente concessa. Ma era solo una fottutissima illusione, e quindi siamo ancora qui, a lottare per Dio solo sa cosa, ma anche se non lo so, lo sento lo stesso quanto sia vitale nei miei respiri, così come nei suoi. Mi chiedo se forse, non avremmo dovuto fare come mamma e papà. Rassegnarci entrambi, e solo goderci quello che ci era permesso vivere insieme, senza mai aspirare a di più. Sarebbe stato meglio, sì. Lui, forse, non avrebbe avuto questo tarlo nella testa che lo ha portato esattamente qui, se solo mi avesse vista davvero soddisfatta e in pace; e anche Morgan, magari, non avrebbe fatto quel patto. E io sarei finita come dovevo, senza tutte queste anime a premere contro la mia salvezza come un prezzo che non ho pagato io, ma che posso guardare, assaporare, senza sapere come ripagarlo. Diventa solo un macigno nel petto. Ed è orribile da pensare, me ne rendo conto, ma come potrei pensare altro? Altro quando adesso le vedo le conseguenze dell’anima di Josh venduta fra quelle ombre per me, per me. Stringo le labbra e mi sento muovermi, chinarmi fino a premergli la faccia contro il petto, e in parte è perché non voglio che la veda così come me la sento ora, in parte perché io non voglio vedere. Non voglio vedere niente, e vorrei che nel non vedere, non sentissi neanche. Egoista, così egoista. E ringrazio, invece, che la mia testa non me lo permetta, e mi prema ancora contro la realtà enorme di quello che mi circonda, e che mi lascia senza armi, neanche una, per poter agire. Sono in balia di tutto, e mi odio per questo. Mi odio come so odiarmi solo io, nel silenzio e nel buio, ma lo faccio con tutta la ferocia di cui sono capace. «Ma lottare contro cosa, Josh? Basta, è finita» glielo premo contro il petto prima di tornare a guardarlo, vicina, senza lasciargli le mani, ma tenendole salde perché, in fondo, lo seguirei ovunque, a prescindere da tutto. «Dovremmo solo pensare a te adesso, e a farti gestire questa cosa, la Corruzione. Ma non c’è niente da combattere per tenerci qualcosa, c’è solo da stabilizzarci e, cazzo, viverci la nostra vita» ma neanche io ci so credere davvero, anche se so che, probabilmente, è proprio perché lo posso sentire come lui, invece, sia ancora al centro di una guerra che si fa oscura.
     
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    Non le conosce le cose che si agitano nell'ombra, ed adesso non dovrebbe poterlo fare. Non è giusto che debba passare da una preoccupazione all'altra senza viversi la vita che merita e di cui ha bisogno. E non posso essere io a rovinare il sogno di un desiderio che ho tenuto in serbo per lei anche quando per prima mi supplicava di lasciar stare, di non pensarci più e non incaponirmici oltre il minimo indispensabile. Già, già io il minimo non so nemmeno cosa sia quando sento di aver dato sempre il massimo anche nel momento in cui non sono riuscito a stringere tra le mani la salvezza promessa. E può dirsi che mi ha perdonato per questo, ma ora io devo fare altrettanto ed ho iniziato. Ma la lotta non finirà mai finché non avrò la certezza che niente possa strapparla dalle mie mani, magari anche lasciandomi ad essere solo l'ennesimo osservatore immobile. Trattengo un sospiro che vorrebbe dirgliene di cose ma adesso è tutto bloccato in petto, fermo nella decisione che spetta solo a me, nel rivelarle o meno che il mondo potrebbe finire esattamente come finirà per certo il tempo di Morgan Crain, quello che vedo ogni volta che mi fisso di più nei suoi occhi e so che è nei paraggi, ancora. Pensa che parte del viversi questa vita sia con lui, lo so perché la conosco, perché è Edie e questo mi basta a conoscerla come le mie tasche, ma non lo sa che questa cosa avrà un termine tanto breve che, Cristo, vorrei ucciderlo di nuovo anche adesso e lo farei se non avessi il dubbio che una morte prematura potrebbe far tornare la maledizione indietro. A quel punto so anche che la venderei proprio al miglior offerente la mia anima, fregandomene di quale divinità o spettro voglia tenersela o cosa dovrei fare dopo, perché so che sarebbe impossibile per me fare altrimenti. Ed allora, forse solo allora, sarebbe tutto finito. Adesso da lottare ce n'è eccome, ma cazzo non posso farle anche questo, quindi sì me la stringo al petto anche se ogni muscolo grida. Tutto, io posso e devo sopportare tutto per lei, perché non esiste un momento nel nostro tempo in cui non vorrò stringerla a me quando ne avrà bisogno o quando ne ho io. «Non è così semplice... » è la prima cosa che mi riesce di dire con un trattenersi di denti che stridono tra loro mentre ci provo a tenere in me un segreto che ha punte di vetro che mi risalgono in gola, e ringrazio che per un attimo non possa vederle passare anche attraverso il mio sguardo, perso oltre il suo capo. Mi beo di un profumo che richiama casa e quasi osa calmarmi quando non ho niente per cui stare tranquillo fino in fondo. Non la guardo per un po', a dir il vero, e mi rendo conto che da qualunque punto vorrò prendere il discorso, non ci sarà niente che saprà farla stare tranquilla come vorrei fosse e più sarò sincero, più le cose andranno di merda. E meno lo sarò e più lei capirà, e lo so che sa leggermi meglio di Slater e del suo cazzo di lago introspettivo, quindi ho le spalle al muro, un muro che si restringe come si fa salda la presa intorno al cuore. «Non è ancora finita, Edie.» E non lo sarà finché il suo ragazzo non morirà, finché il mondo non sarà spinto verso la sua fine, e finché io con Faust non riuscirò a tenerla tra le braccia consapevole di poter essere il solo a lottare per noi due fino al termine di tutto. Coma cazzo faccio a dirglielo? Non posso, non posso perché so come è fatta, ed ho paura che sarebbe capace di legarsi ancora di più a Crain se lo sapesse in fin di vita così tanto già adesso. E questo non accadrà se posso impedirlo, e lo impedirò possono starne proprio certi come è certa la corruzione che mi ribolle nel sangue al solo pensiero. «Ma te lo prometto, Edie, davvero.. vivremo le nostre vite e non ci sarà più niente che potrà spezzarle, intromettersi o ... portarle via. Mai.» E lo so che questo non le basta, che forse vorrà andare a fondo, ma questo è quanto di più vero sappia dire imprimendo ogni lettera oltre il fiato che mi esce ancora a fatica dai polmoni. Niente, niente me la porterà più via, a costo di dare tutto a Faust perché sappia come fare, perché faccia quello che deve, e che devo, per noi e un futuro che cazzo ci meritiamo ma che ancora non è qui.
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    Ci sono tante cose che non capisco, e lo so, non c’è bisogno di ripetermelo altre mille volte. Lo faccio lo stesso, e ogni volta con più forza, come se continuando a dirmi che non capisco un cazzo di troppe cose, potessi darmi la scrollata definitiva, la forza necessaria a rimboccarmi le maniche e imparare. Imparare quello che è necessario imparare, perché sono in mezzo a delle realtà di cui so poco e niente, e non posso semplicemente andare avanti così, alla cieca, senza neanche sapere dove mettere i piedi. Quindi me lo dico ancora che devo capire, e devo farlo anche perché conosco mio fratello, e quel suo modo di proteggermi sempre, anche e sopratutto a costo di sé stesso. Ma non è quello che voglio, non lo è mai stato, e di certo non lo è adesso che, invece, potremmo solo avere una vita. Ma, appunto, io non conosco davvero la Corruzione. Non lo so come funziona e so solo, egoisticamente, che tutto quello che voglio è mio fratello, è che stia bene, è che tutto, per una volta, vada come è giusto che vada. Prendo dei respiri che si fanno profondi e quasi li sento bruciare nella gola, perché tutto questo inizia a sembrarmi una di quelle cose davvero enormi, che sembrano essere diventate, ultimamente, la mia cazzo di normalità. Proprio la mia, quando io non sono capace di questi grandi ragionamenti, e sono sempre stata una persona semplice, fatta di cose che può vedere, toccare, sentire. Invece mi ritrovo a guardare tutto che scivola proprio in quegli ambiti che sono più astratti che mai, e io davvero non so se sono capace di fare qualcosa. Ma non importa, perché se pure non lo sono, imparerò ad esserlo, e non c’è niente che Josh possa dire o fare che mi impedirà di farlo. Perché, prima o poi, voglio pensare che potremo solo vivere quella vita normale che non abbiamo mai avuto e sì, sono testarda su questo, ma è perché sono stanca. Stanca proprio di non poter avere quello, e del fatto che c’è sempre qualcosa che non mi permette di essere solo una stupida ignorante e inconsapevole di tutto, perché invece devo essere attiva, attenta, che appena mi distraggo succede che sparisce per giorni, e torna conciato così, con un altra guerra fra le labbra.Gli vorrei dire che, invece, è proprio così semplice, ma so che questo è solo il mio egoismo, che non riesce a sopportare il fatto che lui sia in queste condizioni, e il fatto che, a quanto pare, non è una cosa così rara. Ed è che in fondo so che il mio attaccarmi a lividi e segni, è solo una scusa per non dover pensare a cosa invece succede più a fondo, quindi adesso mi costringo a farlo, mentre lo guardo e davvero, cerco di capire. Perché, se devo essere sincera, mi fa paura quella lotta che ha nelle parole e nella voce, quella che non conosco, come se si fosse alzato per coprirmi la vista e non farmi vedere cos’è che ci arriva addosso, e io vorrei solo alzarmi, niente di più. Vorrei solo essere anche io, per una volta, quella che si prende cura di lui, e strappargliela questa concezione che lui a me deve tutto, quando diciamocelo apertamente che sono io che devo tutto a Josh. Se non ci fossi stata io, la sua vita sarebbe stata migliore, quando invece al contrario, se non ci fosse stato lui, probabilmente avrei semplicemente davvero mollato tutto, perché non sarei mai stata capace di reggere quel peso, per tutti quegli anni, se non ci fosse stato mio fratello con me. Quindi sì, lo so che sono io che devo a Josh ogni mio secondo, quando c’è sempre stato in questi anni per me, ad ogni crisi, ad ogni trasformazione, in ogni momento in cui cedevo e volevo solo che tutto finisse, e invece c’era sempre lui, lì, pronto a sostenermi. «Devi spiegarmi cosa succede, Josh» glielo dico con un tono che si fa pesante, anche se no, non c’è rabbia, e non potrebbe essercene mai quando lo so, lo so che ogni cosa che fa, la fa per noi. Non ho bisogno che mi venga ripetuto, perché lo conosco, e non potrei mai dubitare di questo. E, in realtà, è quello che mi preoccupa. Perché è ancora qui a lottare per me quando adesso, adesso dovrebbe combattere solo per sé stesso. Questo è il suo momento, non il mio, e io vorrei che lo afferrasse, e ne facesse qualsiasi cosa per essere libero e felice come merita. «A me importa di come stai tu, e in questo momento non mi pare tu stia bene» questo lo dico con più dolcezza, perché è così che si arrotola la mia voce sulla lingua, nell’essere un sussurro appena. «Non puoi continuare a caricarti con entrambi, devi pensare a te, ti prego» lascio la presa solo per premergli le mani sul volto, scuotendo appena la testa nel tremore delle labbra che non si ferma, e mi fa uscire un respiro mozzo dai polmoni. «Io sto bene, lo vedi? È a te che dobbiamo pensare»
     
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