Busload of Faith

Morgan/Den/Josh | 9 Agosto

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    ’è il fastidio di essere in un ospedale, ma non credo di odiarli più di altre persone e alla fine, ci ho passato molto più di tempo della norma, per un motivo o per l’altro.
    Entriamo dalla parte illegale, solo perché non ho nessuna intenzione di togliermi di dosso le armi per superare i controlli.
    Non esiste, non voglio denudarmi così. E cammino veloce, ma questo perché voglio raggiungerla in fretta.
    Ci sono stato spesso qua, ma questi posti del cazzo sono labirinti e anche la gente stessa che ci lavora ci si perde, quindi guardo la mappa nell’andito del terzo piano. Memorizzo il percorso da seguire e arrivare al reparto. Dopodiché, sposto da dentro la tasca il moschettone con le chiavi e lo lascio libero di tintinnare ad ogni passo; sono rapidi quando scivoliamo via da quella zona che potrebbe destare sospetti al personale, considerato che “siamo sbucati dal nulla”.
    I corridoi degli ospedali, di notte, sono gialli.
    Non sono bui come nei film, non sono bianchi come nei film.
    Quelli dell’altra zona invece, da cui siamo entrati, quelli sono bui per davvero.
    Gli ospedali sanno di malato anche se dovrebbero essere pensati apposta per dare l’esatta impressione contraria. L’odore di disinfettante mi fa pensare al sangue, al dolore, a pelle stracciata e ossa spezzate.
    Niente di positivo.
    Niente.
    Cammino veloce ho detto sì, ma l'andatura è rilassata, muscoli non più tesi della norma. Non se Joshua vuole chiedermi qualcosa, fossi in lui non mi lascerei andare così facilmente ma devo anche dire che fossi stato anche in Edie, mi sarei fatto qualche test prima di saltarmi addosso. Giusto per sicurezza. Pure se in questo caso, lui dovrebbe già sapere che sono apposto.
    Però insomma, è che io sono un po' paranoico.
    Un po'.
    Ma giustificatamente.
    Come giriamo l’angolo lo vedo già lì di fronte alla porta, sembra che sia pronto a fare tipo il Gandalf della situazione. Ritorna nell’ombra, incredibilmente accurato.
    Mentre ci avviciniamo e lui si gira a guardarci gli faccio un cenno con la mano destra, sfiorando la fronte a mo’ di saluto militare, «Chi non muore si rivede» alzo un sopracciglio senza l’ombra di sorrisi ma solo serietà placida che se ne sta lì, più calma di quanto dovrebbe. Mi fermo a pochi passi di distanza e già penso, voglio fumare voglio fumare fumare fumare fumare.
    Mi chiedo perché sono dovuto arrivare in questa dimensione nel 2000, se c’erano gli anni Settanta che palesemente erano i miei. Quando si poteva fumare ovunque, anche se ora che ci penso, non so se anche negli ospedali si potesse.
    C’è una bambina un po’ più in la.
    A lei sorrido dalla distanza.
    «Sta andando tutto bene?», chiedo subito dopo tornando a guardare Josh. Giusto per informazione, penso che avrei riconosciuto il panico nella sua espressione se ci fosse stato qualcosa di problematico in corso.

     
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    E’ l’impossibilità di fare qualcosa, qualunque cosa, che mi blocca qui. Fermo a guardare Alice attraverso il riflesso controluce del vetro della stanza. Edie è dentro, ancora non sta cambiando niente se non per il fatto che è talmente testarda da non voler che si allievi nemmeno di un cazzo di sospiro la sua sofferenza. E beh, so che sono cose belle, ma comunque no. Comunque non mi piace, comunque vorrei che finisse in fretta. Che poi lo so come starei qui a ore a chiedermi come sia stato per l’altra Lilian avere Alice, come sia stato quel Josh dalla vita diametralmente opposta, quando ha scoperto che avrebbe avuto una figlia e poi ha deciso di prendersi la responsabilità di darle una vita da ricordare. Ma anche lui è stato uno stronzo, una merda fino al midollo a lasciarla sola per un’ideale del cazzo. Sì, parlo io. E’ ironico, ma non rido. Ora è con me, ora so che non permetterò che riviva tutto di nuovo, mai, neanche se non è davvero mia figlia. Io, io credo lo sia e basta. Per questo in parte le sorride, mi aggrappo a lei ed al fatto che la nostra lingua la capisce poco o niente eppure sta trovando modo di non rimanere ferma. Non come me.
    Io che lo sento arrivare, perché diciamocelo, Morgan Crain mi ha tormentato così tanto, che con la coda dell’occhio lo riconosco tra la folla. Soprattutto perché non è solo, è tornato a girare in due, e direi che che questo mi spiazza come poche altre cose. Tanto che so che ringhio, so che lo tengo stretto trai denti e le narici si dilatano per un respiro che non mi piace per niente. Fisso gli occhi si di lui, a Caiden lascio un cenno, che la memoria delle nostre meravigliose conversazioni facciamo meglio a seppellirla adesso. Per un bene superiore no? Ma col cazzo che mi fido a primo impatto, ma anche per niente. Non rispondo, faccio un passo di più che mi fermi davanti alla porta, che poco mi frega che abbia salutato Edie; qualcosa non torna. Almeno non è matta, questo devo ammetterlo, forse le dovrò delle scuse ma va beh, penso che già possa dimenticarsene.
    Però cazzo poi è questo fottuto ghigno di merda con cui lo accolgo, che scuoto la testa e mi chiedo come cazzo ci sia riuscito a fare tutto. Morire per lei, strapparle la morte e dopo, riscrivere la storia per tornare come prima. Di questo intendo accertarmene prima di farlo entrare, sia chiaro, non me ne frega un po’ un cazzo che siamo in un Ospedale, non entra se non lo dico io e penso che lo sappia. Gli ho detto che avrei badato ai bambini e questo anche se fosse stato da vedermela con un suo clone più morto che vivo. Ma no, lo sa anche la Corruzione che al primo impatto sembra pulito. Anche se ribolle, anche se la sua presenza richiama Faust che ricaccio in testa chiudendo gli occhi e prendendo un altro profondo respiro di merda.
    Il problema è che c’è sempre il sottofondo di qualcosa che non so, e direi che è il caso che si prepari la storia giusta al momento giusto: non mi sembra di chiedere troppo. Ma non sono incazzato, sono solo fermo in punto che è bello in bilico tra lo sconforto e la rabbia insensata, ma no, non con lui, io ce l’ho sempre con il cazzo di Universo. Mi chiedo a che cazzo sia servito nascere se poi sono inutile come pochi.
    «Sì, la conosci, non vuole l’anestesia.» Lo dico anche se di corsa, come se dovessi strapparmelo dai denti. Che non è la cosa importante ora, cazzo si ma no. «Tu che cazzo sei invece?» E se prima ho anche accennato alla figura di Edie dietro il vetro ora lo guardo dritto negli occhi, e cazzo spero lo capisca molto bene cosa gli sto chiedendo e che abbia la risposta giusta. Non mentire.
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    Edited by nocturnæ - 10/8/2021, 16:35
     
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    Penso di poter dire, onestamente, che non sono più abituato alle persone. Non parlo solo di un mese rinchiuso in un posto e uno soltanto, con semplicemente Morgan con cui “avere a che fare”, per quanto fossi in grado di avere a che fare con qualsiasi cosa. Parlo anche di prima, quell’immenso, infinito prima che è un po’ quello che mi trascino dietro anche adesso, e che so mi trascinerò dietro per un bel po’. E per forza, direi. E non è solo per come mi si incastra nel cervello, con una consapevolezza che non ne vuole proprio sapere di scemare, è anche perché per quanto vorrei, e davvero lo vorrei, no, non sono stato un anno in totale isolamento. No, certo che no. Sono andato invece, e direi a briglie sciolte. Così, per non farmi mancare niente. E infatti, infatti esiste anche quella lista di persone a cui chiedere scusa, come da regola. Una regola che odio, perché non sono mai stato uno a cui piace chiedere scusa, né quando ho torto, né mai. E questo da molto prima del sangue. Palesemente, sono uno a cui piace davvero molto avere ragione, potrei sbilanciarmi e dire che è la mia droga numero uno, che mi accompagna da sempre. Anche da bambino mi piaceva avere ragione, e sbandierare anche le mie conoscenze in faccia alla gente. Quindi sì, posso dire che decisamente è una cosa che non mi piace in generale, figurarsi adesso. Ma è un po’ il senso della cosa, e prendersi responsabilità, e tutte quelle cose che non ho fatto neanche per sbaglio da Agosto dell’anno scorso ad oggi. Rimediare, insomma. Bella merda. Tutto questo giro, solo per dire che sì, già, non sono abituato alle persone ora come ora. Immagino sia quello che succede quando spegni l’empatia per così tanto tempo e ragioni solo in funzione di quello che è utile, e quello che invece è un ostacolo. E cazzo se ne vedevo, di ostacoli. Tutti praticamente lo erano. Ma non importa, non è che adesso sono qui per me. Nel senso, sì è ovvio che anche io voglio esserci, perché parliamo pur sempre dei figli di Morgan, ma per lo più, beh non ha neanche senso dirlo. Meglio non iniziare già da adesso con cose troppo smielate. E poi, poi lo so che ci sarà Josh. È una cosa scontata, ovvia, non c’è neanche bisogno di chiederselo, allo stesso modo per cui io, appunto, sono qui. Letteralmente. È solo che la nostra ultima, ed unica, conversazione... beh, che dire. È stata quel che è stata. Anche se non ci do troppo peso, non adesso almeno, perché no, decisamente non è questa la sede per qualcosa del genere. Decisamente no, e infatti ci metto poco a spingerla da qualche parte più recondita della testa, mentre scivoliamo dalla zona illegale a quella di “dominio pubblico”. Un’atteggiamento disinvolto è quello che mi serve per essere ignorato quel tanto che basta, prima di scivolare fra corridoi che quasi sono tutti uguali. Quasi giusto perché sono abituato ad essere attento ai dettagli più piccoli, perché insomma, quando devi orientarti in qualsiasi posto, sono proprio le cose che noti per, appunto, non perderti. Non so neanche perché lo faccio adesso, ma sono cose che ho smesso di chiedermi anni fa, e sono semplicemente attive perennemente in backgroud, giusto perché non si sa mai. Gli occhi poi li sposto del tutto su Josh appena ce lo troviamo di fronte, con un semplice gesto del capo. Semplice, perché in realtà spero che non ci siano troppi discorsi adesso, anche se non me lo aspetto davvero. Morgan era morto, sono il primo che una cosa del genere la controllerebbe, anche se per me è anche quell’incessante deformazione professionale, quando vita e “lavoro” sono un unico ed enorme impasto generale. «Lui è a posto» lo dico rivolto a Josh, a voce bassa e lanciando una rapida occhiata in giro prima di fargli segno di tenere la voce bassa, non per qualcosa, ma decisamente tutti e tre abbiamo dei seri motivi per non attirare quel tipo di attenzione. Per quello dico “a posto” o non qualcosa di più incriminante, tipo che ne so “umano”. Non mi sembra proprio il caso. Proprio no. Decisamente. Sfilo dalla tasca una boccetta, trattenendola nel palmo sollevato così che la possa vedere prima di chiuderlo e lasciare semplicemente la mano a fermarsi lungo il fianco. «Acqua benedetta, posso fargli una doccia al volo così ne sei sicuro» anche questo lo dico a voce bassa, alzando appena le spalle.
     
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    imango interdetto, per un attimo all’inizio, perché Edie mi aveva detto di averglielo spiegato. Ma forse è solo che vuole assicurarsi che davvero sia tutto okay, lo capisco sì, in effetti non penso che abbia avuto davvero tanti di quegli incontri ravvicinati con i Banditori, tale da sapere che se fossi venuto qua in quelle condizioni, non avrei fatto queste scene.
    Credo almeno.
    Non so, se devo immaginarmi Banditore, slegato da tutto e senza più niente a mantenermi umano, penso anche che andrei via.
    Lontano da tutto.
    Lontano da qualsiasi responsabilità.
    Ma non posso saperlo in realtà e non voglio neanche pensarci tanto bene da formarmi un’immagine nella testa. Non voglio saperlo, che cosa farei e come diventerei.
    Mi viene spontaneo alzare un sopracciglio, per il modo in cui fa la domanda, per il modo in cui si sposta di fronte alla porta, un linguaggio del corpo inequivocabile oserei dire. Cioè, davvero, posso capirlo, però non c’è bisogno di essere così ostili.
    Cosa dovrei fare io?
    Anzi, cosa avrei dovuto fare?
    Esiliarlo dalla sua stessa famiglia? No perché non siamo tanto lontani da questo concetto anche al contrario. Ma non penso gli entri in testa una constatazione del genere.
    I movimenti di mio fratello di fianco a me accendono l’attenzione e la spostano immediatamente: l’acqua benedetta. Gli lancio un’occhiata indurendo lo sguardo. Non ho intenzione di farmi fare una cazzo di doccia, nel corridoio di un ospedale, solo perché il ragazzo non si fida della palese realtà che gli si presenta di fronte agli occhi, o di quella che gli ha raccontato sua sorella tra l’altro.
    «Non serve» lo dico a bassa voce, mentre mi giro a guardare Joshua di nuovo. Rilasso i muscoli facciali ma sul volto permane ancora la maschera di lineamenti dritti, quasi imperturbabili. Piano muovo la mano destra a poggiarla, con altrettanta delicatezza, sul mio stesso pettorale sinistro. Alzo il mento, come a simulare una certa solennità. «Giuro sui Teletubbies». Solenne.
    Ovviamente nella mia testa mi sto sganasciando, ma fuori resto “imperturbabile” per davvero. Letteralmente.

     
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    Ho giurato che l'avrei protetta da tutto. E' Edie ok? Che cazzo altro dovrei fare se non questo? Niente, perché letteralmente io non posso fare niente altro. Perché Morgan ha fatto tutto. Ogni fottuta cosa se l'è presa e se l'è portata via ed ora so bene cosa succederà quando aprirà la porta e sì, cazzo se fa male. E' la realtà non intendo negarlo, né nasconderlo quando non me ne frega un cazzo di come Caiden mi parli. Non lo guardo nemmeno. Non ora, non subito. Non se sento il pugno chiudersi intorno al tessuto della maglia, la mia ovviamente, non sono così stronzo da fare davvero una mossa verso di loro, contro di loro, adesso. Né dopo.
    E' solo una merda, sempre, e quindi lo è anche adesso quando mi rendo conto che non posso fare più niente, che quello che potevo - cosa poi? - è già scivolato via. Via come sarà lontana la vita che vivranno. Da me, come è giusto che sia. E l'unica cosa che mi tiene a galla è che neppure io sarò solo. Ma cazzo non sto chiedendo la luna, solo un fottuto momento di serietà per qualcosa che evidentemente importa solo a me. Cristo.
    Quindi sì, è importante e no, non basta un cazzo la parola. Soprattutto quando ho saputo pentirmi di ognuna di quelle volte in cui mi sono fidato, l'ho ascoltato.
    E' andata sempre peggio, sempre. E poi ovviamente sorrido, ovviamente con l'ironia di merda che conosco, quella malinconica e stronza, che oggi va così e conviene che non mi rompano davvero il cazzo tanto a lungo.
    Poi lo so come lo sguardo si fa di marmo, che non me ne frega un cazzo della sua di ironia, non adesso, e probabilmente mai. Resto fisso, immobile, un fottuto muro anche se lo so che dovrò spostarmi, e sarà un passaggio di testimone ovvio, lecito, di merda. Ma è così che va la vita no? Beh, non subito, non senza che io lo sappia. La vedo solo con la coda dell'occhio l'acqua santa, anche se lo sento da me che va tutto "bene", che non è un Banditore. Edie avrebbe potuto ferirla prima, che è ovvio si siano visti. Solo che non mi muovo.
    «Come hai fatto?» non me ne frega un cazzo dei giuramenti ironici, non so neanche essere diverso da questo, fisso in un punto che ci veda soli. La verità però è che poi davvero lo sguardo lo sposto anche su Caiden, perché la domanda non può coinvolgere uno solo di loro due. «E' una cosa sicura? Resti per lei adesso?»
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    Lo vedo com’è che mi guarda Morgan e sì, lo so. Lo so che non è bello fare una cosa del genere, e non lo è per davvero una lunga serie di motivi. Tipo che siamo cresciuti come siamo cresciuti, e insinuazioni del genere, timori del genere, per noi sono diversi. Lo sono per davvero, e non perché ne sappiamo di più, no. Non è questo. Ma è perché cresciamo con l’idea di qualcosa che è talmente sbagliato, che ha solo diritto di morire. Essere cancellato dall’esistenza. Non è umano, e non lo è in un senso che, per noi, va oltre sangue e razza. Non è umano nella testa, nelle emozioni. Non è umano in quella sfera che crea empatia. Non lo è e basta. Per questo ci pesano più addosso cose del genere, e anche la paura di finirci ad esserlo. La esorcizziamo dicendoci che a noi cose così non succedono, ma sono solo stronzate. Adesso lo so davvero, e con la precisione di chi in un certo senso ci è passato. Eppure, eppure ancora so dire che no, non esiste. Che a me non può succedere, perché è sbagliato, e ho passato una vita ad uccidere cose del genere, quindi è ovvio che lo sia. Lo è per forza. Ho passato un mese anche su questo, a cercare di convincermi che quello che avevo pensato in merito, in quel tempo, fosse una stronzata. Ho cercato di riprendere il bianco e il nero, dritti e netti, senza sfumature o curve. Solo un’unica linea che divide tutto. Questa è una cosa che nessuno che non è cresciuto così capirà mai. E non è una colpa, è solo un dato di fatto. Così come io, o Morgan, non possiamo capire tante cose di qualsiasi vita diversa. È normale. Quindi sì, lo capisco quello sguardo, davvero. Ma non posso fare diversamente, e forse è perché fino ad un anno fa, sono stato quello che sì, doveva essere quello che fra i due, si occupava di più di avere a che fare con la gente. E adesso ci provo, e ci provo perché davvero voglio essere di nuovo me, e sentirmi me. Anche se non sono abituato, non più. Quello che non capisco, invece, è lo sguardo di Josh. La prima domanda, quella la associo a un concetto diverso. Come se chiedesse se è è Morgan, o se è qualcosa di diverso. Lo annego il pensiero che dice che se non fosse lui, non lo avrei portato qui. Lo annego, perché in fondo non penso che Josh capisca che se anche quella non è mia sorella, e ora come ora non so come mi sento nei suoi confronti dopo aver passato troppo tempo ad odiarla per un principio, quelli restano anche i miei nipoti. Esattamente come lo sono per lui. E io sono un Crain, la famiglia è tutto quello che è importante, ed è tutto quello che ho. E non sono ancora nati, ma so già che darei la vita per proteggerli, e senza neanche doverci pensare. È la seconda cosa che non capisco davvero. Perché nel fare questa domanda a noi, entrambi, non posso che essere qui a chiedermi perché. Non può davvero fidarsi sulla parola di Morgan, o chi che sia, e mentalmente mi appunto di dirgli che questa è una cosa davvero fondamentale; io ho avuto a che fare con Banditori, e di loro non ci si può fidare. Sanno come spingersi in un punto preciso, e prendere quello per trascinarti a fondo. E io? Io beh, non so. L’ultima volta che abbiamo parlato, non direi che è finita da amici, o anche solo un rapporto di fiducia. Al contrario. Per niente. Quindi aggrotto appena le sopracciglia, e neanche presto davvero attenzione a quello che dice Morgan. Non riesco neanche a lanciargli una delle mie occhiate, perché sono concentrato su Josh. «Sicurissima» lo dico dopo un po’, ma non per un dubbio. È sicura davvero, e l’ho detto, per quanto possa quasi pensare che uno come me, come noi, potrebbe offendersi per un’insinuazione simile, non lo faccio. Ci sono delle ragioni, solo che non capisco. Ma è un discorso a parte, e in fondo non possono ragionare tutti come me, questo lo so, e l’ho sempre saputo. Diventa solo un appunto mentale fra i tanti. «Non saremmo qui altrimenti, e non così sicuramente» al massimo, uno dietro l’altro in un contesto decisamente più violento. Ma questa è una storia a parte. Guardo Josh però, e lo faccio con la serietà che vorrei avere se fossi dall’altro lato. Con la stessa convinzione che al suo posto vorrei vedere, come se bastasse. Ma lo so che in fondo, ho qualcosa che non nomino, e a cui non do una definizione, perché non sono pronto ad affrontarla, che mi preme nelle ossa e nei pensieri. Qualcosa che non è la colpa, ma va più a fondo. E non voglio discuterne adesso, e sopratutto, non è qualcosa che dirò a lui. Come non gli dirò di quel come, che è una cosa che resta davvero troppo intima, personale, e complessa per poterla dire a chiunque. E anche, decisamente problematica. Infatti, a quello non risposto, e penso anche in uno stralcio di quelli che sono a metà fra prima e ora, che è una cosa mia. Molto mia. È una cosa che riguarda la mia disperazione, i miei limiti e quanto sono disposto a romperli per qualcosa che per me è importante. Riguarda solo questo, e non lui.
     
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    assiamo già alla prossima domanda quindi. Mi chiedo se abbia voluto farla solo per rompere il cazzo, se è bastato giurare sui Teletubbies per convincerlo che no, non sono nient’altro di diverso da un essere umano.
    Probabilmente voleva soltanto sapere, sin dall’inizio, com’è successa questa magica cosa della resurrezione.
    Il problema è che Joshua non mi conosce.
    Il problema, per Joshua, è che non sa che io quasi mai do più di una possibilità nell’ambito della fiducia.
    Il problema, per Joshua, è che lui quella possibilità l’ha già sprecata dicendo a Edie del mio patto quando gli avevo chiaramente detto di non farlo.
    Il problema è che non mi fido di lui e che, soprattutto, non proverò mai più a fidarmi di lui.
    La sua situazione è in quella scala di grigi che ho sempre avuto difficoltà a vedere; per le mie supposizioni, quello che so, quello su cui ho indagato. Ed è difficile sì, perché se non fosse stato il fratello di Edie anche per lui avrebbe funzionato seguendo quel “o con me, o contro di me” che faccio valere per tutti. Letteralmente per tutti, che siano Cacciatori o mostri non ha importanza.
    E lui sarebbe decisamente all’interno del “contro di me”. Lo è, in realtà, ci si comporta e non mi aiuta a non vederlo così. Lo è a metà, però, perché c’è anche quella grazia che è l’esistenza di Edie e il legame che esiste tra loro, indissolubile come lo è qualsiasi legame di famiglia e che mai cercherei di spezzare. Per questo, quella volta, non mi sono neanche davvero arrabbiato di fronte alla scelta di andarsene e lasciarmi qui con tutti i miei casini, anzi, i loro casini da risolvere caduti sulle mie spalle.
    Il problema, per Joshua, è che non capisce quante volte ho chiuso gli occhi.
    Quante volte ho fatto finta di non vedere.
    Quante volte sono stato gentile per quieto vivere.
    Quante volte sono stato civile.
    E quanto sono stanco ora.
    Soprattutto, quanto sono stanco ora.
    Eppure mi mangio tutte quelle parole che vorrei lasciar uscire, con quella calma che è capace di far vibrare nel sottofondo una rabbia liquida e densa allo stesso tempo. Lava che scorre subacquea.
    Non è il momento.
    Lascio cadere le braccia lungo i fianchi. L’ironia si consuma sulla faccia. In un attimo. Anzi, viene consumata da quella lava già solidificata là sotto. Prendo un respiro lento dalle narici.
    Io davvero capisco Joshua.
    Probabilmente mi muoverei in un modo simile a quello in cui si muove lui adesso, ma ci sono precedenti che non sta considerando. Direi, in verità, che non ne sta considerando nessuno. Non che mi sorprenda.
    Non specifico che è superfluo dire che è sicura, perché non saremmo qui altrimenti. Appunto. Caiden non mi ci avrebbe mai fatto arrivare, o per lo meno, avrebbe tentato di impedirmelo a tutti i costi. Di questo ne sono sicuro, nonostante tutto.
    Quello che dico invece è una risposta all’unica domanda che ha senso, anche se relativamente, sempre relativamente, perché non sarebbero cazzi suoi comunque. Sono cazzi miei e di Edie. E infatti: «Resto se lei vuole che resti», se lei vuole che resti. Solo se lo vuole lei, solo lei.

     
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    E' un altro fottuto sorriso che contrasta una serietà finalmente decente. Non mi importa un cazzo se saltano a piè pari la vera domanda che ho fatto, il fottuto modo in cui sono riusciti - devono averlo fatto in due - a spezzare il cerchio. Il mio cerchio. I Banditori sapevano, i Banditori sapranno anche adesso. Che in fondo credo sia solo stato facile. Complesso, doloroso ma veloce. Non ha impiegato anni a cercare soluzioni, non ha dovuto ricacciare indietro tutto ogni volta che si trovava ad un punto morto, né corrompersi per questo. Non ha perso quello che ho perso io, se poi la vita gli è tornata indietro anche nonostante tutto. Ha vinto, ha vinto ogni cosa.
    Non mi fido di nessuno dei due, non al punto di affidarmi ciecamente alle loro parole e non mi importa un cazzo che siamo in un ospedale, che lo facciano un passo falso verso Edie che poi ne parliamo.
    Però no, lo sento come in fondo sia solo il retaggio che ho io, la dipendenza che mi porta a dire come lei non sappia distinguere un buono da un cattivo, in fondo crede ancora che io appartenga alla prima categoria. Se lo impone.
    E' fiato, il mio, che si incastra addosso, fermo a ridosso del cuore, quando in fondo non mi importa delle parole di Caiden, anche se per un attimo lo guardo in quel "tu lo sai meglio di me" che gli lascio scorrere addosso. Che noi siamo fratelli minori e sappiamo bene cosa siamo disposti a fare per loro. Ma no, nessuna empatia, non siamo uguali in niente più di questo. Vorrei ricordargli che ad Edie ha dato della puttana, non molto metaforicamente l'ultima volta che ci siamo visti.
    «Resta perché è una tua fottuta responsabilità» questo mi esce dritto appena Morgan riprende a parlare, ma sono abbastanza bravo da non condirlo di quel ringhio che è d'uso ormai con lui. Ha rotto il cazzo con "faccio solo quello che Edie vuole" che non lo sa, Cristo non lo sa davvero mai. Io lo so.
    Per questo faccio due passi indietro, con calma, perché ha vinto. Io ho perso. Su tutto. Allargo le braccia, di poco, non serve niente altro se non l'allusione alla porta.
    Quindi vai Morgan, prenditi tutto ciò che ti serve, fatti la tua vita con lei. Io non posso davvero fermarti, non ho mai potuto farlo, posso solo sperare che ti renda conto che ha già sofferto abbastanza e che alla prossima stronzata sarò di nuovo qui con il fiato sul collo a ricordarti che non sei superiore a tutto.
    Ora so come voglio essere lasciato in pace, che queste sono cose che non direi davvero mai ad alta voce ma nella mia testa, cazzo nella mia testa sono un loop che non si spezza e no, non starò a guardarli incontrarsi di nuovo.
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    on vorrei, davvero. Non vorrei. Ma certe cose di me, non riesco a fermarle.
    Non vorrei perché ci sono persone, perché ci sono bambini intorno, perché c’è Edie ad una porta di distanza. Non vorrei perché è una di quelle cose che lo so, agli occhi di Caiden si accende come una lampadina e segnala crepe che sto cercando di nascondere.
    Sono paziente, spesso lo sono, ma adesso è più difficile esserlo.
    Adesso ho quella cosa che vive nei miei riflessi e mi dice solo di come non dovrei esserlo più. Che va bene. Va bene non fermarla. Va bene cibarla, lasciarla uscire a prendersi quello che vuole. Va bene continuare ad avere solo Lei, tra tutto, solo lei e basta. Solo lei che è così grandiosa e annichilente, che divora tutto e lascia dietro di sé solo terra bruciata.
    Quella cosa che vive nei miei riflessi e non voglio guardare.
    Non guardandola non la combatto.
    Non guardandola faccio finta che non ci sia, che sia rimasta lì e che non si sia risvegliata con me.
    Quella cosa, che è morta quando io sono tornato in vita invece.
    Ma non funziona così e lo so.
    Lo so perché sono tante le cose che ho cercato di lasciare indietro, e l’ho fatto ogni volta. L’ho fatto sul confine di un portale, l’ho fatto in una stanza di cui ricordo solo un dettaglio, l’ho fatto in Louisiana più di una volta.
    Eppure torna sempre tutto e torna così, ogni volta, sempre uguale.
    Torna con Lei.
    E non riesco a fermarla.
    Non ora.
    Non così presto.
    Mi serve un tempo che non ho e che non avrò mai, perché alla gente come me e come mio fratello, il tempo non è mai concesso. Il tempo è il lusso delle persone come Joshua, come Edie, che nonostante tutti i loro problemi hanno ancora quel lascito di normalità da tenersi stretti, lottando contro tutto per farlo sopravvivere. Era una di quelle cose che ho cercato di provare a Edie e tutt’ora, non so se l’ha capito.
    Il tempo, per gente come noi, è un desiderio irrealizzabile.
    E quindi scatto, da un’immobilità marmorea a un movimento secco, tagliente e lucido. Da zero a cento in un secondo.
    Sento una presa che arriva alle mie spalle e razionalmente so che è Den, ma non ci penso, il mio corpo non sa che è lui e non lo vuole sapere. Sento solo le braccia, sento la forza e non mi fermo. Prima diventi troppo difficile da sganciare mi sollevo con le spalle per portargli in basso i gomiti e aprirgli le braccia. Afferro un dito per torcerlo fino a quasi il punto di rottura così che il dolore mi crei l’apertura. Una gomitata scivola veloce, abbastanza forte da potergli mozzare un respiro. Sfruttando la spinta nello stesso movimento continuo in una frazione di secondo, cancello distanza verso Joshua. Il destro si piega nel tentativo di schiacciare in orizzontale il retro dell’avambraccio nella parte bassa del suo collo, mentre lo spingo contemporaneamente contro il muro con passi rapidi. Guido i movimenti destabilizzando il suo baricentro dalle spalle per arrivare a schiacciarlo contro qualsiasi cosa sia dietro; una pressione con il gomito destro alla destra, l’altra tirata al contrario con la mano sinistra.
    Un movimento unico.
    E solo se riesco a portare la presa la sinistra si ritira indietro a proteggere il fianco, braccio piegato, ma pronta a muoversi ancora se decidesse di sgusciare via.
    Nella mia testa esiste anche il seguito, consapevole che questa è una presa che mi lascia un fianco libero. Molta libertà, soprattutto perché non premo così tanto sulla sua gola come farei in un altro contesto. Non lo voglio davvero cercare di soffocare, ovviamente.
    Mi avvicino abbastanza con il volto da poter mormorare con lo sguardo piantato negli occhi.
    In un combattimento non lo farei mai.
    Sarebbe stupido.
    «Non dirmi mai più quali sono le mie responsabilità», non è lui che deve farmele notare. «Tirati fuori dal culo la mania del controllo e svegliati, Joshua. Niente sarà mai come ne hai bisogno, è inutile cercare di trasformare tutto nel modo in cui ti serve per sopravvivere», la mia voce si distende pacata tra un fiato e l’altro, cadenzati di una regolarità placida. «Smettila di pretendere e impara a resistere nella merda invece, come fanno tutti. In silenzio».
    Sarei tentato di bloccarlo così finché non mi dice che ha capito.
    Sono molto tentato di farlo.
    Di restare fermo e immobile a guardarlo finché non dice sì ho capito, intendendolo per davvero.
    Ma non lo faccio, perché anche solo questo è già troppo. Una piccolissima, minuscola parte di me, che in questo momento è sotterrata sotto tutto il resto, se ne rende perfettamente conto. Ma è minuscola adesso. Minuscola.
    Lo lascio andare invece con due passi che si fanno indietro. Con gli occhi che restano incollati ai suoi e la stessa identica immutabile espressione. In silenzio.

     
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    27.
    Finalmente. Sento la voce di Faust farsi distinta nella testa, ferma come una lama a cui non vede l’ora che Morgan si avvicini. Ringhia, ma di gusto, in quel piacere che è figlio di uno scontro rimandato nei muscoli troppo a lungo. Eppure io, questo, ad Edie non lo farei mai. Mi stavo arrendendo, avrebbe solo dovuto accettare di non avere sempre la cazzo di ultima parola. Ma è un Crain e nella loro genetica c’è anche l’essere delle teste di cazzo in pubblica piazza. Bello l’uomo che ami Edie, uno spettacolo. Non so apprezzare il gesto con cui suo fratello prova a bloccarlo, ne fare qualcosa che assomigli anche solo a ribattere. Divento di gomma. Certo da qui a sottomettermi ci vorrebbe molto di più perché è palese che nel dargliela vinta non mi sto neanche impegnando. Siamo in un fottuto ospedale, c’è Alice a cinque metri da me, Edie dall’altra parte di un vetro che facilmente saprebbe vedere, o addirittura sentire il tintinnio dell’armadietto sanitario la cui maniglia mi si pianta nella schiena. Non dico che non faccia male, dico che non è niente di rilevante. Da Slater ho imparato che il dolore risiede in ricettori nervosi, quindi posso spegnerli, posso assopirli e sciogliere i muscoli perché il piegarsi delle ossa sia solo accompagnato, come un passo un di danza, uno che punge in determinati punti ma niente più di questo. Io non faccio niente. Non ribatto, non assecondi la corruzione che si accende come fiamma nelle vene. Cazzo se brucia.
    So come tenerla a bada ed è l’unica cosa su cui mi concentro davvero, l’unica che mi spinge un ringhio più profondo solo per non trascinarlo con me nella dimensione ombra all’istante e liberare Faust e la maschera in tre secondi. Sostengo il suo sguardo in religioso silenzio. Nessun ghigno, nessuna parola solo un gigantesco “hai finito, adesso?” Che mi si incastra negli occhi. Stringo i denti, perdo il fiato, e andiamo avanti. Deglutire è faticoso ma non impossibile e potrei restare immobile con lui che preme in gola per interi minuti finché perdere il fiato non sarà fuori discussione. Il mio corpo ai suoi comandi finché non lo decido io, finché ribattere diventa obbligatorio. Non lo è: che mi spezzi le dita, che demolisca i muscoli, ora come ora non c’è orgoglio che sappia scaldarsi per questo. Per il suo essere una merda in ogni piccola cosa. E lo so, nel guardare solo lui, che se anche Edie stesse osservando, assistendo ad una stronzata del genere, saprebbe giustificarlo. Perché lui ha vinto, ancora, perché lui è quel di più che alla sua vita mancava e non avrei potuto darle io. Perché io devo andare più distante di così. Quindi si, anche se vorrei ridere di parole che neppure sfiorano quale sia il problema reale, non lo faccio. Non muovo un muscolo. Trattengo il sangue ma soprattuto fermo l’Istrice che è l’esatto motivo per cui una cazzata così con me non la farà due volte. Fermo gli aculei, il veleno, e tutta la brama che si insinua in Faust e scorre in me. Potrei fargli male, è una consapevolezza che mesi fa sarebbe diventata realtà, allettante, invitante. Ma no. Il totem è fermo come me. Nessuna paralisi per Morgan: un uomo fortunato.
    Solo che poi la vedo, Alice, preoccupata che ha smesso di fare quello che stava facendo per puntare dritto verso di noi, ed è solo per lei che distacco gli occhi da Morgan e li porto sulla figura minuta che tanto mi somiglia, con un mezzo sorriso che però resta serio. Ringhia, la bambina, ed è quasi un moto di fierezza il mio, anche se so che è serissima e non vuole che lui mi stia così addosso. Per questo le parlo.
    «Tout va bien.» Mi impongo, dolcemente.
    Va tutto bene, vero Morgan?
    Le dico questo, nell’unica lingua che conosce, quando lui molla la presa e - ma dubito - ritrova il buon senso. Sarebbe stato interessante se fosse passata anche un’infermiera, che per una cosa del genere ti possono interdire dal reparto.
    Ma no, non so appellarmi a nessuna vendetta. Non per debolezza, quanto perché non ne vedo un senso. Non c’è uno scopo quando Edie lo ama e portare avanti una guerra come questa, davanti a lei, è solo un modo per aggiungere dolore. Non potrei farlo. Ma no, non abbasso la testa, non sorrido, trattengo il ghigno e semplicemente mi ricompongo con calma, dalla maglia alla giacca, al polso che massaggio, sempre ricambiando lo sguardo che ha, anche quando Alice - che non ho convinto - mi si incolla addosso, in difesa. È un continuo dirsi le cose in silenzio. Ed io non mi muovo
    Ha una porta aperta, che vada. In compenso io non intendo voltarmi oltre la vetrata, ho bisogno di una cazzo di sigaretta e di togliermeli entrambi dalle palle molto velocemente perché la corruzione smetta di urlarmi nella testa cose che non devo fare. Che poi, davvero, non c’è battaglia che tenga, non mi ci sono neanche impegnato.
    Non vale il dolore che leggerei negli occhi di Edie.
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    12.
    Hai accompagnato Josh in ospedale perché sei curiosa di vedere com'è che vengono al mondo i bambini. Specie in un mondo in cui non ne hai mai conosciuti altri: Che gli amici dei tuoi erano impegnati a combattere per la causa, non a portar avanti la propria specie, il loro retaggio culturale. Sei arrivata con le tue migliori intenzioni. Hai lasciato che Josh poggiasse come di consuetudine la mano al centro della tua schiena e ti spingesse dentro. Hai creduto di poter tornare a respirare quando mettendo un piede lontano da lui, poi lo hai lasciato accompagnare da altri ed hai stipulato una certa distanza ritenuta da te stessa accettabile. Che parlando con le altre persone ti sei premurata di tener comunque un occhio in sua direzione. Per essere certa che non se ne andasse, né che si facesse tanto vicino da toglierti l'aria. Una via di mezzo, ti sei detta, un po' come fai quando torna da Chrys e per non vederlo te ne resti a giocare con Judas tutto il tempo. Che la sola visione ti fa piangere, ti destabilizza. Ed è un dolore che Josh non sa comprendere, non vuole accettare. Perché non è stato lui a perdere se stesso, sei tu che pur guardandolo non riesci a ritrovarlo. Non c'è tuo padre nei suoi occhi ma un uomo che gli somiglia terribilmente, così tanto da costringerti a restare. A metter radici a qualche metro di distanza da lui.
    Ma lo hai tenuto d'occhio. Lo hai fatto nonostante la signora Millicent ha continuato ad offrirti caramelle per comprarsi la tua attenzione. Lo hai fatto fino a che non hai sentito i piedi scattare ed è stato come la prima volta che hai viaggiato: Che sei sparita da casa tua ed hai riaperto gli occhi in un posto che ancora oggi non conosci. Ed è stato come quelle notti in cui ti svegli sudata, tremante, che non sai dormire senza ripensare a Mordin che si dimena appeso alla sua corda. Non sai come non ricordare il volto che aveva tuo padre quando tua madre ti ha lasciato sporgerti dalla bara. Era così pallido, così freddo. Un po' come le pareti di questo ospedale. Un po' come il letto, quando non c'è Josh a socchiudere la finestra.
    ''Non, va-t-en!'' Lo hai raggiunto in una falcata, puntando l'uomo che l'ha sorretto contro il muro ed immagini l'abbia fatto nel medesimo modo in cui l'ha fatto Mordin prima di ucciderlo. ''Tu ne dois pas toucher mon père!'' No, non deve. Non devono toccarlo, ferirlo, portarlo via da te. Non quando lo hai trovato o almeno, hai trovato ciò che potrebbe essere. Un ricordo che si sbiadisce meno velocemente. Una fotografia sempre più nitida di quei giorni che non puoi più riavere, ma che ti figuri, li accanto a te, in pugni che serri quando ti fermi davanti all'uomo con i baffi e lo fissi. Lo fissi digrignando i denti come se volessi saltargli al collo per morderglielo. Come se volessi davvero fungere da barriera per Josh. ''Non, ce n'est pas bon...'' Ti rivolgi a Josh e lo dici aprendo una mano, ma solo per stringerla nuovamente attorno ad una delle sue dita.


    1. No, vattene!
    2. Non devi toccare mio padre!
    3. No, non va bene.
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    Vorrei dire che questa è una cosa che posso aspettarmi, ma non è vero. Non me la aspetto, non sono preparato ad uno scatto che vedo nella coda dell’occhio. La vedo solo quando succede e basta, e neanche un secondo prima. In un certo senso, mi fa pensare al discorso che abbiamo fatto ieri, prima di tornare a New York. E in fondo, sinceramente, non è che mi aspettassi davvero che sarebbe stato semplicemente tutto okay. Morgan è morto. È morto. Letteralmente, e non così per dire. Morto, e poi tornato. E i morti non tornano. Se lo fanno, sono diversi, in un'altra forma, non sono più gli stessi. Lo so, e l’ho sempre saputo, fin da bambino, ancor prima che Morgan arrivasse. Eppure no, non me lo aspetto un movimento che diventa uno scatto nel corpo, e mi fa muovere per cercare di bloccarlo. Se non fosse che sono abituato, invece, a reagire in fretta, se non fosse che ho spinto sui miei riflessi il più possibile quando ho deciso che prima di tutto, sarebbe stato il coltello la mia arma, non penso che ci sarei riuscito. Siamo vicini, sì, ma anche Josh è vicino. E io sto pensando a troppe cose che pensieri non lo sono, ma quasi solo impuntarsi mentali che alla fine, non vanno da nessuna parte. Penso anche al fatto che sì, siamo stati chiusi in un punto da soli per un mese. Penso anche a che peso abbia, per noi, la parola responsabilità. Molto più che per tante altre persone, e anche tanti altri Cacciatori. Perché è stato Alan Crain a crescerci, ed era l’unica cosa che importava questa: responsabilità. Alla fine, penso anche che semplicemente, Josh non potrà mai capire davvero me o Morgan, e noi non potremo mai capire lui. In un modo che ora è lampante, e che nelle parole di Joshua mi fa vedere solo quanto non conosca mio fratello. Neanche un po’. Ma anche questa, non è una cosa che mi aspetto dalle persone. Che lo conoscano, che sappiano, che possano comprendere. Non me lo aspetto, non lo faccio mai. E infatti, era questo il mio compito. Non spiegare, ma fare in modo che non fosse necessario farlo. Solo che adesso è difficile, è complesso, e ci sono talmente tante cose, in ballo, che non si può semplicemente schioccare le dita e aspettare che tutto vada bene. Penso anche a quello che ho detto a Josh, e che anche se è stato partorito da una contorsione che si è stretta nella mia testa, resta una cosa vera. Morgan è morto per sua sorella, letteralmente. Di responsabilità, se ne è preso anche troppe. Come sempre. E sì, lo so, lo so che molto di questo sono io che Sangue o non Sangue, sono sempre in prima linea quando si tratta di lui. E penso che per Josh sia lo stesso, esattamente lo stesso, con sua sorella. Penso anche, che Morgan di tutto questo se ne pentirà, ed è anche per questo che mi muovo e cerco di fermarlo. Ma penso a troppe cose, e sono stato fermo troppo a lungo, ed è anche difficile abituarsi ad avere di nuovo un corpo normale. A premere lì dove, per un anno, mi sono insegnato a trattenere. Arretro quando perdo il fiato per la gomitata, muovendo qualche passo traballante che mi allontana da mio fratello, e me lo fa scappare dalle mani. Mi rialzo solo dopo, passandomi una mano fra i capelli e lasciando andare un sospiro. Penso che non era questo il momento, per molte cose. Molte davvero. Lascio andare uno sguardo su Morgan, e poi su Josh. E onestamente, no, non era il momento per niente di tutto questo. Adesso, era il momento per tante cose diverse. Magari un momento per stare solo zitti, e rimandare tutto a dopo. E poi, e poi onestamente non so neanche cosa cazzo succede, o perché ci sia una bambina che si attacca a Joshua e se ne sta lì, a dire cose che tanto non capisco. «Non è il momento» questo lo dico a tutti e due, davvero. Non lo è e basta, e non lo è stato mai, neanche per un secondo. E capisco Josh, ma non stava né a me, né a lui mettersi in mezzo. E capisco Morgan, ma questo non va bene lo stesso. Quindi no, non era il momento. Però sposto gli occhi su mio fratello, in una frazione, solo per dirgli con quelli che, insomma, è tutto okay. Per me almeno. «Nessuno è qui per questo, andiamo» “andiamo” che è più un modo di dire, abbastanza elegantemente, un onesto e che cazzo.
     
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    on è il momento.
    La nebbia si dirada.
    Succede sempre quando finisce tutto e mi ritrovo in un punto, con la catastrofe che si è già agitata intorno a me.
    Si dirada e riesco a vedere.
    Il mio problema, contrariamente a quello di Joshua, è che non sono un cane che abbaia.
    Io sono un cane che morde, senza tanti mezzi termini.
    Questo è quello che succede quando un atteggiamento viene tirato su con l’unico scopo di spingermi a quel punto. Vorrei dire, e sarebbe più facile per non dovermi prendere certe responsabilità, che sono caduto in questa manipolazione pure non troppo sottile, ma la verità è che è tutta farina del mio sacco il modo in cui gli sono saltato addosso.
    Lui ha provocato è vero, forse per dimostrare un punto, forse solo perché è un bambinetto del cazzo, ma io ho risposto. Ho risposto nel solo modo in cui sa rispondere la mia rabbia quando si alza e annienta qualsiasi razionalità, e mi fa dimenticare che non sono su un campo di battaglia.
    Mi fa dimenticare che magari, sono in un ospedale. Con della gente vicino. Con una bambina vicino. Rispondo proprio come se fossi ad un passo dalla morte.
    Però quando la nebbia si dirada dopo uno di questi scoppi, finisco a vedere ancora meglio di prima.
    Ho sempre dato a Joshua il beneficio del dubbio. Mi sono impegnato per non accettare come realtà quegli atteggiamenti che vedevo palesi nelle loro intenzioni più meschine.
    Non l’ho fatto solo con lui.
    Eppure, probabilmente è l’inferno che mi ha aperto gli occhi.
    Anche io volevo aggiustare le cose, come Den. Ma certe cose, vale solo la pena di guardarle auto-distruggersi senza alzare un dito per provare ad impedirlo. Ho sbagliato a fare il contrario con Joshua prima di morire. Ho sbagliato a pensare che uno come lui potesse essere salvato. Qui non c’entra niente la Magia Nera o la Corruzione, o Slater.
    Ci sono persone che sono mostri anche senza avere niente di mostruoso nel DNA.
    E io lo so.
    Lo so molto bene.
    Non so chi sia questa bambina e non capisco il francese, quindi non capisco un cazzo di quello che mi sta dicendo ma non serve. Capisco qual è il punto. Tengo gli occhi basi su di lei e capisco, e vedo. Vedo me riflesso in quello sguardo e capisco.
    Non cambia quello che penso su Joshua, ma capisco.
    Capisco che qualcosa nel mio cervello non sta funzionando come dovrebbe da quando sono tornato. E quella cosa. Quella cosa, allora, è davvero tornata insieme a me.
    Lo sapevo che c’era una bambina.
    Nessuno è qui per questo..
    Una parte del mio cervello pensa a quanto dev’essere contento Joshua per questo, per starmi guardando essere quello che sono: un mostro. È vero, per motivi che neanche può immaginare. Che nessuno potrebbe immaginare e che invece, sono nei ricordi di un inferno che non mi ha mai lasciato andare.
    Ma in questo, siamo uguali.
    Assassini.
    Mostri.
    Alla luce di tutto questo, e di tutto il senso di colpa e il disprezzo per me stesso, sono sicuro che tutti converrebbero nel dire che dev’essere tanta la merda che vedo in lui. Sarà che guardarlo permettere ad una bambina schierarsi tra lui e qualcun altro, senza buttarla subito sul gioco e farle credere che questo era, solo un gioco, mi fa venire il voltastomaco.
    Dopotutto, è sensato. Credo che gli importi di più farmi passare per la merda che ha sempre pensato che fossi, piuttosto che ricostruire la situazione agli occhi di una ragazzina con cui ha palesemente un legame.
    Mi impongo un’espressione del tutto diverso sulla faccia, un sorriso che non vacilla. Un sorriso perfetto, come solo quelli non del tutto reali possono esserlo. Ma lo sembra. I miei sorrisi sembrano sempre reali, perché è una vita che li faccio. È una vita fatta di sorrisi perfetti, la mia. «Ehi tranquilla», sorrido a lei. Alla bambina che mi guarda come guardavo io chiunque si avvicinasse con cattive intenzioni a Den, per esempio, quando eravamo piccoli. «Stavamo solo giocando. Vero, Josh?», guardo lui e continuo a sorridere anche se nella mia testa passano immagini del tutto diverse.
    Spero che recepisca il messaggio, Joshua, e che traduca o che le dica il cazzo che vuole, basta che non lo faccia diventare un fottuto problema per lei.
    Riprendo a camminare, mi fermo accanto a mio fratello per solo un momento, di lato.
    Lo guardo in tralice. Non so neanche quanto male gli ho fatto. Non credo tanto ma insomma, il punto è che l’ho fatto. Lo guardo e come io capisco, spero che lui capisca, anche senza bisogno di dirlo, che mi dispiace. «Torno fra dieci minuti», aspetto che mi faccia un cenno qualsiasi o dica qualcosa, prima di riprendere a camminare per cercare un bagno per i visitatori.

     
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