Impiety's exhibition

Josh/Sirthareth | 15 Maggio

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    Queste sono sempre le cose che preferisce. Lo fa da quando ha scelto un corpo e lo ha fatto con mille intenzioni che si sono ramificate e hanno trovato lo spazio di far crescere anche di quelle cose che chiama giochi. Divertimenti che di innocuo non hanno nulla, ma sono intenzioni gravide della sua stessa essenza, pregne di un fetore irriconoscibile perché senza reale odore se non per le sue narici che ne possono cogliere le sfumature più intrinseche. Non è la prima volta e neanche sarà l’ultima finché mantiene l’aspetto di quello che ormai è un corpo vuoto. Sì, ancora gli brucia quel momento in cui è stato osato tanto contro di lui, ancora gli attorciglia le interiora e le fa fremere, contorcere in una morsa che ha una fame tutta sua, ed è quella che cerca solo preghiere che lo implorino così da poterle schiacciare sotto i piedi come cicche di sigarette ormai consumate. Ma non è lì per questo, niente è stato fatto per questo. Quello che è adesso è un mero burattinaio, lì dietro le quinte di un teatro tanto grande da confondersi per realtà, a muovere fili di cui può vedere l’inizio con precisione, ma solo prevederne la fine. In attesa. Come un avvoltoio guarda un morente, aspettando che sia solo carne da strappare alle ossa. No, questa non è vendetta, ma utilità, e seppur non sia stata sua la mano, è suo l’atto nato nel pensiero, e rivendicato nel sangue dei suoi simili, così che non esistesse nessuno a conoscerne dettagli se non lui. È l’intrinseca e perenne volontà di compiacere suo Padre che è sempre sopra tutto, ogni cosa, e se ne sta lì come un punto fisso che muove i suoi gesti, e ora lo porta a consumare passi su un corridoio incapace di lavarsi un sorriso crudo dalle labbra. Crudo perché nel rivendicarlo, sa quanto sia stato lui a causare tutto questo, e il pensiero di vederne gli effetti da così vicino, diventa una scarica che lo percuote, e che si permette di ascoltare finché è solo, e non deve nascondere la bestia che abita quella pelle. Se lo concede nell’avanzare con lentezza, e nell’ispirare quel qualcosa che solo lui può sentire, come un pensiero concretizzato nelle narici che deforma la realtà e la riscrive a suo piacimento. Anche se è lui a riscriverla, e muoverla con le sue stesse mani per modellarla fra gusti feroci che gli corrodono i senti tanto quanto li forgiano per essere esuberanze di impulsi conclamati. Ma è tutto pronto a fermarsi quando si trova di fronte la porta, e una mano corre fra i capelli nell’aggiustarli per premerli in quella forma perfetta che sa solo di compressione in un ruolo, come parte del gioco che gli vibra fra le vene. Aggiusta la cravatta, liscia i pantaloni, sistema la camicia, in una lentezza che ha l’esasperazione che piace a lui, e che si tende e tende ancora come una corda di violino pronta a spezzarsi al primo tocco. Anche se non lo fa. Anche la corda, è sempre lui a decidere quando salterà via. Padrone di tutto quello che tocca. Si schiarisce appena la gola, nel mettere su l’espressione che si confà alla sua forma e il suo ruolo, quella seria e dedita del fu Conor Walsh, ormai solo un corpo che lo ospita senza più nessuna pulsazione che non appartenga solo a lui. «Agente speciale Conor Walsh» lo scandisce per bene, abbassando appena il capo come se fosse un gesto usuale quando è solo una di quelle cose che recita perché lo siano, dopo aver scandito le nocche tre volte, e solo tre, contro la porta. «Avrei bisogno di fare qualche domanda di routine, se non è di disturbo» lo annuncia ancora alla porta chiusa, nel recuperare del tutto la forma del suo personaggio che resta seria, e sobria, nello spazio che lo divide da Joshua Çevik, ancora ignaro di chi abbia davvero a bussare un passo oltre casa sua.
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    Me la ricordo la prima volta che un agente del MAFI ha bussato alla mia porta. Per questo so irrigidirmi quando si annuncia al di là del muro. Non vedevo Edie da giorni, e di punto in bianco uno stronzo è venuto a farmi domande sulla nostra famiglia. Non ci avevo pensato al fatto che ero un mago nero, l'unica cosa che volevo era che non l'avessero trovata prima di me. Che non si fossero scomodati al punto da venire a dirmi che non l'avrei più vista. Ricordo la paura come una fottuta ombra che mi sono portato dietro anche quando è tornata a casa, che l'ho tenuta ferma in un abbraccio lungo tutti i respiri che mi ha tolto. Cristo se sono cambiate le cose eh? Quello che sento ora è che immagino sia qui per mio padre, perché la mia aura è sedata, placata da giorni in cui deliberatamente scelto di non chiedermi più nulla, di non pretendere niente e non stare a farmi troppo domande. In un modo o nell'altro qualcosa ha fatto, perché i muscoli sono più rilassati anche se una punti di nervosismo mi sale fino in gola. E se dovesse andare male, allora sarà un pasto in più per i Nalusa ed i loro amici della dimensione ombra. Non c'è più nessuno qui da proteggere da me, né Lilian, né le sue aspettative di cui mi sono fatto carico pur sapendo che non sarebbe mai finita bene. Volevo solo che non finisse e mi ci sono aggrappato logorando la corda finché non è diventato un filo sottile contro un peso insostenibile. Non sono uno di quelli che ci sta troppo a ripensare, tanto che a dirla tutta ho tirato un sospiro di sollievo quando ho visto che non ha dimenticato niente qui. E' di nuovo casa mia, di nuovo il silenzio a cui sono abituato e che tanto mi dà questa cazzo di pace che tutti vogliono togliermi. Pure lo stronzo fuori dalla porta. Non lo faccio aspettare troppo, anche se non mi fido più di nessuno. Ok forse è una stronzata, non mi sono mai fidato e basta. Indosso solo il solito sorrisetto del cazzo che si smorza appena apro la porta. E' bloccata dalla catena che ne tiene aperti pochi centimetri. «Può mostrarmi il distintivo?» Ho voglia di fare questa cosa di nuovo? No. Ma non importa cosa voglio io, non ho nemmeno la speranza che sappiano fare il loro lavoro, però mi serve capire dove sono arrivati così da trovarlo io lo stronzo che ha ucciso mio padre. «Sono un po' paranoico ultimamente, e questo non è un bel quartiere.» Diciamola un po' tutta che non ho gran voglia di trovarmi una rottura di palle in più di quanto non abbia già. Aspetto solo che faccia quello che gli ho chiesto, che qui non si crede mai a nessuno sulla parola, non dovrebbero credere neanche a me. Dopo devo solo chiudere per sganciare la catena e farlo entrare nelle mie quattro mura cadenti. Trattengo il modo in cui quel "prego" mi resta incastrato trai denti. Ad unirsi c'è il fatto che sono sicuro che Gertrude si stia facendo i cazzi miei al di là del suo spioncino, pronta a pregare il suo Dio che Conor Walsh sia qui ad arrestarmi. Sono un pessimo vicino eh? Stronza. Tutto questo resta nella mia testa.
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    È abituato ormai da millenni a mantenere un sorriso che esiste solo nei reconditi della sua testa, ma che sulla pelle non nasce mai lasciando labbra distese nella serietà della sua forma. Quella è una delle identità che preferisce, anche se sempre seconda a quella che ha macchiato di sangue nello sterminio di un gruppo che torna ad essere un prurito sotto la pelle, ma non uno di cui occuparsi lui. Ma non è un segreto quanto quella parte, quella in cui scivola fra le vittime nascondendo la mano da carnefice, lo pervade di quella gioia perversa che lo anima e lo riempie fino in fondo. Anche adesso è di questo che si tratta, e di quel tratto curioso che ha sempre nello scoprire qualcuno che conosce solo come nome infilato in una storia immensa, che di lettere ne ha così tante da rendere impossibile a chiunque al suo interno di sentirsene parte. E prima o poi, tutti arrivano ad assaggiare il suo benvenuto, in un modo o nell’altro. Non si scompone per il tono, o per modi che sono per lui in qualche modo parte fondante di quel gioco che esiste solo sotto le sue dita. Gli umani li conosce, e non perché troppo tempo prima è stato uno di loro, per così poco rispetto alla totalità della sua esistenza da poterlo facilmente cancellare e depennare come mai accaduto, ma perché sono tante le volte in cui si è infilato fra loro, e ancora di più quelle in cui ha dovuto sapere come farli a brandelli anche quando erano solo anime sotto il suo giogo. Li conosce per quello, nell’intrinseco di uno scopo per cui è stato forgiato e che è vocazione dei sensi, e di tutto il suo essere. «Certamente» tira fuori il portafogli dalla tasca interna della giacca, lasciando che si apra così che dalla fessura concessa sia visibile la sua foto che saetta sul distintivo, senza che nessuno mai possa dubitare che è la foto di un uomo ormai già morto, e assente da quasi un anno in questo mondo. Lo sa che non resta più tempo per quel gioco, e che prima o poi quella copertura che sa quasi solo di capriccio, crollerà a terra e non resterà che l’animale che vi si nasconde all’interno, ma anche questo è solo un passo necessario a qualcosa di più grande, che supera ogni suo vezzo e vizio e lo trova sempre disposto a buttare via tutto solo per un volere che non smette mai di ascoltare. «Dovrebbe sempre chiedere l’identificativo ad un agente, signor Çevik, paranoia o meno» lo dice nel rimettere a posto il portafogli, aspettando che la porta si apra e abbassando appena lo sguardo nel mentre, per rialzarlo solo quando la porta si apre e ha lo spazio per entrare. Uno sguardo intorno lo lascia andare, nel cogliere dettagli e spazi da assimilare come un vizio, informazioni che si catalogano nella sua mente una dopo l’altra, e disegnano qualcosa nella sua testa. Lui, che è nato nella spinta di ogni suo impulso, non può far a meno di notare le dimensioni ristrette del posto in cui entra, anche se non è la prima volta, in quell’anno, in cui si trova in situazioni analoghe. «Come ho detto è solo una visita di routine, ma più informazioni riusciamo avere su suo padre meglio è» si muove con lentezza, facendo girare appena il capo prima di tornare a guardare lui. «C’è qualcun altro in casa?» è una di quelle domande che fanno parte del personaggio, e la lascia scivolare come se fosse già parte di una routine collaudata, mentre torna a infilare la mano nella tasca interna per tirarne fuori il piccolo taccuino per gli appunti con la penna infilata sulla copertina. «Non le dispiace se prendo appunti, vero?»
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    So un po' come funziona il mondo, abbastanza da capire che no, potrebbe mostrarmi un falso ed io non arriverei a vederne la differenza. Solo che in genere gli stronzi che raccontato puttanate da queste parti fanno un passo indietro alla prima domanda. Quindi no, per mia immensa e fottuta gioia, questo è davvero un agente e davvero ha voglia di farmi qualche domanda. Bello, perché non la possa mai avere una giornata in cui non penso a come è morto mio padre? Spero solo che abbia buone notizie e no, non è già una speranza che muore con la velocità di una cazzo di farfalla. Stringo le labbra. Resto comunque dietro la porta perché i dettagli so ricordarli abbastanza bene, che se Conor Walsh farà qualche stronzata almeno capirò dove andare a prenderlo. Sì, in ogni caso non li sto facendo i salti di gioia, nemmeno quando prendo un respiro stanco e chiudo la porta. Due scatti, si inceppa sempre nel solito punto perché lo so che il mio appartamento è una merda, ma non ho un posto che mi accolga più di questo. Un colpo secco e convinco la catena a farsi da parte, allora posso solo aprire all'agente e farmi indietro abbastanza da lasciare che ad introdurlo sia un braccio che stendo verso l'immediato salotto. «Joshua» chiariamo una cosa fin da subito, "Signor Çevic" non esiste, è morto. Ora dovrei dire che "il Signor Çevic era mio padre" ma posso anche tenermelo stretto addosso, che penso il tono sia sufficiente a spiegare quello che non dico apertamente. Posso quasi sopportare che si guardi intorno con il fare che hanno per non dare mai l'idea di star ficcanasando ma in realtà lo fanno eccome. Dovrei pensare che è il loro lavoro, ma a me sta sul cazzo anche quello. E no, non se n'è ancora andata la sensazione che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nel fatto che siamo entrambi nella stessa stanza. C'è ancora il buco sul muro, ha la forma di un mio pugno nelle mura di gomma che abbiamo. Così come la tastiera spaccata a metà ai piedi del letto, quella però a primo occhio non si intravede. Ma penso anche che, se la vedesse, non farei una piega. Ho perso mio padre, ogni mia reazione sono cazzi miei, no? Un'altra cosa he chiariremo subito, è che io non sono un tipo ospitale, quindi sì può sedersi dove gli pare ma non avrà un bicchiere d'acqua a meno che non me lo chieda espressamente, a me non frega un cazzo di leccare il culo a nessuno. Ancora meno adesso che trattenere l'insofferenza è un esercizio piuttosto snervante. «Capisco...» che sia di routine, ma mi ha rotto il cazzo comunque, si. «No, ci sono solo io.» Adesso e penso per sempre, che ci ho provato a dividere questo appartamento con Lilian e non è durata nemmeno un mese netto. Mi siedo, non voglio pensarci. Se fumassi ancora con la frequenza di prima, ora sarebbe il momento giusto, invece mi sono tolto pure questo. Grazie Slater. Mi trattengo, davvero, quando estrae anche il taccuino perché lo so come suonerebbe male un "faccia il cazzo che deve e poi si tolga dalle palle", quindi tiro solo un mezzo sorriso ed un cenno. «Nessun problema, faccia come preferisce» Mi appoggio allo schienale, per niente pronto al viale dei ricordi ma, come immaginavo, prima o poi sarebbe dovuto accadere.
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    Quelle di Joshua sono risposte secche che hanno un sentore di fastidio che non ha intenzione di celare, è che segna il punto di un altro di quei sorrisi che esistono solo in una dimensione sottocutanea del suo essere. Sa che potrebbe rispondere in più modi: con quello di un imbarazzo che lascia disagio nei movimenti, quello di un’arroganza troppo spinta che lo fa accomodare nonostante tutto in un punto vicino al suo interlocutore. Non sceglie nessuno dei due, troppo fuori dal suo stile, troppo classici nei gesti e nelle dichiarazioni quando a lui, non interessa essere visto in nessuno dei due modi. Gli rivolge solo uno sguardo allora, muovendo qualche passo per avvicinarsi, ma restando in piedi. Una posa dritta, ferma. Nessun imbarazzo, nessuno scompiglio. Perché? Per lo stesso motivo di sempre, che è un “nessun motivo” e anche tutti, racchiusi nel vezzo di capricci e curiosità che si spingono fino al margine della pelle come se dai pori potessero sbirciare e respirare aria che li nutra. Ma non c’è mai niente di casuale nei suoi gesti, come non c’è nel modo in cui presa attenzione all’inclinazione di ogni lettera che Joshua pronuncia, in quel modo che scoperchia vasi chiusi e gli permette di sentirne almeno il fruscio interiore. Apéritif. Del resto è lì per quello, lì perché non è capace di lasciar andare una cosa solo con la sua consapevolezza, ma perché ha bisogno di gustarla in una portata dopo l’altra, dall’inizio alla fine, per sentirsene così sazio da essere sicuro di non averne lasciato neanche una briciola. È la corroborante essenza della sua natura a fargli lasciar scivolare piano lo sguardo dal foglio bianco a Joshua, in un gesto che per un attimo lo lascia immobile, ma che poi porta ad un annuire leggero che si muove appena in uno spazio ristretto. Nessuno degli appunti più importanti finirà davvero su quel quaderno, perché quello è fatto per risolvere un caso di cui conosce movente e mandante, e sono tutti e due premuti sulle sue mani. Ma nella sua testa si forma già un sentiero di fascicoli che invece parlano della cosa che ama di più al mondo: un essere umano. «Joshua» lo ripete come in un accordo che esce semplice dalle labbra, prima di far tornare gli occhi sul taccuino, senza ancora smuovere la penna che pure, resta con la punta ad un centimetro scarso dalla pagina. Sa più cose di quanto Joshua creda, e questa è una di quelle cose che gli piace. Conosce tutti i motivi per cui dovrebbe essere in ansia di fronte ad un agente del suo calibro, e pure registra come non lo sia, ma abbia solo e ancora quel fastidio che si annida in ogni gesto, e ogni frase. «Che lei sappia» inizia, schiarendosi la gola un secondo prima, e tornando a guardarlo con ancora la penna lì, come una spada che penzola sopra un cadavere morente in attesa di elargire il colpo di grazia. «Suo padre aveva qualche... rapporto complesso con qualcuno? Qualche vecchio litigio, disputa, cose del genere» lo spiega snocciolandolo con calma, ma lasciando trapelare quel tipo di interesse che anche se non possiede, sa emulare con vividezza nei suoi tratti. «Discussioni in sospeso, o qualsiasi motivo di un possibile rancore»
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    Forse loro non sono in grado di capire quanto sia stronzo chiedere a qualcuno se sa perché suo padre sarebbe dovuto essere ucciso. Se aveva screzi con altri pensionati e stronzate simili. Cristo non gli viene in mente che se lo sapessi avrei già tutte le fottute risposte di cui ho bisogno? Non sarei certo qui a rispondere a domande del cazzo. Giuro che ci provo a non stendere le labbra in sorriso del cazzo, di quelli che già lo mettono un segnale lampeggiante su di me. E sono domande di merda perché lo so bene dove vanno a parare. Se ti dimostri troppo stizzito allora non tenevi abbastanza a lui. Quindi potresti quasi avere un movente per liberarti di un peso, uno già abbandonato in una clinica per non costringerti guardare un lento deperire di tessuti e cervello. Se dimostri invece di sapere vita morte e miracoli ti tormentano in eterno, ed allora è meglio che te la cavi da solo. Non c’è nessuna vittoria nel rispondere, quand’anche rimanere sul vago non è mai un buon segno. Solo che io ho imparato a mentire senza mai rimuovere del tutto la verità dal contesto. Lo sa già, Conor Walsh che non andavo da mio padre da mesi. Si sarà fatto dare i registri se almeno sa farlo in parte il suo cazzo di lavoro. Quindi, appunto, non sorrido, non faccio altro che trattenere un sospiro perché non è la prima volta che rispondo. Dio se la fumerei una cazzo di sigaretta adesso. Ma no, cerco solo di non marcare il fastidio al punto da renderlo sospetto ed in compenso non fingo la gioia assoluta. Una mediazione che ho imparato a mie spese. Mie e delle cicatrici che tengo sempre coperte con alchimia e intrugli vari. Per quelle non avrei spiegazioni convincenti.«Mio padre era un immigrato.» Si lo so che non è stato nemmeno per il cazzo qualche patriottico americano di merda. Perché io lo so che è colpa mia se sono arrivati a lui, per quanto non andare a trovarlo avrebbe dovuto aiutare a tenerlo distante da me. «… ma non ha mai avuto problemi quando si è integrato qui.» Tanto perché è inutile cercare qualcosa che non esiste. Appoggio i gomiti sulle ginocchia. Ho anche sete. «Che io sappia, alla clinica era benvoluto. Stava bene» Stringo i denti. Questo lo so con certezza, e con l’amarezza di sapere che avrebbe potuto vivere tanto più a lungo se non avesse avuto un figlio del cazzo come me. Ma, ehi, papà, avresti potuto fare di meglio anche tu eh? «Non era il tipo da cercare rogne senza ragione.» Siamo sempre stati così diversi, ora ancora di più.
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    È una buona messa in scena, deve concederlo. Non delle migliori solo perché troppi sono i suoi anni, e troppe le persone con cui ha avuto a che fare nel corso di secoli che sono scivolati come serpenti sotto la sabbia, sempre pronti a colpire in un punto o l’altro. Una buona messa in scena, ma pensa anche quanto sia fortunato Joshua ad avere lui di fronte, e non un reale agente che ha davvero troppo a cuore la giustizia e la legge, come lo faceva il suo tramite prima che arrivasse lui a distruggergli la vita e piagarla in base ai suoi meri scopi. Anche se “fortunato” è una parola complessa in questo momento, complessa nel senso che se non fosse mai arrivato lì, non sarebbe mai neanche successo quello di cui stanno parlando. Lo definirebbe quasi paradosso. Ma lo guarda, spiando da sopra il movimento della penna che ora macchia la carta in gesti che sono solo una farsa, ma una che vuole sia credibile solo per cibare il suo stesso diletto. Alla fine, si tratta sempre di quello. Di quanto si diverta, quando in fondo non esistono davvero esseri mortali in grado di contrastarlo davvero, non ora che quell’unica arma che ha davvero potuto perforare la sua natura, e distruggerla, l’ha fra le sue mani, in una custodia a cui non ha intenzione di rinunciare. È durato anche troppo lo sconvolgimento di sentirsi mortale dopo tutti quegli anni, troppo quando no, non gli è mai piaciuto sentire di avere anche solo un minimo a che fare con creature che per natura e definizione, considera inferiori. Inferiori a lui, che è il frutto di suo padre, ed uno dei primi. Ci sono manate di orgoglio che lo percuotono sempre, lo fanno nel silenzio che giace sotto la pelle, in mezzo ad una carne che anche se parte come estranea, conquista ogni volta e rende indissolubilmente sua, come tutto quello che tocca. Quindi lo guarda, scruta da sopra gli appunti per lanciare sguardi che si nascondono solo in parte, quella più meschina che non ha niente a che fare con l’uomo che interpreta, per arrivare fino a lui. Si diverte, sì, come si diverte sempre quando esiste qualcosa del genere e lui se ne sta lì, unico sceneggiatore che conosce a fondo la storia da ogni punto di vista. Di pietà non ne conosce, e neanche di compassione. Sono concetti estranei ad una natura che è nata e si è sviluppata al contrario nei suoi opposti, al punto da essere un rigurgito che non chiede altro che ci sia una reazione in più a dirgli come è che una sua mera decisione, sappia piegarsi nell’animo altrui. «Vagliamo ogni possibilità» lo dice come se dovesse spiegare solo adesso la sua domanda, e motivarla con qualcosa che resta attaccato alla lingua, nel fargli elargire un respiro appena. Calibrato anche quello, come lo è sempre tutto di lui. Resta a fissarlo più apertamente per qualche secondo, come se nella testa avesse un pensiero che in realtà non esiste, ed è solo emulazione che per lui sa di attesa, e di secondi allungati in spasi che si contraggono sotto le dita. Perché gli piace così, sempre così. Lentezze spasmodiche che si caricano da sole, e sulla pelle diventano un prurito che sa farsi insopportabile in quel modo che, per lui, è un piacere senza nome. «E che mi dice invece di lei, o sua sorella?» lo aggiunge spingendo per qualche volta la punta della penna contro il foglio, prima di tornare ad impuntarla come si deve tenendo ancora lo sguardo contro di lui. «Qualche vostro screzio, o diatriba, che crede potrebbero essere rilevanti al caso?» indugia appena, qualche secondo di troppo, e li conta. Uno, due, tre. Non vogliono dire davvero niente se non la loro stessa esistenza che nel prolungarsi, può far intendere mille sottintesi che non esistono davvero, se non nelle intenzioni di uno scompiglio che gli appartengono. Torna con la testa a chinarsi sul foglio, con il fare della prontezza a carpire le sue parole per segnarle come se fossero davvero vitali al caso.
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    Vagliamo ogni possibilità. Certo. Mi piacerebbe tanto guardare la sua espressione cambiare lentamente nel capire che una di quelle possibilità, probabilmente la più reale, non è in suo possesso. Poi però mi ricordo che questo non fa che frustrarmi, che sono giorni che vago per casa di Chrys come una fottuta anima in pena, che mi chiedo chi cazzo abbia deciso di andare a lasciare una minaccia ad un soffio da me. Un po' come dire che la prossima è Edie, quindi sì, il tempo stringe e sì.. dovrà parlarne con Slater. Mi sono rotto anche il cazzo che continui a dirmi che le ho io le redini della mia vita, quando evidentemente non è così. E allora andrò a prendermele con la forza. Ad ogni modo tutto questo non può uscire da qui. Annuisco, non smetto di studiare ogni espressione come se dovessi leggervi qualcosa che non dice. Solo che poi parla di me e di Edie e allora no, non so trattenere il sorriso storto con lo sbuffo di fiato che ne esce. Mi faccio più avanti sul divano, raddrizzo la schiena. Lo guardo precisamente negli occhi, voglio che la puttanata che sto per dire sia credibile. Perché sì, sarebbe molto molto molto divertente a questo punto alzarmi, mostrargli chi sono davvero e vedere quante delle sue teoria andrebbero a puttane. Ma no. Non abbiamo bisogno di altro caos, di un dipartimento che mi bracchi in qualche modo e così di altre preoccupazioni per Edie. Sarebbe anche altrettanto interessante spiegargli che mia sorella è incinta di un fottuto cacciatore che di "screzi" ne ha anche solo perché respira. Le avrò anche fatte le mie cazzate, ma lui si fa un nemico ogni secondo. Quindi è vero che ci ho pensato, che quando sono riuscito a non incolparmi sempre di tutto, ho pensato avrebbe anche potuto essere uno dei quei mostri di cui va a caccia. Cazzo devo parlare con Morgan. «Non che io sappia» sollevo le spalle, mi esce diretta come una ripetizione che si riscrive nella testa, siccome però so cosa passa nelle loro teste e questo non basta. «Senta, mi creda che se avessi qualunque cosa di rilevante vi avrei già chiamati.» Balle che ho imparato a dire con un sospiro che si fa profonda delusione, allargo le braccia. «Mio padre non faceva del male a nessuno, e le sue condizioni non erano note fuori dalla clinica. » Questo è assolutamente vero, e nell'esserlo muove un ringhio che trattengo, uno sguardo che si perde appena e questi denti che stringono cuoio immaginario. «Immagino che lei, a questo punto, non abbia novità.» Sì c'è sempre un fondo d'accusa.
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    Edited by nocturnæ - 23/6/2021, 10:46
     
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    È un gesto perpetuo quello della mano che continua a segnare lettere inutili, anche se solo lui ne è consapevole. Joshua sembra trattenere un tipo di nervosismo che sa di rabbia, ed è di quelli che in altri contesti, uno sorriso glielo strapperebbero volentieri dal volto. Se lo chiede se sta già pensando ad una vendetta, e come riuscire a correre più in fretta del M.A.F.I. per arrivare ad un nome e cancellarlo come una macchia dal cosmo. Cosa impossibile, quando quel nome è il suo e suo soltanto, e tutto ciò che era minaccia alla sua esistenza lo ha preso e nascosto e non è in potere di nessuno di loro ripetere quel gesto. Lo sbircia da sopra il taccuino, lasciando correre gli occhi su di lui fra una lettera e l’altra, come soppesando le sue parole una ad una. Di nemici, in realtà, ne hanno da tutte le parti, anche se “nemici”, non sa se sia una parola davvero corretta. Piuttosto, essersi trovati invischiati in quel gioco più grande di loro, ed avere uno come lui in campo. Ma in fondo anche quello ha davvero la sua utilità, una che è diversa dagli interessi che sono un suo svago personale, e si nasconde anche nella segretezza di un gesto che si è costretto nel lasciare di sé solo la traccia più evidente. In fondo, sono poche le cose che si concede davvero solo per il suo mero diletto, almeno di recente. Perché più ci si avvicina a quello che chiama “l’inizio”, e che per molti invece si presenta come una fine, più sono le cose da fare, e da seguire a vicinanze sempre più strette per essere sempre sicuro che tutto vada esattamente come deve. Lo sa che in fondo uno dei motivi per cui è stato mandato lui per primo sulla terra, è perché suo Padre sa di potersi aspettare che porti al suo cospetto problemi che ha già risolto. Lo sente lo sguardo di Joshua su di lui, e lo diverte come sempre il pensiero che a guardarlo, sia qualcuno che non ha idea di cosa c’è davvero sotto quella pelle, e nascosto dietro quel volto. Lo diverte come lo diverte sempre, in quel modo malsano che nel renderlo l’unico consapevole, gli permette di vedere tutto dall’altro. Quanto si intrica, si annoda, e si mischia.Lo guarda per qualche istante, e neanche ne ha idea, Joshua, di quanto di novità non ce ne saranno finché, forse, un giorno deciderà che ve ne siano. Gli sembra quasi un peccato ad essere l’unico consapevole di quel gioco, nel modo in cui gli sembra sempre un peccato nella consapevolezza di quanto, sì, ci sarebbe una nota in più nel far scivolare via una maschera e premere una rivelazione a vibrare nell’aria. Una nota per lui, questo è ovvio quando in fondo, tutto il resto lo sa vedere solo in funzione di sé stesso, o di suo padre. Muove appena le mani, lo fa per premere la penna al centro dell’incrocio delle pagine, così da richiudere il taccuino lasciando quel segno nel punto in cui ci sono appunti appena accennati. «No, nessuna novità» lo ammette in un modo che si finge candido, e che rispecchia su un volto che sa premersi nell’imitazione di un dispiacere che per lui non esiste, ma che egualmente si manifesta fra i tratti. «Non le mentirò, è un caso abbastanza difficile, ma stiamo facendo tutto il possibile per venirne a capo e prendere il colpevole» un giro a vuoto quando è lui a manovrarlo e spostarlo in mille direzioni sbagliate, una più dell’altra, solo per i8l gusto di sentirsi ancora regista di ogni istante, mano del fato effimera che decide di spezzarlo solo per un vezzo.
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