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Eså/Samuel | 30 Giugno | Lyaglaisol-7

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    Mi concentro nella distanza, sulla polvere di frammenti che crollano e che nell’alzarsi nell’aria, sembrano soffi di un deserto grigio, sterile; granelli minuscoli che si agitano fra pezzi più grandi, come tuoni e rimbombi di silenzio che gravitano nell’atmosfera per penetrarla e romperla come fosse un guscio d’uovo. Guardo in quella polvere come se potesse portarmi l’eco di un posto lontano, diverso, un cuore pulsante nei suoi sussurri, impregnato nella sua staticità mai immota, ma solo apparente. La volontà della Sabbia. La seguo fin qui, nascosta intrinsecamente nei miei respiri, ferma come fermo è un punto in espansione nel cosmo, che si arrampica lungo sentieri invisibili e istituiti da sé stesso. Posso sentirla nelle vene, come se parte di quel Deserto fosse ormai penetrato nel sangue, e lo avesse sostituito per rendermi un’estensione, una proprietà inviolabile che una volta reclamata, è stata reclamata per sempre. In quella distanza, si nascondono visioni inarrivabili di destini conclusi, tranciati di netto da un crollo che ricorda l’eco di un sogno. Lune che crollano, e lasciano solo silenzio. Ripenso alla quiete della radura di Urjec, ripenso a quello strapiombo sul mare dove Sabid muoveva le sue Manihan con il frusciare del Sarsham tutto intorno, un’imperversare che non ho mai trovato simile a nient’altro. Le tempeste nel Deserto, quando sui terrazzi della Diyat Meheel guardavo quei vortici con la voce di Saida Zayirah che inneggiava il Sarsham come fosse una madre, un padre, un fratello ed una sorella, e un mietitore che non aveva nulla di impietoso o ingiusto, ma seguiva la sua legge e la sua legge soltanto, imponendola sulle sue protuberanze indefinite e spingendola in granelli fino ai nostri volti. Ricordo la prima tempesta in cui mi sono trovato, al riparo in una delle tende degli Al Shar, e di quanto quel frastuono spaccasse il silenzio e diventasse totalità di un mondo che per qualche ora, non conosceva altro che sabbia rovente smossa con una forza indicibile. Guardo in quella distanza, con la volontà della Sabbia che parla di secoli, eoni, di strade incrociate e imboccate, e percorsi tortuosi che si intricano fra di loro, uno dopo l’altro, per scrivere la Storia del Creato. La stessa strada che mi ha fatto incrociare Missing, anni ed anni fa, e che ci ha portati ad essere qui, adesso, sull’orlo di una distruzione che non concede, ma pretende. Un respiro squarcia l’aria, arriva in profondità come il richiamo di altre terre, notti di stelle e cieli aperti, intimità diverse racchiuse nella pace di un silenzio che diventa guida immemore. La sensazione di qualcosa di terribile, grava sulle spalle, e fra mani consunte di un tempo mai vissuto, ma che sembra essere densità perpetua contro la pelle anche adesso, nell’imminente fine annunciata sotto lo sguardo. «Qualsiasi strada, se percorsa fino alla fine, non poterà da nessuna parte» mi volto a guardarlo lentamente, la durezza nello sguardo che resta intatta come una di quelle tempeste che imperversa nel cuore del Sharsham, nella naturalezza del suo stesso moto. È solo l’eco distorto di antiche parole, di quelle che resistono al tempo, e sanno vivere di bocca in bocca fino ad arrivare intatte ad ogni orecchio presente, attraverso i secoli. Quella di Missing, è una strada che vuole concludere sé stessa, e raggiungere una fine che fine lo sia per davvero. Ineluttabile. Implacabile. Come una volontà profetica che prevede sé stessa, e si costringe nel mondo nel seguire la sua stessa idea, autogenerata e partorita. «Non traggo gioia dalla morte» mi muovo, lo faccio per spingermi a terra, incrociando le gambe una sull’altra, il volto e il busto rivolto verso ciò che si perpetua di fronte a noi, in una catena divenuta inarrestabile e che è ormai solo la manifestazione di sé stessa. Una lezione irripetibile. Un momento unico nel tempo, nello spazio. Non esistono due cose uguali in tutto il Cosmo. E anche le fini, per quanto simili, sono uniche e uguali solo a sé stesse. «Resterò qui a pregare perché tutte queste anime trovino pace e riposo, e perché qualcuno ne serbi il ricordo» guardo ancora di fronte a me, immobile come se fossi una pietra che sgorga dal terreno e resta imperturbabile contro ogni vento. Qui, alla fine del mondo, nell’attesa dell’ultimo secondo e l’ultimo soltanto, prima di lasciare questo luogo e continuare nel sentiero della mia via. Gli rivolgo un altro sguardo, voltando appena il capo, dal basso, e vedendolo troneggiare nella sua postura ritta. Anche in questo, mantengo nei miei occhi la stessa fermezza, quella immobile che rimane a gravare fra le linee del volto, e che non si sciupa in una differenza che in un guizzo di respiri, posso immaginare quanto senta gli sia dovuta. «E a testimoniare la fine di un mondo» mi volto ancora, tornando a guardare di fronte a me, sfilando i guanti che coprono le mani per poi piegare la schiena, quel tanto che basta a premere palmi aperti contro il terreno. «Ci incontreremo ancora, Missing»
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