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Eså/Samuel | 30 Giugno | Lyaglaisol-7

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    È un irrigidirsi silente, di quelli che si arrampicano lungo la schiena e lì restano, come premonizioni, come un punto fisso, nascosto nel Cosmo, e in ogni fiato mai pronunciato. Penso ad Al Aduraq, all’Inevitabile. A quella storia che è passata, di bocca in bocca, ed è diventata una di quelle leggi che leggi non sono, ma si sono soffermate a premersi così a fondo, nell’animo della gente, da essere concetti che nessuno osa smentire mai. Al Sharsham, a quanto la gelosia di un Dio, ha portato una terra a mutare sé stessa, in una minaccia, in una pretesa. Le pretese degli Uomini, sono le stesse pretese di un Dio. L’ho pensato spesso, ascoltando di quei mormorii masticati e spinti nel comune di vite che quelle stesse leggende, se l’erano appuntate nella pelle, nel sangue, e le avevano rese essenze stesse d’esistenza. È stata proprio quella pretesa, quella di Al Aduraq, il Sole, a creare quelle Lune che in un gesto estremo, un patto con cavilli nascosti, sono state pretese da Al Sahi, che le ha portate nel suo regno scuro, quello dei cieli notturni che sono la salvezza, la guida, per un mondo arso nel suo stesso calore. Non si chiede pietà al sole, è un detto ricorrente, che scivola da lingua a lingua, e che mi torna in mente adesso, guardandolo. Non si chiede pietà al Sole. Il Sarsham ha sempre avuto le sue leggi, le sue regole, ha sempre avuto i suoi motivi, quelli che andavano conosciuti nel profondo, per raccoglierli e tenerli stretti, e nel recitarli a memoria, poter percorrere ogni passo a fondo nella sua Sabbia, le sue Dune, oltrepassandolo da parte a parte per raggiungere le vette estreme di Al Sura. La punizione del Deserto, sa superare le Dune del Sarsham, e arrivare ovunque. Spingersi come un vento di quelli che ho saputo vedere, nella distanza, scuotere la sabbia con quella violenza che diventa totalizzante. Quella che quando ci sei dentro, in mezzo, seppellisce. Sotto metri e metri di Sabbia. E soffoca. Compatta tutto per renderlo di una sostanza tanto dura, eppure così viscosa che ogni manata per raggiungere la superficie, nasconde in sé un rischio; che sia l’inutilità, o sabbia che si sfalda fra le dita ed entra in narici, bocca, polmoni, e sa solo togliere respiri uno ad uno. Penso alle mie Lune. A quel patto sancito nei ricordi di ogni abitante di Al Sura, che ha chiesto quella tregua feroce ad un Dio che, in sé, aveva solo la sua pretesa, e lo guardo nel sentire, ora, il volto stringersi così come la mascella. Non sono capace di reprimere questo. Di trattenerlo e cambiarlo, modificarlo nelle mie forme per renderlo quel soffio che sappia stemperare tutto, e non farmi restringere un punto, ed uno soltanto. Incapace di essere trasportato dal mio stesso vento, ma fermo in terra. Senza radici, senza essere pietra. Prendo un respiro, cerco il mio io, quello che anche frastagliato, sa essere qualcosa che sa della mia stessa conquista su me stesso. Ma sfugge, da qualche parte, e lo sento andare via, lontano, disperdersi per lasciare di me solo un frammento. Un minuscolo pezzo. Quello di un bambino che bambino non è, e che nel guardare la vastità di un Deserto che ancora non conosce, prova una paura che non ha razionalità, non ha nessuna catena, né motivi che la facciano alzare e diventare enorme così com’è. Ho trascorso giorni e giorni su quel limitare, fra Hillaj e il Sharsham, a scrutare dentro quella vastità arida che mi era tanto contraria, e in cui, sentivo, avrei trovato un segreto seppellito nei sussurri. Lo guardavo, e lo guardavo ancora, come se aspettassi una parola che si alzasse fra i rivoli del vento che, di tanto in tanto, portavano qualche granello contro il vento. Sento l’odore delle spezie fremere nell’aria, come scivolando via dal coacervo di ricordi che si gonfia sotto le mie dita e mi fa trattenere lo sguardo su di lui, assottigliandolo in un gesto che s’impone contro tutto il resto e si ferma contro la mia pelle, come una scia di sale rimasto dall’essiccarsi delle acque. «Mai» scivola duro fra le labbra, più duro di quanto sia scivolato qualcosa in questi ultimi mesi, duro quanto lo erano le parole dopo Calien, dopo Idur, dopo troppe cose che sembravano avermi scalfito tanto, da non lasciare niente di me. Le so leggere, le sue insinuazioni. Le so leggere, e le so guardare nello spostare gli occhi da lui a quella Luna. Una Luna che non mi appartiene, una Luna di cui non conosco il nome, una Luna che non cerco in tutte le lune che scorgo, cercando di sentirmi a casa. Una casa distante, e con l’odore delle spezie a germogliare con forza dalle finestre, come a volermi trascinare, da solo, in un punto in cui trattenermi. Una Luna che non vive nel mio sangue, nella mia pelle, scavata a fondo nello sterno. «Non si chiede pietà al Sole» anche questo è duro contro le labbra, duro quanto il pugno che serro in quell’istinto che ho imparato a trascinare giù, a fondo, perché il mio Giudizio non fosse mai il peso che sconvolge la bilancia, ma sempre quello che la sua asta la tiene perfettamente dritta. «È un detto delle mie terre. Vuoi provocarmi, Missing, ma non ti permetterò di arrivare a due Lune per questo» torno a guardare lui, con un respiro che mi scivola a fondo e lascia la mascella dura, e il mento solido contro l’aria, come gli occhi che si fissano sulla sua sagoma e lì restano. «Mai» lo ripeto, riprendendolo dall’inizio di parole che sono uscite come vapori caldi sotto croste di lava solidificata. Ma sono solo questo: vapori che ribollono sotto la superficie, e lì devono restare. Mi sforzo di trovare di nuovo morbidezza nella mia stessa posa, nella mia stessa pelle, lasciando uscire un respiro mentre volto il capo ad occhi chiusi, puntando il viso verso il suolo senza guardarlo. «Sono un Uomo della Sabbia, Missing, e giuro con la Sabbia, e nella Sabbia, che un giorno ti fermerò»
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