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.©Andre Félibien37 y.o . empatico . animagus . cacciatoreA volte non so stare nemmeno con te, Jade.
A volte è New York che mi respinge.
Funziona così lungo ogni sua via.
Altre volte, invece, mi sembra sia l'America a non volermi far da casa. A non voler essere per me nient'altro che quel territorio sconosciuto in cui mi sono convinto di poter costruire qualcosa. Una famiglia, ad esempio, perché è così che Arsene mi ha educato.
Perché è proprio così che ho fallito.
E allora mi sono ritrovato a vagare laddove non esistono vere e proprie lande in cui saprei posar i piedi. E poco importa che io abbia le scarpe adatte per scalarle certe vette: in nessun modo so come evitare di farli sanguinare.
E il sangue non si arresta nemmeno quando entro al Double. Se ne resta solo in attesa, quasi levita.
Me lo sento in gola anche quando mando giù il whisky e allora fingo che l'alcol serva ad anestetizzare il dolore. A curare le ferite. Quegli squarci interni che mi strappano la voce, che a volte non sanno farmi parlare.
Che è forse un po' una scusa.
Oh, Jade, lo so bene.
Da quando l'empatia è un adolescente ingestibile io non posso che fare a meno di soffocare ogni pensiero.
Mi premo una mano contro il muso: ne morderei il palmo per tenermi a bada.
Per ricordarmi chi è che comanda qui tra me e me.
Ma ciò che mi resta questa sera, così come ogni sera, è la speranza di potermi guardare intorno senza davvero riconoscere qualcuno. Non chi dovrebbe essermi di famiglia. Non chi in me potrebbe rivederci qualcosa di buono.
Ma è proprio quando sto cercando una posizione buona che mi rialzo. Me ne rendo conto a fasi alterne solo perché è istintivo e le dita si muovono discontinue verso le labbra. Ci portano la sigaretta arrotolata ed incollata male. Che un lato della cartina è più umido del resto: non fumerò un cazzo da questa busta.
Ma non ho manualità da che sono triste.
Non ti ritraggo nemmeno più.
A volte volteggio e basta.
Lo faccio con insistenza.
Batto i piedi a terra anche se i piedi a terra non li poggio. Non con tutta la pianta almeno. Che se li muovo male poi i calcagni mi sanguinano.
So che non tornerò in armeria oggi. Che ho bisogno del tempo per non essere così un peso.
Per tornare alle cose che so fare e sentirmi utile in qualcosa.
Nell'immagine del padre che vorrei mantenere ben salda.
Perché è da tempo ormai che non sono più solo un cacciatore. No, io sono un padre, Jade.
Per questo fermo la camminata verso l'uscita decidendo di prendere posto vicino al ragazzo seduto al bancone.
Che la mano che tiene ferma in petto mi sembra di percepirla contro il mio.
Preme come a fermare i battiti del cuore.
"Che ci fa qui Jonah Ackerman?"
Un modo per salutarlo, che tra i cacciatori si da sempre per scontato di conoscersi tutti.
"Anche i giovani come te vengono ad anestetizzarsi l'anima al Deuce?"
Mi siedo al contrario: premo la schiena contro il bancone. I piedi li lascio scivolare comodi verso il corridoio. Lo guardo di lato. Sorrido, persino.. -
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.©Andre Félibien37 y.o . empatico . animagus . cacciatoreMi viene da ridere, ormai.
Non lo faccio rumorosamente, forse nemmeno emetto alcun suono. Insomma, trattengo il respiro. Lo faccio quando richiamo un po' d'attenzione per ordinare da bere.
Vado in apnea quando mi si siedo e poi, solo quando le vertebre della schiena scrocchiano appena, prendo una boccata d'aria.
Questo è un modo come un altro di tener a bada ogni cosa.
Anche quelle che per un certo verso mi punzecchiano nei punti giusti.
Che non importa, alla fine, quanto uno possa essere un adulto: a volte, da che non sono più con Emeraude, finisco per sentirmi un bambino in piena regola. E magari questo a te piace, Jade.
Ci piace l'idea di essere ancora un po' giovani dentro.
Di essere in Oregon anche quando ci ritroviamo in una città grigia come questa. Che i colori dell'autunno che c'erano lì forse possiamo giusto ricordarceli.
Ci piace, immagino, pensarci come un tempo. Come quando eravamo felici, spensierati e allora tante cose, nonostante fossero pronte a pesarci sulle spalle, poi, così tanto peso, non andavano ad esercitarlo.
O, semplicemente, avevamo noi le spalle più larghe.
Che non è vero che è l'esperienza a forgiarci.
L'esperienza, mi dico, deve servir unicamente ad ergere scudi. Fossati, mura, affinché tutte quelle cose che ci fanno male poi possano non tornare mai.
Andiamo avanti preservandoci. Ci proviamo, almeno.
Ma, ecco, i toni di questo giovane mi infastidiscono. Sarà che sa dove colpire anche se, magari, non è a conoscenza dei motivi.
E sa com'è che si sta al mondo anche se avrà meno di trent'anni.
"Andre Félibien, sì."
Mi presento e non so bene come, ma mi rendo conto di star rimarcando cose che forse non hanno motivo di essere tanto rigide. Non in momenti come questi che, comunque, non hanno la pretesa di mostrarsi tanto importanti ed indirizzati ad una qualche collaborazione. Insomma, dovrei ricordarmi che sono qui per bere qualcosa, non per dimostrare cos'è che non sono mai stato.
"Devi aver cacciato con mia moglie allora."
Perché deve funzionare ancora così o almeno, è ancora così che mi sento: il marito di Emeraude nonostante tutto.
Anche se, più che marito, so percepirmi come il padre dei suoi figli.
Che poi sono figli nostri. Il nostro tesoro più grande.
Ma non so bene se questo deve star a significare che sono uno dei Kabakov.
Magari adesso non sono nemmeno un Félibien. Magari, ecco, adesso ho quella necessita di reinventarmi. Di scoprirmi sempre diverso da quello che ho creduto di poter essere.
"In linea d'aria, se partiamo da qui, Pine Mountain è più distante di Putnam Valley. Non trovi?"
Credo sia un modo per chiedergli cosa ci fa da queste parti.
Anche se non è certo della caccia che vorrei privarlo.. -
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