Il locale era cupo, aveva la stessa aria che avevano quasi tutti i locali di un certo tipo a New York: fintamente dozzinali, con mobilio e accessori, decorazioni, che cercano di richiamare qualcosa di diverso – epoche, luoghi, poco importa, sembra che l’unica concezione che abbia l’America di sé sia com l’eleganza, se mai sia esistita, sia un ricordo lontano, ormai appartenente al suo passato. Il Signor Beck aveva iniziato nei primi dieci minuti di quella serata ad annunciarsi come l’ennesimo fiasco della sua impresa. Un uomo a cui probabilmente non sarebbe mai stato affidato nessun lavoro di un certo spessore, condannato a vagare fra i corridoi di una delle, se non la, strutture più importanti del suo paese senza poter fare mai nulla se non sognare una grandezza che non è stata scritta per lui. Non gli dispiaceva per Beck, credeva poco nel talento e di meno ancora nello svogliato nepotismo – checché lui potesse essere definito come un perfetto esempio di entrambi – quanto più per sé stesso, che doveva pur subirsi quella serata e quella compagnia ben oltre l’utile. La Piramide, questo lo sapeva ancor prima di arrivare a New York, era un punto nevralgico tanto quanto poteva esserlo il M.A.F.I., ma per scopi diversi. La conoscenza era annidata in quella struttura sotterranea disposta come l’Inferno di Dante, mentre ciò da cui nascondersi, ciò che doveva essere schivato, era rappresentato da quell’ufficio fastidioso. Non era diverso, alla fine, di come era, al Ministero, lavorare a qualsiasi livello che non fosse quello degli Auror: la meccanica era quasi la stessa. Cambiava poco e nulla, anche se su quel poco si concentrava con la dovizia che gli era dovuta. La cosa più interessante, a parte la discutibile scelta alcolica del Signor Beck – contro il suo Scotch rigorosamente liscio – era stata la presenza mascherata che se ne era stata in disparte, lontana, e che non avrebbe avuto modo di notare se non fosse stato così naturalmente portato all’accorgersi di ogni dettaglio intorno a lui. Ravius Lestrange amava dire che era per via della sua innata perspicacia, ma la realtà era che anni infantili trascorsi al Maniero Lestrange lo avevano reso un bambino iper-recettivo, e poi un ragazzo ed un adulto con un occhio ed un orecchio sempre attento a tutto, il timore mai ammesso di un qualsiasi cataclisma sempre appollaiato sulla sua spalla. Era stata una necessità che non aveva avuto modo di comprendere da bambino, e non si era preso il disturbo di analizzare – ancor meno di riconoscere – da adulto. Se avesse preso la briga di informarsi, avrebbe facilmente scoperto che la sua era una risposta al trauma quasi da manuale; ma quello avrebbe significato ammettere, in principio, che ci fosse un trauma, qualsiasi cosa che fosse storta nella sua vita, ed era di per sé inammissibile. Aveva notato l’uomo senza muoversi, la sua postura sempre degna dei migliori circoli Inglesi non aveva tradito né la curiosità per quello spettatore, né il fastidio crescente per il Signor Becket, che era oramai solo uno spreco di tempo cui non avrebbe mai potuto porgere rimedio. Nondimeno sorrideva ad ogni sua insulsa battuta, cortesemente e mai con slancio – ma quello era più per via del suo carattere che dell’onesto essere insulso che aveva di fronte. Aveva guardato con attenzione, anche, la rapidità con cui Beck beveva dal suo bicchiere di un colore verdognolo che gli ricordava, al meglio, una lumaca maciullata, al peggio un rigetto. Non era stupito, infine, quando il suo compagno decise di alzarsi – lui, di suo, non aveva ancora finito il suo primo Scotch, né aveva dato modo di far intendere che avesse intenzione di ordinare altro; era il modo cortese di comunicare come si sperasse che l’incontro finisse il prima possibile. Beck non aveva colto subito, ma quando si era alzato dichiarandosi stanco, quasi dovette trattenersi attivamente dal lasciarsi andare ad un sospiro di soddisfazione. Invece salutò cortesemente l’uomo, promettendo che si sarebbero senz’altro sentiti – neanche a costo di essere scuoiato vivo – mentre si preoccupava di rassicurarlo che avrebbe pagato lui il conto di entrambi. Ugh, Americani. Lui si risedette, scrutando la schiena di Beck che si avviava verso la porta e, contemporaneamente, l’uomo che aveva osservato il suo ospite tanto a lungo. Si concesse di sperare che non fosse solo una specie di bestia mandata per una di quelle cose assurde, così Americane, come un conto in sospeso – qualcosa che riguardava soldi e mazzette, o ambiti simili. Forse era un’azzardo, ma dopo così tanto su quella terra era disposto a concedersene. Lo guardò, in parte consapevole del fatto che anche lui, l’uomo misterioso, doveva essere consapevole del fatto che Ravius stesso avesse annusato la sua presenza. Decise di aspettare qualche istante per capire cosa avrebbe fatto: se avesse seguito Beck, anche lui si sarebbe alzato per andargli dietro – se era come sperava avrebbero potuto facilmente trovare più benefici l’uno con l’altro piuttosto che con quell’uomo che per miracolo era arrivato dove era arrivato; se fosse rimasto a posto, si sarebbe semplicemente avvicinato per raggiungerlo e sedersi al suo stesso tavolo. Importava poco il come, era pur sempre una possibilità, e quelle non le lasciava sfuggire mai. «Potrei risparmiarti il tedio e dirti da ora che è completamente inutile» iniziò, il cappello dritto sulla testa ed una mano che cercava già, nella tasca interna, il portasigarette d’argento. «Un buco nell’acqua, quell’uomo non riconoscerebbe una buona informazione neanche se gliela sottolineassero e gliela spiegassero parola per parola» premette il filtro di una delle sigarette scure fra le labbra, alzando alla fine gli occhi su di lui. «Al contrario posso dirti dove ha passato le ultime dieci estati della sua vita, e con chi. Una tortura, ad essere onesti»