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Vivianne/Horace | 14 Aprile | Sunset Park

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    «Hai detto che potevo… chiamare quando volevo… no?»
    Mi passo una mano sotto il naso tirando su, stringendo il telefono contro l'orecchio. Rabbrividisco perché il pavimento è freddo e mi sento davvero debole.
    Non ho cenato un cazzo. Non capisco nemmeno come sia cominciata la cosa. Probabilmente ero stanca già di mio, con i nervi troppo scoperti, e allora una singola cazzata, come i barattoli di zuppa che si ostinavano a cadere dal ripiano facendo cadere tutto il resto qualora provassi a spostarli a forza più in là, mi hanno innervosito a tal punto da voler spaccare ogni cosa, mandare tutto a fanculo. E a quel punto si è aperta la voragine; "e allora non mangio", così per dispetto a me stessa, che quello mi viene facile, che con qualcuno ho bisogno di prendermela e i barattoli di latta non sono abbastanza cedevoli da poter prendere a schiaffi e cazzotti come un sacco da pugilato.
    "E allora non mangio, non rimetto a posto niente, non vado nemmeno a letto, non dormo", così, per odio a me stessa.
    «Senti.»
    E no, non ho chiamato nessun altro, forse perché Horace non mi conosce abbastanza ed io non conosco abbastanza lui per permettergli di fare ciò che vuole con me, alzare la voce soltanto perché si sente in diritto di farlo e perché ha ragione di farlo, così come potrebbero farlo papà, o Cam, o Aalia. Soltanto perché so che potrei non cedergli, non dargli retta. Perché sono talmente arrabbiata con me stessa e con tutto che non voglio nemmeno che mi si dica cosa debba fare, non voglio nemmeno sentirmi dire con necessaria durezza che "devo rimettermi in piedi", che devo "finirla di fare queste scene perché tanto non risolvo niente". Che devo smetterla. Che non mi aiuto.
    La parte più difficile.
    «Puoi venire qui? Tanto lo sai già da te dove sto, no?»
    Quella più difficile ancora.
    «Io… non posso starci da sola adesso.»
    E poi riaggancio. E allora si riapre la voragine, forse tamponata solo dalla necessità di non suonare così sconclusionata al telefono, solo per mettere insieme due parole che insieme avessero un senso compiuto. Non per altro.
    Ho chiamato lui, anche se avrei voluto rimanere da sola, e allora questa resta l'unica cosa che sono in grado di fare per me stessa. Forse perché è la cosa più vicina a Lucian che mi resta, e allora, ne ho bisogno. Ho questo disperato bisogno di Lucian adesso. Vorrei dirmi che non è così, ci provo tutti i giorni, ma sento che stasera non va, non funziona e io mi sento semplicemente disperata di fronte all'evidenza. Quella che non tornerà, che non aprirà la porta di casa con le chiavi che gli avevo lasciato. Che non tornerà più e basta, che non c'è più, che tutto quello che era adesso sono solamente ossa. Che all'improvviso gli è stata tolta la vita. Così. Se si fosse ammalato sarebbe stato meglio. Se gli fosse venuto chissà quale morbo a consumarlo da dentro sarebbe stato forse meglio, perché avrei avuto il tempo di sapere che se ne stava andando. Non lo avrei accettato, quello no, ma avrei saputo scegliere i tempi per dirgli addio, avrei potuto guardarlo sapendo quando sarebbe stata l'ultima volta. Avremmo potuto fare ancora così tante cose.
    Lascio pure la porta aperta. Da un lato perché, vorrei dirmi, che non riuscirei nemmeno a sopportare di guardare Horace in faccia e dirgli che, prego, può accomodarsi dove vuole, vuole forse qualcosa da bere? Davvero si accomodi.
    La verità è che non mi sento nemmeno la forza di rialzarmi poi per andare ad aprire e guardare in faccia la persona che ho chiamato qui così, senza preavviso, senza senso probabilmente.
    Così finalmente sarà contento di sapere che ho ceduto.
    Ma chi se ne frega, non me ne frega un cazzo adesso. Tanto non gliela sto decisamente dando vinta, sotto nessun punto, direi, perché non sto andando avanti, e perché di certo non l'ho chiamato per parlare. Non riesco nemmeno a mettere insieme i pensieri da me. Forse gli sto solo dando occasione di assistere a una persona che crolla e che potrebbe fare qualcosa di stupido. Ma è una mezza stronzata pure questo, non ho la forza nemmeno di alzarmi da terra, seduta sul pavimento del bagno di fronte al lavandino, con la testa tra le ginocchia e il sangue che mi va tutto alla fronte e gli occhi che premono sulle orbite e allora mi fa male tutto il capo.

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    "Arrivo. Parto adesso" ma credo che tu abbia riattaccato prima che finissi, e penso sia la sola cosa che vuoi sentire, come avrei voluto sentirla io. Che forse non ho trovato una famiglia finché Princip non me ne ha data una, ed allora Detroit è stata la salvezza, una salvezza che arrancava nella merda ma li ho capito.
    Lo capivo quando Lucian entrava e ci lasciava tutti in silenzio, quando ogni stronzata prendeva un peso diverso, gravava suo nostro legame. Come un peso, ma di quelli belli, che non si fa sul serio quando si dice di volerseli togliere di dosso. Perché poi senza di loro la leggerezza è un vuoto incolmabile. Allora io le cose le devo fare. Perché le ho promesse, perché voglio, perché in questo periodo non capisco un cazzo neanche io ed ogni strada è vicolo circo che finisce in mare.
    Ho rubato qualcosa l'altro giorno che mi porterà da te poi velocemente e cazzo se Ben mi odierà. Adesso forse più di ieri. Più di quando mi ritiene un patetico sentimentale, uno legato solo alla nostalgia di tempi lontani. Forse per lui sono ancora troppo stupido.
    Vengo via con quello che sto indossando, senza pensare alla macchia d'olio secca sulla maglia o quell'alone di sangue lavato male che ormai fa parte dei jeans.
    Non ci ho pensato due volte neanche per riflettere sul cosa dirti o tenerti a distanza, e non voglio neanche farlo. Lo so com'era quel tono quando ho dovuto farmi coraggio fino a bussare ad una porta che mi ha fatto solo guadagnare il disonore. Ecco che cosa mi resta di Joseph; il disonore. E più o meno - ora che Grace non è più qui - è anche ciò che continuo a vedere negli occhi di Ben. Tanto che esco senza dirgli un cazzo, io me la sbrigo con un andarmene prima che rientri, dando per dovere il turno ad Otto. È un bravo ragazzo ma dovrà resistere poco senza che Ben torni a prendere la guardia. Non dovrei lasciare il Nido, ma Lucian voleva questo più di quello che ho fatto per te fino ad adesso: quasi nulla.

    E, che sto entrando in territorio altrui è palese. Lo sento dal profumo atroce che ha questo parco. Un miscuglio di droga e sesso e rimanticherie. Adesso anche di pioggia. Pioggia e asfalto bruciato di corsa per arrivare fin qui, Vivianne. Ma non mi fermo davanti a niente, seguo la tua scia a costo di farmi il parco di corsa, le scale a poi mandate con due falcate e rallentare quando la porta è aperta.
    Cazzo.
    Mi muovo quasi in silenzio, osservo io tuo scempio. Tendo i muscoli, la pelle si solleva, in allerta, ma ci metto ancora meno a capire che qui non c'è nessuno. Nessuno che abbia provato a farti del male, solo tu e l'odore tiepido del sangue.
    Chiudo la porta, ma senza far rumore, come cerco di non pestare troppe lattine.

    "Ehi, campionessa...?" Solo il tono della voce più alto perché tu mi senta. "Ho chiuso la porta, ma solo perché preferisco le feste con meno gente..." altri passi, solo perché tu sente la mia voce ed a quella possa collegarti.
    Tutto quello che pensi adesso, è normale. È normale per il dolore che si prova, che tutti noi proviamo pur tenendo a Lucian in modo diverso. Non pensavo mi avresti chiamato, non sono un asso in queste cose, faccio solo del mio meglio.
    Come quando mi chino sulle ginocchia portando con me un asciugamano dal lavandino. Te lo porgo, osservo come il sangue macchi piano le dita.
    Abbasso il tono ma non c'è un briciolo di pietà, te lo posso giurare, solo onesta preoccupazione. E qualcosa di caldo sul fondo.
    "... una lotta feroce, vedo" sospiro.
    "Hai voglia di alzarti o restiamo seduti qui?" Dolce, piano, quasi a formulare troppe promesse. Perché questo forse l'ho imparato.

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    Edited by nocturnæ - 25/4/2023, 16:29
     
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    La voce di Horace rompe il silenzio. Lo sento da che chiude la porte, perché in questa casa c'è silenzio, ce ne è veramente troppo. Ma riconosco subito i passi estranei, non c'è rischio che la mia disperazione li confonda e li associ a quelli di Lucian. Una dannazione e una salvezza ricordarseli così bene in fondo.
    La sua voce rompe il silenzio, e non è così ovattata e distante come quasi avrei voluto che fosse. Non l'ho chiamato per fare due chiacchiere, per risollevarmi un po' dalla mia miseria, già solo per finta, per forma. Non lo so alla fine perché l'ho chiamato. Probabilmente è solo inutile, è solo frutto del mio innato egoismo per cui, ad un certo punto, finisco per pretendere cose dalla gente, credendo di poterlo fare, di trovarmi nella condizione giusta, nella necessità per poter pretendere, sì, dagli altri. Ma non è mai vero, non importa quale sia la situazione, è sempre scorretto imporre le proprie decisioni agli altri.
    Quindi non lo so cos'è che potrei offrire stasera qui ad Horace se non questo, se non una che non ha nemmeno voglia di alzare il capo quando finalmente vedo, tra lo spazio delle ginocchia e dei piedi, le sue scarpe, quando sento il suo respiro sopra il mio collo.
    Però poi intravedo l'asciugamano, non lo capisco, fino a quando non riprendo sensibilità alle dita e sento qualcosa di appiccicoso e bagnato.
    Rizzo allora il capo veloce - da far girare la testa - tra una coltre di capelli troppo lunghi e troppo arruffati, bagnati dalle lacrime che mi hanno gonfiato gli occhi e tutto il viso. Mi guardo le mani e vedo il sangue.
    «Cazzo.»
    Non mi sono nemmeno accorta di essermi fatta così tanto del male. Non mi sono accorta nemmeno del sangue, che forse a star a capo così chino, è fluito più velocemente alla fronte. Non mi sono accorta di niente, nemmeno del dolore: quello non mi sembra proprio di sentirlo, nemmeno adesso che ne sono cosciente.
    Forse è stato uno dei barattoli quando è caduto, proprio quello che mi è caduto in faccia e mi ha fatto scattare i nervi. O forse no, forse proprio quando il barattolo è caduto e io ho perso la pazienza, ho sbattuto, stringendo i denti per la rabbia, la testa contro l'anta del pensile aperto. Forse pure quasi volontariamente. Devo essermela presa con il pensile per non voler tenere quei stracazzo di barattoli su quello stracazzo di ripiano troppo stretto.
    Comincio a tastarmi la fronte alla ricerca del danno, per capirne quantomeno l'entità.
    «Porca puttana. Cazzo.»
    Che al momento pare non esserci nient'altro nel mio vocabolario, nient'altro che non siano parolacce sulla bocca di una bambina.
    Però cazzo davvero. Che se riesco ad aprirmi la fronte senza nemmeno accorgermene allora, non scherzo, sto veramente perdendo lucidità. Non è solo un pensiero, è quando non mi accorgo nemmeno se e quanto mi stia facendo del male. È quando neanche provo più il dolore, è qui che diventa pericoloso. E allora forse no, forse da sola non posso davvero starci e per qualche strano sesto senso ho avuto ragione a chiamare Horace.
    Sento il bisogno di alzarmi per guardarmi allo specchio, non per altro. Forse è più un'urgenza, perché se non fosse stato per quello me ne sarei rimasta lì, seduta sul pavimento. «Mi alzo.». Mi sento così male, come se avessi una grande febbre addosso, e provassi brividi ovunque, la pelle fragilissima, i muscoli a pezzi.
    Mi rito su contro il muro, e lo sento tutto il freddo della piccola stanza.
    Mi guardo allo specchio: un rivolo di sangue mi scende dalla fronte, vicino all'attaccatura dei capelli, e si ferma al sopracciglio. Non è copioso, ma è decisamente abbastanza.
    «Oh. Bene.» è un sussurro, mentre abbasso lo sguardo verso l'asciugamano e lo prendo da Horace mimando con le labbra un silenziosissimo grazie.
    Apro l'acqua al rubinetto, ma mi fanno male gli occhi, mi viene da strizzarli forte per mettere a fuoco la mia immagine allo specchio.

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    "E ora ci stiamo alzando" lo mormoro e basta, mi piego sulle ginocchia, mi rialza dandoti spazio. "Va bene..." vanno bene tutte le imprecazioni che ti escono, che si formano nella testa come un circolo vizioso di voci spezzate. E' colpa di mia madre se ho ancora il concetto che una donna non dovrebbe imprecare così tanto, ma in questo caso va bene, purché ti distragga senza dissanguarti. Per questo la mia voce la modulo in un sussurro, quasi aspirato, ma che non ti tolga la forza che hai nel rialzarti. Come quella che uso io per stare almeno una spanna più distante del solito. Perché questo mi serve ora, che l'odore del tuo sangue è già nelle narici.
    E' dolce e disperato, e non va bene che mi dia alla testa, non se da Princip e da Lucian ho imparato a controllarmi, a tenere a freno gli istinti tranne quando serviva che uscissero in ringhi ed ossa spezzate. Non ce lo vedo qui il wendigo, qui dentro casa tua, a farsi largo per tre metri d'altezza su pareti tanto fragili.

    Non mi offro ancora come stampella, non compaio nel tuo specchio come l'ombra di qualcosa di spaventoso, che poi è sempre stato il mio secondo lato, quella versione di me che non vogliamo mai che esca, quella che ricaccio già ed ho avvolto nella tristezza. Perché io non volo più ma non voglio che smetta di farlo tu. Tornerai a fare tutte le cose che facevi quando c'era Lucian e cazzo se le farai anche meglio, te lo posso giurare, Vivianne. Costi quello che costi, l'ho promesso a mio fratello. E penso che Ben ti abbia detto anche chi era per noi.

    Con la schiena ancora appoggiata alla parte, vicino alla porta, scuoto la testa. Ma solo perché non c'è nessun "grazie" che abbia bisogno di essere espresso. Sono qui perché mi hai chiamato e sono qui perché immaginavo che prima o poi l'avresti fatto, ecco. Non sono contento di aver avuto ragione, io non lo sono mai, preferisco sbagliarmi. Preferisco che mi diciate tutti che mi preoccupo per niente, che non so prevedere le cose per bene o fino in fondo.

    "Sei ti siedi un attimo, posso pensarci io, ad occhio sono tre o quattro punti, a vivo come si fa con i veri pugili-" che non sai quanto cazzo mi costa dirlo, perché il tuo sangue è davvero invitante, come se lo stomaco borbottasse, affamato. Anche se io i confini li conosco fin troppo bene.
    "Non perché tu non sappia farlo da sola, giuro, solo perché magari non è la serata per prendere in mano un ago... mh?" Te lo indico, il water su cui sederti e stare un attimo ferma. Fermati, Vivianne, va bene se non lo fai da sola, va bene se qualcun altro per una volta si muove al tuo posto. Dimmi solo di si.

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    Non sono una bambina, e che cazzo...
    Ma lo penso soltanto, non si riesce neanche a cucire come mormorio sulla bocca inaridita. Anche perché è solo una reazione simile più al residuo di uno spasmo di rabbia. Non verso di lui, lui in questo caso è solo un bersaglio facile solamente perché è a portata di mano e vicino abbastanza per sfogarmi su di lui. Verso di me, sì, sicuramente. Anche perché mi ci ritrovo io così. Anche perché, pure che cerchi di non pensare a Lucian, di fregare il mio cervello e convincermi che non valeva così tanto per me, che posso accettare la parentesi che si apre e che si chiude, tuttavia è evidente come io non riesca da me a gestire questa cosa. Provo a staccare il cervello, a tenermi fuori dai miei pensieri, e quando lo faccio mi apro la testa a caso. Senza poi contare questo ago che mi punge e che si chiama vergogna. Perché per pretendere di resistere ho pure pensato che sarebbe stato giusto e saggio appellarmi a quel lato duro e irreprensibile di papà, nel quale si chiude, come armatura, quando sta per arrivare l'onda altissima e violentissima: e allora diventa roccia. Ed io invece non ci riesco, ho la pelle tutt'altro che dura. Mi basta guardarmi, che ancora non ho capito come abbia fatto ad aprirsi così, con così tanta facilità, senza che io sentissi quasi il minimo male. Oh, forse allora ho messo in pratica un'altra lezione di papà, quella dell'alienazione di fronte al dolore, quella che alla fine ti permette di andare avanti ignorando le ferite, al punto di non sentirle più. Già, mi piacerebbe quasi che fosse così, ma non credo di potermi vantare di niente, perché non penso di aver messo in pratica proprio un bel nulla.
    Horace rientra nella mia testa nel momento in cui parla di nuovo. Alienarmi nei pensieri, quello si invece, mi viene piuttosto bene. Non mi va di dimenticarmi che sono stata io a chiamarlo qui, che ho una responsabilità anche per questo, e che lui si è scapicollato qui correndo dietro ad una cogliona che ha preteso di non voler rimanere da sola. Beh, forse non dovrei rimanere da sola, no, ma non è comunque giusto che lo renda responsabile delle mie stronzate.
    «Guarda che posso...» pensarci decisamente da sola. Che mi basta veramente poco. Mi basta poggiare due dita sulla ferita e lasciare che le doti del caro Pelor facciano da sè. Del resto si tratta del mio mestiere, no? Lui per primo è lì che è venuto a cercarmi, a Sacred Heart Hospital, dove avevo detto a Lucian che sarei arrivata, dopo tutti quegli anni al Brakebills. E poi alla fine ce l'ho fatta, e lui ha fatto giusto in tempo a vederlo, a vedermi caricare il mio nuovo zaino in spalla - perché giustamente andava inaugurato il nuovo capitolo e cambio di destinazione - e uscire di casa con la speranza di riuscire ad orientarmi abbastanza dentro quel posto. Nella speranza di trovarmi nel luogo giusto, di aver fatto la scelta giusta in tutti quegli anni di accademia, nonostante il casino. Vorrei soltanto dire che aver aperto la milza ad una povera cassiera del Bronx mi ha reso abbastanza sicura della mia vocazione. Già, lui ha fatto in tempo a vedere solo quello, solo l'inizio, e poi basta. Poi è morto. E allora questo cominciare cose nuove ha preso un taglio ancora più netto: la vita è cambiata tutta insieme, troppo bruscamente, e allora la Vivianne del Brakebills è rimasta al di là di un preciso margine nella linea di questa storia, e questa nuova Vivianne prosegue da allora, da quel punto, totalmente differente da quella ragazzina che si viveva i suoi problemi e i suoi drammi, ma che la contentezza provava a trovarla, come si cercano e si passano al setaccio i sassolini sulle rive dei fiumi. Cazzo, se non mi sembro più io quella persona. Non c'è stata una evoluzione, assomiglia, sì, decisamente di più ad un taglio. Di là c'era Lucian e di qua non c'è più. Sì, non può che somigliare ad una frattura.
    Posso pensarci da sola, sì, potrei. Ma allora non so cosa di preciso mi fa trattenere le parole.
    «Va bene.»
    Sconfitto, ma non completamente.
    Gli indico uno dei pensili del bagno dove ci tengo il kit di pronto soccorso, e mi siedo stringendomi nelle spalle.
    Farà male, quello probabilmente sì adesso che ne sono cosciente, e tuttavia decido di non evitarmelo. Sconfitta, ma non completamente. Probabilmenet c'è pure del masochismo. Come se, in fondo, stavolta desiderassi davvero sentire l'ago, sentire un male reale. Forse per risvegliarmi, forse per sentirlo e basta e farmi cucire insieme anche i pensieri.

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    Sul lavandino c'è ancora una goccia di sangue, neanche mi accorgo di fissarla in questo modo. Sono abituato a sentirne già il sapore sulla lingua, a percepire come i denti e le gengive facciamo male, si urtino gli uni con le altre per trovare spazio. Per mordere aria. Perché questo è l'istinto che mi tiene vivo, e credimi è molto meglio così, sempre sul filo del rasoio, piuttosto che anestetizzare ogni cosa e non sentire più nulla.
    Ero abituato anche a quello, a tapparmi le orecchie e respingere i senti perché non ci fosse mai niente a distrarmi. In volo eravamo solo io ed il mio SR-71. Certo finché la voce di Joseph non mi raggiungeva all'improvviso, lasciandomi a volte anche senza fiato.
    Ma tutto questo finirà come la goccia di sangue, scolata via dall'acqua che apro perché la ripulisca.
    Prendo fiato senza dire ancora niente, immagino - e mi divertirebbe se non sapessi quanto male stai - che tu stia lottando con te stessa adesso, almeno quanto basta a dire che potresti cavartela da sola e che il mio aiuto non ti serve.
    Infatti, per cosa sono qui?

    Evidentemente per aprire il tuo kit medico, stringere trai denti il filo imbustato e tirare fuori l'ago sterile. Già un passo avanti, al campo usavamo l'accendino per sterilizzare ogni cosa. Come se rischiassimo di più il tetano di un proiettile in fronte. Stronzi spaventati, ecco cos'eravamo. Ma... ma questo non lo so, mi esce e basta, nel guardarti e farmi appena più vicino.
    "In Afganistan non avevamo queste bellezze" mi passo l'ago tra le mani, ma tentenno se mi devo avvicinare con il pollice alla tua fronte. Non voglio toccarti così, Vivianne, non quando trai capelli c'è ancora del sangue. "Tienili alti, per favore, e farò veloce"

    Veloce, si. Come mi hanno insegnato. No, è una stronzata, io ho imparato sul campo, dove l'urgenza veniva prima dell'igiene. "Non assicuro per la cicatrice, ma se vuoi dopo mi azzoppo, così potrai dire che l'altro era preso peggio" è un soffio, quando nel farmi più vicino, tengo bene saldo l'ago, e infilo il primo buco di almeno cinque splendidi passaggi di cucito.
    "E se ti faccio male-" fermami? Grida? Dimmelo? "-sopporta"

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    Linguaggio scurrile.






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    «Ma porca di quella troia! Ma Afghanistan un cazzo!» sbotto di getto, di brutto, quando l'ago buca la pelle la prima volta. E poi di nuovo un brivido di freddo, come una scossa, come l'alta tensione, mi ripercorre la spina dorsale, e allora lascia sulla bocca solo un mormorio lamentoso, un borbottare determinato dall'improvvisa immobilità a cui non mi ero preparata e alla quale il bucare della fronte così dolorante mi costringe tutta insieme adesso. Come se veramente avessi la testa presa all'amo e anche il peso dei pensieri andasse tenuto in bilico, in equilibrio, per non spostare troppo le masse e slabbrare il tessuto della fronte laddove l'ago è già passato e ci ha lasciato il buco.
    Ma me lo sono scelto io, e non torno indietro. Forse per ripicca a me stessa, forse solo per avere il pretesto di dire tante parolacce tutte insieme, di vomitarle tutte, di legare insieme ad esse, di nascosto, piccole parti di rabbia da lasciar così uscire, come attaccate alla pancia di un insulto che serve solo come vello per celarle.
    Dura poco però, perché è una sensazione strana, forse un po' pure mi rimanda alla mia infanzia, a quelle ricuciture fatte con attenzione, specialmente da papà, e allora sì che bisognava restare immobili. Rimanendo ad occhi chiusi, pur di non rischiare di vedere il senso dell'errore rompere la sua espressione perfettamente dura e concentrata.
    E allora anche ora, dopo minuti a masticarmi quel borbottio, fino a che anche quello non diventa prima pensieri e poi semplicemente silenzio, finisco per rimanere ad occhi chiusi, a respirare, a concentrarmi su quell'andare e venire del filo che probabilmente durerà un paio d'ore, poi me ne stuferò perchè i punti inizieranno a frizzare e tirare e allora lascerò fare alla magia. Lo potrei fare anche adesso, ed evitargli il problema, il disturbo. Ma non credo sia questo ciò che desidera in fondo.
    Penso che a questo punto, per quanto potesse essere vicino a Lucian, proprio adesso che è morto, potrebbe dire semplicemente di averlo fatto il suo con me. Di essersi assicurato della mia incolumità, ma senza prendersi la briga di correre fin qui soltanto perché finalmente mi sono decisa a chiamare quel numero. Quasi come se l'aspettasse a gloria quella chiamata, come se avesse già le scarpe indosso pronto per partire. Mi riesce capirlo solo fino ad un certo punto, solo fino a dove l'altruismo si ferma e allora anche quel poco di egoismo diventa pù che giustificato.
    Anche questo. Quella di Horace è una mano troppo tesa verso di me, troppo disponibile, ed io non riesco a capirlo fino in fondo.
    E sono abbastanza stanca per decidere di non tenermela per me questa cose.
    «Sapevi che posso sistemarmela da me.» rompe alla fine il silenzio, seria.
    «Lo tenevo con Lucian, il conto dei giorni.»
    Che è il caso di cominciare a diventare sinceri. E non penso sia solo perché lo deva a Lucian, o perchè Lucian gli ha affidato la missione di farmi da babysitter in sua assenza. Io ormai la conosco la loro natura: ci sono cose che a volte è meglio non fare, cose che è meglio evitare. Ma se uno semplicemente ha noia per quelle cose, allora toglie il disturbo, non ne vale la pena, non si affligge di tale pensiero. Però forse anche lui è un po' come sono io adesso, che potrei evitarmelo questo avanti e indietro dell'ago, eppure non lo faccio. E anche lui, potrebbe fare a meno di mettere le dita dove ci sta il sangue, eppure non lo fa.
    Conoscevo abbastanza bene Lucian per decifrare anche il suo di atteggiamento adesso. Basta dischiudere appena le palpebre. E se non c'è, se la sua espressione non tradisce nemmeno il minimo turbamento, beh lo so e basta.
    «Sai che lo posso fare da sola, anche senza ago e filo.» Riprendo. Ormai non demordo. Perché mi sento abbastanza stanca dal voler essere a tutti i modi sincera e sapere perché, a nemmeno una settimana dalla trasformazione, ha deciso di mettere le mani sul mio sangue, ricucirselo tra le dita. Era una cosa che a Lucian dava alla testa, e non penso che, sempre per via naturale, sia tanto diverso adesso. E allora perché? Per non rischiare di vedere morire unaì'idiota? Forse solo per questo? Come io scelgo di farmelo fare pur sapendo che potrei evitarmelo?
    E, dovrei sentirmi violata nel sapergli l'odore del mio sangue nelle sue narici, nel suo cervello, tra le pieghe dei due polpastrelli? Forse, ma non mi ci sento. Affatto. Il pensiero mi incuriosisce in maniera malsana.
    «Lo fai perché hai promesso a Lucian di tenermi d'occhio, o c'è un altro motivo? A parte la pietà. Perché lo tengo ancora il conto dei giorni, e questo» e sollevando la mano mi indico la fronte ricucita «Non dovrebbe valerne la pena per te adesso.»

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    Ogni volta che la luna muore, io risorgo. E' questa la condanna. Nei muscoli che si spezzano, si ricreano, in una forma che non ha niente a che vedere con la dolcezza. Nessun cenno di delicatezza, sono la rabbia che - repressa - diventa una creatura spietata. Ma almeno so che sono sempre io. Che è quel lato di me che io incastro nel cervello, che prende possesso del cuore e mi completa.
    Non mi sento un mostro, Vivianne, neanche quando imprechi e allora fermo un secondo il processo, giusto per non infierire troppo. Tu non sei un soldato, e non hai nemmeno la sopportazione di Ben, dovrei smetterla di considerarvi così simili.
    Trattengo il respiro perché ti muovi, un po', magari pochissimo, ma lo fai ed il sangue torna a colarmi in gola, quasi, e gli occhi piano piano si svelano in pupille dilatate. Ma sono bravo, magari più di quanto pensi. So resistere, so prendermi ciò che merito e tenere distante quanto non mi appartiene.
    E mi dispiace che faccia male, sul serio, non voglio per che niente si fermi in punti di rinnovata pietà. Nulla, aspetto che torni come dovresti, ti guardo chiudere gli occhi e riprendo.
    Stavolta faccio un po' più piano, sollevo la pelle prima di bucarla, vado più lento con il filo perché tu lo senta senza che sia uno strappo in carne viva.
    Le dita si arrossano, sento i battiti salire in gola. Rimbombano nel cervello, tanto che un attimo gli occhi li chiudo anche io. Ma è uno, giuro, e torno qui a finire quello che devo, a fare i nodi che se ne andranno piano se li lascerai stare.
    "E ne mancano pochi..." di giorni per cui tenere il conto, di lune nuove che si incastrano a ciclo continuo. E dio che - stupido - ogni trasformazione torno lì dove il grido di Lucian si alzava contro la nebbia di notti senza luce. Sia mai che davvero non sia morto, che sia uno stupido scherzo, o qualcosa di dovuto io... io non lo so, per me non è morto.

    "Si, lo so" che puoi curarti da sola, l'ho capito seguendoti, non che Lucian ci abbia già detto tutte queste cose tanto approfonditamente, ma lo so.
    "Immagino stoni che uno come me si prenda cura degli altri. Ma è un istinto che il mostro non cancella, semmai amplifica."
    Voglio che tu sappia, in questo modo, nel mio ritirarmi di qualche centimetro lungo la vasca, seduto sul confine, che non mi chiamo wendigo fuori dal Nido. Non lo pronuncio a voce alta perché non c'è mezza sicurezza per me, mai.
    Però ho bisogno di sospirare, di abbassare il tono in un fiato che mi apre un piccolo ghigno in volto.
    E ci penso, al modo in cui dirti le cose, perché in alcuni casi a muovermi è l'istinto, la ragione arriva dopo, oppure neanche lo fa. Non arriva, mi lascia a nuotare nel vuoto, sospeso nel buio di un'incongruenza.
    Scuoto la testa, le mani avanti e lontane da me. Dovrei lavarmi via il tuo sangue.
    "Non sono qui perché Lucian mi ha chiesto qualcosa, il suo volere non era così specifico e dettagliato"
    Ed è vero, dio quanto cazzo è vero. E quanto mi logora il senso di fottuta impotenza. "Sono qui perché mi hai chiamato e, per quanto assurdo possa sembrare, lo capisco. Per quanto non lo direi ad anima viva, lo so che cazzo si prova. Anche se per ognuno è diverso e privato."
    Alzo le spalle, anche se finisco per guardarmi le dita, sporgermi abbastanza perché le medagliette ciondolino nel vuoto. Una voragine in petto.
    "Sei parte di qualcosa che non capisco ancora, ma lo sento qui." batto il petto con due dita, come a spararci dentro l'ennesimo colpo da reggere.
    "Hai paura di me? Dei pochi giorni che mancano?"

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    Edited by nocturnæ - 25/4/2023, 16:30
     
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    No, il problema non è che non ce lo vedo prendersi cura di qualcuno.
    Credo sia forse un po' lo stesso problema - se così si può ancora definire - che aveva Lucian, quello di essere quasi uno stereotipo di sé stesso. Quello di essere semplicemente bestia, semplicemente mostro e di doversi adattare a quella immagine in tutto e per tutto, anche se non era vero. Sicuramente è più complicato di così, sicuramente non è mai stato solo una sorta di autocommiserazione, ma c'è un sentirsi dietro che è decisamente più fondato. Immagino fosse difficile pensarsi diversamente, nonostante ci provassi, con tutta me stessa devo dire, a convincerlo del contrario. Per questo non mi sorprende. Non mi sorprende che la diffidenza sia forse più per loro stessi che per il mondo circostante.
    Forse è pure un modo che sentono per riscattarsi, per rimanere aggrappati a quell'umanità a cui Lucian, per esempio, ancora teneva. Nonostante non si sentisse umano, non si sentisse forse nemmeno degno di essere trattato come tale, qualcosa di profondo lo desiderava ancora.
    Io non so se tutti i wendigo sono come loro, o si sentono come loro, ma sicuramente tutti loro uscivano da Detroit, da quel posto che ad un certo punto deve averli plasmati con uno stampo ben preciso, nonostante le origini più differenti. Lucian ci era nato in quel posto, la parabola di Horace è stata invece totalmente differente. Però alla fine è da lì che sono usciti, così, con quel mostro che si ritaglia così bene tra le loro parole.
    Lucian ha lasciato un buco, a questo punto anche per loro, che se ne sono usciti così dal niente, e ancora questo pensiero mi logora, come tanti altri. Mi logora non sapere cosa avrebbe potuto riservarci il futuro. Mi logora sapere di trovarmi di fronte a lacune, a cose non dette e non dette per motivi che non conosco ed è difficile interrogare adesso perché forse nemmeno Horace saprebbe rispondere se non dicendo cose che già so o posso prevedere. Come se non bastasse di per sé il male del lutto. Come se non bastasse dover accettare questo posto completamente vuoto. Che a volte, per un gioco del cervello, capita di dirmi che "cavolo, questa cosa gliela dovrei proprio raccontare", e poi "ricordarmi" che non c'è più nessuno a cui raccontare niente qui. Sì, sarebbe stato meglio se si fosse ammalato e se ne fosse andato così, senza lasciarsi dietro tutte queste domande. Senza lasciarsi dietro un mostro, mostro veramente, che si è preso il diritto di stroncargli la vita senza chiedere, senza sapere che cazzo di voragine avrebbe aperto. Quello, quello sì che è il mostro, non Lucian annegato, non Horace adesso che cerca di non farci caso al sangue che gli macchia le mani.
    Non lo so cosa di potrei essere parte. La mia domanda forse è fatta per non avere risposte, non adesso quantomeno. E va bene così. No, cioè, non mi accontenterei ma ho altra scelta?
    «Si, ma non intende passare. Non per adesso. Quindi non so quanto ne valga la pena.»
    Forse è crudele detto così, in questo modo, ma davvero non credo di valere la pena, per così tante cose. Forse nemmeno avrebbe dovuto rispondermi al telefono, né darmi retta e venire qui, ecco, quella sarebbe stata la punizione giusta escogitata da me per me stessa. Hai fallito il test, Horace. Non ti saresti dovuto presentare. La risposta giusta al test è: non ne vale la pena.
    Perché? Perché sono un casino allucinante, e non tanto per dire, non perché non mi è mai riuscito essere ordinata o perché per andare da A a B faccio duemila giri invece di seguire una semplice linea retta. È perché questa cosa mi sta lacerando, sta aprendo dei buchi allucinanti. Dove? Nella mia tempra, nella mia resistenza, nella mia logica, nella mia dignità, nella mia coerenza. Che se il mondo, questa versione di mondo è un caos allora a me non riesce non essere caos a mia volta.
    «No.»
    Non mi fa paura. Non mi è neanche passato per la testa. Ho convissuto abbastanza con un wendigo per non averne più paura.
    «Ho rischiato molto più di così.»
    Come quella pozza di sangue al capolinea della metro nel Bronx. Come nei sedili della macchina di Lucian.

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    Edited by .happysong. - 21/4/2023, 12:51
     
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    Il tuo è un sangue amaro, lo sento piano risalirmi la gola. Sento il modo in cui preme nei miei battiti, pulsa con me. Che se deglutisco lo faccio con calma perché l'odore non scenda, non arrivi in pancia, non oltre lo stomaco. Se lo facesse sarebbe peggio, perché i crampi sono appena alle porte, dei cani che aspettano di mordermi le caviglie.
    Me le farei ridurre all'osso pur di non torcerti un capello.
    Anche quando puoi difenderti da sola.
    Anche quando me lo dici continuamente.
    Va bene anche se vuoi convincertene, io in realtà non ho bisogno di crederlo, penso solo di saperlo.
    Lucian si era trovato una compagna tosta, e non smetteva di dircelo. Sai già quanto ti amasse, quanto per te stravedesse e si immaginasse mondi che non era in grado di raccontare a Detroit. E non è giusto che sia dovuto andare via, che non sia qui a presentarci, a dirci che tu sei sua, con una mano in vita - magari pronto a prendersi un morso.
    Mi sarebbe piaciuto conoscerti prima, e non per questo, che non avesse tenuto due mondi tanto distanti. Anche se lo capisco, so perché l'ha fatto, so quanto difficile fosse non poter parlare almeno di metà della sua vita.
    Mi mancano da morire le birre del cazzo con lui, a parlare del niente e della vita, di Detroit e di come ce la fossimo lasciata finalmente alle spalle.
    E' come un blocco in petto.

    "Non passa, no. Non stanotte, né domani..." ma non sto parlando di Lucian, mi sto alzando perché devo lavarmi via il sangue dalle mani, lo faccio premendo sulle dita fino ad arrossarle, ma almeno non resto fisso in un punto che fa male a prescindere da tutto. Non posso dirti come si evolverà il tuo dolore, per me è faticoso e basta, rabbia e basta, che logora da dentro, che monta con la bestia, perché il tono si fa roco anche quando non ti guardo. "Magari un giorno ti accorgerai che fa meno male, ma se mi hai chiamato penso che non sia così, mh?"

    Inspiro, torno a sedermi a bordo vasca, le mani asciutte posso portarle al viso per prendere fiato, stringere e rilasciare una presa trai capelli.
    "Perché hai chiamato me, Vivianne?" non è una colpa, non è un'accusa, sono curioso. Voglio capire perché non ti piaceva l'idea di restare sola e perché, alla fine, non fossi così male anche io.
    Non so come il mio ginocchio sfiori il tuo, non ci faccio caso. "Pensavo di starti già troppo sulle palle" stringo mezzo sorriso trai denti. "Non sono in vespa stasera"

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    No, fa decisamente ancora troppo, davvero troppo, male. E non penso potrebbe essere diversamente, neanche a volerlo, neanche a pretenderlo. È successo troppo velocemente, in maniera troppo imprevedibile ed è passato così poco tempo. Il dolore è solo specchio della sincerità dei sentimenti. E dovrei sentirmi quantomeno "contenta" per questo allora? Che tutto questo male è la riprova di come fossero sinceri i miei sentimenti per Lucian? Beh, bella merda, non avevo bisogno di questa conferma per saperlo da me. Non avevo bisogno di questo, avevo soltanto bisogno che le cose funzionassero, anche così, anche faticando come bestie pur di farle funzionare, accettando l'inaccettabile, desiderando utopie e non raggiungerle mai, a me andava bene anche questo. Mi sarebbe andato bene tutto a questo punto. Che sono stata forse una stupida allora a credere che avremmo potuto continuare così? Che abbia deciso di ignorare volontariamente il fatto che la vita di Lucian era mescolata al rischio stessa di vederla così? Terminata tragicamente? Sì, forse l'ho fatto, forse l'ho volontariamente ignorato perché sono una stupida e sono ingenua, ed è stato bello sì ma forse neanche questo valeva davvero la pena, perché non ha lasciato nient'altro che polvere. Polvere e persone nelle quali non dovrei - ma lo faccio - continuare a cercare i frammenti della sua vita. Quello che non conoscevo di lui e che posso, stupidamente, sperare di trovare in loro, in persone come te, Horace, che l'hai fatta la cazzata a darmi retta e a venire qui pure di corsa. È disperazione, è soltanto quella; è una delle classiche "fasi del lutto" - mezze stronzate - e che dovrebbe corrispondere alla "non accettazione" o qualcosa del genere.
    La ferita brucia, ma almeno è qualcosa di tangibile, un tipo di male che ha una forma, un colore, che posso vedere, toccare, diverso da quello immateriale che però prende spazio e spazio dentro, come un miasma, come una bolla fatta di ruggine o di polveri soffocanti.
    Non avrei voluto sentirla questa domanda, ma penso fosse inevitabile anche questa. È giusta, quantomeno, è logica, legittima. Ero solo io che speravo di poter giustificare il mio egoismo con il silenzio. Almeno per un altro po', sperando di arrivare a quando non avrei richiuso la porta alle spalle, e allora con la vergogna avrei fatto i conti tutti insieme domani.
    Ci provo ad abbozzare un sorriso, ma è uno sbuffo forzato tra i denti, che si accompagna con il diniego della testa e gli occhi che si inchiodano al soffitto e lì ci rimangono per tutto il tempo.
    Che la domanda, poi, con il mio nome ricamato al fondo, anche se non lo vuole essere mi sembra che abbia sempre qualcosa di inquisitorio. Non da parte di Horace, ma da parte mia, passa soltanto dal tribunale di me stessa. Eh, Vivianne, perché?
    Che poi lo dico, ci provo, perché è passato troppo silenzio ed è peggio, e ha già cominciato a tirare le lacrime su agli occhi.
    «Perché non puoi pretendere niente da me.»
    Perché chiamare Camron o Aalia, o anche papà sarebbe stato diverso. Perché mi avrebbero detto di rimettermi in piedi, perché non lo capiscono, anche se non è questo che voglio, non voglio nemmeno che capiscano. È solo che non voglio sentirmi dire di essere forte, di superarla. È solo che voglio qualcuno che non mi conosca così a fondo, è solo che voglio qualcuno con cui forse essere anche ipocrita, essere contraddittoria sperando di non sentirmi poi così male. È forse anche perché, Horace, è come se averti qui fosse avere un pezzo, anche piccolissimo, di Lucian tra queste mura. Potrebbe esserlo, ma allo stesso tempo è terribile e non lo voglio, perché non voglio ridurre Lucian a una particella di polvere depositata su una giacca. Non era questo.
    Allora meglio essere sinceri, fino in fondo. Meglio essere egoisti, ipocriti e contraddittori.
    «Perché non sopporto di stare da sola
    È questa la verità, in fondo. Che io, alla fine, pur volendo scrivere a modo mio le regole a dispetto di tutti - da sola non ci so stare; ed è pure la contraddizione che mi fa piangere. Pur desiderandolo, pur non sopportando la gente attorno a me e la loro pietà, io da sola non ci so stare.

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    Perché non posso pretendere niente da te. Cazzo, questo si che scava a fondo, che raggiunge il pozzo scuro dove lascio cadere ogni fottuta colpa e mi pianta lì.
    E' vero, io non pretendo niente da te, né che ti tiri su in piedi quando non sei pronta a farlo, né che tu mi respinga perché è quello che dovresti fare.
    Non pretendo nemmeno che il dolore vada via, che ti passi veloce come se d'improvviso ci fosse un interruttore da premere. Chiami me perché non ti conosco, ecco cosa va bene adesso. Perché non sono tra quelli che ti fa andare avanti. E non so come mi faccia sentire ora. Forse non bene come vorrei.
    Ma non sono qui per far stare bene me, io credo di essere già un caso perso, uno che si tira su di volta in volta senza farsi troppe domande. E' una seconda vita, la mia, che non ripercorrerà i passi della prima.
    Almeno lo spero.
    Non ne sono più così sicuro quando ti guardo, quando piangi. Ed io resto in silenzio, perché in questo preciso punto non so agire se non mi dici di cosa hai bisogno, non posso pretendere di saperlo per te.
    Forse anche io, guardando oltre la porta aperta, spero che Lucian torni.
    Forse anche io non mi sono dato pace su questo, non so darti un punto su cui focalizzarti che sia diverso. E forse non sarei dovuto venire fin qui a ricordarti come è fatto un Wendigo e cosa desidera, cosa brama fino in fondo.

    E non vuoi restare sola, e questo è ok, forse un po' meglio di prima.
    Non sei l'unica persona che conosco a cui non piace stare sola, io lo capisco, per questo ti lascio un attimo di profondo silenzio, che puoi riempire con un singhiozzo o qualunque altra cosa.

    Scusa se te l'ho chiesto così, come se fosse solo un cerotto da strappare, una benda incollata al sangue, legata dal plasma rappreso. So solo pensare a questo adesso. Ho fame, ma ricaccio già ogni istinto, anche se a muovermi è un calore che ribolle nelle viscere. Non sono Lucian. E nel dirlo posso solo risentire la voce di Ben: "Non sono Joseph" e forse qualcosa la capisco anche adesso. Anche quando spingo una spalla appena più vicina. Non ho voglia di sembrare quello stronzo che approfitta.

    "Vuoi provare a dormire? Resto finché non ti addormenti." Però ecco "Non sono un maniaco del cazzo, giuro, sono solo onesto, davvero. Un amico."

    Anche se penso che non lo farai, magari mi dirai che invece hai fame, che vuoi guardare qualcosa, distrarti. Va bene purché tu mi aiuti a capire cosa fare. Perché sono corso qui, l'ho fatto lasciando tutti fermi e senza di me. L'ho fatto perché l'ho promesso a Lucian prima che a te, ma ora che sono qui, cosa devo fare? Non posso trattarti come tratterei Ben, lui lo conosco.

    "Cosa pretendono gli altri da te?"

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    «Lo so. Lo hai già detto.» commento, riferito ancora al suo voler essere corretto. Non lo avrei fatto entrare in casa, penso, se avessi nutrito forti dubbi. Ma non importa in realtà, il fatto che si possa rivelare un maniaco del cazzo non mi preoccupa, neanche mi sfiora a dire il vero.
    «No, non dormo, ho l'insonnia.»
    Mi sbuffa un sorriso sarcastico, perché certo che c'era anche quello, è la cosa più innocua che potesse generare questa situazione. Non chiudere occhio, non mangiare, e cercare di intrattenersi e darsi da fare sul lavoro per non pensare, ma ahimè, neanche lì riesco a diventare una stacanovista. Penso solo che non voglio fare niente, penso solo al peso del vuoto attirato dentro ai buchi che mi perforano tutta.
    Che cosa pretendono? Immagino le cose giuste, quelle che dovrebbero aiutarmi a rimettermi in piedi, a riprendermi la mia vita e cercare di superarla, provarci almeno. Non sono cose cattive, non sono degli insensibili, mi dico, e dall'altro qualcosa riprende a urlare che loro nemmeno sapevano cosa voleva dire scegliere di stare con una persona come Lucian. Urla dentro la testa questa voce, proprio quando non vuole stare ad ascoltare chi ha ragione.
    «Che non stia così, immagino. Che mi sforzi di rimettermi in piedi, che ci provi almeno, perché tanto me lo ero scelto e dovevo immaginarmelo che non sarebbe finita bene.»
    Ma non ho forza e non voglio mettermi a cercarla, non voglio fare neanche questo di sforzo. Non ce la faccio, i muscoli non ce la fanno a muoversi nemmeno di un centimetro. Non ho nessuna forza mentale di affrontare di nuovo quello strappo, quel punto dolorosissimo e pesantissimo per poi andare tutta in discesa. Non ce la faccio ad affrontare l'idea di "volerlo affrontare". E allora resto qui, a galleggiare, sospesa tra le cose che non so più se siano giuste o sbagliate, e allora, nel non saper più discernere niente, il giusto e lo sbagliato finiscono per non esistere più, o almeno per non importarmi.
    È questo ciò che pretendono da me gli altri, che mi importi di me stessa. Ma a me non importa troppo neanche di quello. Non perché voglia farmi del male, sentire dolore pur di non pensare a quello che ho al centro del petto, ma perché semplicemente non ha importanza, tutto si è appiattito, e allora posso fare qualsiasi cosa, non c'è niente che mi trattenga.
    Voglio solo continuare a galleggiare, sperando quantomeno di non incontrare persone pronte a farmi male in questo mio essere volontariamente indifesa, troppo leggera e inconsistente, trasparente. Che non ho nemmeno la forza di serrarmi dentro la mia armatura. Ci ho provato, forse sì, forse quando Horace mi ha trovato fuori dal Sacred, o quando ho cercato io di sapere qualcosa su di lui seguendolo fino al Felix, lì ci stavo provando. Ma era tenuta insieme dal nulla, solo dall'ego, suppongo, e adesso l'orgoglio qui sta invece tutto andando a farsi fottere.
    È egoismo. Nel dirgli che non voglio restare da sola c'era già una pretesa. Ma ho da tappare un buco, ho bisogno, o no, forse voglio soltanto, riempire un vuoto, uno dei tanti, in maniera fittizia, solo temporanea, ma mi prende questa smania, e vorrei davvero che mi aiutasse.
    «Sarebbe… sarebbe così terribile se ti chiedessi di restare?»
    Anche se non ci trovo niente di invitante in me così adesso. Dio, non farmelo spiegare più di così.
    «Per favore La luna non è un problema, ho la pelle dura e ruvida.
    Sarebbe tanto terribile? Non sto tradendo nessuno, è soltanto per riempire il vuoto, solo un po', solo stasera. Poi si esaurisce. Sarebbe così terribile per una volta chiedere a qualcuno di farsi usare? È davvero così terribile cedere ad un po' di egoismo? È davvero umiliante - lo chiedo a me stessa - rinunciare tutta insieme alla dignità? Solo per averglielo chiesto. Lo è davvero? A me non sembra più che esista l'avere una dignità o il non avercela. Non mi sembra neanche più che esista la fedeltà o l'infedeltà ad un ricordo, ad una memoria, ad una promessa. Mi sembra solo che adesso ci sia questo eco viscerale che si allarga, sempre di più, e mi arriva fino alle orecchie. Non voglio stare sola. Non voglio stare sola adesso.
    Perché tanto lo so che da te non alzerai un dito, forse non lo farai nemmeno adesso che te lo chiedo. Forse sei molto più coerente di me, e allora ce l'hai ancora qualcosa in cui credere, un valore a cui fare voto come un uomo di guerra sa fare. Lo so che piuttosto ti masticherai dentro i tuoi stessi organi. Ma se mi dici di no già lo sento lo schiaffo dell'orgoglio che mi arriva a tutta velocità per essersi visto cedere via così.

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    Non c'è bisogno di ripetere niente, Vivianne. Immagino che Lucian avesse previsto un po' anche questo, un tuo ricercare un suo simile anche solo per avere l'idea di non esserti allontanata così tanto da lui. Un aggancio a qualcosa che lo ricordo, come ho provato a fare io.
    Come facciamo tutti noi quando qualcosa resta troppo amara da mandare giù, una medicina che non siamo pronti a prendere. Io non posso credere a tante cose che sono invece terribilmente reali. Ma se sono qui, è forse perché in questa casa c'è ancora il suo odore, ci sono i suoi marcatori, i segni della sua presenza e di come, alla fine, ti amasse.
    Magari è solo masochismo - il mio - perché è vero che a contenermi sono bravo, che il richiamo della carne so più o meno gestirlo, ma è più facile quando accanto ho un altro wendigo e non una mortale.
    Qualcuno che se esagero, se la bestia ringhia troppo in fuori e spinge i denti a diventare canini appuntiti, può spingermi contro il muro con forza, tenermi saldo finché non arriviamo in un punto in cui la pelle può lacerarsi e le ossa sbucare fuori dalla pelle, distruggere i muscoli e ricostruirli.
    Adesso è un rischio del cazzo, lo so io e lo sai tu, Vivianne. Magari non sei così in grado di prendere decisioni e di certo le tue non sono conservative adesso, ma va bene. Certo che resto, penso fosse il presupposto di stanotte, no?

    "Solo se la smetti di chiederlo, non vado da nessuna parte." Resto finché reggo, ma te lo dico quasi con dolcezza, quando muovendo i muscoli perché la vicinanza non sia troppa, né poca. Perché anche se il sangue ancora attrae terribilmente, io l'ombra di Lucian non ho smesso di vederla, non ho smesso di viverla nella coda dell'occhio.
    Devo avvisare Ben, ma ci penserò quando risolveremo i tuoi problemi di insonnia, che per quanto pensi sia cronica, avrà la sua fine, te lo prometto. Dormirai, andrà meglio un po' alla volta. Andrà meglio finché Lucian non diventerà un ricordo, ma cristo se anche io vorrei che tornasse. Che venisse qui a prendermi a pugni e spingermi contro i muri di casa tua per quello che sto per fare. Per il modo in cui ti sollevo tra le braccia. Lo faccio senza proferir parola, solo per muovermi meglio fuori dal bagno, per fermarmi nel corridoio. Il tuo profumo, Vivianne, è un male assoluto, soprattutto adesso.

    "D-dove, dove preferisci non dormire? Divano o camera?" Dammi solo modo di non prendere questa decisione da solo, di portarti dove stai più comoda, restare vicino per il tempo che serve, che se non hai voglia di nulla, noi non faremo nulla. Niente per distrarti, che non funzionerebbe, niente per riportarti indietro Lucian, perché non è umanamente possibile. Farà male e basta, qualunque posto tu scelga.

    I could be up all night, but I'm paralyzed when the creature comes alive
    Don't wanna feel
    I could be honest, I could be human
    I could become the silver bullet in your head

    horace armstrong
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    No, non hai capito, Horace, purtroppo credo che tu non abbia capito, che tu non abbia saputo leggere tra le mie righe troppo strette. Ma non posso nemmeno stupirmene, onestamente. Sono io che mi dico di star perdendo la dignità e poi cerco ancora di tenermela stretta tra i denti, almeno un brandello, giusto per dirmi che non faccio proprio così schifo, come se rimanesse l'unico attestato di ciò.
    Ma lo capisco, eh. Capirei persino l'idea che tu sia il primo a non volerlo capire, e sarebbe il segno della tua onestà, del fatto che non sei venuto qui per approfittartene, quindi dovrebbe essere pure una bella cosa. Sei solo venuto perché stai continuando a darmi retta facendo probabilmente la cosa più sbagliata di tutte. Ma lo stai facendo, ed io non ho voglia di tornare sui miei passi e fare semplicemente la cosa giusta. Non mi va di cercare un'uscita dal labirinto. Perdonami soltanto se sono egoista. Se ti costringo a vedere in questa casa l'ombra e l'impronta di chi non c'è più, e che qui c'è stato, qui ha vissuto ad un certo punto, e di strada ne aveva fatto da quel buco e da quel materasso nel suo squallido appartamento del Bronx. Però ci siamo stati insieme, anche su quel materasso scomodissimo, prima di arrivare qui. E qui è stata una sorta di conquista per entrambi. Scusa se ti lascio quindi vedere gli strascichi della quiete di Lucian impressa sulle pareti con tonalità più chiare, più pacificate, e non con quel viola incattivito che la storia gli aveva cucito addosso per tutto quel tempo.
    Scusa se rendo le cose difficili perché ho gli occhi gonfi e le guance rosse rigate. Se sono inconsistente ti butto una mano intorno ad una spalla per lasciarmi tirare su. Perché è così che mi sento, una sorta di fantasma, di gruccia metallica senza materia, troppo leggera, troppo sbiadita.
    Solo perché lui non torna.
    Perché non torni?
    Ma non torni.
    Purtroppo non torni più.
    E a me mi manchi da impazzire
    .
    Così tanto che non riesco a pensare di voler riempire questo vuoto in qualche altro modo. Un riempimento effimero, certo, come tutto il resto, ma forse quello che dura di meno e che fa meno male.
    «A letto no.»
    Perché lì ci sono troppe cose ancora, e non ci voglio sovrapporre nulla, non voglio ricordare nulla, non voglio associarci niente.
    Voglio soltanto smettere di pensare, e non voglio stare da sola. È la mia scusa non voglio stare da sola adesso, e con questo egoismo zittisco tutto e tutti. Pretendo quando non dovrei, gli chiedo di fare uno sforzo, solo perché mi sembra che la vita sia abbastanza bastarda con me e allora, cazzo, una rivalsa me la voglio prendere e non è giusto che non mi venga concesso questo, almeno questo, questa cosa insignificante, senza sforzo, non voglio sentimenti o trasporto, voglio solo che tutto si zittisca per un po'.
    «Due anni fa mi sono fatta sparare da uno stronzo ad un capolinea del cazzo nel Bronx.»
    E non solo questo, ne ho passate decisamente tante, a partire dal Brakebills, ed ero solo una ragazzina, fino alle fogne, a papà, a Redeemer, di nuovo a quella cazzo di guerra che è tutta la vita che mi perseguita, fino alla nebbia e alla Corruzione.
    «E gli ho riempito la macchina di sangue mentre mi portava in ospedale.»
    Sì, a Lucian, se non ci fosse stato lui io ci sarei morta lì. Gli ho rivomitato sangue in ogni angolo di quella cazzo di macchina dove abbiamo scopato, sì, a volte anche lì.
    E me lo prenderei altre cento volte un proiettile nella milza pur di riaverlo con me per un minuto soltanto.
    Hai capito, Horace? Lo hai capito che non ho niente di perfetto? Che è tutta la vita che lotto con le cose e con me stessa? Hai capito che non sono intoccabile, ma che è invece tutta la vita che vengo presa a schiaffi? Che ci provo a salvare la gente, e finisco per rovinarla e rovinare tutto quanto, finisco ad osservare come le cose vanno in malora perché seguono le logiche di questo mondo diabolico, e non le mie. Perfette sì, progetti pulitissimi, ma totalmente e stupidamente utopici. Cosa pensi che mi possa fare questo? Quanto male pensi che possa davvero sentire? Quanto dolore pensi che possa realmente infliggermi così?
    «Cosa vuoi che mi spaventi la luna…»
    Cosa vuoi che mi spaventi un wendigo? Che ho passato gli ultimi anni a rifugiarmi nelle ossa di uno di questi. Cosa cazzo vuoi che mi spaventi? Dopo tutto questo cosa credi di potermi fare, anche solo per errore, Horace?
    Puoi solo farmi male. E allora? Non me ne farai mai più di quanto sarò sempre in grado di farmene io. Non è questo il dolore, non è quello che pensi tu, come non è quello che temeva anche Lucian quando guardava me. Il male è altro, a questo mondo il male è decisamente altro, te lo posso assicurare.
    «Hai capito?»
    Resto a guardarti dal fondo del divano con le gambe contro al petto.
    «Lo possiamo fare?»
    Fingi di non conoscermi. Fingi di non avermi mai visto, di non sapere niente di me e pretendi che non significhi niente, perché è così, non significa altro che sé stesso.

    Vivianne
    Comstock
    Dixon.

    code role © hime. created for Brakebills GDR ma di libero usufrutto ovunque
     
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