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Eså/Samuel | 30 Giugno | Lyaglaisol-7

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    a follia vien collocata in posti elevati e gli abili siedono in basso. Partono da discariche. Trovano una strada verso l’alto e tornano al punto di partenza con una mente diversa, che ha visto mondi diversi e ha compreso ragioni diverse, quelle dell’universo che parla attraverso agenti dell’entropia. Si dice che il perfetto accordo sia stato provvidenziale ma non era altro che una tappa di un percorso più ampio, quello che ora lo vede a compiere le prove generali della desincronizzazione di quella sintonia che, “perfetta”, lo è solo in una visione semplicistica e antropocentrica. Ha smosso le costanti e ora ne sta osservando la reazione dell’universo, una conseguenza che lo meraviglia, lo lascia esterrefatto di fronte alla potenza che sono in grado di avere dei numeri ordinati nella giusta sequenza. La distruzione che è in grado di creare un solo uomo con in mano nient’altro che la scienza; una conoscenza che esula dall’etica e dalla morale per surclassare qualsiasi limite ed arrivare al proposito più ampio che non tutti sono ancora in grado di accettare, ma accadrà. Arriverà il momento in cui capiranno. Solleva lo sguardo alla luna che decade non più sostenuta dall’intensità fondamentale della gravità, piovono frammenti che non potrebbero comunque colpirlo sotto una barriera che protegge lui e il macchinario che ora gli serve soltanto a registrare i cambiamenti nelle onde. Non è la prima volta che l’esperimento riesce, ma mai tanto rapidamente e con un’intensità tale da far crollare un satellite naturale sul suo pianeta. Chiude le palpebre, ascolta il frastuono della fine, la paura che vibra nell’aria tesa come le corde stesse del multiverso. Sente anche dei passi che si avvicinano, troppi calmi per essere quelli di un abitante di Lyaglaisol-7, no, è qualcun altro. Riapre gli occhi e lentamente volta la testa nella direzione incriminata, pronto ad entrare in posizione di puntamento con il fucile d’assalto appeso al collo. Inaspettato è il ragazzo che si trova di fronte. Lo sguardo gli si illumina: ha uno spettatore speciale. «Dėlïshk» gli sorride, girandosi sui suoi passi per guardarlo meglio e non più da una posizione di tre quarti. È riuscito a rintracciarlo in fretta, già troppo in fretta, ma non importa per il momento. Lyaglaisol-7 è condannata. Una volta rovinato il perfetto accordo non si può tornare indietro, Lyaglaisol-7 andrà avanti come Serene e come tante altre dimensioni che ormai sono cadute. Alza una mano, un dito, l’indice che punta in alto ma indica l’aria. Inclina appena la testa socchiudendo gli occhi nello sforzo di cogliere qualcosa, è difficile trovare quel suono nel sottofondo di tutto il resto, ma lo conosce. L’ha sentito da bambino e da quel giorno non è più andato via dalla sua mente, ospite perpetuo, compagno di vita: il canto del Ka. «Ascolta» sussurra, guardandolo di nuovo lateralmente. «Lo senti?». Spera che lo senta. Vorrebbe farglielo sentire in un modo diverso, attraverso orecchie che non lo potrebbero mai rifiutare e così osservarne gli effetti sulla sua mente. Si accontenterà di ciò che ha a disposizione al momento. «La chiamano “la voce di Dio”» è il perfetto accordo che si rompe. È il suono di una frequenza distruttiva. È la voce del suo passato, ma di nessun Dio. Non il ka, non Gan. È lui ad averla generata. Il pensiero che diventa divino. Si concede sempre un momento per ascoltare lo Schisma, prima che nell’aria cominci a risuonare la sua firma, note di un segno distintivo che verrà ricordato da quei pochi sopravvissuti sfuggiti alla fine.

     
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    Nei miei sogni più cupi, vedo Lune cadere. Crollare come sfere che si lasciano cadere da un tavolo, con qualcosa che non ha incuranza, ma intenzionalità, come l’attesa di vedere lo schianto. Le chiamo per nome, come vecchie amiche che scompaiono contro l’orizzonte, ma tutto ciò che resta, sono cumuli di sabbia che corrono lungo pareti spoglie. Questa, è la distruzione del Cosmo. La vedo, la sento fra passanti che corrono ai miei lati, cercando vie di fuga che non esistono quando è il cielo ad infuriare e spingere detriti che crollano come bombe pronte ad esplodere, e non esiste alcun posto in cui nascondersi. Non esistono spazi sicuri di salvezze che sono state annientate, ancor prima di indurre un movimento innaturale, e che mi fa tenere lo sguardo in alto a compiangere l’assassinio di un Mondo. Assassinio è la parola giusta. Una fine che è parte di una decisione che è nata, ed è stata premuta nella realtà, contro ogni spontaneità più naturale, per diventare l’imposizione ultima, a cui tutto deve sottostare. Gli occhi in alto, i piedi fermi a terra, sommerso oltre le grida, oltre tutto, ad ascoltare un pianto inesistente, ma che mi sembra di poter sentire premersi a fondo, e riecheggiare in ogni moto che spezza l’atmosfera per andare più a fondo. Piango la secchezza del Deserto, quella che non è fatta di lacrime, ma di polvere ferma sulle guance. Premo gli occhi in basso, sul caotico esistere che si agita quando è agli sgoccioli, e cerca ancora di arpionarsi a qualcosa. Vedo speranze che sanno di paura, di un terrore a cui non ho nessuna soluzione, e che conosco nel profondo di molti viaggi che mi hanno portato a guardare distruzioni simili, e anche tanto diverse, esterne ed interne, e il consumarsi dell’aria centimetro dopo centimetro. Non posso fare nulla per loro, nessuno di loro, ma è solo un punto nella mia testa, troppo blando per poter davvero rientrare in quella sfera di pensieri che adesso, si agita nell’immobilità delle mie gambe. Ripento a Yean Edhil, e penso a com’è stata la distruzione di quel mio mondo che non ho mai visto, se non fra le parole di mia madre, e suoni che condividiamo fra di noi nella consapevolezza di come non siano altro che ricordi da tenere in vita. È questo, il mio perché. Quello che mi smuove, e che mi agita, e mi porta ai confini di ogni mondo, ed ai confini di me stesso, fra sentieri che si adombrano e non conoscono riposo, ma solo movimenti che si facciano pressanti uno contro l’altro. Un battito di ciglia appena, e un Mondo muore. Un battito di ciglia, e un’Apocalisse si schianta da qualche parte attirata da mani che vi si allungano contro come se fosse la rinascita di ogni cosa. Fuori dal Ciclo, uno sviluppo a cui non è stato concesso di esistere, ma che tagliato è rotolato via, senza poter far altro che crollare, e trascinare tutto con sé. Non ci sarà più nessuna traccia, nessuna rovina, nessuna voce a testimoniare di esistenze che sono state sacrificate senza scampo, e senza scelta, a qualcosa che è arrivato a prendere il posto del naturale corso degli eventi. Stringo appena le dita quando ricomincio a camminare, nella parte opposta verso quella di volti che sono già fantasmi. Ad ogni passo, sento crescere un senso nel petto che si mischia fra tutto ciò che sono, e tutto ciò che sa trovare di quegli spazi che vengono da anni ed anni addietro, e sono pronti a tornare. Non aumento il passo nello scorgerlo da lontano, le man che ricadono lungo i fianchi nell’assecondare movimenti che mi spingono verso di lui, pilastro nel Nulla e suo portabandiera. Non ho sorrisi oggi, non ho nulla se non l’indurimento della mascella, nel guardare il limite massimo di un’idea infrangersi furiosa al suolo. Un punto immobile in sé stesso, al centro di quella Creazione che si bagna nel paradosso del suo opposto. «Riesco solo a sentire il lamento di una Causa imposta, Missing» sposto gli occhi da lui, alzandoli ancora verso l’alto, verso una battaglia persa che si consuma con lentezza e aspetta solo la sua stessa fine. «Questo Mondo non era ancora nel rintocco delle sue ore, ma tu lo hai trascinato alla fine della sua esistenza. Niente sopravvivrà» so che lo sa, come so che quello che lui guarda, adesso, è diverso da ciò che guardo io. Lo stesso evento, ma dai due lati opposti, che ci trascina in due sensazioni diverse, e ci impone immobili nello stesso punto, testimoni resistenti contro il Tempo che si esaurisce sotto il nostro stesso sguardo. Penso ad Urjec, e alla sua scelta di restare imbrigliato in quella fine che aveva visto arrivare, e me lo immagino attenderla immobile nella sua radura. «Neanche un ricordo» me lo stringo fra le labbra prima di abbassare il mento, e trovare a voltarmi verso di lui. «Il tuo Disegno si è compiuto»
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    Edited by usul; - 8/9/2021, 15:08
     
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    l sorriso si abbassa, un millimetro alla volta al risuonare delle parole del ragazzo. Il primo segnale della delusione è stata la sua espressione, troppo corrucciata per essere quella del pubblico che Lyaglaisol-7 si merita, o per lo meno, la sua fine. Sono troppi gli errori da contare nelle sue parole, troppi per correggerli uno ad uno. Sanno di accusa. Sono un’accusa, ma non si sente davanti ad un tribunale, piuttosto davanti agli occhi di un fedele che osserva bruciare il totem del suo Dio. Piega la testa, le sopracciglia si corrugano in una smorfia di contrariata disillusione, «No, no Dėlïshk» scuote il capo lentamente. «No» ripete aumentando la velocità con cui pronuncia sillabe contrite, lascia cadere le braccia ai fianchi portando indietro la testa con il mento alzato. «Non fare così» una supplica che sa di essere inutile, ma è la frustrazione che parla. Sperava potesse esserci uno scambio più vivo, ma gli sono bastate poche parole per comprendere che dall’altra parte avrebbe ricevuto soltanto una negazione incastrata in lagnose fissità mentali. «Te lo perderai se resti incastrato in quella tua…» lo indica, agitando la mano nella sua direzione in attesa gli arrivi la traduzione di un concetto che in questa lingua non esiste. «Scatola noiosa», sputa fuori alla fine con sdegno. “Scatola di pensieri”. Punta gli occhi a qualche metro sulla destra così da potervici teletrasportare, all’esterno della barriera che non è mai servita da protezione per lui. Si muove compiendo passi lenti nella stessa direzione, senza avvicinarsi ad Ath ma mantenendolo ora con lo sguardo. Lo rivolge in alto. La lapidazione punisce svariate trasgressioni, pensa, tra cui l’insubordinazione ai genitori. Hai dimenticato il volto di tuo padre, Samuel. Tra cui, la profetizzazione nel nome di un altro Dio; ogni sua parola è profezia di sé stesso. Gli occhi seguono la caduta di un frammento della luna fino a qualche metro da lui, dove va a collidere con il terreno provocando un lieve boato, ora torna a sorridere e torna a guardare il ragazzo. Alza la voce riprendere parola «Devi viverlo, è un momento irripetibile» ma crede che Ath non sia capace di vivere niente che non sia la sua “scatola di pensieri”. Allarga le braccia adesso immobile, il volto si ridisegna più serio e tuona «Guarda», ma è sicuro che non vedrà con quale magnificenza si mostra l’universo e il degrado delle due regole. È sicuro che non capirà che di fronte ha un uomo che è stato in grado di piegare le leggi della fisica. Non riuscirà a riconoscerlo come il genio che nessuno è stato capace di vedere in lui. «Nulla si crea, nulla si distrugge. Il decadimento è trasformazione. Vedi, è un ciclo? Come piace a te» non grida più, ma il tono permane in quella forma di crudezza bagnata di lieve fastidio, non riflette lo scherno che si cela dietro le parole. «Se vuoi restartene lì a tenere la pietra in mano senza scagliarla, “chi di voi è senza peccato”, non sei il benvenuto».

     
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    Lo seguo nel suo muoversi, senza spostare i miei muscoli che invece restano immobili come se potessero compenetrare con questa stessa terra, e perdere un pezzo con essa. Diventa pietra. Me lo ripeto come se fosse parte di una salvezza sconosciuta, e pure pegno di una maledizione che si è abbattuta sulle mie spalle, e sibila nei pensieri nei rintocchi di tutti questi anni. Allora diventa una pietra, Dėluïshk. Penso che questo è l’uomo che mi ha privato delle mie radici, lo stesso che adesso si arroga un diritto che non gli appartiene, ma che sa egualmente imbrigliare nel suo stesso pugno per esercitarlo come una profanazione che sa andare a fondo, e far tremare la terra. Far tremare la mia stessa anima, in ognuna di quelle minuziosi parti divise, ma che pure hanno trovato un modo di esistere nello stesso spazio. Ma ha ragione è irripetibile. Non nel concetto più vasto, quello di una fine che si abbatte incontrastata, ma nell’intimità più empirica di questa fine, esistente in sé stessa e per sé stessa, o per lui che ne guarda l’esistenza come se fosse un dono che porta al Cosmo e per cui dovrebbe essere ringraziato. Ma non ci sarà più questo momento, mai più. E non solo perché Lyaglaisol-7, dopo oggi, non sarà altro che ammasso deperito che divora sé stesso, ma per la natura stessa dei secondi. Niente è mai uguale a nient’altro. Non posso che concordare su un punto, che unisce due esistenze diverse, che si spingono oltre i margini di poli opposti. Mi chiedo come sia arrivato qui, chi sia stato Missing nella sua vita per arrivare a formulare il suo Disegno così come lo preme oggi nel cosmo, con la precisione chirurgica di chi non ha altri intenti se non questi. Così come io non ho altri intenti, se non quelli di preservare, e farlo anche contro di lui. Sposto ancora gli occhi in alto, fra i detriti che corrono per abbattersi tutto intorno, ripescando tante cose che ho assaporato fino ad oggi. Come la prima volta, che ho visto qualcosa morire. Ero con Elmar Asad, e mi portò proprio nel punto finale di un Ciclo, lasciandomelo osservare perché ne comprendessi l’importanza, e fossi capace di sorreggerla contro quell’istinto, che mi avrebbe portato a cercare di preservare qualcosa oltre il suo limite massimo. Penso che già all’epoca, Elmar Asad sapesse molto di me, così come lo sapeva Saida Zayirah. Ma questa è una storia diversa, che quello stesso istinto lo trasforma in quello di una preservazione che non posso attuare, ma solo vedersi sgretolare con quella stessa Luna pezzo dopo pezzo, andando incontro ad un irreversibile destino. Mi giro a guardarlo ancora solo alla fine delle sue parole, quelle che nelle mie orecchie suonano storte, come metallo che graffia altro metallo e lascia andare un rumore che si fa stridulo. Nessun Ciclo, ma in fondo, penso che lo sappia, è che la sua sia una frase che se ne sta solo al centro di quel bisogno di essere osservato così come si osserva da solo, un punto fisso nell’Universo. Lascio andare un respiro pesante, scuotendo appena la testa nel riportare ancora lo sguardo in alto. Immagino le mie Lune cadere, e posso sentire solo il rimbombo di uno sconforto echeggiare con questo, appesantito negli arti che restano immobili contro i fianchi. «Non arrogarti lo stesso spazio di leggi naturali, Missing, non sono di tua competenza come non dovrebbe esserlo tutto questo» penso che non è il primo a dirmi qualcosa del genere in merito ai miei pensieri. Penso che questo, è uno di quei momenti in cui, ancora di più, riesco a sentire la mancanza fisica di Calien farsi strada nel petto, e consolidarsi al mio fianco, dove in un’altra vita l’avrei trovata a ricambiare il mio stesso sguardo. Io sono i miei pensieri, quel moto perpetuo che registra tutto ciò che mi circonda, e amplia ogni mia sensazione nel trattenerla stretta in quel modo che fa crescere ogni sospiro della mente, per postularne idee che diventano consapevolezze interiori. I legacci della mia coscienza, e della mia anima. Tutto quello che mi ha separato dal crollo. «Sei solo un Uomo. Un piccolo granello fra mille, e per quanto tu possa provare ad andare contro il vento, e sfruttarne le correnti, non potrai mai sconfiggerlo» non sono senza peccato, non mi sono mai arrogato un titolo del genere. Ma questo, questo va oltre un peccato, e diventa qualcosa che è uno strappo enorme contro quella stessa Natura che esiste da sé, ed è creatrice pura di sé stessa, e di tutti noi. Quelle stelle leggi che lui piega, sono quelle che nell’aver mosso particelle minuscole, e casualità che si sono scontrare, hanno generato lui, me, e Lyaglaisol-7. Stringo appena le labbra, corrugando le sopracciglia in un moto che per un attimo, mi lascia solo tristezza nel petto, ma è un secondo appena quando poi torno a guardarlo lì, fautore di tutto questo, e tronfio della sua “trasformazione”. «Il Multiverso troverà un modo di eliminarti, come una malattia di cui ancora non conosce la cura, ma di cui è consapevole» non è una minaccia, quanto più qualcosa che sa diventare una certezza che si fa irremovibile fra le labbra, e se ne sta ferma negli occhi che tengo premuti contro di lui. «Ma hai ragione, è irripetibile. Poetico nella sua tragedia, come un libro a cui vengono strappate le pagine finali e resta lì, in sospeso, impossibile conoscerne la reale fine»
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    Edited by usul; - 8/9/2021, 15:08
     
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    na scheggia della luna che decade precipita a pochi metri da lui, davanti e poco sulla destra. La osserva schiantarsi al suolo ad una velocità che dovrebbe essere compresa tra i 11,2 e 72,8 km/s. Riscaldata dall’attrito, dalla pressione dinamica, brucia. Un piccolo meteorite che buca il terreno e scivola dentro l’abbraccio caldo di una terra che presto svanirà in briciole, per tornare a ciò che era all’inizio della sua formazione, un ammasso di polveri in attesa di trovare la loro creazionistica stabilità. Samuel sbuffa. Come punto finale di un monologo che sta in piedi solo per vanificare la bellezza di quello che ha creato per distruggere. Sbuffa e scosta lo sguardo dal ragazzo puntandolo verso un lato casuale in cui non guarda nulla, seppure gli occhi della sua mente lo facciano sempre, osservare e analizzare ogni dettaglio in sottofondo così che se mai possa servire, lui sarà sempre pronto. Torna a poggiare gli occhi su Ath senza però girare il volto, lo osservare in tralice con uno sguardo tagliato lateralmente. Si domanda che cosa persista nella mente di un ragazzo troppo cresciuto, cresciuto in modo aberrante, in questo momento. Si chiede se covi rabbia, o odio. Gli piacerebbe se lo rivolgesse proprio a lui e pensa, si chiede, se colpendolo in un punto più molle, in uno spazio più personale, possa riuscire così a scoprire una reazione più scomposta. È la curiosità di uno scienziato, la sua. Scientifica e giocosa, pregna della curiosità di chi sbaglia per trovare nuove risposte. Rilassa i lineamenti del suo volto nel porre a lui tutta la sua diretta attenzione, «Puoi dirmi che cosa stai provando?». Non crede ad una sola parola di quelle che Ath ha appena pronunciato, ma non ha alcuna importanza. «Ne sono tremendamente affascinato», sentenzia, immediatamente dopo.

     
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    Guardo queste stesse schegge crollare con un pensiero che per un secondo, mi ricordano uno stralcio di un mondo diverso, un mondo in cui il cielo si copre di strisce che sono stelle cadenti che si affrettano nell’atmosfera, detriti che sono pare della sua esistenza e che bruciano il suo cielo per stemperare ogni notte. Ma questa non è Vena Ilel. Lo guardo per qualche istante nel porsi di una domanda che, su di me, si poggia con il fiato di mille vite che ho vissuto, e che torno a guardare come segmenti divisi che non riescono ad unirsi, ma solo a vagare disperse come pezzi sconnessi che non possono combaciare. Cosa provo è parte di un pensiero disgregato, che tutte quelle vite le sfiora, e diventa così un filo conduttore che non le lascia cadere preda di una gravità che allontana tutto, ma diventa la resistenza ultima immobile nel tutto. Era Urjec che negli anni della mia educazione, mi ripeteva la regola del controllo. Quello che passa dalla conoscenza, la consapevolezza dell’io di cui Saida Zayirah ed Elmar Asad parlavano nelle sere nella Diyat Meheel, ad Hillaj, con le lune che placide volteggiavano sui capi di noi stupiti della loro presenza, tanto quanto delle loro parole. Stupitevi sempre. Lo sguardo scivola di nuovo lentamente lontano da lui, quand’anche Missing è una di quelle gravità che spezzano i miei pensieri e li frammentano, per farli tornare a tutte quelle vite che ho vissuto, e tutti i nomi che ho portato. Sono diventato qualcuno che sa come ascoltare i suoi pensieri, e che sa come sono fatti sotto la forza delle mie mani che sono sempre pronte a stringerli e riconoscerli, per avere quel tipo di potere che da ad un uomo, il dominio di sé stesso. Oltre la Tebaj, e molto più a fondo di quella mera proprietà di sé, per sconfinare in un concetto che sale verso il firmamento, e guarda Al Sahi e le sue terre negli occhi: Majalt’ahaq ‘anlduhkar. Quella consapevolezza viscerale della propria mente, e del proprio spirito, come un’aspirazione silente che serpeggia fra le storie degli Al Shar nelle notti sul Sharsham. È questo che ho cercato in tutti i miei Al’Alaham, quei cammini duraturi fra le dune, senza nessuna compagnia se non quei sussurri che sono bisbigli di consigli e sentieri da percorrere. Questo quello che ho cercato e ricercato nel cuore del Deserto, come una rivelazione che aprisse il cielo, o scivolasse dalla pallida luce di Adlaj e Sehlul. Ma adesso guardo una Luna diversa, una che crolla, e cerco nell’intimità del mio io, una risposta che possa sciogliersi sulla lingua, e arrivare nell’aria con il peso di una sincerità che sono io a decidere di premere nelle mie intenzioni. «Tristezza» è la prima parola che si ferma sulle labbra, e si espande poi in un respiro, mentre una mano si allunga ad indicare la luna, come se per un secondo volessi afferrarla, nasconderla, tirarla giù dal cielo per salvarla. Pregherei Al Sahi di accoglierla nel conforto del suo cielo, ma siamo così lontani da Al Sura, da non sentirne neanche un vago odore. «La tristezza malinconica di mille possibilità, probabilità, consumate in un solo istante» lascio cadere la mano, facendola tornare al mio fianco e lasciando che gli occhi restino lì ancora per qualche istante prima di voltare di nuovo il capo verso di lui. Il suo, per me, è sempre stato un nome sinonimo di devastazione. Missing, mancante. Come tutti i futuri recisi dalle sue mani; che sia così, o con tutti quelli che, come me, ha strappato dalle loro possibilità per trascinali in un mondo che le ha annientate tutte. Non ho mai pensato di essere un’eccezione in questo, ho sempre saputo, tragicamente bene, che se non fossi stato su quel palco, quel giorno quando Saida Zayirah ed Elmar Asad sono venuti a comprare la libertà di alcuni di noi, sarei ancora lì, ad Idur. Sarei ancora Ath, e di me avrei ormai perso ogni cosa. È solo stata fortuna, la mia. Mi volto del tutto verso di lui, lasciando che a quella Luna in crollo resti solo il mio profilo, con le mani che finiscono a giungersi dietro alla schiena, e quel contare basso nella testa che è solo il timer prima di un salto che mi porterà lontano da qui. Solo, e senza nulla di questo luogo. «Ogni volta che vedo un mondo morire, c’è una parte di me che ne soffre. Che sia parte del Ciclo, o sia qualcosa di artificialmente imposto, non posso farne a meno. Ma so accettare il termine di una vita quando è il suo momento, in situazioni come queste invece» abbasso appena lo sguardo, facendolo scivolare lungo il panorama di un luogo che premo negli occhi come se stessi scattando una fotografia, per essere certo di non dimenticarne neanche un dettaglio. Ma sono pensieri futili, e so che un giorno mi resterà solo un nome, e il ricordo di una Luna che cade. «Ho semplicemente fallito. Il mio compito, il mio ideale, me stesso, ciò in cui credo. Ho fallito, e me ne rammarico» torno a guardarlo, le sopracciglia corrugate ed un respiro che resta incastrato fra le labbra, prima di scivolare pesante come se fosse un retaggio lungo millenni. «Ma molti anni fa ho scelto di non odiarti. Ho scelto di lasciare la rabbia alle spalle, e crescerle lontano. La rabbia è per chi ha pretese per sé stesso, e io non ne ho»
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    Edited by usul; - 8/9/2021, 15:08
     
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    i dice che il giorno in cui troverà di nuovo l’odio di Ath verso sé stesso, sarà il giorno in cui lo avrà distrutto per la seconda volta. Pensa che desidera quel giorno, un flebile capriccio, un vezzo bambinesco che si concede tra un obbiettivo più importante e un altro. Anche lui deve divertirsi; gli piace unire l’utile al dilettevole. Sa che cosa significa dover mettere da parte l’odio e lui è uno di quelli che non ci è riuscito. Samuel odia ferocemente e vuole l’attenzione dell’odio degli altri, se ne ciba come di qualsiasi altra considerazione rivolta a sé. In positivo, negativo, non è davvero importante, vuole essere il centro e non importa cosa vi ci cresca intorno. Sa perfettamente che da Dėlïshk può aspirare solo a odio, rabbia e vendetta, ed è quella che va a cercare; benché da altri abbia cercato e piantato semi per tutt’altro, i loro opposti e sentimenti ancora diversi. L’animo umano è colmo di varietà. Oberato e saturato di emozioni da sfruttare, modellare, utilizzare e di cui cibarsi per accrescere qualsiasi mancanza. È attraverso quei pensieri che sorge un’idea: unire l’utile al dilettevole. Risuona nella sua mente, risuona sulle sue labbra ancora prima di pronunciarla, mentre invece la assapora provando ad immaginare la reazione del ragazzo di fronte a qualcosa che sarà apertamente una minaccia sottilmente confezionata su misura per lui. Vuole che lo odi. Ha deciso che succederà. Incolla i suoi occhi su di lui e lo osserva in silenzio per ancora qualche grave istante, prima di iniziare a parlare e farlo con la lentezza dedicata di un progettato con cura. «E se fossero due lune protettrici a cadere, Dėlïshk?», usa ancora quel nome perché ha deciso anche quando sarà il momento di chiamarlo Ath di nuovo. Fino a quel giorno, Ath, sarà solo nel suoi desideri futuri. «Cosa proveresti?» e sorride, sorride ancora come un disegno indelebile che nessuno sarà mai capace di strappargli via dal volto.

     
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    È un irrigidirsi silente, di quelli che si arrampicano lungo la schiena e lì restano, come premonizioni, come un punto fisso, nascosto nel Cosmo, e in ogni fiato mai pronunciato. Penso ad Al Aduraq, all’Inevitabile. A quella storia che è passata, di bocca in bocca, ed è diventata una di quelle leggi che leggi non sono, ma si sono soffermate a premersi così a fondo, nell’animo della gente, da essere concetti che nessuno osa smentire mai. Al Sharsham, a quanto la gelosia di un Dio, ha portato una terra a mutare sé stessa, in una minaccia, in una pretesa. Le pretese degli Uomini, sono le stesse pretese di un Dio. L’ho pensato spesso, ascoltando di quei mormorii masticati e spinti nel comune di vite che quelle stesse leggende, se l’erano appuntate nella pelle, nel sangue, e le avevano rese essenze stesse d’esistenza. È stata proprio quella pretesa, quella di Al Aduraq, il Sole, a creare quelle Lune che in un gesto estremo, un patto con cavilli nascosti, sono state pretese da Al Sahi, che le ha portate nel suo regno scuro, quello dei cieli notturni che sono la salvezza, la guida, per un mondo arso nel suo stesso calore. Non si chiede pietà al sole, è un detto ricorrente, che scivola da lingua a lingua, e che mi torna in mente adesso, guardandolo. Non si chiede pietà al Sole. Il Sarsham ha sempre avuto le sue leggi, le sue regole, ha sempre avuto i suoi motivi, quelli che andavano conosciuti nel profondo, per raccoglierli e tenerli stretti, e nel recitarli a memoria, poter percorrere ogni passo a fondo nella sua Sabbia, le sue Dune, oltrepassandolo da parte a parte per raggiungere le vette estreme di Al Sura. La punizione del Deserto, sa superare le Dune del Sarsham, e arrivare ovunque. Spingersi come un vento di quelli che ho saputo vedere, nella distanza, scuotere la sabbia con quella violenza che diventa totalizzante. Quella che quando ci sei dentro, in mezzo, seppellisce. Sotto metri e metri di Sabbia. E soffoca. Compatta tutto per renderlo di una sostanza tanto dura, eppure così viscosa che ogni manata per raggiungere la superficie, nasconde in sé un rischio; che sia l’inutilità, o sabbia che si sfalda fra le dita ed entra in narici, bocca, polmoni, e sa solo togliere respiri uno ad uno. Penso alle mie Lune. A quel patto sancito nei ricordi di ogni abitante di Al Sura, che ha chiesto quella tregua feroce ad un Dio che, in sé, aveva solo la sua pretesa, e lo guardo nel sentire, ora, il volto stringersi così come la mascella. Non sono capace di reprimere questo. Di trattenerlo e cambiarlo, modificarlo nelle mie forme per renderlo quel soffio che sappia stemperare tutto, e non farmi restringere un punto, ed uno soltanto. Incapace di essere trasportato dal mio stesso vento, ma fermo in terra. Senza radici, senza essere pietra. Prendo un respiro, cerco il mio io, quello che anche frastagliato, sa essere qualcosa che sa della mia stessa conquista su me stesso. Ma sfugge, da qualche parte, e lo sento andare via, lontano, disperdersi per lasciare di me solo un frammento. Un minuscolo pezzo. Quello di un bambino che bambino non è, e che nel guardare la vastità di un Deserto che ancora non conosce, prova una paura che non ha razionalità, non ha nessuna catena, né motivi che la facciano alzare e diventare enorme così com’è. Ho trascorso giorni e giorni su quel limitare, fra Hillaj e il Sharsham, a scrutare dentro quella vastità arida che mi era tanto contraria, e in cui, sentivo, avrei trovato un segreto seppellito nei sussurri. Lo guardavo, e lo guardavo ancora, come se aspettassi una parola che si alzasse fra i rivoli del vento che, di tanto in tanto, portavano qualche granello contro il vento. Sento l’odore delle spezie fremere nell’aria, come scivolando via dal coacervo di ricordi che si gonfia sotto le mie dita e mi fa trattenere lo sguardo su di lui, assottigliandolo in un gesto che s’impone contro tutto il resto e si ferma contro la mia pelle, come una scia di sale rimasto dall’essiccarsi delle acque. «Mai» scivola duro fra le labbra, più duro di quanto sia scivolato qualcosa in questi ultimi mesi, duro quanto lo erano le parole dopo Calien, dopo Idur, dopo troppe cose che sembravano avermi scalfito tanto, da non lasciare niente di me. Le so leggere, le sue insinuazioni. Le so leggere, e le so guardare nello spostare gli occhi da lui a quella Luna. Una Luna che non mi appartiene, una Luna di cui non conosco il nome, una Luna che non cerco in tutte le lune che scorgo, cercando di sentirmi a casa. Una casa distante, e con l’odore delle spezie a germogliare con forza dalle finestre, come a volermi trascinare, da solo, in un punto in cui trattenermi. Una Luna che non vive nel mio sangue, nella mia pelle, scavata a fondo nello sterno. «Non si chiede pietà al Sole» anche questo è duro contro le labbra, duro quanto il pugno che serro in quell’istinto che ho imparato a trascinare giù, a fondo, perché il mio Giudizio non fosse mai il peso che sconvolge la bilancia, ma sempre quello che la sua asta la tiene perfettamente dritta. «È un detto delle mie terre. Vuoi provocarmi, Missing, ma non ti permetterò di arrivare a due Lune per questo» torno a guardare lui, con un respiro che mi scivola a fondo e lascia la mascella dura, e il mento solido contro l’aria, come gli occhi che si fissano sulla sua sagoma e lì restano. «Mai» lo ripeto, riprendendolo dall’inizio di parole che sono uscite come vapori caldi sotto croste di lava solidificata. Ma sono solo questo: vapori che ribollono sotto la superficie, e lì devono restare. Mi sforzo di trovare di nuovo morbidezza nella mia stessa posa, nella mia stessa pelle, lasciando uscire un respiro mentre volto il capo ad occhi chiusi, puntando il viso verso il suolo senza guardarlo. «Sono un Uomo della Sabbia, Missing, e giuro con la Sabbia, e nella Sabbia, che un giorno ti fermerò»
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    on ha mai sentito gli altri così come dovrebbe essere, è sempre stato un limite invalicabile. Non ha mai sentito più di flebili lacerazioni nel suo animo, e altre propaggini incendiate per cui si è esercitato con il controllo. Un’autodisciplina ferrea. Per questo si è insegnato, sin da subito, sin da bambino, a leggerli, gli altri. Studiarli, analizzarli, capirli con la logica e non con il sentimento, quell’enigma a cui ha smesso di cercare risposta quando ha capito che per lui non ne esisteva alcuna ed era inutile ai suoi scopi. Chimica, ecco che cosa vede. Al pari di un fenomeno fisico, un qualsiasi evento in cui siano coinvolte delle proprietà misurabili. La chimica dell’essere umano lo è ed è da questo che è partito per comprendere chi lo circondava, le interazioni, risposte e conseguenze. La mascella del ragazzo che si stringe, quel piccolo, minuscolo flettersi del muscolo. È una minuzia che nota perché si è addestrato ad osservarle tutte. Esistono teorie che individuano l’assenza dello sbadiglio contagioso come un segnale di mancante empatia, esattamente allo stesso modo in cui la matematica teorizza evidenze non ancora sperimentali. Un brivido gli attraversa la colonna vertebrale. Sposta il peso del corpo da una gamba all’altra e lascia andare un sospiro compiaciuto dalle narici, si intreccia nel sorriso che solleva gli angoli. «Sarà divertente». Dėlïshk è di fronte all’oggetto che distruggerà tutto ciò che ha e non se ne rende conto, ma potrebbe provare a distruggere ABADDON anche in questo preciso istante e il destino di Al Sura non muterebbe. Potrebbe uccidere lui, e non il destino di Al Sura non muterebbe. Per questo Samuel sorride, e sorride ancora di più. Perché le idee non muoiono se sono semi piantati nella mente collettiva di un gruppo che venera il concetto come un Dio. Ci sarà sempre qualcuno che potrà ricostruire ABADDON, che potrà portare avanti il suo Schema, anche senza di lui. C’è una pausa, un momento di silenzio che racchiude il bivio del significato, «Vederti giocare con la sabbia». Si muove lentamente abbassandosi per prendere ABADDON dal manico, sollevando la valigetta di metallo con un minimo sforzo trasmesso nei muscoli del volto. Raddrizza la schiena, lancia un breve sguardo ad un meteorite che precipita nella sua direzione e solleva un braccio per generare una barriera psicocinetica così da farlo rimbalzare altrove. Lo riporta poi sul ragazzo, «Vuoi accompagnarmi a guardare la gente disperarsi e morire, o preferisci contemplare la fine di Lyaglaisol-7 nel tuo privato?».

     
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    Mi concentro nella distanza, sulla polvere di frammenti che crollano e che nell’alzarsi nell’aria, sembrano soffi di un deserto grigio, sterile; granelli minuscoli che si agitano fra pezzi più grandi, come tuoni e rimbombi di silenzio che gravitano nell’atmosfera per penetrarla e romperla come fosse un guscio d’uovo. Guardo in quella polvere come se potesse portarmi l’eco di un posto lontano, diverso, un cuore pulsante nei suoi sussurri, impregnato nella sua staticità mai immota, ma solo apparente. La volontà della Sabbia. La seguo fin qui, nascosta intrinsecamente nei miei respiri, ferma come fermo è un punto in espansione nel cosmo, che si arrampica lungo sentieri invisibili e istituiti da sé stesso. Posso sentirla nelle vene, come se parte di quel Deserto fosse ormai penetrato nel sangue, e lo avesse sostituito per rendermi un’estensione, una proprietà inviolabile che una volta reclamata, è stata reclamata per sempre. In quella distanza, si nascondono visioni inarrivabili di destini conclusi, tranciati di netto da un crollo che ricorda l’eco di un sogno. Lune che crollano, e lasciano solo silenzio. Ripenso alla quiete della radura di Urjec, ripenso a quello strapiombo sul mare dove Sabid muoveva le sue Manihan con il frusciare del Sarsham tutto intorno, un’imperversare che non ho mai trovato simile a nient’altro. Le tempeste nel Deserto, quando sui terrazzi della Diyat Meheel guardavo quei vortici con la voce di Saida Zayirah che inneggiava il Sarsham come fosse una madre, un padre, un fratello ed una sorella, e un mietitore che non aveva nulla di impietoso o ingiusto, ma seguiva la sua legge e la sua legge soltanto, imponendola sulle sue protuberanze indefinite e spingendola in granelli fino ai nostri volti. Ricordo la prima tempesta in cui mi sono trovato, al riparo in una delle tende degli Al Shar, e di quanto quel frastuono spaccasse il silenzio e diventasse totalità di un mondo che per qualche ora, non conosceva altro che sabbia rovente smossa con una forza indicibile. Guardo in quella distanza, con la volontà della Sabbia che parla di secoli, eoni, di strade incrociate e imboccate, e percorsi tortuosi che si intricano fra di loro, uno dopo l’altro, per scrivere la Storia del Creato. La stessa strada che mi ha fatto incrociare Missing, anni ed anni fa, e che ci ha portati ad essere qui, adesso, sull’orlo di una distruzione che non concede, ma pretende. Un respiro squarcia l’aria, arriva in profondità come il richiamo di altre terre, notti di stelle e cieli aperti, intimità diverse racchiuse nella pace di un silenzio che diventa guida immemore. La sensazione di qualcosa di terribile, grava sulle spalle, e fra mani consunte di un tempo mai vissuto, ma che sembra essere densità perpetua contro la pelle anche adesso, nell’imminente fine annunciata sotto lo sguardo. «Qualsiasi strada, se percorsa fino alla fine, non poterà da nessuna parte» mi volto a guardarlo lentamente, la durezza nello sguardo che resta intatta come una di quelle tempeste che imperversa nel cuore del Sharsham, nella naturalezza del suo stesso moto. È solo l’eco distorto di antiche parole, di quelle che resistono al tempo, e sanno vivere di bocca in bocca fino ad arrivare intatte ad ogni orecchio presente, attraverso i secoli. Quella di Missing, è una strada che vuole concludere sé stessa, e raggiungere una fine che fine lo sia per davvero. Ineluttabile. Implacabile. Come una volontà profetica che prevede sé stessa, e si costringe nel mondo nel seguire la sua stessa idea, autogenerata e partorita. «Non traggo gioia dalla morte» mi muovo, lo faccio per spingermi a terra, incrociando le gambe una sull’altra, il volto e il busto rivolto verso ciò che si perpetua di fronte a noi, in una catena divenuta inarrestabile e che è ormai solo la manifestazione di sé stessa. Una lezione irripetibile. Un momento unico nel tempo, nello spazio. Non esistono due cose uguali in tutto il Cosmo. E anche le fini, per quanto simili, sono uniche e uguali solo a sé stesse. «Resterò qui a pregare perché tutte queste anime trovino pace e riposo, e perché qualcuno ne serbi il ricordo» guardo ancora di fronte a me, immobile come se fossi una pietra che sgorga dal terreno e resta imperturbabile contro ogni vento. Qui, alla fine del mondo, nell’attesa dell’ultimo secondo e l’ultimo soltanto, prima di lasciare questo luogo e continuare nel sentiero della mia via. Gli rivolgo un altro sguardo, voltando appena il capo, dal basso, e vedendolo troneggiare nella sua postura ritta. Anche in questo, mantengo nei miei occhi la stessa fermezza, quella immobile che rimane a gravare fra le linee del volto, e che non si sciupa in una differenza che in un guizzo di respiri, posso immaginare quanto senta gli sia dovuta. «E a testimoniare la fine di un mondo» mi volto ancora, tornando a guardare di fronte a me, sfilando i guanti che coprono le mani per poi piegare la schiena, quel tanto che basta a premere palmi aperti contro il terreno. «Ci incontreremo ancora, Missing»
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    on aveva alcun dubbio che non l’avrebbe seguito. La morte è una poesia che in molti riescono a sentire propria, ma il dolore altrui generato per mano di un creatore che vi si erge al di sopra come una divinità, invece, è incomprensibile se non per il suo stesso Dio. Non capisce e non capirà mai. Samuel spera come un bambino, nella condivisione della comprensione, ma è qualcosa a cui invero si è già arreso quando l’unico mondo in cui si sentiva a suo agio, era quello all’interno della sua mente; allora la speranza diventa una malattia fittizia che serve a sorreggere la base di una maschera di apparenza che venga accettata più facilmente. C’è stato un momento in cui ha accettato, senza tanti dolori, che avrebbe dovuto nascondere e creare qualcosa di più piacevole per gli altri. Non è mai stato un peso, soltanto una necessità, ma nonostante questo si è abituato a recitarla in ogni momento. Sempre la stessa farsa, perpetuata nel tempo, anno dopo anno, rifiuto dopo rifiuto, fallimento dopo fallimento. Rovine che non sono mai tali perché un fallimento, un rifiuto, è soltanto lo sbaglio negli occhi di qualcun altro. Dėlïshk parla con parole insensate: le strade portano sempre da qualche parte, alla loro fine per l’appunto; la sua è filosofia fanatica di una religione che idolatra idee vecchie come il creato. Lui è proprio la sabbia di cui tanto parla e nel cui nome giura, antica e depositata inutilmente come cenere, sul futuro che nasconde. Negli occhi di chi non è capace di osservare più in la della propria cerchia di pensieri inculcati da maestri delusi da sé stessi, che non hanno altro che le loro parole ormai decadute, morte. Lo osserva muoversi, osserva le sue mani, anch’esse perdute in una vecchiaia specchio della sua mente. La vecchiaia non è sempre sinonimo di saggezza, quanto più di arretratezza. Si chiede come gli sia potuto accadere e pensa a proprietà uniche di luoghi in cui l’estinzione è già arrivata, fa il suo corso, invecchia il mondo e la terra, invecchia gli insediamenti umani e invecchia gli umani stessi riducendoli ad un mucchio di inutilità. È appropriato per Dėlïshk. Probabilmente ha viaggiato tanto quanto lui nella metà dei suoi anni. Potrebbe strappargli i ricordi, oltre ad Al Sura, perché i ricordi sono identità e crede che sia questo il concetto più spaventoso per uno schiavo che si è riscattato, o almeno, così pensa di aver fatto. Un marchio come unico ricordo e tutto il resto cancellato, il suo voto di testimone per questo e altri mondi. Soffoca una risata stringendo le labbra e assomigliandole una sull’altra, gli concede del silenzioso rispetto fasullo, per il suo lutto. Non trae nessuna gioia, come nessuna sofferenza o pentimento, ma non correggerà il ragazzo su questo punto. Dopotutto, i sentimenti e il come, perché, in che modo provarli, sono solo convenzioni sociali. Si teletrasporta dopo qualche istante passato ad osservarlo.

     
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