Lower me down

Morgan/Edie | 15 Giugno | 1360 Merriam Avenue

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    Arriva sempre, poi, il momento in cui ci si deve fermare. Arriva il momento in cui non si può più correre, in cui non ci si può più riempire le mani per non pensare, trascinare la testa lontana e occupata così da non fermarsi su quel punto che invece, ingurgita tutto. Potrei continuare ad andare avanti ed indietro in questo palazzo, e non servirebbe a niente. È come un’attesa spasmodica che conosco anche troppo bene. Alla fine, non è diverso da quello a cui ho sempre cercato di prepararmi in un modo o nell’altro, ma questa volta la ho quella scintilla di speranza che guarda fuori e spera che qualcuno, lì, saprà cosa farne. Se non altro, ho quella solida che se così non fosse, saranno altre mani a premere una fine che adesso mi sembra sia stata solo rimandata. Come procrastinata, ma con addosso l’ingrossarsi di una tassa che si è fatta più aspra al buio, senza che potessi immaginarlo. Non so esattamente quanto resta, ma so che si tratta di questo, perché con Evan è stato così, e alla fine ho solo potuto ritardare di quel poco l’inevitabile. È sempre la stessa cosa, la stessa domanda che torna sempre, e ancora non lo so se è meglio sapere, o se è meglio avere degli attimi che corrano a parte di consapevolezze che invece li renderebbero solo più duri. Prendo un respiro e quasi in modo stupido, penso che vorrei qualcosa da bere. Qualcosa di forte, come se anche questo potesse essere anestetizzato, come se anche questo potesse essere troncato di netto e messo così lontano da non pensarci. Ma ora è diverso, ci sono molte più cose che sono qui, e non posso semplicemente ignorare. Non voglio neanche farlo. Se si dovesse arrivare a capire che non c’è niente da fare, non vorrei che spettasse a lui. È un pensiero che odio ferocemente, ma è anche uno che non posso deviare, allontanare, scacciare via e fingere che non esista, che non abbia una corporeità tutta sua, e sia assillante in un punto indistinto della mente. È anche per questo che non volevo che restasse, anche se in fondo, non posso dire che mi aspettassi davvero che lo facesse. Chiudermi da qualche parte e lasciarmi lì. Non è mai stato il tipo di persona che fa cose simili, e non importa se sia perché ne ha bisogno lui, o perché ne ho bisogno io. Forse, è solo una di quelle cose di cui abbiamo bisogno entrambi, e che anche a sembrare sbagliata, resta sopra tutto, e non considera nient’altro. Me lo chiedo quante volte siamo passati da questo stesso punto, capovolto più volte, ma sempre lo stesso. Hanno tutti lo stesso sapore, anche quando è diverso, e sotto hanno le stesse cose, anche se sono sempre di più e sempre più pregne, più intense, più e più ancora. Mi premo con la schiena alla parete, senza neanche guardare che altro c’è in uno spazio che potrebbe essere uno qualsiasi, adesso, avrebbe lo stesso odore. Adesso, è quel momento in cui arriva tutto e lo fa come una botta, come qualcosa di inaspettato, come un cazzotto nello stomaco che pretende tutta l’aria possibile. Penso a casa. Penso ai bambini. Penso a quanto vorrei soltanto tornare lì, a quanto vorrei soltanto vederli un’altra volta, tutti quanti. Però, non posso neanche crollare del tutto, non adesso. Alla fine, ho sempre saputo che cose come questa, sono peggio per chi resta. Lo sono, e adesso lo so con quella certezza che può avere solo chi ci è passato, e lo ha fatto in tutti i modi possibili. È sempre peggio, sempre, essere chi resta e quel vuoto deve guardarlo ogni giorno, sapendolo sempre che non andrà via. Può diventare più piccolo, fare meno rumore, e poi di colpo essere di nuovo immenso e annullare tutto il resto, come onde che prima o poi tornano sempre a reclamare la riva. Ci si può solo abituare. Prendo un respiro mentre mi giro a guardarlo e me lo chiedo, questa volta, com’è che dovrei parlare con Morgan. Non ha bisogno di dirlo, mai, quanto una perdita o l’altra, anche quella che può sembrare più insignificante, sia per lui qualcosa di atroce. Non ha bisogno di dirlo come non ha bisogno di dire tante cose che restano costellate su di lui come cicatrici invisibili, di cui non si prende mai cura. Ci penso a quello che succede a casa, ci penso a quello di cui dovrebbe occuparsi se oggi andasse nel peggiore dei modi. Ci penso al fatto che avevo giurato che io sarei rimasta lì, con lui, qualsiasi cosa fosse successa. Ci penso al fatto che in fondo, nonostante tutto, negli alti e nei bassi, sapesse che qualsiasi cosa fosse successa a lui, sarei rimasta lì ad occuparmi di tutto. «Baby» non so neanche com’è, adesso, la mia voce. Non cerco di cambiarla, di renderla più sicura, meno traballante, non avrebbe senso. Siamo già stati qui, ancora ed ancora, e ormai inizia a sembrare qualcosa che deve essere stato cucito su di noi, in un punto o l’altro. La magia bianca inizia a fare più male, a funzionare di meno, e può solo voler dire che la Corruzione sta andando avanti, inesorabile come ho già visto succedere, come il timer su una bomba pronta ad esplodere. «Fra un po’ potrò fare molto poco per rallentare questa cosa, e vorrei che parlassimo davvero sul da farsi» il mio “da farsi” non ha niente a che fare con l’ora, l’adesso, in cui non resta proprio niente da fare. So anche quanto testardamente potrebbe decidere che non è vero, quanto potrebbe rifiutarlo, quanto potrebbe lottare ancora ed ancora solo perché non sa fermarsi, non lo fa mai quando non si tratta di lui. Ogni lotta di Morgan, tutte quelle che ha intentato per gli altri, gli ha sempre tolto qualcosa, e ogni volta ho avuto la paura che fosse sempre un qualcosa di troppo grande, troppo importante, un altro pezzo ancora che non avrebbe saputo riprendere più. E ogni volta che ha sentito di fallire, sono convinta che sia stato proprio così. Che qualcosa lo abbia perso, e per sempre, lasciandolo nello stesso punto in cui ha perso. Una colpa in più da portarsi sulle spalle, anche quando non è colpa sua, un peso in più da trascinare passo dopo passo. Una mano in più protesa a pretendere, a consumare, a slabbrare.
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    Mi sento una merda a pensarlo, ma se le cose devono succedere, è meglio quando lo fanno senza lasciare il tempo di fare discorsi come questi.
    Certo, poi finisci a parlare con i cadaveri e non è stato uno dei miei momenti più alti, però. Che cazzo.
    Sbuffo.
    Come un fottuto bambino che si lamenta, in silenzio, a suon di respiri e sguardi sfuggenti. «Sul da farsi?» Un tono fastidiosamente retorico, anche per me. Gli occhi su di lei ma solo un attimo prima di arrabattarsi sugli oggetti di un appartamento che non è nostro, e potrebbe essere l’ultima cosa che lei ha visto prima di morire.
    Morire.
    Alla fine è di questo che dobbiamo parlare.
    Perché lo sappiamo entrambi che non lascerò che diventi una cosa come quelle.
    Lo odio. Questo appartamento.
    Poteva essere un bel posto almeno.
    Odio che il mio cervello si stia focalizzando su una cosa così stupida, perché lo so che quando stai per morire l’ultima cosa di cui ti importa è il posto dove sei.
    Vado avanti e indietro di qualche passo, poi mi avvicino al divano e mi ci lascio cadere sopra. Una gamba che comincia a muoversi rapidamente battendo il piede per terra, le braccia poggiate sulle ginocchia e sospese nel mezzo, gli occhi che sfuggono e si fissano davanti. Un punto casuale, un punto che non è importante come non lo sono molte cose.
    Ne è valsa la pena?
    Non è una domanda che ha rabbia in sè, solo la necessità di saperlo.
    Spero di sì.
    Forse devo chiederlo a lei.
    Nel momento in cui è toccato a me ho pensato che ne era valsa la pena e sono stato pronto ad andare, non sapendo che sarei tornato. Se proprio deve succedere, almeno che sia così. Pacifica.
    Vorrei dirle che non le succederà proprio un cazzo, ma non lo so.
    Alzo la testa e la guardo, non dico niente. Non riesco a essere io quello che questo discorso lo inizia.

    Morgan
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    Non mi avvicino, forse perché ora come ora, è quasi come se a farlo fosse richiesta una forza particolare. Invece, lo seguo con gli occhi, dettaglio per dettaglio, pezzo per pezzo, gesto contro gesto in ogni respiro che fa, e tutti i significati che porta. Non posso indovinare con precisione cos’è che sta pensando adesso, e una parte di me, in realtà, non vuole saperlo. Sono pensieri che sanno di punte affilate contro la pelle, hanno quel tipo di sapore acre che è lì, immobile, a gravare come una bestia sopra la testa. Forse è stupido, ma penso a tutte le promesse che ci siamo fatti, a quelle più dolci, a quelle più dure che hanno arrancato per arrivare a galla, sputate fuori dopo silenzi e rabbia, dopo una conferma ancora, dopo una richiesta o una necessità che ha saputo far male. Neanche questo è giusto, e vorrei solo non dover essere qui, di fronte a lui, con addosso una domanda che grava più di tutto il resto, e non riesce a guardare fuori, aldilà di quello che succede qui dentro. Vorrei solo non dover essere a questo punto, quello in cui fra due mani devo prendere quella possibilità che se ne sta lì, immobile, e non andrà via solo perché lo voglio, solo perché vorrei non ci fosse qualcosa che, ancora, sa di un addio. Ma alla fine, è di questo che si tratta, per quanto potrebbe esserci qualcosa che taglia tutto questo e lo capovolge. «Se le cose si mettono male, devi tornare a casa il prima possibile» non lo dico anche se forse dovrei cos’è che vuol dire se si mettono male. Ne sento il sapore sulla lingua, contro il palato, e resta a macerare anche nel silenzio. Ma è importante, perché lo conosco, anche in tutte le volte in cui gli occhi li ho chiusi, e non ho voluto ascoltare e ho lasciato spazi enormi a crearsi in un punto o l’altro. Lo conosco, e so quanto facilmente sa premersi in una cosa, e una soltanto, senza più pensare a quello che fuori, continua ad esistere. Premo le mani indietro, fra me e il muro, un respiro che scende giù mentre piego la testa appena di lato. Non riesco a non pensare a quanto, davvero, se tutto dovesse andare nel peggiore dei modi, vorrei solo avere la possibilità di vedere i bambini ancora una volta. Una mi basterebbe, anche se non basterebbe a loro, e conosco anche questo intimamente. E lo conosce lui. Per quanto siano cose diverse, e per quanto diverso sia stato il nostro avere a che fare con dei genitori che hanno incanalato rabbia, ma anche tutto il resto. «Prima o poi, entreranno qua dentro e non puoi farti beccare» lo so, la sto prendendo alla larga, ma è difficile. È difficile perché vuol dire mettere tutto fra le sue mani, renderle più pesanti, dargli una responsabilità in più. Tutte quelle che avrebbero dovuto essere nostre, che avrebbero dovuto essere mie, che avrebbero dovuto essere una vita diversa da quella che potrebbe piombarci addosso da un momento all’altro. Alla fine, è questo quello che sto dicendo. «Devi tornare a casa, dai bambini» adesso lo so che invece, il tono cerco di tenerlo dritto, di tenerlo insieme, di tenerlo concentrato nella bocca, senza un sussulto, come se non esistesse quel groppo che invece spinge in gola, spinge nello stomaco, e sa solo di tutto quello che vorrei stringere, afferrare, tenere talmente stretto da sentirlo ovunque. Stringo le labbra, abbassando lo sguardo per un secondo, il tempo di un respiro che diventi più regolare nelle narici, ascoltando ogni centimetro del suo percorso dentro e fuori. Ci sarebbero milioni di cose importanti da dire adesso, ma in qualche modo, sembrano tutte anche così insignificanti. Mi chiedo se è così che si è sentito quell’ultima volta che ultima avrebbe dovuto esserlo per davvero, prima di andare contro tutto quello che doveva affrontare, verso l’inferno e un’eternità sommersa e pregnante. Pensavo che non avrei avuto paura di morire, invece la ho. Ma anche questa passa in secondo piano, come se non fosse abbastanza forte in confronto al pensiero di lasciarlo, di lasciare tutti quanti. Di essere quel vuoto che non avrei mai voluto essere per nessuno, e contro cui ho lottato per tutta una vita. Mai tanto importante da poter essere qualcosa, prima, e poi lasciare semplicemente uno spazio aperto. «Mi dispiace» alla fine, fra tutte le cose che vorrei dire, quelle che dovrei, quelle che premono in un punto o l’altro, dico solo questa, con le labbra che cercano di tirarsi contro un sorriso che trema, e non so neanche perché provi a infilare qui. Come se potesse rendere tutto più leggero, meno reale e tangibile contro ogni parete, ogni centimetro di pelle.
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    Non sono mai stato io quello che doveva tornare a casa. A volte, nemmeno mi sono impegnato a farlo. A volte, ho cercato di non tornare proprio. Non era più facile, non era neanche più difficile. Era solo diverso. Il peso di scegliere volontariamente di lasciare qualcuno, non è tanto maggiore o minore di quello di sacrificare qualcos’altro dall’altra parte per decidere invece di tornare vivo. Si tratta sempre di mettere due cose sulla bilancia. Che sia non dare il tutto e per tutto per risolvere una situazione o salvare qualcuno; che sia abbandonare la nave prima che si inabissi completamente.
    Si tratta sempre di scelte.
    Facciamo un lavoro che, quando fatto bene, si riduce proprio a questo: scelte difficili. Ed è ironico, perché la libertà di scelta è la prima cosa che ci è stata tolta proprio per poterlo fare, questo lavoro.
    Lo so perché Edie dice queste cose.
    Non c’è molto altro che possa dire, in fondo.
    Lo so che le dispiace.
    Non c’è molto altro che possa dire.
    Morire diventa fare un torto a chi resta, anche se da subito era una convezione accettata che saresti morto prima o poi.
    Quando le ho detto di fare questa cosa della Dimensione Ombra, ho accettato che sarebbe potuto succedere. Esattamente come lei ha accettato che io morirò più prima che poi. Esattamente come entrambi abbiamo accettato che ci sarebbe potuto succedere qualcosa per tutto ciò che è girato intorno a me e Den in questi anni.
    Abbiamo un rapporto confidenziale con la morte.
    Io e Den ci abbiamo giocato a scacchi.
    Eppure, è paradossale che ogni volta, quando minaccia di arrivare, sembri sempre una sconosciuta.
    Ho vissuto spesso momenti del genere e nonostante questo, ciò che ho imparato non è stato riconoscerla e accoglierla quando toccava agli altri. L’unica cosa che ho imparato è stato saper distinguere le cose davvero importanti. Vomitare via il superfluo, quello è il privilegio di chi non vive in guerra; accogliere le cose più piccole e costruire una scala di priorità che sia più vera possibile.
    È partendo da qui che ho capito quali sono le cose davvero importanti per me.
    È partendo da qui che posso dire di avere una gerarchia nella testa.
    Senza stronzate buoniste, di quelle che ti fanno apparire una brava e bella persona, nonostante mi vengano a dire che “faccio l’eroe”.
    La verità è che tornerò a casa e lo farò per mio fratello.
    I bambini potrebbero sopravvivere senza di me e senza Edie, crescerebbero forse meglio senza di me, ci sono tante persone che sarebbero cose brave a sostituirmi e su questo non ho dubbi. Edie di meno, certo. E anche di mio fratello, in altri momenti della nostra vita, avrei detto la stessa cosa. Adesso no. Anche se proprio quella, se mi chiedessero cos’è che voglio di più, un unico desiderio da esprimere, sarebbe la cosa che chiederei. Che possa farcela da solo, senza di me, senza problemi, e che possa vivere una vita molto migliore.
    Per cui sì, tornerò a casa.
    Ma non lascerò le cose a metà qui.
    «Non ti lascio sola.» Il mio corpo diventa un pezzo di pietra, immobile, la testa mezza sollevata per guardarla. «Tornerò a casa, ma non ti lascio sola.» Non m’importa cosa mi costerà, ma sono queste le due cose che farò: non lasciarla sola, e poi tornare a casa.
    «E non ho nessuna intenzione di farti vivere quella cosa, se non dovesse esserci modo di aggiustarla.»

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    Morgan è forse una delle persone più testarde che io abbia mai conosciuto in tutta la mia vita. Non ho mai pensato lo fosse in un modo negativo, anche quando essere testardo, lo ha portato a strapparsi via pezzi interi perché non c’era altro da fare, non esisteva altro modo per andare avanti nella strada che aveva scelto. Adesso non è così tanto diverso, anche se ha quel tono in più, più pesante contro le membra. Non posso dire, con onestà, che ero davvero pronta a questo, così presto. Non posso neanche dire, però, che non lo fossi. Ho visto per troppi anni quanto male possono andare le cose, e anche se l’ho quasi sempre visto da un punto sicuro, distante, era troppo vicino a tutto perché non ne avessi una certezza abissale. Adesso, penso solo che in fondo, non mi sembra così assurdo, che forse è la cosa meno assurda di tutte. Alla fine, penso di poter dire che nonostante tutto, ho avuto molto più di quanto avrei mai immaginato, nella mia vita. Molto più di quanto abbia mai osato chiedere, e anche cose come questa alla fine vanno bene. Anche se è egoista. Parla di me, questo pensiero, che per quanto vorrei solo salire in macchina e tornare a casa, so di avere anche quella parte del mio cervello che alla fine, è sempre stata così abituata a pensare a qualcosa di simile, che è difficile non scivolarci dentro con facilità, come prendere un respiro. È egoista, perché per lui è diverso. Per tutti, è diverso. Ad un certo punto, non può più funzionare quel andrà tutto bene. Inizia a suonare più come la speranza di un folle, e inizia ad esserci la pretesa della logica di analizzare anche il resto. E io non voglio questo. Non voglio che spetti a lui come gli spettano sempre cose orribili. Non voglio che sia sempre lui a prendersi carico di tutto, anche quando fa male, e lo fa troppo. Alla fine, non è così diverso da tutte le volte che gli ho chiesto di non restare per dovere, ma perché lo vuole. Anche oggi vorrei dirgli che non deve fare questo, per quanto nella sua testa, posso pensare sia già esattamente così. Scuoto la testa, piano, e paradossalmente penso le cose più stupide che potrei pensare. Vorrei dell’alcol, vorrei una sigaretta, vorrei essere fuori e respirare aria che non sappia di una casa chiusa, stretta addosso come uno scheletro che si comprime. Penso alle cose stupide, e a quelle più importanti che diventano impellenti di più ad ogni secondo che passa. Penso, non so neanche più per quante volte, che sia ingiusto. Che se proprio deve essere così, dovrebbe essere chiunque altro, chiunque, a stringersi una responsabilità simile addosso. Qualcuno per cui non lo sia affatto, una responsabilità. «Non esiste» ferma anche quando non lo sono, e penso che anche questo è sbagliato. Anche questo è ingiusto, il mio tenermi stretta e in piedi, senza crollare neanche se vorrei, senza lasciarmi sopraffare anche quando forse, sarebbe la cosa migliore da fare adesso. Ma non riesco a non pensare a quanto sarebbe ancora più difficile, a quanto lascerebbe solo aspro e amaro ovunque. «Non mi sparerai un colpo in testa, Morgan, non tu» anche questo, in un certo senso assurdo, sa di già vissuto. Di quella volta che è entrato in quel vecchio monolocale, nel Bronx, prima di trascinarmi nel suo seminterrato. Anche quella volta, penso, era pronto a fare esattamente questo. Non mi spaventa che sia il primo pensiero che ha adesso, non lo fa affatto. Al contrario, mi da un senso che stringe lo stomaco e vorrebbe farmi andare lì, dov’è lui, premermi al suo fianco e tirar via ogni cosa dalla sua testa. Esserci finché posso, esserci finché ci sono, e star lì a tirare e tirare tutti i fili aggrovigliati fatti di spine nella sua testa. Vorrei dirgli almeno oggi, almeno ora, non facciamo di tutto questo un dovere. Non lo faccio, anche quello sarebbe egoista, e alla fine, alla fine certe cose sono sempre per chi resta. Non lo faccio, perché alla fine, la cosa che davvero m’importa, è che tutto questo sia il meglio possibile per lui. Perché a casa c’è altro di cui occuparsi, e se proprio devo chiedergli qualcosa, qualcosa d’importante, saprebbe più di esserci, per loro. Anche se so quando pure questa è una domanda complessa, e che richiede altri sforzi enormi. Prendo un respiro, alla fine mi lascio scivolare a terra, premendo appena la testa all’indietro fissando il soffitto per qualche secondo, prima di guardare lui. «Puoi prenderla come un’eventuale ultima richiesta, non voglio che sia tu» sbuffo un sorriso, anche se pure questo trema, e da qualche parte è rotto. Irrazionalmente, penso solo che non voglio lasciarlo. Non voglio lasciarlo da solo in mezzo a tutto questo, quando è così testardo, e testardamente ostinato a pensare a tutto, a tutti, tranne che a sé stesso. Irrazionalmente, perché non dipende da me. Per quanto lo vorrei, e lo vorrei con tutto il cuore.
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    Mi esce spontanea una specie di risata distorta.
    Un po’ me ne pento subito dopo. Edie è sempre stata una che pensa a questo genere di cose. Quelli che potrebbero sembrare orpelli, in situazioni come queste. Ma dipende da come la guardi, per lei è importante, per me è un riguardo di troppo nei miei confronti.
    Forse nei miei primi anni di vita avrei avuto bisogno di non vedere, non sapere, girarmi, dare le spalle alla realtà e fare finta non esistesse. Ma ora sono gentilezze che non mi servono. Ormai non mi serve più non vedere, non sapere, girarmi e andarmene prima che succeda l’ennesima tragedia.
    Se Edie sapesse cosa sto pensando probabilmente direbbe che mi tratto male, che non mi concedo quello che dovrei. Ma dopo questi ultimi anni, dopo aver fatto cose che gli umani non dovrebbero fare e sopportato torture pensate per i morti e non per chi tornerebbe indietro con la mente più o meno integra, penso di poter dire di conoscere i miei limiti. Penso che quella linea si sia spostata molto più avanti e che ci siano poche cose che potrebbero davvero rompermi del tutto.
    Ucciderla sapendo di renderle meno terribile la fine, non è una di queste.
    È la sua morte, il problema, non che io possa o non possa alleggerirla.
    La sua morte.
    Andata.
    Finita.
    Per sempre.
    Nessun trucchetto questa volta.
    Messo davanti a una realtà che ho sempre pensato poco lucidamente, è tutto diverso. Per lei non farei quello che ho fatto per mio fratello. Non lo farei per nessuno.
    È questo il problema.
    È la morte, e il fatto che non cercherei di riportarla indietro.
    «Perché no?» Ancora il residuo di quella smorfia amara sulla faccia. «Dovrei guardarti mentre ti porta via il governo? O ti uccidono loro? O andarmene prima col pensiero che se non lo farai tu, ti terranno tipo cavia da laboratorio?»
    Sono più incazzato di quanto dovrei essere adesso.
    Anzi, sono più incazzato di quanto vorrei essere.
    Se fosse davvero la fine, inequivocabile, non vorrei avere una conversazione rabbiosa con lei.
    «Se lo dici perché pensi che sarebbe meglio per me, è una cazzata. A quel punto preferirei sapere almeno che è successo nel miglior modo possibile. Se lo dici per te, perché tu non vuoi che sia io, preferisci vedere qualcos’altro come ultima cosa, allora…» Alzo le braccia come un sospiro del corpo e poi ricadono in basso. Un sorriso distorto sulle labbra, attaccato lì nello scuotere la testa con uno sbuffo che le toglie gli occhi di dosso. «Va bene.»
    Alla fine non voglio che lei decida per me quanto io non voglio decidere per lei. Soprattutto non alla fine.

    Morgan
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    Una parte di me, probabilmente, vorrebbe mandarlo a fanculo in questo momento. È quella parte che ha bisogno di conferme, quella parte insicura, quella parte che non sa neanche dove girarsi per guardare le cose, e allora si preme le braccia contro la testa. Non vuole sentire, non vuole vedere. Vedere e sentire vuol dire, poi, dover sentire arrivare le cose, e quello vuol dire reagire. Quella è la parte di me che è sempre pronta, sempre, a bloccarsi. Ma non è quello che voglio adesso, è la cosa più lontana da quello che voglio adesso. Sbuffo invece, più leggera che qualsiasi altra cosa. Certe battaglie, con Morgan, sono inutili, e questo lo so bene. La parte difficile, è non sentirsi impotenti di fronte ad esse. La parte difficile è non sentirsi sempre lì, oltre la linea di ogni confine, con mani che per quanto si affannino, non arrivano mai da nessuna parte. Con lui, con chiunque, con tutto il mondo lì fuori. La parte difficile, è non cercare di aggiustare sempre ogni cosa possibile, solo per avere la sensazione di aver fatto qualcosa. Scuoto la testa, la premo un po’ all’indietro contro la parete, prima di piegarla di lato, la guancia che arriva a sfiorare la spalla mentre lo guardo. Nonostante tutto, è così facile, in questo momento, pensare che lo amo. Anche se quella parte di me vorrebbe mandarlo a fanculo. «Che fatalista» anche questo è uno sbuffo, e non vuol dire proprio niente. «Solo tu potevi metterti a pensare all’ipotesi delle cavie da laboratorio in questo momento» onestamente, non è neanche così tanto una battuta. Un po’, è vero. È il tipo di mentalità che ha Morgan, quella che spazia, e che sia per concretezza o per scenari orribili, sa sempre arrivare un passo più in là. Sa guardare le cose e trovarci tutte le possibili piaghe che si apriranno, una dopo l’altra. È il punto di vista di qualcuno che conosce fin troppo bene cosa voglia dire perdere e perdere tutto. Sentirsi completamente svuotati da ogni cosa, e avere quella stessa, identica, sensazione che conosco così bene. Impotenza. Alla fine, penso semplicemente che chiunque farebbe qualsiasi cosa per non sentirsi così, per non dover guardare una fine e ricordarla solo con quella: l’impotenza. Rimetto la testa dritta, alla fine mi rialzo muovendomi per la casa. Non è una cosa che farei, normalmente, prendere cose dall’abitazione di un’estraneo, ma la situazione è abbastanza del cazzo da lasciarmi la sensazione del “non importa” addosso. Mi muovo verso la cucina, sperando di trovare una qualsiasi, qualsiasi, bottiglia. Non importa neanche cosa sia, a questo punto non importa proprio niente. Forse un secondo me lo prendo, fra l’aprire un mobile e l’altro finché non trovo qualcosa. Un momento e basta, di quelli che sanno di un lungo respiro. Di prendere una concezione astratta, e infilarsela nelle vene. Ora che l’esistenza del dopo è così precisa, per un attimo mi chiedo anche dov’è che andrò a finire. Ma non voglio davvero soffermarmici, invece penso a tutto quello che avrei voluto fare. Forse è peggio, peggio di qualsiasi cosa che può aspettare dall’altro lato. Ma è solo un secondo, di quelli che vanno via perché ora, ad essere del tutto onesta, non voglio chiudermi nella mia testa, e non prendere questo tempo che c’è ancora, esiste, per scambiarlo con tutto quello che potrei non avere mai. Invece, prendo la bottiglia di Jack, per quanto lo detesti, e due bicchieri, trascinandomi di nuovo nella stanza dov’è lui. Per qualche secondo lo guardo, in mezzo ad una cornice che non ha niente di lui, niente di me, niente di noi. In mezzo ad un posto che non gli appartiene, e non appartiene a me. Penso che sia quasi strano, che stia succedendo proprio in un posto come questo, così estraneo ad entrambi. Poi, penso che in realtà sia perfettamente sensato, perché non avremmo mai permesso, mai, a qualcosa di entrare in casa nostra. «Se vogliamo essere sinceri, un paio di richieste le ho» lo dico posando i bicchieri uno dopo l’altro, per poi stappare la bottiglia e riempirli fino all’orlo. La lascio lì, prima di prendere uno dei bicchieri e sedermi lontana da lui, con quell’attenzione che adesso mi sembra impossibile non avere. Non sa di spazi che vanno mantenuti come lo ha fatto per mesi, sa di una concezione più vivida che parla di sangue, di liquidi, di infezione. Di tutto quello che adesso, esiste, e non posso ignorare. «Uno, smettila di fare il pezzo di merda. Due, bevi con me. Tre» mi fermo sulla tre, perché le prime due hanno un tono leggero. Ma la terza è una cosa diversa, è più personale. È più mia. È più un bisogno reale, di quelli che mi fanno sentire la stretta allo stomaco, gli occhi bruciare. Anche se gli sorrido, e forse con quel filo di sincerità in più. «Stai qui» che non vuol dire non lasciarmi da sola come lo abbiamo detto fin ora, non vuol dire essere in questo spazio. Vuol dire una cosa completamente diversa, una cosa che sono abbastanza sicura, sia crudele. Esattamente come lo pensavo neanche due minuti fa. Ma adesso, non penso che Morgan voglia che io mi prenda cura di lui. Adesso, forse, è una di quelle volte in cui invece, va bene che lasci che sia lui, completamente, a prendersi cura di me. «E poi, non dire che è “una cazzata”. Non è una cazzata» ho ancora un tono morbido, quello che avrei in quei momenti in cui sembra non esistere niente al di fuori di quel piccolo, minuscolo, spazio. Distrutto, bucherellato, forse ormai completamente raso al suolo. Ma sempre quello lì, fermo nella mia testa. «Certo che penso che sarebbe meglio per te, non c’entra un cazzo con cosa voglio e non voglio vedere come ultima cosa» è ovvio che se dovessi scegliere, sceglierei tutt’altro. Sceglierei casa mia, sceglierei i nostri figli. Sceglierei il mio letto, sceglierei i cani, sceglierei tutto ciò che amo. Sceglierei la porta finestra aperta, così da sentire fuori quello che si muove in giardino, anche quei maledetti polli. Sceglierei tutto quello che sto lasciando. Sceglierei che fosse diverso, che fossero tutti più grandi. Ma quello che posso scegliere ora, è solo uno spazio vuoto, estraneo, o lui. È ovvio che anche in questo, sceglierei lui. «Sono solo preoccupata per te» anche questo è vero, e probabilmente lo odierà. Ma lo sono, lo sono per forza. È il sapere che potrei non esserci a rendermi ancora più preoccupata, sapere che potrebbe succedere di tutto, e non avrei modo di fare proprio niente. È solo un’altra forma di impotenza, ma ancora più definitiva.
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