For a little longer

Josh/Edie | 9 Agosto

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    Gli ospedali li detesto, anche se penso sia una di quelle cose che tutti odiano, a prescindere. Anche se sono stata io a decidere che sì, avrei partorito in ospedale perché onestamente, no a casa non era per niente un’opzione. Mi sembra una di quelle cose che, non lo so, richiedono un certo tipo di assistenza immediata. Ho già abbastanza ansia di mio, e non penso che sarà una cosa che andrà migliorando man mano che il travaglio avanza, anzi. Mi conosco abbastanza bene da sapere che sarà il contrario, e sì un posto così mi mette almeno quel sentore di sicurezza che a casa non avrei mai avuto. Ma resta il fatto che odio gli ospedali. Di stare seduta non se ne parla, forse perché ho letto che fa bene camminare, o forse perché l’ho deciso io, e alla fine neanche importa davvero. Sto in piedi, al lato del letto a cui mi stringo appena, con le mani sul materasso, quando arriva una contrazione, per poi lasciare la presa quando passa. Arrivata a questo punto, voglio davvero solo partorire, è un po’ l’unica cosa a cui so pensare adesso, anche perché, di nuovo, tante cose sono cambiate. Non ho più quel senso di ansia che fino a ieri, accompagnava il pensiero del parto. Del primo pianto, la prima volta che li avrei visti sentendo irrimediabilmente quanto qualcosa mancasse, e lo facesse in un modo doloroso. Adesso no, non c’è quel pensiero, anche se distrattamente mi chiedo perché cazzo non sia ancora qui, anche se logicamente lo so che New York è una città immensa e ci vuole il tempo che ci vuole. Ma ho poca logica ora come ora, davvero davvero poca. Il secondo pensiero, è quello di dover dire a Josh che sta arrivando. Per forza, per non farlo spuntare semplicemente di punto in bianco così, dal nulla, un po’ come ieri è successo a me. Ed è anche che lo so che mio fratello si preoccupa, e posso immaginare che adesso lo faccia un po’ di più vista la situazione. Non gliel’ho detto che l’ho rivisto, o anche che è letteralmente tornato dall’inferno, perché è ancora fresco, e perché non sapevo neanche come intavolare una conversazione del genere, che ha una note che sì, è leggermente assurda in mezzo. Non che farlo adesso sia meglio, ma non voglio proprio arrivare direttamente al punto in cui ci sono molti ma che cazzo straniti. Mi metto un po’ più dritta, lasciando un po’ più di spazio fra me e il letto, con la mano poggiata al muro mentre lo guardo entrare annuendo appena. Non so a chi o a cosa, forse solo a me in un modo che è un po’ come ripetersi ce la faccio in continuazione. E Dio, se ho bisogno di ripetermelo ancora ed ancora, per tenere un po’ a bada quel senso di ansia che se ne sta un po’ fermo ovunque, e che per me è sempre un po’ più profondo del normale. Ho già elencato in testa tutti i modi in cui potrebbe andare male, perché ovviamente, quando hai l’ansia per qualcosa, cerchi di tutto. Così ora ho precisamente idea di cos’è che ho ansia, che non è una cosa positiva, ma io sono stupida e quindi va così. Lascio andare un respiro profondo, in un modo che è solo uno di quelli che teoricamente, servono a qualcosa. Anche se non lo so, non sono mai stata una che crede davvero ai lunghi respiri, in ogni caso. «Josh» prendo una pausa, una che mi serve a cercare un respiro ad occhi chiusi, labbra strette con una mano che se ne sta al lato di quella che ormai è più simile ad un grattacielo che una pancia, in attesa che passi. E conto, ovviamente, conto perché spero che diventino più lunghe, perché vorrebbe dire che sì, fanculo, sono pronta a sbolognare questi bambini. Cinquanta secondi. Mi sposto, ancora, muovendomi quasi a caso nella stanza, e lasciando andare un respiro quando la contrazione passa. «Okay. Senti ti farei un lungo discorso, ma non sono proprio nel mood» ci metto dell’ironia, per forza, perché altrimenti sono abbastanza sicura che qualcosa esploderebbe male nella mia testa. «È lungo, è complesso, ma il succo è che sta arrivando Morgan» vorrei dire anche che spero lo faccia in davvero poco, pochissimo tempo, perché in questo momento ho il bisogno piuttosto concreto di, non lo so. «E spero per lui piuttosto velocemente perché ho tutta l’intenzione di partorire tipo il prima possibile»
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    Non mi piacciono gli ospedali, lo sento come un riverbero oltre le ossa stanche di Edie, e si ripercuote in me. Non ho mai avuto bisogno di infilarmi in una di queste cazzo di stanze, tutt’al più sono altri che ci finiscono a causa mia. E no, oggi non sarò tanto stronzo da farne un vanto. E’ solo la verità, quella che lei non sa, che mi fa tenere un respiro basso e tirato e denti stretti gli uni agli altri se per sbaglio il mio sguardo vaga altrove. Sono un fottuto ematico del cazzo e questo non fa bene, per quanto sono corrotto, a chi mi sta accanto quindi no, nemmeno è il posto che fa per me o in cui dovrei stare. Una bomba ad orologeria il cui innesco è tanto facile, troppo. Potrei dire che ogni respiro spezzato di Edie è una punta di trapano che mi perfora. Perché cazzo non fa subito l’anestesia lo sa solo lei. «Chiamo l'infermiera!» l’ho minacciata da subito ma no, lo so che è una scelta su, è che divento irrequieto subito se lei sta male. Non è qualcosa che posso alleviare con la magia, cazzo no, io faccio il contrario in genere. E’ una divisione su cui non so piegarmi ora che beh, ora che a star male è lei. Quindi niente, sono qui da quando mi ha chiamato, c’è Alice fuori dalla stanza e lo so che ancora il legame è labile, il filo è sottile e che vorrei avere un occhio per lei ma ora non posso, non riesco, è troppa l’attenzione che non si divide. Ma non ho il cuore in pace quando di tanto in tanto punto gli occhi oltre il vetro per vedere se è ancora lì, nella saletta d’attesa a parlare con gli altri bambini. Perderla di vista è fuori discussione, anche se saprei come rintracciarla. Ci ho pensato a lasciare da Chrys, ma no, non posso accollargli anche questo: è una mia responsabilità, e beh è anche perché non vorrei che si stancasse già di tutto, che d’improvviso decidesse che è troppo. Io ancora non ci credo. Quindi via, un alto respiro mentre mi distraggo solo per salvarmi dal sentirla stringere i denti e respirare come un lottatore di Sumo. «Ma queste stronzate funzionano davvero?» No perché a me non sembra. Però è anche vero che Edie mi fa un po’ paura così, che lo so non è il caso di toccarla, che lo vedo come nel mio ambiente non ci sono neanche per il cazzo. E ‘ste luci al neon di merda sono puro fastidio delle cornee. «Mh?» Sì che un attimo lo passo a capire che cazzo ha detto. “Morgan” e “Sta arrivando” nella stessa frase non hanno sento come parole. Infatti mi fermo, la guardo, e faccio di tutto per non sembrare profondamente preoccupato per il suo stato mentale. Ok forse il parto gemellare ad una certa ti spegne i neuroni, il che non mi sembra difficile da quello che vedo. O forse è la resistenza che fa la sua mente al dolore, all’idea che Al e Jaden nasceranno senza un padre, e questo, beh questo lo capirei di più. Ma non mi metto qui a contraddirlo, neanche per il cazzo non sono così pazzo, sono sicuro che se qualcosa la sconvolgesse ora potrebbe tirare giù l’ospedale a mani nude, non solo la stanza. Trattengo la presa su una barriera lungo il letto gigantesco in cui non riesce a stare seduta. Cerco un respiro diverso, uno che mi ripeta che se questo è il suo modo di proteggersi io non devo fare niente per impedirlo. Annuisco. «B-Bene» alzo le spalle, allargo le braccia e le lascio ricadere lentamente. Sta male, sta un po’ impazzendo ma va bene, è così, durerà il tempo di far nascere i bambini e poi riparleremo delle cose di cui non ha mai voluto parlarmi fino in fondo, così perché il dolore non sia un ambiente in cui venire al mondo. «.. quando arriva lo facciamo entrare, ok?» Sì, certo, non succederà, cazzo...
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    Penso che ci sia un reset, adesso, nella mia testa. Uno che mi concentra qui, in questo momento, e mi fa pensare solo di sfuggita al sollievo di quando sarà finito. In qualche modo, adesso, non ho ansie per il dopo. E non è solo perché è tornato Morgan, e anche quello ha un sapore diverso, ma anche perché anche solo resistere a questa fase mi sembra quasi un miracolo. Forse invece è solo che ora, per un momento, uno che forse non durerà, in qualche modo mi sembra tutto al suo posto. Anche se arrivano fitte che si premono a fondo, anche se sono in una stanza che odora di disinfettante e l’unica cosa che vorrei, al posto di quel letto, è il divano di casa mia, quello che non vedo da così tanto che adesso vorrei solo affondarci dentro e ascoltarne l’odore; ma è tutto a posto, lo è perché Josh è qui, e c’è Alice fuori che è qualcosa che non avrei mai pensato di vedere, che non mi aspettavo, ma che adesso è incastrata qui nella vita di mio fratello e sa sembrarmi solo giusto; perché c’è Morgan che sta arrivando per aspettare anche lui di vedere i suoi figli; perché c’è Lea che in questo tempo, mi ha fatto crescere un senso di sicurezza che adesso è qui, anche lui, ed è un po’ qualcosa che calma ogni spasmo di paura che posso provare. Solo così, al suo posto, in un modo che onestamente, fino a qualche giorno fa, credevo impossibile. E lo so, lo so davvero che è solo perché adesso c’è questo a rendere tutto sospeso, ma mi va benissimo. In fondo ho sempre pensato che la vita fosse fatta di momenti, alcuni orribili, ma altri invece che sanno essere dolci, e quasi lenitivi per tutte quelle parti irritate ed ustionate da tutto. Gli lancio uno sguardo quasi divertito, quasi perché sono ore, ormai, che vado avanti così, e che in momenti scadenzati arriva una botta, e c’è quella parte che ti dice solo che sì, sarà ancora così per, beh, un bel po’. Ma sì, è uno sguardo divertito, mentre mi lascio un po’ andare con il fianco contro il muro, prima di girarmi per spingerci la schiena come se cercassi qualcosa di fresco contro i tessuti. «No, ma voglio puntare sul, come cazzo si chiama, il Placebo, sai? Fottere la mia testa e convincerla che è tutto utilissimo» lo dico agitando appena una mano in un modo che la fa volteggiare nell’aria, e che mi lascia lì, ferma contro il muro, a rivolgergli uno sguardo che per una volta, dopo troppi giorni e settimane, e mesi, ha qualcosa di leggero nelle iridi. «E comunque-» mi fermo nel tempo di un altra contrazione, che quella e finale la stringe un po’ fra i denti e mi lascia a boccheggiare come una trota spiaggiata. Non ne posso giù più e ho appena iniziato, da quello che mi hanno detto della mia situazione. E non è una cosa incoraggiante. «Ovvio che lo facciamo entrare, questa è una cosa che decisamente lo riguarda, e se devo passare questo incubo beh, anche lui» ricomincio a parlare dopo, tornando a premere con le mani sul materasso per usarle come leva e sedermi. Anche se non penso che durerà molto, ma qualche secondo. Lascio andare respiri che ancora sono carichi, prima di girarmi verso di lui con un sorriso, per quanto stentato dentro uno stress che in fondo, posso definire positivo. Muovo una mano per pigiarla sul materasso in quello che è un invito a farsi vicino, sedersi di fianco a me fra i respiri che tengo leggeri. «Hai idea di quanto stia odiando il genere maschile in questo istante?» anche questo lo dico leggero, con una battuta che si sfila fra le labbra prima di stringerle appena, di nuovo, in un moto che ormai è come un timer fisso. «Molto, ecco quanto»
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    E' un attimo in cui mi fermo, anche se seguo i suoi movimenti e quello che vuole, e mi dico che papà avrebbe voluto essere qui. Che sono io a fare la sua parte perché lui non potrà mai vederli, non potrà mia diventare nonno e tutte quelle belle stronzate che di certo si era immaginato quando ha pensato di mettere su famiglia con nostra madre. Ha sempre avuto la forza di guardare avanti anche quando il passato sembrava solo una continua fonte di nebbia e ricordi distorti. Lo so che tra le persone fuori da questa stanza avrebbe dovuto esserci lui, e che qui dentro forse le avrebbe tenuto la mano anche se Edie sta impazzendo. Avrebbe saputo fare quello che non so fare io ed è ora che mi manca. Adesso, in questo secondo che impiego a ricacciarmi tutto dentro come sempre, che uso per sorriderle ed alzare gli occhi al soffitto del cazzo.
    Non posso sapere cosa sta passando adesso, posso intuirlo, insomma il dolore è palese anche se per ora si ravviva in ondate che le lasciano prendere fiato, ma so cosa vorrebbe. Vorrebbe papà, vorrebbe mamma, vorrebbe Morgan. Per questo non la contraddico, perché ha solo me qui dentro a poter fare anche una cosa stupida come sedermi dove dice, guardarla, sorridere, darle una mano perché la stringa con tutta la forza che i bambini le tolgano e mi dica quanto male fa precisamente. So anche che non è così che avrebbe dovuto andare, niente di tutto questo ha senso, non dopo un anno che ha stravolto tutto e lo ha riscritto alla cazzo di cane, come un fottuto cieco che si mette in testa di fare lo scrittore. Senza aiuto, cazzo senza neanche saper scrivere sul serio. A papà avrei anche presentato Alice, ma questa è un'altra storia ancora.
    «Fottere la tua testa?» e visto che l'ha detto sul serio scuoto la testa «Non c'è niente, Edie, niente di più duro della tua testa. » Quindi ribatto sul punto chiave del problema attuale: lei che non si fida dei farmaci, di farsi togliere un dolore che magari vuole anche viversi ma probabilmente non sa quando aumenterà. «Ok, ma vedi di non farei l'eroina del cazzo eh, che a loro non cambia sei stavi morendo di dolore oppure no.» Lo dico sempre con quel sorriso che vive del perenne "facciamo finta" in cui ci muoviamo tanto bene da chiamarlo casa.
    Le allusioni a Morgan continuano ad essere stilettate, peggio di quando ho dovuto dire ad Alice che probabilmente sua madre era morta anche qui, o che la sua variante lo era per certo. Ed ancora non sa che per me non è mai nata. Morgan non tonerà, ma non intendo contraddirla ora.
    «Deve proprio prendersi le sue responsabilità» la assecondo, annuisco e cerco solo di farla continuare a parlare, così non penserà al dolore ed a tutto ciò su cui non vorrei si soffermasse adesso.
    La verità è che ho già visto che effetto fa strapparle la felicità di dosso e no, non intendo farlo di nuovo, tanto che lo sento come sono un fottuto sentimentale nel sapere che è felice. Di poco, solo per una cosa che sembra piccola ma sarà enorme, però lo è, vuole vederli e conta solo questo.
    «Ouch! Mi ferisci... ma te la do buona, perché loro non ti sentono e stai palesemente soffrendo» le spingo una spalla, ma poi torno a darle una mano perché la riduca in poltiglia se vuole. «Pensa solo alle cose che potrai tornare a mangiare appena ti deciderai a non tenerli dentro in eterno, sai che non è carino sì?» la provoco perché è sempre stato così, perché so farlo, voglio che si concentri su di me e su quello che dico, che il tempo le passi e trovi anche modo di ribattermi. «.. e bere, sono stanco di svuotarti la dispensa da solo, mi sento un coglione, quindi andiamo. Respira e buttali fuori.»
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