The intruder in the plaid shirt

Cordelia/Morgan | Q.G. Setta Vampiresca, 2018

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    CORDELIA COWEN
    1998 | GENASI | VOODOO WITCH | VICTORIAN LADY
    Back to 2018...

    “La grande mela”. Che nome del cazzo. Si potrebbe pensare che si tratti di una scelta poetica, ma mi è bastato mettere piede in America per dieci minuti per capire che di poetico, gli americani, non avevano proprio un cazzo. Erano tutti troppo idioti per esserlo, troppo impegnati ad ingozzarsi al fastfood per fare a gara di obesità per sfidarsi a chi si dà le panzate più potenti, o a guardare in tv qualcuno farlo. “Americano” e “babbano” erano un binomio raccapricciante, davvero, un imbarazzo senza fine. Dico, escitene con una qualsiasi idea idiota, ma idiota forte, e loro ne saranno entusiasti. Poi se, allo stesso tempo, riescono a mettere in pericolo anche la loro vita nel farlo, tanto meglio. Beh, in tal caso meglio per tutti: libereranno il mondo dalla loro stupidità. Eppure un tempo, mi dicevo, doveva essere stata una signora città; ai tempi di Godfrey, per intenderci. Nessuno, per cominciare, usciva di casa se non in abiti eleganti; tolti gli straccioni, certo, che erano ben distinguibili dalla gentil gente. Splendidi cappelli, camminate a cavallo in piena città, lei che si costruisce lentamente, giorno per giorno, la meraviglia continua per le nuove scoperte industriali, la nascita della vecchia fotografia in bianco e nero e il vero amore per l’arte, quando davvero la gente godeva nell’ammirare un dipinto ad olio senza il bisogno di fotografarlo solo per distaccarne lo sguardo un secondo dopo. Queste diavolerie tecnologiche, davvero le ripudio. E poi, prima, agli uomini piaceva conquistarti: tutti concetti astrusi al giorno d’oggi. Che gran peccato. Beh, non per nulla sono finita con un uomo nato nell’Ottocento. Lui sì che sa darmi quello che voglio. Per fortuna, il Diavolo ha rimediato ai danni del Dio creando i vampiri; praticamente gli unici uomini maturi che troverete, perché a loro cent’anni mica bastano. A volte mi chiedo se farei bene a farmi trasformare, sapete. È la promessa che Godfrey mette in giro, uno dei dettagli imprescindibili che mi ha permesso di far parte della nostra setta. Eppure, temo che un giorno, presto o tardi, il mondo smetterà totalmente di sorprendermi, ma soltanto irritarmi. Nel 2018 lo fa già, e io ho solo vent’anni. Non oso immaginare viverne centinaia. Tuttavia, potrei sempre farmi ammazzare con un paletto da un bel cacciatore, dopo essermelo fatto. E nel frattempo rimanere bella come un fiore. Dopotutto, la vecchiaia è poetica solo se vissuta e raccontata da altri. Non mi donerebbe. Ah, che fastidio queste casse di merda!
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    Smisi di colpo di contemplare il soffitto, intenta ad arricciarmi una ciocca di capelli attorno a un dito, e andai a spalancare l’ampia finestra a vetri di una delle camere da letto del Quartier Generale della setta di Godfrey, la più bella e la più ampia, ma che purtroppo mi toccava vivere quasi sempre in solitudine. – BIMBETTI DI MERDA, TROVATEVI QUALCOSA DA FARE! – sbraitai rivolta alla strada, e in particolare a un gruppetto di dodicenni in bicicletta con una cassa che trasmetteva musicaccia rap a tutto volume.
    Ah, la risposta che mi diedero. Non avrebbero dovuto.
    – Brutti piccoli bastardi. – Afferrai di corsa la bacchetta e lanciai un bel bombarda verso la cassa, ma che finì per fare saltare in aria il centro della strada, e così l’intero gruppetto, che cadde dai sellini imprecando, sbattendo gambe, gomiti, e teste. Ecco a cosa servono i caschi, deficienti. Ben vi sta. Spero vi siate spaccati anche la faccia La cassa lo aveva fatto di certo, avendo smesso di dar voce a quell’orribile musica. Ecco, un’altra cosa che non sanno fare al giorno d’oggi. Pf. Il Queens, poi, era davvero un quartiere da poveracci. La nostra era una dimora temporanea che fungeva da quartier generale e che, in mezzo a tante altre povere e fatiscenti, attirava l’occhio per essere semplicemente più grande e curata, e forse questo non era proprio il massimo per passare inosservati, ma era anche l’unica disponibile ad avere un piano sotterraneo abbastanza grande da contenere tutte le bare e, soprattutto, poter tenere riunioni e festini in piena tranquillità. E per questo sopportavo.
    Mi lasciai alle spalle un coro di macchine in allarme (di bene in meglio), che si attenuò solo quando sbattei la finestra per chiuderla, in modo tanto brusco che fu probabilmente solo questione di fortuna il fatto che non si ruppe facendo cadere vetri ovunque. Portai una mano alla testa, facendo pressione e massaggiandomi circolarmente una meninge: odiavo i rumori molesti appena sveglia. Sì, lo so benissimo che erano le tre del pomeriggio, ma io, sapete com’è, ero costretta a vivere di notte, perché di giorno i pallidoni se la sonnecchiavano nelle loro bare, con lo stomaco pieno e soddisfatto del sangue bevuto la sera precedente. Le vittime che avevamo fatto fuori in quel primo mese erano state innumerevoli… beh, come al solito. Quel luogo, però, pullulava di cacciatori, e devo dire che, al di là di tutto, ciò mi faceva trovare quel luogo particolarmente divertente. Spesso ero la spia o, per così dire, “l’inviata” ad accalappiarli come fottuti cani, ed era sempre uno spasso vedere la faccia che facevano, quando li avevo spogliati di tutto - dalle armi o, beh, a volte da tutto - e si ritrovavano circondati da una piccola orda di vampiri giunta a rapporto. Impagabile. Sorrisi a quel pensiero, tra me e me, afferrando la larga spazzola in argento dalla toletta e prendendo a pettinarmi i lunghi capelli fulvi con fare lento e tranquillo, finché non sentii un rumore.
    Spalancando gli occhi, lanciai un’occhiata alla porta, sulla quale andai poi ad poggiare un orecchio: sì, erano dei chiari passi cadenzati. Il rumoraccio emanato dal tipo di suola era inconfondibile: scarponi pesanti, e i vampiri di quel tipo non ne usavano.
    Un intruso.
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    E adesso stava salendo le scale. Oltre le quali avrebbe trovato soltanto me.
    La prima cosa che feci, fu mettermi dietro la porta e stringermi nella lunga vestaglia semi trasparente, cercando di pensare a qualcosa, a qualsiasi cosa, ma appena sveglia non riuscivo mai troppo a carburare. Rimasi ad ascoltare con attenzione, finché i passi non si arrestarono. Proprio oltre la mia porta.
    Cercai di non respirare in maniera evidente, e feci la prima cosa che mi passò per la testa, quella che mi veniva più naturale: dalla mia mano prese vita una piccola sfera di fuoco che pareva ruotare su sé stessa e che, non appena quell’individuo, chiunque esso fosse, avesse oltrepassato la soglia, avrebbe potuto abbandonare il mio palmo senza la minima esitazione, nel tentativo di farlo diventare lentamente ma inesorabilmente una torcia umana.

    code by frieda
     
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    New York fa schifo.
    E non è soltanto perché ci vive mio fratello in quell’altrettanto fottuta università, non è soltanto perché ogni volta che ci metto piede mi assicuro di non avvicinarmici neanche, alla sua università.
    No, non è per questo.
    È per il traffico.
    Odioso, noioso traffico. Un metro ogni mezz’ora, stronzi, come pensano che si possa sopravvivere così?
    Lo faccio per Theresa.
    Me lo ripeto, intensamente, in modo che penetri tra le sinapsi e mi conceda di non maledire ogni secondo del mio tempo passato qui. Lo faccio per Theresa che ha per le mani la svolta della sua vita. Lo so, che è importante per lei, e allora è importante anche per me.
    E poi, il parcheggio. Cristo quanto è difficile trovare parcheggio.
    Mi piange il cuore a dover incastrare la mia bambina tra un’utilitaria e una cazzo di Hyundai.
    Chiudo il sportello, dolcemente accompagnato, e faccio un sospiro. Uno di quelli che prendono aria dal naso e poi si trasformano in un respiro di concentrazione perché non al parcheggio che devo pensare ora. Né al traffico. No. È a non farmi vedere mentre raggiungo ed entro nella villetta di cui mi hanno parlato, una soffiata fortuita, ho detto a Theresa che me ne sarei occupato io e così farò. Solo una breve ricognizione.
    Entro nell’isolato, dopo aver parcheggiato a tre di distanza, e per fortuna sono tutti distratti dall’esplosione di una serie di allarmi. Cose che succedono. Ragazzini che fanno stronzate, era un gioco divertente anche a Bangor, farli suonare tutti insieme. Ho smesso di farlo quando ho capito che la voce arrivava a mio padre e dopo… beh, non era mai piacevole.
    Passo dai giardini, la porta sul retro è sempre una scelta migliore, anche perché il machete appeso alla cinta si noterebbe più facilmente di me.
    Che poi la gente normale non sappia a cosa mi serve, è un dettaglio. Ma del resto neanche molti altri Cacciatori lo saprebbero. È ciò che distingue quelli come me, da quelli che usano paletti di legno. Quando sono le teste a rotolare, è il marchio dell’efficenza.
    Scassino ed entro. E il silenzio tombale è la conferma che sono nella casa giusta: loro dormono.
    Una casa che è una scelta ovvia per dei vampiri, una casa come quelle da cui rubavo nel Maine. Una casa di ricchi del cazzo. Privilegiati che si masturbano con i soldi. Facile così, con grana accumulata in secoli.
    Mi guardo rapidamente intorno. Spero di trovare qualche appunto, magari una lettera, stronzate da 1800 come piace a loro. Qualcosa che possa darci una pista concreta. Una stanza per volta, un’area per volta, e le scale, una porta per volta e…
    Una sfera di fuoco che si lancia verso di me.
    Alzo una barriera al volo per farla andare a sbattere contro una parete invisibile e consumare lì la sua corsa. «Cristo» sbotto d’impulso, un mugugno più che una vera parola, ma senza pensare subito, senza collegare subito che i vampiri non possono usare la magia e di sicuro non è il fuoco che manipolano.
    La rossa di fronte a me è sveglia, a conferma del fatto che probabilmente non è una minaccia, ma una persona da portare subito fuori di qui.
    Alzo le braccia in segno di resa. Il tono di voce che si rilassa, basso, accompagna il gesto con un mezzo sorriso ma un volto di serietà. Accogliente, rassicurante. Sincero, perché è quello che sono. «Non ti voglio fare del male.»

    Morgan
    Crain.
    hunter.

     
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