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Anna/Gilles | Gilles's Loft | 03/12/2023

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    Fra tutte le chiamate che mi aspettavo, questa era all'ultimo posto.
    Perché pensavo fosse l'ennesimo giochino mio e di Celia, che ormai è più di un anno che battibecchiamo come due bambini che si fanno i dispetti.
    Colpa sua, è ovvio. Ha iniziato per prima.
    Perché con la vita di mia madre appesa a un filo, non mi aspettavo di dovermi preoccupare di quella di qualcun altro. Figurarsi di Shaw.
    Metto via la scatola dove tengo la roba di Claire, tanto per oggi ho annullato, quindi non devo ridistribuirla nell'appartamento come fosse stata sempre lì, in attesa che tornasse. Fingere di essere aperto a far entrare una persona nella tua vita è impegnativo.
    Chiudo lo sportello sotto il lavello.
    Passo davanti l'armadietto dei liquori.
    Non penso che Shaw sia morto davvero. Io lo conosco, lui e i suoi segretucci, tutte le sue faccende che mi costringono a stargli dietro più di quanto non debba fare con la Li.La..
    Guardo l'orologio, so che la veglia finiva tardi, ma Celia dovrebbe essere ormai qui sotto. Meglio per lei avere un posto più privato dove crogiolarsi in qualunque cosa starà provando.
    A me non serve, so come stanno le cose. Avrà solo perso la testa per un'altra, lui è così. Impulsivo, esagerato, esattamente la persona che può fingere la sua morte per sgambettare dietro l'ennesima cameriera, o chissà, stavolta è una qualche secchiona timida, o un'attrice di Los Angeles. Tutto può essere.
    Passo davanti l'armadietto dei liquori.
    Il plaid sul divano non è piegato bene, vado a sistemarlo.
    Alzo lo sguardo, inquadro le bottiglie.
    Ho bisogno di aria.
    Spalanco la porta a vetri del terrazzo, ma la barriera magica che tiene il clima temperato anche fuori non fa entrare aria fresca. È tiepida, soffocante.
    La disattivo, ma so che ci vorrà un po'.
    Lascio la finestra aperta e finalmente il campanello suona.
    Mi stavo quasi pentendo di averle detto di venire qui dopo la veglia.
    Apro, resto vicino alla porta, tanto con l'ascensore non dovrebbe metterci molto.
    Mi giro verso l'appartamento, la finestra spalancata è l'unica petto. La spugnetta dei piatti è coperta nella sua scatolina di metallo opaco, lo straccio piegato nel ripiano estraibile sotto. Sul tavolo non c'è niente, le chiavi sono nella cassetta accanto al citofono, il divano non ha una sola piega.
    Tutto in ordine.
    Tutto come dovrebbe essere.
    Sento dei passi oltre la porta, apro.
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    Il problema se l'era posto solo dopo aver chiuso il telefono, perché lo avesse chiamato. Non che si parlassero più di tanto, e il più delle volte quando lo facevano finivano sempre per finire in un litigio. Come due bambini. Ovviamente Zane era convinto fosse colpa mia. Ovvio. D'altronde non era concepibile che fosse lui a sbagliare.
    Eppure aveva composto il numero cliccando lentamente su ogni tasto, non poteva dirsi neppure di aver sbagliato, perché la lentezza era frutto della giornata che si stava trascinando addosso come una seconda pelle. Lo aveva chiamato, non c'era niente da stare a riflettere, perché dopo quella giornata di merda di tornare a casa sua non aveva voglia, di restare da Edie...forse avrebbe dovuto per lei, perché era lei che si stava portando avanti a discapito di molti, con i gemelli, Lizy ed Oliver, per i quali doveva essere forte. Sarebe tornata da lei, ma dopo la Veglia la sua presenza sembrava di troppo, come un'intrusione non voluta. Aveva abbracciato Caiden, aggrappandosi alle sue spalle, leggermente tremante, perché nonostate il tatuaggio attivato, le emozioni si erano intrufolate come nelle sua mente, troppo debole in quel momento per controllarle. Aveva stretto il solo fratello che le era rimasto, aveva abbracciato i gemelli e baciato Lizy sulla fronte, prima di stringere a sé Oliver perché il più grande, quello sui cui ora non poteva ricadere la responsabilità di tenere attaccati i pezzi. E poi aveva affrontato l'elefante nella cristalliera. Il suo rapporto con Edie era sempre stato particolare, la donna non aveva bisogno di nessuno, era così forte a volte da farle male al cuore, però glielo disse comunque, che lei c'era, che bastava un colpo di telefono a qualunque ora e sarebbe arrivata, che se era ancora d'accordo sarebbe passata domani. Gli disse tutto e poi andò via, lasciò la Veglia alle spalle.
    Non sapeva neppure come c'era arrivata intera a Manhattan, perché guidare non era il caso e aveva semplicemente utillizato uno dei punti sicuri per il teletrasporto più vicini a casa di Zane.
    Già perché lui le aveva detto di passare, anche dopo la Veglia tanto lui non sarebbe stato impegnato. Evidentemente Claire non sarebbe stata con lui. Il sorriso che le venne era forzato. Loro due erano l'altro elefante che camminava in punta di piedi su un pavimento di vetro che rischiava di rompersi. Quella sera però non aveva la forza di litigare ancora con lui, per cose così futili poi che solitamente si dimenticava perché era accaduto dopo pochi giorni. Infondo non erano mai davvero cresciuti, da quella miniera, forse lei non ne era mai uscita dalle Fogne di Ordar. Comunicò esausta al portiere l'interno a cui doveva andare e l'uomo, sulla sessantina, bussò per farle aprire. Lo ringraziò con un sorriso triste, che non si espandeva da nessuna parte. No in realtà avrebbe voluto farsi più piccola, piccola fino a scomparire, fino a diventare di quella stessa misura di ragazzina che si faceva abbracciare da Morgan quando a scuola le cose andavano male, o quando a 10 anni stringeva il corpo febbricitante di Zane. Ecco voleva tornare a quella dimensione minuscola e non doversi muovere e né andare avanti. Si appoggiò alla parete metallica dell'ascensore nei pochi minuti che impiegò per salire. Avrebbe dovuto disattivare il tatuaggio a breve, perché il rischio che poi tutto le tornasse indietro come un bomerang era troppo alto, ma non poteva farlo, non ora che avrebbe dovuto "affrontare" Zane, e qualunque cosa ne sarebbe uscita da quella chiacchiera di mezza notte. Guardò il suo riflesso nello specchio dell'ascensore. Gli occhi non erano rossi, il volto però era pallido e anche se invisibile lei le vedeva le linea salate lasciate dalle sue lacrime. Si passò una mano sul volto per rimuovere i segni invisibili di una debolezza che non voleva mostrare. Si umettò le labbra mordendole guardando i numeri crescere sul display fino a raggiungere il piano desiderato. Il rumore dei suoi passi riverberò nel corridoio che portava alla porta di casa sua e non ci fu bisogno di bussare, la porta si aprì rivelando Zane che l'aspettava. Oltrepassò l'uscio senza dire una parola sfilando di fianco a lui ed entrando in quello che sarebbe stata il suo rifugio almeno per qualche ora. Si allontanò il giusto dalla porta per lasciargliela chiudere, mantenendo le spalle solo per qualche istante, le braccia strette intorno al corpo perché sarebbe voluta scomparire, mentre gli occhi si abituavano alla luce soffusa della casa, un toccasana per il mal di testa martellante che le era partito alla Veglia. Si voltò a guardarlo appena ebbe chiuso la porta. Ciao lo salutò, la voce bassa ma perfettamente udibile. Ti saluta Edie, le aveva detto che sarebbe passata da lui e aveva accettato lo sguardo della donna che le chiedeva di non litigare, non quella sera. "Lo so ci proverò" le aveva quasi detto prima di andare via portandosi dietro il saluto da riferire. Sciolse le sue braccia lasciandole scivolare lungo il corpo. Non era una resa, ma sperava davvero che quella sera lui non avesse voglia di portare avanti quello stupido gioco. Non quando avevano già entrambi perso qualcosa, sebbene lui non volesse accettarlo.
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    Edie, già. Di sicuro non immagina quello che io so, ovvero che certamente Shaw non è morto, ma impegnato altrove con una tizia non proprio qualsiasi.
    Alla fine sono entrato così tanto nella sua vita complicata che potrei anche immaginare chi sia. E continuerò a pensarlo, quando sarò con Edie, perché di certo non posso lasciarla così adesso solo perché suo marito ha deciso di fingersi morto e l'ha lasciata, e si dà il caso che io sia amico dello stronzo, principalmente.
    Ora mi trovo incastrato in questo problema, quello di dover avere a che fare con persone che piangono una morte che non c'è stata, ma loro la sentono come vera.
    Non pensavo che mi sarebbe venuto così istintivo abbracciare Celia appena ha messo piede nel mio appartamento.
    Non lo pensavo perché io non sto male, io so che è una bugia, quindi empatizzo anche meno del solito. Non lo pensavo perché andiamo, non siamo così intimi, ci parliamo a stento.
    Ma mentre le passo la mano fra i capelli per spingerle la testa contro di me penso che in realtà intimi lo siamo per davvero. È diverso avere a che fare con qualcuno che conosce il tuo mondo. Qualcuno che ne è uscito, si è salvato. Qualcuno che probabilmente è stupido quanto te e pensa che proprio perché ci siamo salvati, allora non possiamo morire. Come si fa a non essere crepati laggiù e avercela fatta qui?
    È così stupido, cazzo.
    La stringo di più. Mi preoccupo persino di capire se è una cosa che può volere, o se abbiamo tirato troppo la corda nel nostro rapporto, e allora si è spezzata e certe cose non possiamo farle più. Ma è me che ha chiamato per stasera. Sono io che ho detto a Claire di andarsi a fare una gita ad Atlantic City. Quindi alla fine penso che siamo entrambi d'accordo nel sotterrare l'ascia di guerra, ed esserci così l'uno per l'altra.
    Abbasso la testa appoggiandola alla sua, senza dire niente.
    Eppure sono tante le cose che dovrei dire.
    Tranquilla, non è morto. Si farà vivo.
    Tranquilla, lo sai com'era, si innamorava un giorno sì e l'altro pure, sta solo inseguendo l'ennesima biondina.
    Tranquilla. Quello che abbiamo dentro a volte se ne va solo con la morte, e forse è meglio che abbia trovato un po' di pace.
    No, questo no. Deve essere il mio buco a parlare, questo vuoto che si fa sentire come se ce ne fosse motivo.
    Ma forse basta l'idea che uno di noi tre possa morire, quando siamo scappati e sopravvissuti all'inferno.
    Sapere che se fosse vero, qui non ci sarebbe nessuna Isola da raggiungere. Solo buio, oscurità.
    Nulla.
    Sento il bisogno di fare qualcosa, e così le do un bacio sulla fronte e mi allontano. Così non rischio di diventare sentimentale, perché per quanto sia tutta una mera bugia, è una che è pesante lo stesso.
    «Vuoi qualcosa da bere? Ho dello scotch invecchiato 25 anni che non è niente male» non è come quello invecchiato 40 anni, ma l'ultima bottiglia è finita per affogare la negatività dell'ennesima cazzata di Asher a cui neanche voglio ripensare.
    Vado verso l'armadietto dei liquori comunque, come un automatismo, prendendo due bicchieri per versarci da bere.
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    Non avrebbe negato come le si era mozzato il fiato in gola quando improvvisamente si era ritrovata stretta a Zane, né come si fosse pietrificata per una frazione di secondo prima di cedere a quel desiderio profondo della sua mente che le chiedeva di appoggiarsi a lui, di prendere quella mano che veniva offerta ad una persona sul bordo di un precipizio pronta a cadere giù all'infinito.
    Zane non aveva aperto bocca, non aveva detto nulla, semplicemente l'aveva attirata a sé per un braccio e stretta al petto come una bambina. Non erano mai stati così vicini, neanche quella sera di 2 anni prima quando l'aveva baciata. L'ultima volta che erano stati così vicini era stata su Idara, nelle profondita delle miniere di Ordar quando avevano 10 anni a stento. Erano sopravvissuti lì sopra, ce l'avevano fatta bambini in un mondo di merda, per poi arrivare su questo pianeta, una barzelletta a confronto e morire.
    No, Morgan, sembrava davvero una barzelletta.
    Avrebbe voluto vederlo entrare da quella porta a fare uno dei suoi commenti sempre inopportuni, ma avrebbe significato che c'era ancora.
    Non sarebbe entrato nessuno.
    Alzò le braccia tremanti per la stanchezza e stringendole intorno a lui, perché aveva bisogno di poggiarsi a qualcosa, lasciò andare la sua mente, che aveva bisogno di quell'abbraccio, dell'intimità di qualcosa di certo prima di distruggere le pareti che reggevano il controllo sulla sua empatia. Aveva retto anche a lungo nel gestire l'afflusso energetico che serviva al suo tatuaggio per controllarla a pieno, ma ora era caduto tutto. Le emozioni la travolsero con la potenza inimmaginabile di un fiume in piena. Sentiva il rassicurante torpore delle emozioni di Zane che leniva i bordi della sua anima. E più lui stringeva e più di impulso le veniva da stringere altrettanto come ad imprimere certe cose nella testa, e non ci aveva pensato ad allontanarsi sebbene il buon senso diceva di farlo.
    Non era giusto il modo in cui si stava aggrappando a lui.
    Non quando c'erano persone nella sua vita che avrebbero potuto non capire ed esserne ferite. Una fra tutte Claire.
    Però non aveva la forza di interrogare lei o lui delle ragioni che li spingevano a cercare quella sera quella vicinanza, aveva solo bisogno di lui in quel momento dove le sue emozioni erano tornate incontrollate e dovevano quietarsi. Mosse solo la testa girandola appena di lato, sentendo il peso della sua sui suoi capelli e chiuse gli occhi mentre i pugni si serravano sulla sua schiena, per poi aprirsi a palmi ampi, ad abbracciare tutto e toccare la solidità di qualcosa di conosciuto.
    Non sapeva neppure quanto tempo erano rimasti in piedi, a due passi dalla porta, lei ancora con il giubbotto addosso, come se fosse pronta a fuggire, a correre via quando la bolla sarebbe scoppiata. Dietro le palpebre serrate sentiva l'oscurità farsi leggermente più piccola, appena più gestibile. Prese un paio di respiri profondi, percependo in parte l'odore lussuoso del profumo che indossava e dell'ammorbidente della lavanderia. Quel maglione poteva essere solo lavato a secco.
    Percependo un leggero movimento da parte sua, lo assecondò alzando il viso meri istanti dopo il bacio lasciato sulla fronte, come si faceva con i bambini. Le offrì da bere, si quello era qualcosa che poteva servirle. Si...bere sarebbe fantastico. annuì seguendolo automaticamente ovunque fosse diretto. Chissà forse si sarebbe convinta che era tutto falso, che tra poco avrebbe visto Morgan sulla porta che prendeva in giro la sua emotività stringendola forte e chiedendo scusa per quella stupida messinscena, perché come si poteva fuggire all'oscurità e all'inferno per poi andare via così. Si guardò attorno, non sapeva quanto stesse davvero invadendo il suo spazio, oramai abituata a muoversi intorno a lui in punta di piedi.
    Si tolse la giacca e accettò il bicchiere di whisky, passandosi poi la mano nei capelli raccolti in modo disordinato. Grazie per avermi fatto passare...io spero davvero di non averti disturbato troppo e non aver rovinato i tuoi piani, lo so che dirà che era stato un sacrificio enorme con la sua solita aria, quella che era un po' solo sua e che negli ultimi due anni aveva imparato a conoscere. Soprattutto con Claire aggiunse perché era giusto dirlo. Bevve prima un sorso, poi un altro lasciando l'alcool a bruciarle la gola, asciugò le labbra con il dorso della mano guardando fissa davanti a sé come se non vedesse realmente. Bevve un sorso e un altro con ancora, avrebbe voluto affogarci in quel bicchiere. Lo guardò perché erano quasi due anni che il più delle volte che si vedevano finivano per litigare, e non riusciva a capire come fosse possibile, ma ne avevano fatto una costante. La cosa assurda era che ora erano gli ultimi due di quella famiglia improvvisata, e a volte non riuscivano a guardarsi in faccio, non senza...beh senza provare qualcosa. E avrebbe voluto quasi dire che non poteva servire la morte di qualcuno per farli parlare come due persone adulte, perché non potevano rischiare di perdere nessun altro, ma non disse nulla, lasciò che fossero i suoi occhi a parlare. Si guardò attorno, in casa sua c'era stata solo un'altra volta per sistemare il suo sistema informatico. Non sembrava cambiata, per niente. Tornò a guardare Zane, vacillò appena perché la stanchezza si faceva sentire. Ti dispiace se ci sediamo da qualche parte? le parole troncate dal respiro che si era fatto più corto. Voleva sedersi, bere e parlare. Forse parlare, non era certa che fosse quello il modo migliore di metabolizzare. Forse il silenzio.
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    Prendo due bicchieri, con uno sono particolarmente generoso riguardo allo scotch. È il mio.
    Inizio a chiudere la bottiglia, Celia alle mie spalle si prodiga di scuse. È una delle cose che mi infastidiscono di lei, il continuo scusarsi, eppure in questo momento il mio corpo non reagisce. Di solito è un fastidio fisico, alzo gli occhi al cielo, ma niente.
    Per non parlare del sentire il nome di Claire, già il solo avere una scatola di roba sua in casa mi ossessiona il cervello.
    Prendo i due bicchieri e vado verso il divano, anche se Celia sta impalata lì in mezzo alla stanza.
    Ora l'aria che entra dalla finestra è più fredda, ma non abbastanza.
    Sbuffo mentre le porgo il bicchiere. «Non fare la stupida, lo sai che Claire non c'entra niente» con la mia vita, con la mia esistenza, con quello che posso aspettarmi dal futuro. È un gioco che serve allo scopo, non di più.
    Resto in piedi, andando verso la finestra. Mi appoggio al telaio della porta a vetri per avere un po' di aria fredda addosso.
    «A quest'ora starà facendo la cretina con un croupier ad Atlantic City» bevo un sorso di scotch, non certo per qualcosa che possa riguardare Claire, comunque. L'idea di lei e un qualsiasi altro tizio non mi infastidisce minimamente. on mi importa neanche che possa farsi beccare da qualche fotografo e finire sui giornali, al massimo dichiareremmo che c'eravamo lasciati in segreto, e sarà tutto sistemato.
    Non dovrei più neanche preoccuparmi del suo problemino con il gioco d'azzardo, che a volte è fastidioso.
    Bevo un altro sorso.
    Guardo Celia, in un altro momento le direi che il divano è lì per quello, ma non mi va di fare del sarcasmo adesso.
    Con Zane lo facevo anche nelle situazioni peggiori, ma Celia è diversa. Ha avuto un'esperienza diversa di Idara, anche se non esattamente migliore. O forse è solo questione di carattere.
    Mi muovo, invece, appoggio il bicchiere sul tavolino basso davanti al divano ad elle, così da avere le mani libere.
    «Dammi la giacca» che in realtà sono già pronto a sfilarle, mettendomi alle sue spalle. Non riesco a fare nient'altro che questo, adesso, che sembra un prendermi cura di lei. Non riesco a commentare il suo outfit, che spero abbia cambiato fra la veglia e il momento in cui ha bussato alla mia porta, anche se per i cacciatori dovrebbe definirsi elegante come stile.
    Piego la giacca e la tengo sul gomito mentre mi piego sul divano, prendendo il plaid perfettamente piegato.
    «Se dovessi avere freddo» lo appoggio su un cuscino del divano, con l'altra mano le tocco appena il braccio, come a spingerla lì per sedersi. Mi assicuro lo faccia prima di andare di nuovo all'ingresso, a mettere la giacca su una stampella e infilarla nell'armadio delle giacche.
    Torno indietro nel totale silenzio, mi chino a prendere il bicchiere, vado di nuovo al mio posto, appoggiato alla porta-finestra, di fronte a lei.
    Se a lei non va di parlare, non credo vada neanche a me.
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    Lo vide alzare gli occhi al cielo. A lui dava sempre fastidio quando lei si scusava, a lei invece dava l'impressione che fosse semplicemente buona educazione ringraziare per essersi piazzata a casa sua a mezzanotte, ma in fondo erano cresciuti in modo diverso. Da dopo Idara, la sua vita era diventata una vita in cui non aveva mai dovuto chiedere, mentre lei aveva dovuto chiedere ogni cosa e solo adesso dopo anni aveva capito in che direzione procedere. Eppure non disse niente, in un'altra occasione avrebbe ribattuto davanti a quel sollevare lo sguardo, e avrebbero finito per litigare, ma il trucco forse era questo lasciare che uno dei due decidesse per un attimo di andare incontro all'altro. Forse il commento su Claire poteva risparmiarselo, ma non era riuscita a trattenersi, non la capiva proprio quella sua voglia di dimostrare di avere una vita perfetta, finanche una relazione diversa. Lei le sue aveva smesso di cercarle perfette, in fondo non sapeva neanche se cercarla. C'erano cose semplicemente non destinate. Claire non c'entrava mai niente, era solo che voleva comunicarle qualcosa nel suo solito modo complicato, ma lei proprio non riusciva a stargli dietro. E poi era lei la stupida. Non tu? avrebbe voluto dire ma lo tenne per sé perché erano due anni che andava avanti quella faccenda. Ed era ancora da capire cosa avesse fatto lei per farlo comportare così.
    In quel frangente fu lei ad alzare gli occhi al cielo, per solo un attimo mentre accoglieva il bicchiere e abbozzava un sorriso per ringraziarlo. Bevve un sorso, assaporando il gusto del whiskey sulle labbra.
    Le veniva anche di commentare la sua gentilezza, il portarsi alle sue spalle per togliere la giacca, mentre lei come una bambina si lasciò muovere in quella casa di cristallo dove aveva l'impressione di sporcare ogni cosa, di essere come un oggetto fuori posto nella sua vita perfetta. Poggiò il bicchiere per facilitarlo in quel movimento, voltandosi verso di lui una volta che aveva finito, facendo scivolare la giacca dalla spalle, come se togliesse un peso di dosso. Grazie, non le importava che lui ritenesse che lei lo facesse troppo spesso, era più forte di lei. Da quando era bambina, quando qualcuno si prendeva cura di lei. Le sembrava come se Zane stesse cercando di ricambiare qualcosa che aveva le sue radici nel loro passato comune, o semplicemente voleva prendersi cura di lei, e Celia lo percepiva nella leggerezza delle sue emozioni, che semplicemente lo faceva perché voleva farlo.
    Assecondò il suo movimento sedendosi sul divano e accettando quella coperta, che nel freddo newyorkese di dicembre le dava quel calore benvoluto che si contrapponeva all'aria gelida che entrava dalla finestra che le ravviva le guance e le dava colore. Avrebbe voluto togliere gli stivali e portare le gambe sul divano, ma forse era troppo. Troppa intimità, di quella che non sapeva neppure se potevano reclamare di avere, visti i loro rapporti negli ultimi anni. Quindi rimase così com'era, si sporse solo dal divano, mentre lui si era allontanato, e prese tra le mani il bicchiere, ma non bevve subito. Rimase a fissare le sfumature del whiskey per qualche istante, come se in quei colori ci fossero risposte a domande non poste. Tu non crederai mai che sia morto...è così no? Non è che io voglia farlo... era quasi più un'affermazione che una domanda. Forse fai bene, vorrei crederlo anche io, che sia soltanto un'altra delle sue uscite. aggiunse mentre un sorriso ironico le alzava gli angoli della bocca con il bicchiere a pochi centimetri, poco prima di bere un sorso a brindisi di quelle ultime parole. Non lo penso possibile che se ne sia andato lasciando dietro tutto...anche solo i suoi figli. non era un'immagine che riusciva a far collimare con quella di Morgan che conosceva lei. Forse era questo il punto lei conosceva Morgan, lui conosceva Shaw. Ma forse hai ragione tu, che conosci lui ancor prima di me concluse alzando lo sguardo verso di lui, perché le loro vite erano sempre stati dei percorsi paralleli che si sfioravano appena, consapevole della presenza dell'altro, perché riuscivi a percepirla quella vicinanza che non era mai troppa, e che poi si incrociavano, quasi si urtavano e si intrecciavano a formare una catena di maglie infinite. Lo fissò nel pronunciare quelle ultime parole e poi per qualche minuto, gli occhi castani sembravano un po' meno vuoti rispetto a quando era arrivata. Cavolo, si trovò a pensare, appoggiandosi al divano e lasciando andare indietro la testa accompagnando il movimento con una risata leggera. Inclinò leggermente la testa in avanti per poterlo guardare, mentre a lei serviva un altro bicchiere.
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    Per un attimo mi lascia interdetto.
    Non è che abbia cercato di nascondere attivamente il fatto che non credo alla morte di Shaw, diciamo solo che non l'ho apertamente detto a parole. Quindi probabilmente non dovrei essere sorpreso del fatto che ha capito che non sono convinto da questa cosa.
    Però non lo so, sentirglielo dire a voce alta è strano.
    Probabilmente è solo che mi sorprendo sempre quando qualcuno capisce o sa qualcosa di me, e con lei soprattutto cerco sempre di depistare i miei stessi pensieri.
    Bevo un sorso di scotch.
    Non mi piace doverne parlare. Non sono un veggente, non lo so cosa ha fatto Shaw, ma mi sembra possibile che abbia deciso di crearsi una comoda via d'uscita. In fondo nella sua testa può aver pensato che tanto morirebbe comunque giovane, quindi perché non anticipare un po' la cosa per Edie.
    E non mi è sembrato esattamente felice di essere un cacciatore, ultimamente.
    Non mi è sembrato felice per niente, ma non so quanto uno di noi possa essere del tutto felice.
    mi basta che sia plausibile. Finché è plausibile non vedo perché dare per scontato che sia morto.
    L'ultima volta è ritornato, direi che non sono per forza pazzo a crederlo.
    «Ognuno pensa quel che vuole» bevo un altro sorso. Io non voglio pensare al fatto che sia morto, non voglio ascoltare tutti i motivi per cui sarebbe più plausibile che sia crepato come un coglione, non voglio riflettere sui pro e i contro delle mie convinzioni, anche perché ce ne sono diversi che Celia non ha citato che sarebbero un'ottimo sostegno alla sua tesi.
    Tanto il tempo ce lo dirà, suppongo.
    Si rimanda al poi quella che è la verità.
    «Puoi metterti comoda, se vuoi»
    Meglio cambiare argomento.
    «È un divano molto comodo, non ci crederai ma a volte mi ci addormento in tutta e pantofole» pantofole di classe come quelle che indosso, ma pur sempre pantofole.
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    Già ognuno pensava quello che voleva, però che modo. Le sembrava assurdo essersene andati dopo aver vissuto l'inferno. Non c'è una dose massima di sofferenza che una persona poteva vivere, evidentemente no. Non era mai stata ingenua ma avrebbe preferito credere che avessero guadagnato di diritto qualche lasciapassare in più.
    Ha capito che non ne vuole parlare, lei l'ha solo percepito dalle sue emozioni. Ora che aveva annullato il tatuaggio le percepiva con un'intensità tale da farle assorbire ogni cosa. Fece un cenno del capo come a dire di aver recepito il messaggio. Erano già passati quasi 10 minuti senza che litigassero come bambini. La frase successiva la sorpresa, come se lui avesse percepito quella necessità tanto quanto lei avesse sentito le sue frasi non dette. Fece per aprire bocca ma si zittì, aveva capito che non era necessario parlare con lui, come se nonostante tutto l'aver condiviso quella parte della vita li rendesse più vicini di quanto forse loro stesso pensassero al punto da chiedersi come mai il loro rapporto fosse così complicato. Poggio il bicchiere praticamente vuoto sul tavolino, quasi un invito a riempirlo nuovamente, perchè se non dovevano parlare almeno che bevessero, avrebbe favorito la sincerità reciproca piuttosto che articolate risposte studiate. Sganciò la fibbia degli stivali che indossava facendo scivolare i piedi poi sotto il plaid. Rise alla sua confessione. Perchè il mitico Zane...scusa Gilles Buchanan si riposa? A volte mi sembri così impegnato che ho la sensazione che è impossibile starti dietro... scherzò, il tono leggero di chi non voleva cercare il conflitto. Non credo di averti mai visto in tuta, oggi è la prima volta che ti vedo... con un gesto indico il suo corpo muovendola dall'alto verso il basso. Così rilassato... riprese il bicchiere per riempirlo di nuovo questa volte con una dose simile a quella che aveva versato lui. Forse non era vero. C'era stata un'altra occasione in cui erano stati così. Natale di due anni prima. Una situazione che nom si era di certo riproposta, avendo loro passato i succesivi due anni a discutere il più delle volte. Anche quando lei aveva lasciato la sua vecchia azienda, Zane era finito a chiamare lei, perchè non esisteva che lei mollasse così. Scosse la testa come a voler pulire i pensieri. Anche se è più probabile che non ci sia stata mai occasione. visto che le loro erano strade parallele che raramente si incrociavano seppur consapevoli l'uno dell'altra.

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    Guardo per un attimo fuori, l'aria che entra finalmente è fredda. Una sensazione inebriante.
    I brividi lungo il collo, il gelo sulla faccia. Mi schiarisce le idee e costringe a pensare a tutt'altro.
    Dove sorrido per quella strana idea di un me che riposa.
    Bevo un sorso, uno di quelli che saranno gli ultimi.
    «Me lo dicono in molti» che è difficile starmi indietro. In fondo è inevitabile, quando dormo si e no tre ore a notte. E anche di giorno, non mi fermo praticamente mai.
    È iniziato quando sono arrivato qui. Dopo un po' che non aveva più la preoccupazione di non dover morire ogni secondo, o eliminare dalla mia testa gli incubi da sveglio per le volte in cui invece sono morto, quello che è rimasto era un enorme vuoto. Il mio buco nero.
    Mi sembra di non esistere quando non faccio qualcosa. E non riesco a non fare qualcosa perché ho paura di rimanere da solo con me, e qualunque cosa di mostruoso che ci sia qui dentro.
    Non è l'unica ad avermi raramente visto così "rilassato".
    Se "rilassato" si può dire il giorno della veglia del proprio migliore amico, vera o finta che sia.
    Più di un migliore amico. Un compagno. Un compagno di quel tempo.
    Una cosa simile a ciò che mi lega a Celia, e che mi fa dire quanto stupida sia a non rendersene conto.
    Che nessuno in questa vita potrà mai sapere e capire davvero cosa mi porto dietro, anche se lo spiegassi, e non voglio.
    Infatti anche Claire mi avrà visto in abiti da casa forse un paio di volte, giusto perché sarebbe stato strano il contrario.
    Mi giro attratto dal suo movimento, mentre va a prendersi da bere.
    Bevo in un sorso quello che rimane del mio drink, e vado vicino al carrellino nero dietro l'angolo del divano anche io.
    Dietro di lei, mentre versa una quantità generosa di scotch.
    Più vicino di quanto siamo stati mai in questi due anni.
    A parte un quarto d'ora fa.
    «È difficile che stia tranquillo» lo dico a voce bassa, dietro di lei.
    Mi sporgo per toglierle la bottiglia dalle mani, versarmi un nuovo drink anche io.
    Celia, lo sa più di altri. Non solo perché mi sente, ma perché sa la persona che ero prima quanto difficilmente potesse concederselo di rilassarsi.
    Celia, che ormai è l'unica persona a potermi chiamare Zane e confondere quel nome con quello che porto adesso.
    Poso la bottiglia sul carrellino, le apro il palmo con la mano per prendere il tappo dello scotch e richiuderlo.
    «Ti fa così strano vedermi in tuta?».
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    Forse era perché era nascosta parzialmente alla vista, come i bambini che giocando a nascondino sono convinti di essere invisibili se hanno gli occhi coperti, che chiuse gli occhi lasciando cadere quelle lacrime improvvise le quali scivolarono velocemente lungo le sue guance, prima di essere asciugate con un movimento della mano. Quella stessa mano che strinse la bottiglia di whiskey stappandola per versare qualche goccia di più di alcool nel suo corpo.
    Il pavimento era tiepido sotto i suoi piedi, un contrappunto piacevole rispetto all'aria fredda della notte che serviva ad asciugarle il viso e darle respiro. Con la coda dell'occhio vide Zane alzarsi e avvicinarsi a lei, fermandosi così vicino da riuscire a percepire chiaramente dove fosse, anche se ogni volta che erano assieme non aveva bisogno di vederlo per sapere dove si trovasse, come se loro tre fossero stati uniti da fili invisibili di cui tenevano le redini. E ora erano rimasti in due. Era rimasto solo Zane con cui usare un pronome vicinale ed essere certi che lui sapesse cosa significava. Forse...forse avrebbe dovuto insegnare ai figli di Morgan, l'Idarian, anche se probabilmente lui non avrebbe voluto.
    Già rise alle sue parole, mentre la sua voce le accarezzava il profilo destro del viso. Aveva risposto anche solo per dar voce a quella reazione altrimenti involontaria che avrebbe avuto. Lo sapeva che loro non riuscivano a starci tranquilli, retaggio di un'infanzia vissuta sugli attenti, senza realmente poter cogliere il bello della loro vita. E forse se vivevi i primi anni della tua vita in modalità fly or flight poi non riuscivi più a scollartela di dosso. E' così che siamo cresciuti mormorò lei mentre lasciava prendergli la bottiglia dalle mani e si posizionava di lato per dargli spazio. Il cerchio alla testa stava pian piano scomparendo, e in un gesto spontaneo dettato dall'istintività di un legame, chinò la testa poggiando la fronte sulla parte alta del suo braccio, appena sotto la spalla. Stringeva il bicchiere con una mano e il tappo della bottiglia con l'altra, forse troppo forte. Alzò la testa solo quando sentì il suo movimento e quello che le chiese successivamente. Lo fissò per un attimo come se non sapesse cosa rispondere. Le sembrava strano? Non avrebbe usato esattamente quella parola, era solo diverso. Non è strano...è diverso rispose di impulso, ora che aveva una mano libera si doveva trattenere dal compiere qualsiasi gesto azzardato. Mi piace...in altre vesti mi avete sempre dato l'impressione di essere in perenne lotta di sopravvivenza contro il mondo... e quel voi nascondeva anche il nome di Morgan. Anche se per Morgan non lo capivi di certo da come era vestito. Era sempre praticamente uguale scherzò, perché anche se faceva male pensarci, il suo nome non poteva escluderlo definitivamente dalla sua bocca. Ti ho detto, non lo trovo strano. Mi piace. Mi da l'idea che sei più...sereno, se così si può dire. Forse perché c'è una parte di me che stupidamente si preoccupa per voi, lo sapeva che loro prendevano in giro quel suo modo di essere . Le sembrava che quella ruga che si creava al centro della fronte, che le venne automatico distendere con l'indice, si facesse praticamente invisibile, come adesso. Allontanò subito dopo la mano, si schiarì la voce e aggiunse. Però tranquillo sto migliorando, la prima regola era sempre prendersi poco sul serio. Strofinò i piedi l'uno contro l'altro dondolandosi sul posto prima di riprendere la strada del divano per infilarsi nuovamente sotto il plaid.
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    Celia appoggia la testa sulla mia spalla. Credo che voglia un altro abbraccio.
    Non so in realtà se lo voglia lei, o vorrei darglielo io.
    Ho visto quel luccichio quando ha girato la testa, segno che stava per piangere o che qualche lacrima l'ha versata già. Di certo non la prima della giornata.
    Sento il braccio irrigidirsi. Ancora l'impulso ad abbracciarla, qualcosa di più forte che lo frena.
    Ho una paura folle.
    Come non ne provo in situazioni ben peggiori, a rischiare la vita, ad avere a che fare con criminali che potrebbero spararmi in testa da un momento all'altro. Credo.
    In realtà in quelle situazioni mi sento abbastanza sicuro. So cosa devo fare, so cosa ho da offrire, quanto sia irrinunciabile.
    So come si uccide una persona.
    Ma questo mi fa più paura di tutto il resto.
    Mi sento paralizzato, non so se è perché se n'è accorta che toglie la testa, si gira e torna verso il divano.
    So che a parte abbracciarla quando è entrata, sono rimasto sulla finestra tutto il tempo, ogni contatto centellinato perché durasse solo poco. Toglierle la giacca, passarle il bicchiere, ora questo. Questo che già è durato di più.
    Bevo e per un attimo chiudo gli occhi, rifugiandomi nell'oscurità.
    Quell'istinto a toccarla lo sento ancora adesso.
    Non è irrefrenabile, non è come quel mostro che a volte scatta, e deve avere di più, di più, sempre di più finché non mi sembra di impazzire. Però c'è, e a ondate arriva e mi sembra di non avere alcun controllo su questa cosa, perché nemmeno mi accorgo quando succede. Non finché non lo metto in atto.
    «Smettila di scusarti così tanto» mi sorprendo della mia stessa voce, del fatto che stia parlando.
    Sono io che l'ho detto.
    All'improvviso, forse perché tutto il suo discorso sembrava un chiedere perdono anche se la parola "scusa" stavolta non l'ha usata.
    Mi viene in mente solo che dovrei essere io a scusarmi, per essere sempre così lunatico, a dire una cosa e farne un'altra, a non credere nella morta di Shaw e convincermi sia capace di lasciare Edie e la sua famiglia, e poi trovarmi con questo vuoto dentro.
    Non le voglio dire che no, non sono sereno.
    Sono sereno quando lavoro, quando cerco di risolvere i problemi che rischiano di bloccarci la produzione di un farmaco, o che la sperimentazione non entri in fase tre. Sono sereno quando non provo niente, faccio qualcosa che mi piace e mi dimentico che non sono nato per fare qualcosa che mi piace.
    Sono nato per essere utile, sono nato impossibilitato a non esserlo, perché ero una merce rara in una dimensione, e lo sono stato pure in questa.
    Quanto sia stato difficile per Peter trovare qualcuno che davvero potesse occuparsi della Li.La come facciamo lui ed io, soprattutto io, non lo so, ma è come se me lo sentissi addosso.
    Celia cerca di essere lei utile per me da quando l'ho conosciuta, e vorrei solo che smettesse.
    Non voglio che si senta in dovere di fare quello che fa, solo perché ha questa vocazione dentro, come Shaw che doveva per forza fare l'eroe, e alla fine ci è cascato.
    Torno vicino alla finestra, di nuovo abbastanza lontano, con il freddo che mi schiarisce le idee.
    «Se vuoi preoccuparti, preoccupati. Ma smettila di scusarti per tutto quello che fai» lo dico anche se so cosa sto facendo, ed è una cosa stupida. È una cosa che non dovrei fare.
    Questo significa comunicare, farlo per davvero. Non attaccarsi a un fastidio e stare zitti in merito, così che possa crescere, incancrenirsi, diventare qualcosa di assolutamente intollerabile, così che tutto finisca.
    Stavo andando bene in questo lavoro ultimamente. Ora sembra basti una sera per mandare tutto in vacca.
    «Dovresti andarti bene così» le dico da dietro al bicchiere, immediatamente prima di fare un sorso ben più lungo dei precedenti.
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    Su Idara la vicinanza era sempre stata più nel suono delle parole che nei gesti o nella vicinanza dei corpi. Nell'uso di quel pronome che nel momento stesso in cui lo pronunciaci significava che qualcosa era cambiato nel rapporto
    Sulla terra invece si erano abituati ad altro, su questo pianeta era quasi come se fosse un istinto e un tormento non toccarsi.
    Ecco perchè si sentivano fremere, la mani si muovevano prima che la mente se ne rendesse conto e poi ti ritrovavi a convivere con la voglia di fare qualcosa.
    Era un'arma a doppio taglio quella vicinanza, perchè non potevi non capire o percepire i cambiamenti dell'altro. Come l'aumento del battito o l'irrigidirsi del corpo.
    Celia venne invasa da un'ondata di paura improvvisa che si irradiava da Zane e come scottata si era allontanata.
    Erano così fottuti mentalmente da aver reso impossibile qualsiasi interazione normale o dettata dalla naturalezza.
    Erano degli ingranaggi che non venivano mai oleati, lasciati com'erano ad invecchiare e a fare rumore.
    Si rifece piccola sul divano, quasi fino a scomparire, la coperta saldamente avvolta attorno al corpo, il bicchiere ora colmo tra le mani.
    Forse avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma non riusciva a buttar giù nulla da qualche ora. Avrebbe dovuto tornare a casa, ma c'era la paura di restare sola ad assorbire tutto quel silenzio.
    Quella volta non le diede fastidio il modo in cui lo disse. E non era la prima volta che gli chiedeva di non scusarsi, perchè lui lo trovava fastidioso. Non vi era fastidio nella sua voce, ma qualcosa di diverso che non avrebbe di certo compreso se non fosse che Zane quella sera fosse più aperto del solito e la sua paura filtrava a brandelli dalle fessure della sua anima. Lui aveva paura. Come tutti del resto. La paura di condividere troppo, di lasciarsi andare, di farsi conoscere e farsi spazio in quel mondo. Il punto era però volersi far conoscere, perchè ti esponevi, il rischio di ferirsi era cosi alto da terrorizzarti. Ti spingeva a mantenere la distanza, perchè quella è rischiosa e non permetteva di fuggire. E loro erano abituati a fuggire, a mettere le distanze laddove andava fatto il contrario.
    Però era più facile, soffrivi di meno, ma alla fine ti trovavi a non provare niente. Non era come doveva essere la vita, ricca di emozioni così intense da spezzare il fiato, da impedire di pensare.
    Annuì solo pensierosa, bevendo un sorso poco più lungo. Non disse grazie non disse nulla, perché era suo diritto essere felice, essere quello che voleva, e aveva ragione doveva andarle bene così.
    Erano gli altri a farglielo pesare, a fargli pesare di essere così com'era. Come se così non fosse utile, come se dovesse esserlo per forza, perché su Idara tutti lo erano e se non lo eri allora eri solo una bocca in più da sfamare e nessuno poteva permettersela.
    Lui era rimasto in piedi accanto alla finestra, distante perché era così che si sentiva più sicuro. Anche su Ordar arretrava spaventato la prima volta nei tunnel ed era stata lei ad avvicinarsi, cosa che fece lei di nuovo. Si alzò dal divano avvolgendosi la coperta intorno alle spalle, camminando scalza fino alla porta finestra, lasciando che il vento si scontrasse con il calore della sua pelle. Il pavimento si fece via via più freddo, appena abbandonò il calore del tappeto. Rimase qualche passo distante guardando fuori verso lo skyline della città, che dicevano non dormiva mai. Poggiò il bicchiere alla bocca senza bere, era come trovarsi su un precipizio e non buttarsi, come trovarsi ad un soffio dalle labbra di qualcuno e non baciarlo, era come pensare di fare qualcosa e non farlo. Bevve. E' buono questo scotch cosa si può aspettare da te se non il meglio. Se Morgan sapesse che non glielo hai mai offerto non sarebbe contento sorrise, pensierosa. Per lei non c'era più, ma per Zane era come se fosse semplicemente andato altrove. Semplicemente su un altro pianeta.
    Ci pensi che solo noi parleremo questa lingua su questo pianeta lo disse in quella lingua che ora era solo di poche persone. Soprattutto se i figli di Morgan fossero cresciuti senza conoscerla. Si appoggiò allo stipite della finestra e si soffermò a guardarlo. Tutto vestito di nero come se dovesse dimostrare anche solo guardandolo di avere un animo più oscuro che non potesse essere amato, da tenere distante perchè non pericoloso. Scosse la testa soffocando una risata nel bicchiere mentre i pensieri si susseguivano.
    Bevve ancora. Guardò fuori dalla finestra e poi come se in tutto questo tempo avesse avuto una domanda sulla lingua gli chiese. Hai mai provato ad insegnarlo a qualcuno? Della famiglia o oltre che lei ci pensava assieme all'idea che un giorno forse avrebbe avuto una famiglia, quella che ora le mancava, distante com'era. Ed era lì anche quelle domande non dette.
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    Edited by .isabella. - 5/5/2024, 12:29
     
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    Celia si sta avvicinando. Non so se sono pronto.
    Non so cosa pensassi dieci secondi fa, perché in qualche modo mi sembra di essere traforato, adesso, pieno solo di buchi.
    Bevo e basta, tenendo gli occhi fuori e fingendo di non sapere che sta venendo qui.
    Non so cosa farei sapendolo, forse mi scosterei.
    Mi forzo a restare qui, dove il freddo mi congela la testa. Inizia quasi a farmi male, un male che è anche un bene.
    «Gliel'ho offerto» specifico senza ancora guardarla, in automatico, senza neanche davvero pensarci.
    Senza pensare a quando andavamo a bere sulla barca, o alla volta in cui mi ha accompagnato a rubare un carico di saccarosio, giù, vicino Lake Charles.
    La vedo sorridere nella periferia del campo visivo. Non so come faccia, ma immagino sia un bene.
    Credo fosse questo che volevo, invitandola qui. Che stesse meglio.
    Solo che più parla, più sento di essere io a non stare meglio.
    A dover pensare alla nostra lingua, che siamo rimasti solo lei ed io, che non importa quanto tempo passerà, non ci saranno altri di Idara. Forse non ci sarà neppure Idara.
    Ci sarò io. Sempre e comunque. Come sarebbe dovuto essere laggiù.
    Non ce la faccio più.
    «L'idarian non si può insegnare» mi scosto, bevendo il bicchiere fino quasi a ridurlo a metà. Vado vicino il pannello di controllo delle barriere sul terrazzo, e regolo di nuovo quella della temperatura perché possa di nuovo isolarlo, stabilire un clima mite.
    È inutile insegnare l'idarian. Lo devi imparare da piccolo, altrimenti comunque è solo una pagliacciata. Puoi padroneggiare qualche parola, capirne anche la grammatica, ma nessuno che non sia nato lì, che non sia cresciuto in idarian, potrà mai parlarlo davvero. Ci vuole un cervello diverso per farlo, che funzioni in modo diverso.
    Non voglio parlare in idarian con qualcuno e doverlo fare con la lentezza di un moto di rivoluzione solo per farmi capire. Sarebbe solo peggio. Peggio sentirlo anche brutalmente ridicolizzato da qualcuno che non è di Idara, e ci metterebbe mezzora a formulare anche solo un paio di frasi.
    È la cosa a cui tengo di più, la mia lingua. Forse per il lavoro che faceva mia madre, per quel che ricordo di lei, forse perché è l'unica cosa che mi sia rimasta che non faccia male che venga da laggiù. All'inizio mi dava fastidio anche il modo ingessato che aveva Shaw di parlarlo, si vedeva che non lo faceva da una vita. Poi quella lingua gli è tornata dentro come se non l'avesse mai lasciata, ed è stato davvero come prima.
    Finisco il mio drink prendendo il telecomando delle luci. Le abbasso solo un po', ho mal di testa. Guardo Celia da lontano, mi sembra quasi che manchi un pezzo.
    Mi giro, ma dietro c'è quel quadro che mi ricorda per davvero l'idarian, neanche fosse stato dipinto mettendo su tela il suo concetto. Un cerchio alchemico che rappresenta anche i miei cerchi preferiti.
    Mi viene spontaneo guardare il palmo, dove c'è quello del Mustang. Sempre così facile dare fuoco a tutto.
    «Hai fame?» torno a guardare Celia, anche mentre appoggio il bicchiere sul carrellino, apro la bottiglia e lo riempio un altro po'.
    In effetti non gliel'ho chiesto, non so se abbia mangiato oggi, probabilmente a una veglia di cacciatori si beve più di quanto non si riempia lo stomaco.
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    Ed era un moto costante, quel farsi avanti ed allontanarsi, come se fossero ballerini che eseguivano una danza.
    Lei si era avvicinata, e lui nella sua modalità fly or fight sembrava sul punto di allontanarsi.
    Sentiva quel nervoso crescergli dentro come la fame che gli cresceva quando era animato da altro e rischiava di divorare tutto. E quella frase sembra quasi una sentenza, un modo per porre un punto, un divisore perché è ovvio che lui non voglia parlare. L'Idarian era qualcosa che ti cresceva nella testa, che dovevi imparare da piccolo e forse lui non arrivava a fare quel pensiero, ma lei di avere una famiglia l'aveva iniziato a sentire il bisogno. Non perché si sentisse a metà e cercasse qualcosa che colmava il vuoto, ma solo...che le facesse sentire qualcosa. Lui si allontanò e forse le sembrò di poter respirare, di riuscire a sentire nuovamente solo i suoi pensieri e le sue emozioni.
    Il freddo che veniva da fuori era permeante, si infilava nelle ossa, si intrufolava tra i vestiti e raggelava il sangue, però la faceva respirare.
    Già forse un giorno lo insegnerò ad un bambino, la sua voce era così bassa che dubitava che lui la sentisse ora che si era allontanato. A volte Celia si chiedeva se era lei e poi si diceva che non poteva essere solo ad essere sbagliata. O semplicemente non era giusto pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato.
    Più guardava fuori e la notte, più sentiva quel buio e oscurità richiamarla, risucchiarla come un buco nero in cui scomparire, in cui rifugiarsi, dove smettere di sentire, dove smettere di essere qualcosa. Aveva mosso appena qualche passo come per andare fuori, oltre quella soglia, era come passare un confine, superare uno scoglio e poi sarebbe stato tutto in discesa. E mentre lui si versava ancora da bere lei si fermò appena oltre l'uscio, al freddo newyorkese di dicembre, così pungente da mozzare il fiato, da irrigidire i sensi e intorpidire la punta delle dita che già sentiva intirizzite nello stringere il bicchiere di vetro. Così per bloccava tutto quello che sentiva, quella voglia che a volte aveva di urlargli contro, che si manifestava puntuale ogni volta che si vedevano e che solitamente sfogavano litigando, ma quella sera no, come omaggio alla memoria di un amico che era morto, sembrava un tacito accordo il loro: non comportarsi da stupidi. Eppure così come lui glielo ripeteva sempre, da quando erano bambini, che fosse una stupida, a volte era lei a volerglielo urlare, afferrargli la testa e gridare così forte. Sembrava quasi come solo loro due, lasciando Idara, avessero perso qualcosa. La sentiva la distanza che c'era sempre stata con Shaw e Zane, avevano condiviso troppo nella loro vita, lei li aveva solo accompagnati.
    Fu la sua domanda a scuoterla mentre il freddo le faceva male allo stomaco. Aveva mangiato? Non se lo ricordava, forse qualcosa, giusto per non svenire. Si voltò a guardarlo ancora fuori, da fuori verso dentro, da due punti di vista diversi come se forse potesse darle un modo diverso di leggerlo. Non aveva fame, ma avrebbe rischiato di vomitare se non avesse mangiato qualcosa. Perché la bile la sentiva già sulla punta della lingua. Vorrei poter affogare tutto qui dentro alzò il bicchiere ancora pieno per metà. Sentiva il viso farsi più freddo e la punta del naso diventare leggermente rossa. Non vi era vento quella sera fortunatamente, solo quello che bastava a muoverle i capelli davanti al viso. Rimase ferma immobile qualche altro istante, era anche inutile aspettare che fosse lui ad avvicinarsi. Lui la gente tendeva ad allontanarla. Si, mi farebbe bene mangiare qualcosa. Mi va bene qualsiasi cosa aggiunse muovendosi verso l'interno, accogliendo il tepore con un brivido che le scorse lungo il corpo, mentre si tornava a riscaldare. Si prese avvicinandosi al tavolo il tempo di guardare la casa di Zane, non aveva visto poi granché e le sembrava chiaro che a Zane piacesse l'ordine, niente era fuori posto. Non ami il Natale era più una constatazione visto che non vi erano decorazioni. Poi si ricordò che lui ogni Natale non era mai a New York. Giusto solitamente lo passi in Louisiana..., si ricordava quando gli aveva raccontato delle tradizioni che aveva con la sua famiglia adottiva.
    Doveva essere bello crescere in una famiglia che alla fine ti amava, a modo suo, ma ti amava. Le mancava la sua in Romania, ma oramai poco alla volta anche loro stavano andando via.
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    «Asleep at the morning I hold my arms to the warning signs. Vacant reliving. Times we never saw. We rehearse like we know it all. Take what you're given, follow on the road back down. Not even heaven knows. Take what you're given, follow on the road back down. Not even heaven knows»
    35y.o. – r&d executive manager – dimensional refugee – black m. – animagus – so. lousiana accent
    Non affogare, ma anche io vorrei distruggere tutto qui dentro. Dargli fuoco, non lasciare niente che non siano scheletri carbonizzati di oggetti e cenere.
    Non so quanto sia sano darci manforte in questo spirito distruttivo.
    Prendo un altro sorso, sollevato che voglia mangiare.
    Io non ho fame, ma ho bisogno di fare qualcosa, ora che l'aria mi sembra quasi fatta di catrame.
    Attraverso l'open space per andare in cucina, apro il frigo e prendo una fetta di carne. Dovrebbe essere cervo, Asher è stato a una battuta di caccia lo scorso weekend.
    Accendo il fuoco e ci metto su la piasta a scaldarla, non ha senso accendere il barbecue solo per una fetta di carne.
    E poi è l'ultima cosa che voglio avere vicino adesso.
    Prendo gli aromi, non ci presto neanche troppa attenzione, e li metto sulla carne prima di metterla sulla piastra.
    La guardo.
    L'istinto a metterci anche la mia mano sopra è così forte che mi sembra di dovermi strappare da lì con la forza.
    Passo davanti al bicchiere, ne prendo un sorso, mi avvicino al tavolo, da lì vedo Celia che sta rientrando dal terrazzo, non l'avevo vista uscire.
    È veramente una stupida, così si prenderà qualcosa.
    Poggio di nuovo il bicchiere, stavolta sul tavolo, mi avvicino a lei stando a qualche passo di distanza. Non ha senso prenderle la giacca ora che sta curiosando in giro, quindi me ne sto lì, con un leggero senso di ansia allo stomaco.
    Non oso immaginare cosa possa dire di questa casa. Di certo non quello che le esce dalla bocca.
    Ci metto un attimo a capire il collegamento con il natale. È vicino, e casa mia non è addobbata, deve aver notato questo.
    Arrivo allo stesso lato del tavolo dov'è lei, anche se qualche passo più in là per guardare meglio dove vivo, e mi ci appoggio.
    «Già» già, a Natale torno a Lake Charles, ogni anno, senza sconti. Già, è per quello che casa mia non ha addobbi, a parte l'avere altra roba in mezzo quando mi piace che sia un ambiente più minimal.
    «Il Natale ha senso in famiglia. Mi metterebbe tristezza una casa addobbata e vuota» e nel dirlo, mi rendo conto che Anna forse non ha neanche qualcuno con cui passarlo.
    Edie non sarà dell'umore, lasciarla sola è una crudeltà. Ma sarà una delle cose più tristi mai sentite.
    Dovrò cercare di farmi invitare, almeno per la vigilia. Prendere tanti regali per i diciotto figli che ha a casa, almeno così il 25 sembrerà più allegro.
    Vado a girare la carne prima che si bruci, la sento sfrigolare.
    Poi però torno nello stesso punto, con le braccia conserte, appoggiato al tavolo.
    «Tu non parli molto della tua famiglia» a parte di Shaw, ma non mi sono mai chiesto perché sia lui la sua famiglia, e se ce ne sia un'altra. Sembra assurdo che non l'abbia mai fatto, ma probabilmente rientra nei miei tentativi spudorati di non pensare a lei neanche un secondo.
    follow on the road back down
    Not even heaven knows

     
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