Back to 2018...“La grande mela”.
Che nome del cazzo. Si potrebbe pensare che si tratti di una scelta poetica, ma mi è bastato mettere piede in America per dieci minuti per capire che di poetico, gli americani, non avevano proprio un cazzo. Erano tutti troppo idioti per esserlo, troppo impegnati ad ingozzarsi al fastfood per fare a gara di obesità per sfidarsi a chi si dà le panzate più potenti, o a guardare in tv qualcuno farlo. “Americano” e “babbano” erano un binomio raccapricciante,
davvero, un imbarazzo senza fine. Dico, escitene con una qualsiasi idea idiota, ma idiota forte, e loro ne saranno entusiasti. Poi se, allo stesso tempo, riescono a mettere in pericolo anche la loro vita nel farlo, tanto meglio. Beh, in tal caso meglio per tutti: libereranno il mondo dalla loro stupidità. Eppure un tempo, mi dicevo, doveva essere stata una signora città; ai tempi di Godfrey, per intenderci. Nessuno, per cominciare, usciva di casa se non in abiti eleganti; tolti gli straccioni, certo, che erano ben distinguibili dalla gentil gente. Splendidi cappelli, camminate a cavallo in piena città, lei che si costruisce lentamente, giorno per giorno, la meraviglia continua per le nuove scoperte industriali, la nascita della vecchia fotografia in bianco e nero e il vero amore per l’arte, quando davvero la gente godeva nell’ammirare un dipinto ad olio senza il bisogno di fotografarlo solo per distaccarne lo sguardo un secondo dopo.
Queste diavolerie tecnologiche, davvero le ripudio. E poi, prima, agli uomini piaceva
conquistarti: tutti concetti astrusi al giorno d’oggi. Che gran peccato. Beh, non per nulla sono finita con un uomo nato nell’Ottocento. Lui sì che sa darmi quello che voglio. Per fortuna, il Diavolo ha rimediato ai danni del Dio creando i vampiri; praticamente gli unici uomini maturi che troverete, perché a loro cent’anni mica bastano. A volte mi chiedo se farei bene a farmi trasformare, sapete. È la promessa che Godfrey mette in giro, uno dei dettagli imprescindibili che mi ha permesso di far parte della nostra setta. Eppure, temo che un giorno, presto o tardi, il mondo smetterà totalmente di sorprendermi, ma soltanto
irritarmi. Nel 2018 lo fa già, e io ho solo vent’anni. Non oso immaginare viverne centinaia. Tuttavia, potrei sempre farmi ammazzare con un paletto da un bel cacciatore, dopo essermelo fatto. E nel frattempo rimanere bella come un fiore. Dopotutto, la vecchiaia è poetica solo se vissuta e raccontata da altri. Non mi donerebbe.
Ah, che fastidio queste casse di merda! Smisi di colpo di contemplare il soffitto, intenta ad arricciarmi una ciocca di capelli attorno a un dito, e andai a spalancare l’ampia finestra a vetri di una delle camere da letto del Quartier Generale della setta di Godfrey, la più bella e la più ampia, ma che purtroppo mi toccava vivere quasi sempre in solitudine.
– BIMBETTI DI MERDA, TROVATEVI QUALCOSA DA FARE! – sbraitai rivolta alla strada, e in particolare a un gruppetto di dodicenni in bicicletta con una cassa che trasmetteva musicaccia rap a tutto volume.
Ah, la risposta che mi diedero. Non avrebbero dovuto.– Brutti piccoli bastardi. – Afferrai di corsa la bacchetta e lanciai un bel bombarda verso la cassa, ma che finì per fare saltare in aria il centro della strada, e così l’intero gruppetto, che cadde dai sellini imprecando, sbattendo gambe, gomiti, e teste.
Ecco a cosa servono i caschi, deficienti. Ben vi sta. Spero vi siate spaccati anche la faccia La cassa lo aveva fatto di certo, avendo smesso di dar voce a quell’orribile musica.
Ecco, un’altra cosa che non sanno fare al giorno d’oggi. Pf. Il Queens, poi, era davvero un quartiere da poveracci. La nostra era una
dimora temporanea che fungeva da quartier generale e che, in mezzo a tante altre povere e fatiscenti, attirava l’occhio per essere semplicemente più grande e curata, e forse questo non era proprio il massimo per passare inosservati, ma era anche l’unica disponibile ad avere un piano sotterraneo abbastanza grande da contenere tutte le bare e, soprattutto, poter tenere riunioni e festini in piena tranquillità.
E per questo sopportavo.Mi lasciai alle spalle un coro di macchine in allarme (di bene in meglio), che si attenuò solo quando sbattei la finestra per chiuderla, in modo tanto brusco che fu probabilmente solo questione di fortuna il fatto che non si ruppe facendo cadere vetri ovunque. Portai una mano alla testa, facendo pressione e massaggiandomi circolarmente una meninge:
odiavo i rumori molesti appena sveglia. Sì, lo so benissimo che erano le tre del pomeriggio, ma io, sapete com’è, ero costretta a vivere di notte, perché di giorno i pallidoni se la sonnecchiavano nelle loro bare, con lo stomaco pieno e soddisfatto del sangue bevuto la sera precedente. Le vittime che avevamo fatto fuori in quel primo mese erano state innumerevoli…
beh, come al solito. Quel luogo, però,
pullulava di cacciatori, e devo dire che, al di là di tutto, ciò mi faceva trovare quel luogo particolarmente divertente. Spesso ero la spia o, per così dire, “l’inviata” ad accalappiarli come fottuti cani, ed era sempre uno spasso vedere la faccia che facevano, quando li avevo spogliati di tutto - dalle armi o, beh, a volte da tutto - e si ritrovavano circondati da una piccola orda di vampiri giunta a rapporto.
Impagabile. Sorrisi a quel pensiero, tra me e me, afferrando la larga spazzola in argento dalla toletta e prendendo a pettinarmi i lunghi capelli fulvi con fare lento e tranquillo, finché non sentii un rumore.
Spalancando gli occhi, lanciai un’occhiata alla porta, sulla quale andai poi ad poggiare un orecchio: sì, erano dei chiari passi cadenzati. Il rumoraccio emanato dal tipo di suola era inconfondibile: scarponi pesanti, e i vampiri di quel tipo non ne usavano.
Un intruso.
E adesso stava salendo le scale. Oltre le quali avrebbe trovato soltanto me.
La prima cosa che feci, fu mettermi dietro la porta e stringermi nella lunga vestaglia semi trasparente, cercando di pensare a qualcosa,
a qualsiasi cosa, ma appena sveglia non riuscivo mai troppo a carburare. Rimasi ad ascoltare con attenzione, finché i passi non si arrestarono. Proprio oltre la mia porta.
Cercai di non respirare in maniera evidente, e feci la prima cosa che mi passò per la testa, quella che mi veniva più naturale: dalla mia mano prese vita una piccola sfera di fuoco che pareva ruotare su sé stessa e che, non appena quell’individuo, chiunque esso fosse, avesse oltrepassato la soglia, avrebbe potuto abbandonare il mio palmo senza la minima esitazione, nel tentativo di farlo diventare lentamente ma inesorabilmente una torcia umana.